domenica 20 marzo 2011

L'orso Knut, ucciso dalla malinconia. Impariamo da loro.



Era l'icona dello zoo di Berlino, a luglio aveva perso la "compagna" Gianna


ALESSANDRO ALVIANI

Se n’è andato all’improvviso, come all’improvviso se n’era già andato l’uomo che l’aveva allattato col biberon, sostituendosi a sua madre e facendo di lui una star internazionale: l’orso Knut è morto ieri pomeriggio a soli quattro anni sotto gli occhi di 600 visitatori dello zoo di Berlino. Il plantigrado più famoso che la Germania ricordi si è piegato su un fianco per cause ancora ignote, è caduto nella piscina della sua gabbia ed è stato trovato dai veterinari mentre galleggiava ormai privo di vita. Lunedì verrà sottoposto ad autopsia per accertare il motivo del decesso.

I tedeschi, che negli ultimi tempi avevano perso interesse per quel batuffolo bianco diventato ormai grande e avevano volto lo sguardo incantati a un’altra superstar, l’opossum strabico Heidi dello zoo di Lipsia, hanno reagito con un misto di choc e commozione. «È terribile, lo amavamo tutti», ha detto al quotidiano «B.Z.» il sindaco di Berlino Klaus Wowereit. «Di sicuro andrà in un museo», ha annunciato Heiner Klös, l’esperto dello zoo incaricato di seguirlo. Un onore postumo per un animale che come nessun altro era riuscito a conquistare prima i berlinesi, poi i tedeschi e infine il resto del mondo.

La Knut-mania era scoppiata pochi giorni dopo la sua nascita, il 5 dicembre 2006. La madre Tosca si era rifiutata di prendersi cura di lui e di suo fratello. E così lo zoo, deciso a non perdere i primi cuccioli di orso nati a Berlino da oltre trent’anni, era intervenuto: dopo la morte di suo fratello, Knut, che pesava appena 810 grammi, è stato allontanato dalla madre e affidato al veterinario Thomas Dörflein, che l’ha allattato a mano. Da allora i berlinesi hanno seguito incollati alla tv o al sito web dello zoo ogni passo di quel loro ambasciatore speciale diventato una superstar. Il 23 marzo 2007, quando fu presentato al pubblico, si contavano 500 giornalisti, tre dirette tv e un ministro dell’Ambiente arrivato apposta per trasformare l’orsetto dai passi incerti in un simbolo dei rischi legati ai cambiamenti climatici.

Knut è finito ovunque: su magliette, tazze, cartoline, sulla copertina di «Vanity Fair», al cinema, nei negozi di dischi (almeno quattro le canzoni a lui dedicate). Una mania collettiva che ha portato nelle casse dello zoo fino a sette milioni di euro di entrate supplementari e che ha finito per contagiare anche il ministero delle Finanze. La Germania ha infatti rotto per lui la ferrea regola secondo cui i francobolli possono essere dedicati solo a personaggi già deceduti e nel 2008 gli ha intitolato una serie (l’unica eccezione si era fatta per Papa Benedetto XVI).

Dopo l’improvvisa morte di Dörflein, stroncato a 44 anni da un infarto nel 2008, e dopo che Gianna, l’orsa che sarebbe dovuta diventare la sua compagna, era stata rispedita allo zoo di Monaco, Knut era rimasto solo nella gabbia con sua madre Tosca e altre due orse, Nancy e Katjuscha, che negli ultimi mesi, l’avevano attaccato più volte. È però escluso che siano state loro a provocarne la morte.

Il decesso rilancia le critiche degli animalisti. «La sua breve e tormentata esistenza - ha commentato il presidente dell’associazione per la protezione animali, Wolfgang Apel - dimostra ancora una volta che gli orsi non devono stare in uno zoo, anche se si chiamano Knut».

Ma ormai è guerra




Prima che sia troppo tardi

Angelo Del Boca, da il manifesto



Usciamo dalla partita doppia dell'alternativa tra il tiranno libico che deve uscire di scena e i bombardieri «umanitari» della Nato. Diciamo chiaro quello che sta avvenendo. La decisione del Consiglio di sicurezza dell'Onu, presa con cinque astensioni e dieci voti a favore - sotto pressione della Francia e della Gran Bretagna che torna in Medio oriente, e alla fine con i recalcitranti Stati uniti - è un intervento militare. Non devono esserci dubbi. Anche se è camuffata ancora una volta da intervento umanitario per «proteggere i civili» e anche se esclude, per ora, l'occupazione da terra.
La no-fly zone infatti, decisa senza alcun rapporto con Tripoli, deve essere per questo imposta, con i bombardamenti. In queste occasioni si preferisce dire che verranno usati obiettivi mirati e target «chirurgici». Con la possibilità cioè di nuove stragi di civili come è avvenuto in Iraq e in Afghanistan, come abbiamo visto nei Balcani. Abbiamo una serie infinita di prove di questa enorme menzogna.
Eppure dalla Russia e dalla Germania, paesi che si sono astenuti al Palazzo di Vetro, è stata espressa proprio questa preoccupazione, con l'inserimento all'ultimo momento della necessità, prima, di una dichiarazione di cessate il fuoco per entrambe le parti in conflitto. Non è un caso che ora la Germania motivi il suo rifiuto alla no-fly zone per i «considerevoli pericoli e rischi» che comporta. Pericoli e rischi confermati del resto dal fatto che, appena il cessate il fuoco è stato accettato a Tripoli, subito si è gridato al «bluff».
Ma non dobbiamo tacere nemmeno sulla necessità che Gheddafi esca davvero di scena. Lui, il suo regime che dura da troppo tempo e che è comunque andato in pezzi, i suoi deliri di onnipotenza le sue pesanti responsabilità rispetto alla degenerazione della crisi.
Da questo punto di vista tutto era ancora in gioco solo fino a dieci giorni fa. Era stata avanzata in sedi internazionali la possibilità di un esilio, per Gheddafi e la sua famiglia, con un salvacondotto verso un paese neutrale. Ma è stata avanzata, su insistenza degli Stati uniti che pure non riconoscono la Corte penale dei diritti umani, il deferimento a questo tribunale per «crimini di guerra» ancora tutti da provare. Nonostante l'insistenza di Fogh Rasmussen il segretario della Nato - che di vittime civili se ne intende - a denunciarli. Crimini che, insieme a troppa propaganda, ci sono certo stati e vanno puniti. Ma che, anche per il procuratore della Corte penale Moreno Ocampo, riguardano «tutte le parti in armi».
Così la possibilità che Gheddafi uscisse definitivamente di scena è andata persa. Ora tutto sembra finito in un vicolo cieco. Senza possibilità, se non quella di un bagno di sangue.
Perché al punto in cui stanno le cose, sembra che l'unico obiettivo rimasto sia l'attacco militare con i bombardamenti aerei. Dimenticando che alcuni degli apparecchi che stanno bombardando e uccidendo i civili e i ribelli in Libia sono gli stessi jet francesi venduti a Gheddafi proprio da Sarkozy, con una corte assidua capace di rifilargli aeroplani micidiali e tra i più cari al mondo.
Infine c'è l'ambiguità del governo italiano, fino a dieci giorni fa strenuo alleato di Gheddafi al quale chiedeva di «contenere» l'immigrazione del Maghreb relegando in nuovi campi di concentramento i disperati in fuga dalla miseria dell'Africa; e ora piattaforma di lancio dei raid aerei e del blocco navale militare. E forse nemmeno solo base, perché il dannunziano ministro della difesa Ignazio La Russa rivendica anche ai jet italiani il «diritto» di bombardare.
Mi chiedo se l'Italia sul piano storico si sente di ripetere a sessant'anni dagli avvenimenti del colonialismo, un attacco militare a un paese del quale ha già provocato la morte di 100mila persone, un ottavo della popolazione libica. Mi chiedo se ci arroghiamo davvero questa responsabilità. Per la memoria bisogna dire no. Ma anche per il presente.
Che triste epilogo sarebbe infatti per le primavere nel mondo arabo. Il segnale sarebbe quello del sangue e della repressione militare, come accade in Yemen, come è accaduto nel silenzio generale in questi giorni in Bahrein dove gli stessi paesi del Golfo fautori ora della no-fly zone sulla Libia, sono intervenuti militarmente a Manama per sostenere invece il «Gheddafi» locale.
Anche in queste ore, fino all'ultimo c'è ancora spazio per la mediazione di pace. La strada è quella del cessate il fuoco, come sembra emergere all'ultimo momento anche dalle parole del presidente Barack Obama alle prese ora con un altro conflitto armato che puzza troppo di petrolio. E insieme di un intervento di Osservatori dell'Onu sul campo che si frapponga e difenda le vite umane. Sennò vola davvero solo la guerra.

