mercoledì 10 marzo 2010

Regioni a prova di nucleare

Regioni a prova di nucleare
di Roberta Carlini, da La rocca di Assisi e robertacarlini.it

C’era una volta il federalismo. E alla vigilia delle elezioni regionali non c’è più. Non parliamo dei discorsi elettorali, delle rivendicazioni del principale partito di governo - che è la Lega Nord, checché ne dicano i numeri, per la sua capacità di condizionare e orientare il pensiero e l’azione del Capo -, della sua retorica da comizio. Ma dei fatti, che indicano un sempre minore potere delle Regioni e degli enti locali sulle questioni di importanza cruciale per i propri territori. Così, si assiste al paradosso per cui si fa campagna elettorale su temi generali e generici, come se si trattasse di elezioni politiche nazionali (la Famiglia; il Lavoro; la Sicurezza; l’Immigrazione) e si evitano accuratamente gli argomenti più scottanti e più direttamente ancorati al territorio.

Il primo di questi è la questione nucleare. Il governo nazionale ha reso chiara la sua intenzione di tornare al nucleare, bocciato dagli italiani in un referendum nel lontano 1987, sin dai primi giorni del suo mandato. Infatti ha inserito nel “decreto 112”, quello con il quale Tremonti ha impostato la politica dei primi cento giorni, un articolo sulla Strategia energetica che prevede espressamente la “realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare”. Peccato che prima, agli elettori, la cosa fosse stata presentata in termini più fumosi: “partecipazione ai progetti europei di energia nucleare di ultima generazione”, si legge nel testo del programma del Popolo delle Libertà alle elezioni del 2008. Dove quel rinvio a “progetti europei” poteva far pensare al popolo che di nucleare si sarebbe parlato, ma non necessariamente “nel territorio nazionale”. Una volta chiarito quel che agli elettori-bamboccioni evidentemente non si voleva dire, il governo si è trovato di fronte al passo successivo: dove fare le centrali? Con quali criteri? E in quale conto tenere il parere dei diretti interessati, ossia gli abitanti della zona prescelta?

Qui gli pseudo-federalisti si sono trovati di fronte a un grosso problema: il federalismo. La riforma del Titolo V della Costituzione, quella varata nel 2001 dal centrosinistra poco prima di perdere maggioranza e governo, mette infatti l’energia tra le materie “concorrenti”: il che vuol dire che su di essa concorrono le competenze del governo centrale e delle regioni, dunque si deve procedere in accordo oppure non si procede. Tempo un anno, e arriva la legge che aggira l’ostacolo: numero 99, 23 luglio 2009 (chissà perché le grandi decisioni si prendono sempre alla vigilia delle vacanze). E’ una legge onnicomprensiva: reti di imprese, incentivi, tasse automobilistiche a Trento e Bolzano, consorzi agrari, proprietà industriale… La chiamano “legge sviluppo”, dove la parola “sviluppo” più che l’obiettivo della legge indica la titolarità degli uffici da cui è uscita: quelli del ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola. Dopo un bel po’ di articoli, al numero 25 arriva il nucleare: nella forma di una delega al governo per emanare i criteri di scelta dei siti. Ma poiché a disciplinare il potere delle regioni c’è comunque una legge più forte, la Costituzione, che non si può aggirare con una delega al governo, ecco che si prevede il trucco: il governo emanerà i decreti legislativi sul nucleare, “previo parere” della Conferenza unificata. Che sarebbe la Conferenza Stato-Regioni, dove siedono i presidenti di tutte le Regioni italiane.

Il diritto di essere ascoltate, e per di più attraverso la mediazione della Conferenza e non direttamente, non soddisfa le Regioni, che impugnano la legge davanti alla Corte Costituzionale. Fanno ricorso 11 Regioni: 10 governate dal centro-sinistra (Basilicata, Calabria, Emilia Romagna, Umbria, Lazio, Puglia, Liguria, Marche, Piemonte, Toscana), più il Molise, che ha una giunta di centrodestra (ed è “candidato” a ospitare uno dei siti nucleari a Termoli). Non solo: si oppongono anche, con ordini del giorno o prese di posizione politiche, i governi di Veneto, Sardegna e Sicilia, nonostante la loro appartenenza alla maggioranza di centro-destra. Tre regioni - Campania, Puglia e Basilicata - fanno di più, e approvano leggi regionali che “denuclearizzano” i rispettivi territori, impedendo l’installazione futura di centrali atomiche. Il governo risponde impugnando a sua volta queste tre leggi: dunque la Corte Costituzionale si trova davanti a una bella matassa da districare tra governo centrale e governi locali, i cui rapporti non sono mai stati a un livello di conflitto così elevato come adesso.