FINE DEL BUNGA BUNGA

venerdì 18 marzo 2011

Il Kainano perderà il suo maestro di bunga bunga

Gheddafi sfida l'Onu con nuovi raid .Pronto l'intervento militare alleato







Avverrà tra poche ore secondo Parigi. Cacciabombardieri
da Francia, Usa, Canada, Norvegia, Gran Bretagna. Ci sarà anche il Qatar dopo l'ok della Lega araba
Non partecipano i tedeschi

PARIGI
Gheddafi lancia la sfida all'Onu. Le forze fedeli al leader libico hanno bombardato oggi la città di Misurata, controllata dai ribelli, dopo una notte di scontri d'arma da fuoco: lo ha detto un portavoce dei ribelli. "Decine di bombe di qualsiasi tipo sono state sganciate sulla città da ieri sera", ha indicato questo portavoce sotto copertura di anonimato. "Ci sono sempre scambi di colpi d'arma da fuoco intensi in città", ha aggiunto, affermando di ignorare il numero di vittime per il momento.

L'Alleanza, però, è già pronta a intervenire. Le operazioni militari sulla Libia per fermare le forze di Muammar Gheddafi avverranno «in tempi rapidi». E' «questione di ore», e la Francia vi parteciperà. Lo ha detto il portavoce del governo francese, Francois Baroin. La stessa fonte ha sottolineato che «l’intervento militare non sarà un’occupazione del territorio libico, ma un dispositivo di natura militare per proteggere la popolazione libica e aiutarla a realizzare la sua aspirazione di libertà». Anche il Qatar ha annunciato che parteciperà alla no fly zone sulla Libia: è il primo paese arabo a dichiarare la sua partecipazione dopo l’ok della Lega Araba all'approvazione ieri della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. E mentre anche la Norvegia annucia stamane la partecipazione alle operazioni militari al fianco di Stati uniti, Canada e Gran Bretagna, sui tempi dell'intervento non c'è chiarezza. La Royal Air Force britannica si è detta pronta a mobilitarsi per fare rispettare la no-fly zone sulla Libia, ma fonti di Downing Stret, secondo la Bbc, si sono mostrate caute sull’ipotesi che gli aerei britannici possano raggiungere lo spazio aereo libico «nel giro di ore» e non si sono volute sbilanciare su un calendario preciso dell’azione militare. Il premier, David Cameron, presiederà a breve una riunione del governo e farà una dichiarazione sulla questione dinanzi alla Camera dei Comuni.

Seif al-Islam, figlio del leader libico, commenta dal canto suo le notizie sulla «no fly zone» con un «La Libia non ha paura». Ieri il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 1973 che autorizza la no fly zone sulla Libia e il ricorso a «tutte le misure necessarie» per proteggere la popolazione civile dalla minaccia rappresentata dalle forze leali al colonnello Muammar Gheddafi, fatta eccezione per un intervento terrestre. La misura è stata varata con dieci voti favorevoli, zero contrari e cinque astenuti, tra cui Cina e Russia, che non hanno esercitato il proprio diritto di veto, e Germania.

Funzionari americani ed europei hanno subito fatto sapere che un attacco aereo contro le forze fedeli a Gheddafi è possibile «nell'arco di ore». E nella notte il presidente degli Stati uniti Barack Obama ha chiamato il capo di stato francese Nicolas Sarkozy e il primo ministro britannico David Cameron per coordinare una strategia: «La Libia deve conformarsi immediatamente alla risoluzione e le violenze contro la popolazione civile devono finire», hanno concordato i tre leader.
Alla notizia dell'approvazione della no fly zone, scene di giubilo hanno avuto luogo a Bengasi, dove i ribelli potrebbero essere presto attaccati dalle truppe di Gheddafi. Anche se ieri sera, secondo quanto riferisce la Cnn, le autorità di Tripoli avrebbero cambiato strategia: «Ho appena ricevuto una chiamata da uno dei figli di Gheddafi, Seif - ha spiegato un corrispondente della Cnn a Tripoli, Nic Robertson. - Ha detto che stavano cambiando tattica su Bengasi, che l'esercito non sarebbe entrato in città. Prenderà posizione attorno al bastione dei ribelli». La ragione di questo cambiamento di tattica «è che si aspettano un esodo umanitario. La gente avrà timore di ciò che potrà accadere e Seif Al-Islam ha detto che l'esercito andrà lì per aiutarli a uscire dalla città».

Tripoli, che si è detta pronta a un cessate il fuoco, ha fatto sapere che «la risoluzione traduce un atteggiamento aggressivo della Comunità internazionale, minaccia l'unità della Libia e la sua stabilità».

Intanto, l'Unione europea ha salutato con soddisfazione l'approvazione della risoluzione 1973 e si è detta pronta a metterla in pratica, nei limiti delle sue competenze. La Nato, da parte sua, esaminerà oggi il testo della risoluzione per decidere la sua strategia. Qualsiasi decisione della Nato si baserà sulle tre condizioni che ha ricordato giovedì scorso il segretario generale Anders Fogh Rasmussen, cioè la necessità dimostrata di un intervento, l'esistenza di un mandato giuridicamente chiaro e il sostegno delle organizzazioni regionali interessate, ha sottolineato una fonte diplomatica.

Il Canada, da parte sua, ha già fatto sapere di essere pronto a inviare sei cacciabombardieri CF-18 per partecipare alle operazioni militari per la messa in pratica della no fly zone, al fianco di Stati uniti, Francia e Gran Bretagna. Per il dispiegamento dei velivoli serviranno circa 24 ore.

Non parteciperanno all'intervento militare, invece, i soldati tedeschi. Sulla no fly zone Berlino si è astenuta: comporta «rischi e pericoli considerevoli», ha spiegato il ministro degli Esteri Guido Westerwelle. «La nostra posizione nei confronti del regime libico resta però la stessa: il dittatore deve fermare immediatamente tutte le violenze contro il suo popolo, deve lasciare il potere e subire le conseguenze dei suoi crimini», ha commentato il capo della diplomazia di Berlino.

giovedì 17 marzo 2011

"Noi di Hiroshima sappiamo che l'atomo non è per l'uomo"



Gli ultimi Hibakusa, i superstiti della Bomba, chiedono la rinuncia al nucleare:

«E' un'energia disumana»

ILARIA MARIA SALA, da La Stampa

HIROSHIMA
Hiroshima conosce la forza del nucleare. Prima città al mondo ad essere bombardata con l’atomica, il 6 agosto del 1945, è da allora diventata il simbolo del potere distruttivo di quest’arma. Le fotografie aeree di quei giorni la mostrano appiattita, una manciata di edifici soltanto rimasti ancora in piedi in un vasto, desolato paesaggio di macerie minute come fiammiferi, che si estende da tutti i lati. Ancora oggi, 66 anni dopo, quelle foto così famose lasciano increduli: un solo ordigno, e una devastazione tanto capillare. Da allora, Hiroshima ha saputo ricostruirsi davvero dal nulla, diventando oggi una città molto piacevole, vivace e prospera, con abitanti che uniscono alla proverbiale gentilezza giapponese un fare amichevole, aperto e disponibile.

Certo, avendone avuta la scelta avrebbe volentieri fatto a meno di essere divenuta il simbolo del potere distruttivo della bomba atomica, ma l’Hiroshima odierna sembra aver accettato con grazia la missione che si è data, di adoperarsi per promuovere la pace in ogni modo possibile. Toshiko Tanaka, una bella signora di 73 anni piena di energia e di sorrisi, annuncia subito, appena la si incontra, di essere una hibakusha, una vittima della bomba nucleare. «Avevo 6 anni e dieci mesi. Mi trovavo a 2 chilometri dalla Hall per la promozione industriale (uno dei pochi edifici parzialmente rimasti in piedi, divenuto il famoso Duomo della Bomba-A), e fino a pochi giorni prima abitavo proprio lì vicino. Come molti altri ero stata evacuata. Era una bellissima giornata di sole, e ricordo di aver visto l’aereo passare in cielo. L’ho visto. E ho visto le fiamme scoppiare nella città: poi in un secondo, tutti i miei capelli erano spariti, e avevo le braccia e la schiena ustionate», dice, seria ma con una strana serenità.

«Per noi hibakusha quello che sta succedendo a Fukushima è assolutamente terribile!», esclama: «Dopo la tragedia del terremoto, nessuno poteva immaginare che si sarebbe aggiunto qualcosa di così spaventoso e terribile. Io non sono mai stata per l’energia nucleare, perché è evidente che si tratta di qualcosa di molto, molto pericoloso, e questo che vediamo ora ogni giorno in televisione è un incubo tremendo, davvero tremendo». Scuote la testa, allargando gli occhi, e poi respinge le lacrime dicendo: «Penso alle persone che sono lì vicino, esposte al pericolo delle radiazioni, e ho una paura tremenda per loro». Per Haruko Moritaki, direttrice dell’Alleanza di Hiroshima per l’abolizione delle armi atomiche, la questione è molto semplice: «Dalla nostra umile esperienza di Hiroshima, è ovvio che gli esseri umani non possono convivere con la potenza nucleare», dice.

Anche lei era appena una bambina quando la bomba scoppiò, ma era stata evacuata in campagna, e non riportò nessun danno fisico: «Mio padre, però, Ichiro Moritaki, da molti è stato chiamato il padre del movimento anti-nucleare. Era un insegnante, e insieme ai suoi studenti era stato messo a fare lavoro manuale per l’esercito. Venne colpito in pieno viso da una massa di vetri che si spaccarono appena esplose la bomba, e oltre a molte gravi ferite, perse un occhio. Passò sei mesi in ospedale, poi cominciò a dedicarsi agli altri sopravvissuti, in particolare i tanti bambini che chiamiamo gli ‘’orfani della bomba’’. Sono cresciuta con non so nemmeno io quanti altri bambini! Dopo un po' di titubanza iniziale, quando le forze di occupazione americane cercavano di proporre l’energia nucleare come qualcosa di positivo, di scindere energia nucleare da arma nucleare, mio padre decise di no: questa è una forza troppo pericolosa, non possiamo illuderci di controllarla. Così, noi da Hiroshima chiediamo che non si utilizzi assolutamente nessuna energia nucleare: né armi nucleari, né armi all'uranio impoverito (depleted uranium o du), né energia nucleare», dice Moritaki, trafelata per aver appena finito di scrivere un comunicato stampa su Fukushima, di corsa da un incontro all’altro.

«Quando ho visto quello che stava succedendo ho provato un'ansia terribile, anche perché ci sono così tante centrali nucleari in Giappone! Il mio Paese esporta tecnologia nucleare, da molti anni propone il nucleare come un’energia pulita, ecologica perfino. E’ una follia totale, guarda che incubo si è scatenato, bisogna opporsi in modo molto netto», dice.

E gli attivisti di Hiroshima lo fanno: ieri mercoledì una piccola manifestazione davanti agli uffici della Chugoku Electric City Company, proprio a pochi passi dal Museo del Memoriale della pace e dal Duomo sopravvissuto all’esplosione, chiedeva la sospensione della costruzione di due centrali nucleari nei pressi della città. Organizzata dalla Hiroshima Great Action, composta da alcuni hibakusha, alcuni giovani ecologisti appassionati, e i loro sostenitori, che con un altoparlante si apprestano a un sit-in davanti alla Chugoku cercando di consegnare una lettera. «Lunedì si sono rifiutati di prenderla», spiega Kyoko Taniguchi, «così riproviamo. È lo stesso atteggiamento della Tepco (l’azienda che gestisce la centrale di Fukushima), arroganza totale, non gliene importa nulla. Ma il nucleare non è sicuro, punto e basta, Fukushima ne è la prova.

Certo, il Giappone ha poche fonti di energia: non abbiamo carbone o petrolio, e l’energia nucleare è producibile su spazi relativamente ridotti. Ma quest’incubo, quest’orrore a Fukushima, che non sappiamo nemmeno come proseguirà, ci insegna quali sono i costi del nucleare! Noi siamo di Hiroshima: abbiamo il dovere di essere in prima linea su questo tema, che è semplice: se non siamo in grado di garantire la sicurezza di quello che facciamo, dobbiamo cambiare strada, non possiamo permetterci altro». Tutti a Hiroshima ripetono la stessa cosa: il nucleare, tutto il nucleare, è troppo pericoloso e l’esperienza lo dimostra.