Ma non è tutto. Anche quella parvenza di coinvolgimento delle Regioni, ossia la necessità della “previa intesa” con la Conferenza prima di emanare i decreti sul nucleare, salta. Ai primi di febbraio infatti i criteri per installare le centrali vengono emanati, ma senza sentire la Conferenza: il governo si è avvalso della decretazione d’urgenza, dunque il parere delle Regioni sarà recuperato in seguito. Mentre a parole si sostiene la necessità del federalismo, nei fatti persino l’ascolto delle ragioni dei “federati” viene ritenuto una perdita di tempo eccessiva rispetto all’urgenza di riaprire una questione nucleare rimasta sepolta in Italia per quindici anni. Più che l’urgenza, ha giocato però l’opportunità politica: costringere la Conferenza a pronunciarsi avrebbe comportato infatti la necessità per le regioni “amiche” di uscire allo scoperto, decidendo da che parte stare. Mentre finora le Regioni governate dal centro-destra se la sono cavata in modo furbesco: si al nucleare, ma non da noi. E’ quello che hanno detto abbastanza chiaramente il lombardo Formigoni e il veneto Zaia (che indossa la duplice veste di ministro dell’Agricoltura, e dunque compartecipe delle scelte del collega dello Sviluppo, e di candidato alla Regione Veneto, e dunque intenzionato a non perdere neanche un voto per colpa del nucleare). La candidata del Lazio, Renata Polverini, ha taciuto per settimane per poi cavarsela dicendo che “il Lazio non ha bisogno di centrali nucleari” (il sito di Montalto di Castro è un altro dei candidati alla localizzazione). Contrario anche il governatore della Sardegna, mentre in Sicilia l’assemblea regionale ha votato un ordine del giorno che esclude la possibilità che il rilancio del nucleare parta dall’isola. Insomma, con l’unica tiepida eccezione della Liguria, governatori e candidati dei partiti di governo del nucleare in casa propria non vogliono saperne.

E’ una contraddizione eclatante, che dovrebbe diventare il centro della campagna elettorale per le Regionali. C’è in ballo il futuro energetico e ambientale del paese. Non è materia su cui si possa andare in ordine sparso, dentro una coalizione di governo. Eppure lo fanno, senza scandalo. Forse preparando già la prossima mossa, resa possibile dal percorso indicato dal decreto Scajola: la decisione sta al governo centrale, i governi locali faranno un po’ di manfrina, salvo poi accettare “per motivi di emergenza” e farsi compensare con una pioggia di soldi già promessa per chi acconsentirà ad ospitare centrali. Per questo, sarebbe di primaria importanza per chi andrà a votare a fine marzo sapere esattamente cosa hanno intenzione di fare i propri candidati sulla questione nucleare, e meglio sarebbe stato, per amor di verità, far conoscere i nomi dei siti prescelti prima del voto, e non dopo.

Ma forse l’intera vicenda ci dice qualcosa di più sulla concezione dello Stato dell’attuale coalizione di governo. Il cui obiettivo non è mai stato quello di instaurare un federalismo vero, ossia un assetto istituzionale nel quale di decentrano il più possibile poteri e responsabilità, per avvicinare i cittadini al loro governo, mantenendo però l’unità e la solidarietà del Paese. Chi abbia a cuore un vero federalismo, deve porsi il problema di come procedere nelle scelte difficili, senza mettere un territorio contro l’altro o avviare una competizione al ribasso; che si sia pro o contro il nucleare, bisogna risolvere il problema di una politica energetica nazionale all’interno della quale i territori esercitino il loro potere e i cittadini il loro controllo: per esempio, siamo tutti (si spera) per l’energia rinnovabile che viene dal sole e dal vento, ma sarebbe meglio che il quadro degli incentivi e delle regole fosse comune, ove evitare proliferazioni eccessive e disordinate di pale e pannelli, lasciate alla scelta esclusiva dei singoli Comuni. Ma la concezione del federalismo fin qui vista all’opera è un’altra: vince il più forte. Il governo decide che il nucleare si fa, poi si lascerà alla contrattazione (oscura) la scelta finale sui luoghi. E lo stesso si può dire per altre decisioni recenti, che sono andate in forte contrasto con l’idea del federalismo: come l’abolizione dell’Ici, unica entrata fiscale propria dei Comuni (l’Ici), che ha colpito tutti gli enti locali ma che certo fa soffrire di più chi ha poche risorse alternative, territori meno ricchi, ed è costretto dunque a tagliare i servizi. Oppure la scelta di privatizzare i servizi pubblici locali, ossia energia, acqua, gas: per legge nazionale, si è imposta ai Comuni una data entro la quale devono vendere le loro aziende ex-municipalizzate.

E’ vero che la tutela della concorrenza, dunque la fine di regimi di monopolio, è dalla Costituzione attribuita al governo nazionale che dunque in questo prevale su Comuni e Regioni; ma è anche vero che la nuova legge sui servizi pubblici locali, meglio nota come “privatizzazione dell’acqua”, a tutto serve tranne che alla concorrenza. Anche in questo caso, gli enti locali si sono sentiti scavalcati, alcuni hanno approvato mozioni contrarie alla legge, altri hanno abbozzato pensando ai soldi che potranno entrare nelle casse dei Comuni, oppure alla partecipazione al grande business che si apre. Tutto, tranne che l’ascolto del territorio e dei cittadini che delle vicende di casa propria vorrebbero sapere di più. Prima e dopo il voto.

(9 marzo 2010)

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