Contributo di Banana Yoshimoto

Voglio tornare a sorridere

di BANANA YOSHIMOTO

Al momento del terremoto stavo andando a prendere mio figlio a scuola. Guidava mio marito e la potenza della scossa lo ha costretto ad accostare e fermarsi. Dal finestrino dell'auto ho visto i grattacieli ondeggiare in distanza e ho pensato "Sarà un guaio grosso". Fortunatamente mio figlio era sano e salvo a scuola e siamo tornati a casa con lui senza problemi.

Qualche piccolo danno c'è stato in casa, tipo portafotografie in frantumi e libri caduti a terra dagli scaffali, ma fortunatamente nulla di serio.

Subito un'amica che abita nel nostro quartiere è venuta a offrirci aiuto. Ho accompagnato a casa gente che non poteva rientrare per via dei trasporti pubblici bloccati.
I cellulari non funzionavano così il sistema migliore per ottenere informazioni erano Twitter e Viber. Ci sono state altre scosse di assestamento ma senza danni gravi a Tokyo.
Il problema ora è che, sconvolta dal disastro, la gente ha fatto incetta di beni di consumo quotidiano. Riso, scatolame e carta igienica sono ormai introvabili. E non è facile spostarsi in auto per via dei problemi di rifornimento di carburante.

Il bombardamento di immagini tragiche dello tsunami in TV ha avuto un impatto pesante sulla psicologia della gente. Alcuni media lo hanno capito e sono tornati al palinsesto normale con le ultime notizie che scorrono in sottofondo. Ho trovato questa decisione molto coraggiosa e ho apprezzato molto Tokyo Channel 12, pioniere di questa scelta.

Quanto alla centrale di Fukushima, ancora non mi sono fatta un'idea mia in mezzo ai tanti commenti diversi. Comunque dico solo che mi ha colpito l'alta professionalità dei tecnici giapponesi che stanno facendo tutto il possibile per evitare l'esplosione, invece di chiacchierare su cosa sia giusto o sbagliato. Il mio cuore scoppia di dolore per la morte di tante persone in questo disastro ma vedo gli sforzi della protezione civile nell'opera di salvataggio e la solidarietà tra i sopravvissuti. Non passa giorno senza che io scopra la grandezza del popolo giapponese. Credo che uno scrittore debba portare a tutti speranza in qualunque situazione. Comunque sia non voglio smettere di sorridere, voglio mantenere la mia libertà di pensiero e intendo affrontare con coraggio le avversità.

mercoledì 16 marzo 2011

Una grande Barbara Spinelli

Il dovere della paura

di BARBARA SPINELLI

Ci sono momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l'emozione oltre che con la razionalità, perché l'emozione sveglia, incita a stare all'erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d'apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s'è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l'esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.

All'orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s'aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all'intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.
Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l'azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: "Diventa necessario il "fiuto" di un'euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che ne risulta" (Il principio di responsabilità, Einaudi '90).

Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi - come l'italiano, il francese - che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l'urgenza di correggere i piani nucleari. Obama e Angela Merkel dicono ben altro: "Non si può fare come se nulla fosse". Non così il ministro dell'energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani. Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine "catastrofe", preferendo il meno allarmante "incidente grave". Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l'altro ieri a "non farsi prendere dalla paura", senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.

Apocalisse è vocabolo che s'espande come un virus, dall'inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l'omega che si ricongiunge all'alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all'oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s'esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d'ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.

In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell'uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d'un tratto s'immobilizzano, come morissero in piedi.
Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l'agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant'anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventura e se la porta dentro come assillo, s'è fidata della tecnologia, non è corsa in tempo ai ripari?

Ci sono grandi disastri che hanno quest'effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L'Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l'1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d'un mondo: fondato sull'euforia tecnologica, sull'ottimismo, religioso o no. La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolato Saggio sull'Uomo. Il verso ricorrente era: "What ever is, is right": tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nel Candide di Voltaire: avanziamo "nel migliore dei mondi possibili".
Cadde anche l'illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la "rabbia del mare"), lo sguardo di Voltaire: "Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra". Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: "Non sempre una morte prematura è un male reale (...). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (...) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa". Ma anch'egli pone domande che solo l'emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l'uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: "Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino", dunque la terra, perché questo tocca all'uomo. All'uomo descritto da Kant dopo il 1755: "legno storto", "mai più grande dell'uomo".

Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s'è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che "il male è sulla terra", e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s'abbatte l'indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereo-avvoltoio (nell'Apocalisse griderebbe: "guai! guai!") che vola verso lo schianto.
Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un'epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s'è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell'orrore ma - all'ombra dello tsunami - visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano "Aiutami!", nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest'effigie di sé.

È la silhouette annerita dell'uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel '45. L'incubo si stende sull'uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.

SPEGNI IL NUCLEARE

DI Beppe Grillo


Il giorno 11 marzo 2011 il mondo è cambiato. Nulla sarà più come prima. Siamo entrati nel post nucleare. Una nuova era in cui non ci sarà più spazio per i deliri dell'energia dell'atomo. Il Giappone si è immolato per noi, certo non volontariamente, ma è ciò che è successo. Se l'incubo nucleare che ci accompagna dal dopoguerra, da Chernobyl a Three Mile Island, cesserà (e cesserà) lo dovremo al sacrificio di milioni di persone in fuga dalla nube di Fukushima. Un esodo biblico. Neppure immaginabile. Il Giappone rischia di diventare l'isola che non c'è, un luogo dove non si entra e non si esce. Una trappola nucleare. Se persino la portaerei Reagan ha abbandonato la sua missione umanitaria, quali flotte accorreranno in soccorso delle popolazioni del l'Est del Giappone? Le merci giapponesi contaminate non potranno più uscire dal Paese.
Le nubi non si fermano. Forse arriveranno fino in Europa se il vento soffierà verso Ovest. Il senso di quello che è successo è troppo grande, troppo profondo per poterlo afferrare, ma qualcosa si può intuire. Le persone hanno capito immediatamente che il nucleare è finito per sempre. Alcuni capi di Stato hanno già preso posizione contro le centrali, sanno che continuare sarebbe la loro fine politica. Succede in Germania, in Svizzera, perfino in Australia che possiede il 28% dell'uranio mondiale. L'Italia, in questo scenario, recita la parte del giapponese sperduto in un'isola del Pacifico che continua a combattere dopo dieci anni dalla fine della guerra. Personaggi che finiranno presto nel dimenticatoio del ridicolo con le loro affermazioni nucleariste. La Prestigiacomo è l'unico ministro dell'Ambiente nel mondo che vuole nuove centrali nucleari. Lei, Testa, Veronesi, Berlusconi, Cicchitto, Scaroni, Maroni, Casini, Fini, Frattini e i pennivendoli fusi del nocciolino nucleare sono come i fascisti che giravano in divisa da federale dopo il 25 aprile. Le loro dichiarazioni sono da conservare per il futuro, i loro volti, i video, le argomentazioni sono la testimonianza di un preciso momento, l'ultimo. Domani, tra qualche giorno o qualche mese, non potranno più permettersi di sparare stronzate. L'unico motivo per cui si vuole il nucleare è il debito pubblico di 500 miliardi di euro in mano alla Francia. L'EDF è il mandante, Berlusconi e la Confindustria gli esecutori interessati.
Questa classe politica sarà spazzata via dal referendum del 12 e 13 giugno. Da questa settimana partirà un'iniziativa che durerà fino al referendum: "Spegni il nucleare". Voglio coinvolgere milioni di italiani, non ci sono alibi. Con il quorum Maroni ci potrà fare il bunga bunga solitario. Il 29 aprile ci sarà l'assemblea dell'ENEL delle centrali nucleari, io ci sarò, il blog ci sarà con la diretta streaming. Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.






Siamo in guerra. Da una parte ci sono i morti, dall'altra i vivi. Quando scoppia un conflitto le regole ordinarie non valgono più. Per battere Hitler non era sufficiente discutere. Una centrale nucleare in Italia equivale a una pistola puntata contro la Nazione. Questo non è terrorismo, è la verità. Nessuno può prevedere una catastrofe come quella giapponese, ma chiunque sa che può accadere. Tra un giorno o tra mille anni. I reattori della centrale di Fukushima stanno esplodendo uno dopo l'altro, 180.000 persone sono state evacuate in un'area di 30 chilometri. Non è detto che ritorneranno nelle loro case. Le zone contaminate, come quella intorno a Chernobyl, rimangono radioattive per migliaia di anni.
A L'Aquila non c'erano centrali nucleari, era una zona sismica, come quasi ovunque in Italia. Molti edifici crollati erano costruiti con la sabbia, gran parte della popolazione sarebbe sopravvissuta se evacuata in tempo. I segnali premonitori c'erano da mesi. Questa è l'Italia che specula sui terremoti e ride come una iena al telefono.
Il nucleare lo vuole l'Italia dei morti come Veronesi, Berlusconi, Testa, Prestigiacomo, Marcegaglia, Casini, Fini, cooperative bianche e rosse, l'Enel, i deputati e senatori dei due maggiori partiti Pdl e Pdmenoelle (che ora fa ammuina), uniti nella scelta del nucleare sicuro, così come per gli inceneritori e l'acqua privatizzata. Se Chernobyl fosse avvenuto in Francia, ad esempio a Chooz, la regione di Champagne-Ardenne situata al centro dell'Europa sarebbe interdetta agli esseri umani per migliaia di anni. Perché correre un rischio così alto? Per difenderci dagli alieni? O da una catastrofe planetaria? O per lucro, il solito miserabile, schifoso, merdoso lucro? Io non voglio che i miei figli corrano questo rischio e farò qualunque cosa in mio potere contro il nucleare. Le madri dei nuclearisti, così come quelle degli imbecilli, sono sempre incinte.
L'ambasciata francese a Tokyo ha inviato i connazionali a lasciare la città per il rischio di contaminazione. Siamo degli apprendisti stregoni. Se l'area di Tokyo venisse contaminata, 10 milioni di giapponesi dovrebbero essere sfollati. Come? Dove? Neppure il peggior film antinuclearista ha previsto una simile catastrofe. L'EDF e Sarkozy possono andare a fanculo. Il nucleare lo facciano sotto la Tour Eiffel. La Francia possiede 500 miliardi di euro di titoli pubblici italiani e ha acquisito, in questo modo, parte della nostra sovranità. Ma io preferisco il default alle centrali.
L'Italia dei vivi ha detto NO con un referendum contro il nucleare nel 1987. L'Italia dei morti, del radioattivo Maroni, non ha accorpato amministrative e referendum per far saltare il quorum. Il referendum è stato spostato nei giorni 12 e 13 giugno, ma noi, che siamo vivi, non andremo al mare. Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.

martedì 15 marzo 2011

NO NUKES!





IL NUCLEARE NON È UN'OPINIONE

Di RNA - RETE NAZIONALE ANTINUCLEARE

Milioni di tonnellate di detriti radioattivi provvenienti dalle miniere d'Uranio utilizzati per le infrastrutture + IVA... (ponti, parcheggi, stadi, interramenti per case popolari, strade e tangenziali...) con le loro conseguenze sulla salute dei piu' ed a vantaggio di "chi fa impresa"...

NON SONO UN'OPINIONE



Devastazioni territoriali con manodopera NERA che lavora a mani nude nelle miniere d'Uranio (non solo Niger...) con discariche dei detriti a cielo aperto per ingrassare i magnaccia delle nostre democrazie...

NON SONO UN'OPINIONE.

Gli incidenti catastrofici come Chernobyl (checché ne "pensino" i negazionisti "di sinistra"...) con tutte le loro conseguenze a livello planetario e non solo locale...

NON SONO UN'OPINIONE.

Che il nucleare sia la piu' COLABRODESCA delle tecnologie (malgrado i DEVIAZIONISMI degli UFOLOGI di quarta, quinta o sesta generazione... le bufale al thorium o i PIEZO-isterismi)

NON E' UN'OPINIONE.

Conseguenze su 6MILA generazioni dei rifiuti radioattivi. Contaminazioni quotidiane. Nascituri malformi, Diffusione di malattie derivate dall'inquinamento OGGETTIVO, cancro, sofferenze e DANNI NON RISARCIBILI.

NON SONO UN'OPINIONE.

NON SI HA ALCUN DIRITTO di DEVIARE anche il solo linguaggio o manipolare il problema riducendolo ad un fatto di "opinione".

A tale operazione si prestano già gli Iscritti all'Albo dell'Ordine Mussoliniano dei Giornalisti ed il gregariato criminale che cerca di "salvare" figure scadute ed avariate, ormai anche come mito, quali Margherita Hack, Veronesi, il "disinistra" Zucchetti... ed altri personaggi tutelati e promossi solo dai media di Regime.

.... inclusi i politici con la loro corrotta funzione "costituzionale"... I servi Lobbysti: Scienziati che finalizzano il proprio senso della vita al servizio del Mercato e non certo per il bene comune.

Associarsi, anche "dal basso", a tale mistificazione rende complici.

Non si può riconoscere a "CHI LA PENSA DIVERSAMENTE" il diritto di assassinare le nostre vite o di esserne complice:

Perché in questo caso NON siamo piu' di fronte ad "un fatto di opinione"... si tratta delle nostre vite, della nostra salute e di quella di figli e generazioni e quindi entra in gioco la Legittima Difesa e non certo l'Idiozia... che fa democrazia...

Detto questo, quel "NO GRAZIE" assume certamente un significato più vasto.

Un "NO GRAZIE" ove il "NO" sia più vasto e generale, e produca una elevazione di chi lo fa suo per superare una visione riduttiva e produrne un’altra, piu' intransigente ed inattaccabile, a livello generale:

CHERNOBYL DAY 2011

Neghiamo le priorità ed i deviazionismi propinati dai media di Regime.

NO NUKES!

Nel reattore numero due

Fukushima: ora il pericolo è la fusione del nocciolo


Ogni esplosione può fessurare il cemento armato e creare dei varchi, grandi e piccoli, attraverso cui quelle che erano barre di uranio e ora somigliano a fango bollente possono contaminare l'ambiente Nell’incubo che il Giappone sta vivendo da due giorni ormai, si sta delineando lo scenario peggiore: la fusione parziale del combustibile del reattore nucleare numero due della centrale nucleare di Fukushima. L’evento ormai non è escluso nemmeno dalla Tepco, la compagnia che gestisce l’impianto, secondo la quale una fusione potrebbe essere stata causata dal mancato funzionamento della stazione di pompaggio dell'acqua che permette di mantenere immerse nell'acqua le barre di combustibile. Sulla base delle notizie che arrivano e che sono continuamente aggiornate, è possibile solo fare una ricostruzione molto parziale di quello che potrebbe esser avvenuto.

L’elemento chiave del momento critico che si sta materializzando a Fukushima è l’acqua. Come spiega Ken Bergeron, fisico statunitense che ha una lunga esperienza nella simulazione di incidenti nucleari ai Sandia National Laboratory: «Il combustibile è composto da lunghe barre di uranio rivestite con una lega di zirconio. Queste barre sono collocate in una struttura cilindrica, ricoperta di acqua».

In questo contesto l’acqua agisce sia da moderatore per la reazione di fissione nucleare sia da liquido refrigerante per il nocciolo del reattore, cioè la struttura cilindrica dove sono collocate le barre di combustibile. Il tutto avviene all’interno di un circuito chiuso, in cui l’acqua riscaldata dalla reazione viene raffreddata tramuto uno scambiatore di calore e immessa nuovamente nel nocciolo. «Se l’acqua scende al di sotto del livello del combustibile, la temperatura inizia a salire e il rivestimento inizia bruciare, rilasciando una gran quantità di prodotti della fissione nucleare», continua Bergeron. Ed è questo il passaggio critico che sta vivendo il reattore numero due di Fukushima: il flusso di acqua si è interrotto.

I progettisti della centrale avevano pensato a come evitare un’eventualità del genere. Subito dopo il terremoto, l’impianto di Fukushima si era spento in modo automatico e altre barre, fatte di materiale speciale e indicate come barre di controllo, erano state inserite tra le barre di uranio usate come combustibile. In questo modo si ferma la reazione di fissione, ma c’era un altro problema da affrontare. In un reattore atomico, il calore non è solo sprigionato dalla reazione di fissione, ma anche dal decadimento di elementi chimici radioattivi creati proprio dalla fissione. Dunque fermata la reazione nucleare, si deve affrontare questo calore residuo, piccolo ma significante. Anche in questo caso erano state previste procedure di emergenza, motori diesel per alimentare con acqua l’impianto e quindi evitarne il surriscaldamento, che però la concomitanza di terremoto e tsunami avrebbe messo fuori gioco.

Con la crescita incontrollata della temperatura del reattore, la lega di zirconio che riveste le barre di uranio ha iniziato a fondere, e reagendo con l’acqua ha formato idrogeno, un gas estremamente volatile. E proprio l’idrogeno prodotto in questo modo avrebbe causato l’esplosione all’impianto numero uno di Fukushima, che almeno per ora non sembra a rischio fusione. Ma la crescita della temperatura è un pericolo soprattutto per le barre di combustibile, la cui fusione, secondo la Tepco, potrebbe essere avvenuta nel reattore numero due di Fukushima.

«Il calore prodotto dal decadimento si accumula nel nocciolo, deformando prima e poi fondendo le barre di uranio. A questo punto siamo a circa 2000 gradi Celsius, e il nocciolo può diventare una massa informe», spiega Massimo Zucchetti, ingegnere nucleare del Politecnico di Torino. In queste condizioni il nocciolo diventa difficilmente refrigerabile, anche con strategie di emergenza, come l’immissione di acqua di mare. A quel punto l’unica barriera tra il nocciolo fuso e l’ambiente è il contenitore di cemento armato che circonda il reattore. «Questo contenitore è stato progettato per resistere al calore del nocciolo fuso. Il pericolo sono le esplosioni causate dall’idrogeno», afferma Zucchetti. Ogni esplosione può fessurare il cemento armato e creare dei varchi, grandi e piccoli, attraverso cui quelle che erano barre di uranio e ora somigliano a fango bollente possono contaminare l’ambiente. (Giovanni Spataro)

La superporcata



Le procure sotto tutela

Fermiamo la superporcata

di Barbara Spinelli, da Repubblica

Quando giudichiamo il conflitto fra potere politico e giustizia, conviene sempre alzare gli occhi, guardare oltre i nostri confini, usare la memoria, per capire se davvero chi governa ha in mente una soluzione che migliora le cose o una regressione formidabile, dissimulata dietro finte promesse. La riforma della giustizia che Berlusconi proporrà giovedì è un caso esemplare, e se suscita tante apprensioni è perché non scioglie ma accentua i conflitti tra poteri pubblici, e anzi vuol devitalizzare parte di questi poteri. È una riforma che non perfeziona ma disprezza il nostro patrimonio giuridico, e l'idea che i poteri debbano esser molti perché non predomini uno solo. È una regressione che non solo mortifica la Carta costituzionale ma è in aperta contraddizione con princìpi giuridici che l'Unione europea chiede agli Stati di rispettare. Spesso la regressione avanza in tal modo: presentandosi come rivoluzionaria.
È osservando quel che accade in Francia che l'impressione di un indietreggiamento italiano si conferma vistosamente. Negli ultimi due mesi il malcontento dei magistrati francesi si è inasprito, e il loro obiettivo, non nuovo, si è fatto più che mai nitido: liberare infine pm e procure dal potere politico.

Succede così che il patrimonio italiano divenga un traguardo, nel preciso momento in cui Berlusconi vorrebbe ridurre l'indipendenza dei magistrati dalla politica. Se prima in Europa eravamo considerati all'avanguardia, nella separazione dei poteri, oggi rischiamo di trovarci in coda. Una miopia radicale verso il mondo, e l'indifferenza al peso che l'Europa ha nelle nostre vite (con le sue leggi vincolanti) sono alla radice di quello che può divenire un grave impoverimento: giuridico, democratico, della memoria.

Alla base di questa miope indifferenza c'è una doppia fallacia. Prima fallacia: l'idea che in democrazia la sovranità si concentri tutta sul popolo, che elegge governi e parlamenti non sottoposti al vaglio di poteri terzi. Seconda fallacia: la finzione di una sorta di autarchia giuridica e politica dello Stato-nazione, e l'ignoranza di un'Europa già in parte federale, che esercita sovranità parallele a quelle degli Stati grazie a leggi, politiche comuni, costumi democratici concernenti anche la separazione dei poteri.

L'idea che solo uno sia il potere decisivo - il popolo - è spesso scambiata con la democrazia ma non lo è, e l'Europa s'è unita con questa consapevolezza. L'illusione monolitica è un'eredità del 1789 - meglio: della sua estremizzazione giacobina, nazionalista - e spiega lo speciale malessere francese. Nella tradizione giacobina la giustizia non è un istituto indipendente, nonostante l'articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789: è l'arma del popolo sovrano, dell'esecutivo che esso elegge. Qui è il suo vizio d'origine, e ancor oggi il pubblico ministero francese non è al servizio di tutti ma mantiene un rapporto di dipendenza dal governo.

I magistrati riformatori in Francia non si limitano a invocare autonomia completa, ma si battono perché il paese interiorizzi la democrazia costituzionale di cui l'Europa è levatrice. È in questo quadro che reclamano un'autentica Corte costituzionale, e soprattutto l'indipendenza del pubblico ministero. Spetta a quest'ultimo l'obbligo di esercitare l'azione penale, come imposto dall'articolo 112 della nostra Costituzione: non alla politica, come accade a Parigi e come Berlusconi vorrebbe in Italia. Il 15 dicembre scorso la Corte di cassazione francese, interpellata sulla custodia cautelare, ha giudicato che «il pubblico ministero non è un'autorità giudiziaria indipendente», visto che "non garantisce l'indipendenza e l'imparzialità prescritte dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo", e dalla Convenzione Ocse sulla corruzione. Non a caso chi auspica l'autonomia dei pm comincia, in Francia, col cambiare le parole costituzionali. Nel titolo VIII appare l'"autorità giudiziaria". Molti (tra loro l'associazione Terra Nova, in un recente rapporto) esigono che il termine autorità sia sostituito da "potere giudiziario".

Con secoli di ritardo Parigi riscopre dunque la separazione dei poteri di Montesquieu, si libera del giacobinismo, è stanca di ridurre la democrazia al suffragio universale: «In Francia - dice il rapporto di Terra Nova - la giustizia non è più il potere indipendente, guardiano della libertà individuale, descritto da Montesquieu. È sotto tutela dell'esecutivo». Tanto più è soggetta «all'influenza di interessi privati e partigiani. È una giustizia parziale, a due velocità: clemente verso chi è protetto dall'esecutivo, sempre più speditiva verso chi non è protetto». È pensando con severa memoria la propria storia che i magistrati francesi si ribellano. Solo una Corte costituzionale e un pubblico ministero indipendenti possono divenire punti fermi, più durevoli delle mutevoli maggioranze. I governi sono mortali, in democrazia. Non la Costituzione e la giustizia.

Non è solo la storia nazionale a entrare in gioco, abbiamo visto, ma l'Europa che delle varie memorie ha fatto tesoro, trascendendole. È quest'ultima a preconizzare una giustizia più indipendente, prescrizioni non di comodo, infine la riforma più desiderata dagli italiani: processi più brevi per tutti, non per uno o per pochi. In particolare - lo ricordano da anni il giurista Bruno Tinti e Marco Travaglio - l'Europa chiede che le carriere del giudice e del pm non siano separate: che «gli Stati, ove il loro ordinamento giudiziario lo consenta, adottino misure per consentire alla stessa persona di svolgere le funzioni di pm e poi di giudice, e viceversa», per «la similarità e complementarietà delle due funzioni» (raccomandazione della Commissione anticrimine del Consiglio d'Europa, 30-6-00).

Nella riforma Berlusconi sono assenti queste norme costituzionaliste, ed è il motivo per cui di regressione si tratta. L'obiettivo è mettere le procure sotto tutela politica, duplicare il Consiglio superiore della magistratura neutralizzandolo, staccare la polizia giudiziaria dai pm assoggettandola al solo potere politico (forse la misura più pericolosa, perché in tal modo il governo ha in mano le chiavi per chiudere e aprire un processo penale). Ed è separare le carriere del pm e del giudice per degradare il pm a "avvocato dell'accusa", più vicino per cultura all'avvocato della difesa che al giudice: mentre con l'ordinamento attuale il pubblico ministero è tenuto a considerare anche gli elementi a discarico, non solo quelli a carico dell'imputato. Qui è la ragione prima per cui separare le carriere è un rischio. È un vero insulto ai Pm, spiega Tinti: "Il Pm tutela gli interessi della collettività, l'avvocato quelli del suo cliente. Per il Pm non è importante che l'imputato venga condannato; è importante che il colpevole venga condannato. L'avvocato difensore, lui sì, è uomo di parte", avendo per obbligo quello di " far assolvere il cliente oppure fargli avere la pena più ridotta".

Quel che ci si domanda è come mai l'Europa, pur avendo leggi e princìpi, conti così poco. In realtà essa difende i princìpi con estrema forza prima dell'adesione: i candidati devono avere giudici indipendenti e separazione dei poteri (se l'Italia fosse oggi candidata, certo non entrerebbe). Questo dicevano i criteri di Copenhagen fissati nel ‘93 per l'ammissione dei paesi dell'Est: i criteri non erano solo economici (esistenza di un'affidabile economia di mercato) ma anche politici e giuridici (presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, stato di diritto, diritti dell'uomo, rispetto-tutela delle minoranze). Ancor più stringenti sono i criteri nel caso della Turchia.

Con i paesi che sono già nell'Unione, invece, l'Europa è intimidita, inerte. Varcata la porta d'ingresso solo i parametri economici pesano, diventando addirittura un ombrello che ripara gli autoritarismi. Quanto più sei dentro, e rispetti i parametri finanziari, tanto più sei libero di fare quel che ti pare con la democrazia. Se solo volesse, l'Europa potrebbe agire, arginare. Il Trattato di Lisbona agli articoli 6 e 7 prevede interventi e sanzioni dell'Unione per quei Paesi dell'Unione in cui si verifichino gravi rischi per la democrazia e per la libertà. Ma sinora gli articoli non sono stati invocati né tantomeno applicati all'Italia. Eppure i rischi ci sono ormai davvero e sono seri. Si parla molto dell'assenza di anticorpi, in Italia. Ma l'Europa ha gli stessi difetti, pur possedendo strumenti e leggi per salvaguardare le proprie democrazie.

(10 marzo 2011)

sabato 5 marzo 2011

Mediterraneo in fiamme


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Ipotesi sulla crisi libica

di Valentino Parlato



Provo ad avanzare alcune ipotesi di lavoro sul vasto movimento di protesta che, percorrendo tutta l'Africa settentrionale, si affaccia sul Mediterraneo (soprattutto Tunisia ed Egitto e poi Libia), e si spinge fino ai paesi del Medio Oriente.
Il primo dato da sottolineare è che si tratta di un movimento fondamentalmente, se non esclusivamente, giovanile. Alla sua testa, ammesso e non concesso che questo movimento abbia un vertice di comando, non ci sono leader anziani e noti per il loro passato politico. Sottolineo: un movimento tutto di giovani. Qualcuno ha scritto di «primavera del mondo arabo».

Il secondo dato, importante anch'esso, è che si tratta di un movimento postislamista (sul pericolo di Al Qaeda, Gheddafi forse esagera). Il sociologo Oliver Roy, professore di studi mediterranei all'università di Firenze, su Le Monde del 12 febbraio scriveva: «Se facciamo attenzione a quelli che hanno scatenato il movimento è evidente che si tratta di una generazione postislamista. Per questi giovani i grandi movimenti rivoluzionari degli anni '70 '80 sono storia antica, dei loro antenati. Questa nuova generazione non è affatto ideologica, ha slogan assolutamente pragmatici e concreti («vattene, togliti dai piedi»). Non si appellano all'Islam come in Algeria facevano i loro predecessori alla fine degli anni '80. Esprimono innanzitutto un rifiuto delle dittature corrotte e una domanda di democrazia.
Il terzo dato, sul quale riflettere, è che - senza affatto svalorizzare questi movimenti - si tratta di ribellioni di giovani, senza una leadership riconosciuta, tale da assumere il potere. Tanto in Tunisia come in Egitto la costituzione di un nuovo governo ancora non c'è ed è solo l'esercito (che in Libia ha scarso peso) a coprire in qualche modo la vacanza di potere. Per dire - pur con la massima approssimazione - che in Tunisia come in Egitto non è ancora chiaro come andrà a finire.
In questo quadro di «primavera araba», la Libia non dico che è un caso a parte, ma ha certamente specificità proprie. In Libia, dove non ci sono le condizioni di miseria diffusa come in Tunisia ed Egitto, la ribellione - penso io - non ci sarebbe stata senza la Tunisia e l'Egitto: la ribellione giovanile di quei paesi ha scosso e mobilitato la gioventù libica, che - penso - altrimenti sarebbe rimasta ancora tranquilla, seppure in fermento. E, aggiungo, non tanto per paradosso, si potrebbe dire che la ribellione dei giovani libici sia stata promossa, certo inconsapevolmente, dallo stesso Gheddafi con le sue parole d'ordine sul governo del popolo, la democrazia diretta e il suo famoso Libretto Verde. In Libia c'è una sorta di paradosso: contro Gheddafi gridando il messaggio di Gheddafi. E Gheddafi - come ha detto al nostro inviato, Maurizio Matteuzzi, il vescovo di Tripoli monsignor Martinelli - è un beduino che piuttosto che mollare si fa uccidere o si suicida (qualcuno dovrebbe leggersi il suo racconto «Fuga all'Inferno» pubblicato dalla nostra Manifestolibri).
Gheddafi, nonostante l'età, resta un beduino colto e, anche se si deve alla sua attuale crisi, ha ritrovato la sua natura mandando al diavolo Berlusconi, con il quale aveva dato vita alla pagliacciata della sua ultima visita a Roma. Brutto errore quello.
Per tutte queste ragioni che ho qui, disordinatamente, avanzato, la questione Libia è più difficile e pericolosa. Una situazione difficile e pericolosa aggravata dalla ricchezza del petrolio che fa gola a tutti. Le navi Usa davanti alle coste libiche non sono affatto un buon segno. Negli Usa non c'è più Bush, che tentò più volte di ammazzare Gheddafi: ricordate il bombardamento della sua abitazione? Ora c'è Obama, ma anche lui pensa al petrolio e se (Gheddafi lo ha anche detto) quel petrolio dovesse andare alla Cina (migliaia di lavoratori cinesi sono in Libia) per lui, Obama, sarebbe una seria sconfitta. Una situazione difficile e pericolosa, più di quanto non si pensi. Siamo nel cosiddetto Mare Nostrum.
Quanto poi all'Italia, allo stato italiano mi sembra assurda la denuncia del Trattato di amicizia con la Libia. Lo stato libico ci sarà ancora, e oggi la denuncia del trattato appare vile e autolesionista. Non vogliamo più costruire la famosa autostrada, che peraltro darebbe lavoro alle imprese italiane? Vogliamo fare un regalo agli Usa? Piuttosto rinunciamo all'impegno imposto ai libici di bloccare i flussi migratori verso l'Italia. E Berlusconi non si dimentichi di aver, con esibizionismo, baciato la mano del diavolo Gheddafi. Gli italiani non lo dimenticheranno.

venerdì 4 marzo 2011

Addio a Annie Girardot




...sempre bello Alain, la prima passione della mia adolescenza...



giovedì 3 marzo 2011

RAI NEWS

Vergognarsi di essere italiani





La Germania non è Berlusconia

Guido Ambrosino, da Berlino per il manifesto



Il barone Karl Theodor von und zu Guttenberg, ridotto a barzelletta per essersi procurato un titolo di dottore in giurisprudenza con una tesi fasulla, ha rinunciato ieri al ministero della difesa. Lo stesso Guttenberg, dopo aver informato la cancelliera Merkel, ha annunciato le dimissioni in una conferenza stampa: «Sono sempre stato pronto a battermi, ma sono arrivato alla fine delle mie energie». A nulla è valso l'appoggio della cancelliera Angela Merkel, che non se l'è sentita di mettere subito alla porta il collega 39enne.

Presentato fino a due settimane fa come astro ascendente dell'Unione cristiano-sociale bavarese: «Non l'ho scelto come assistente scientifico, ma come ministro». Vani i tentativi di molti dirigenti democristiani di minimizzare: «Ci son ben altri problemi, i nostri soldati muoiono in Afghanistan, non è proprio il caso di rompersi la testa sulle note a pie' di pagina di una dissertazione». Inutile la strenua difesa da parte della Bild, il giornale dell'ultradestra populista.
Cdu e Csu hanno tentato una risposta alla Berlusconi: le contestazioni fattuali - che Guttenberg abbia imbrogliato l'università di Bayreuth è un fatto - sono state screditate come «campagna», alimentata dall'«invidia contro un politico popolare», eletto direttamente in Baviera con un mucchio di preferenze.
Il 23 febbraio al Bundestag l'opposizione ha rovesciato su Guttenberg insulti che avrebbero indotto chiunque a nascondersi sotto terra: «imbroglione», «millantatore», «falsario», «bugiardo», «mentitore», «ladro di proprietà intellettuale altrui». I democristiani hanno fatto spallucce. Imbroglione? Se la vedrà l'università di Bayreuth, che la sera dello stesso giorno gli ha revocato il titolo di dottore. Bugiardo o no, a noi Guttenberg va bene così: questo il messaggio, di protervia tutta «berlusconiana», che Merkel & Co. mandavano al paese.
Ma la Germania non è (ancora?) Berlusconia. Il grosso dei media, con l'eccezione di Bild e altri fogli del gruppo Springer, ha tenuto fermo che il rispetto della parola data è irrinunciabile per un politico. Guttenberg, nel consegnare la sua dissertazione con una dichiarazione scritta in cui dava la sua «parola d'onore» di averla compilata da solo e senza trucchi, ha perso ogni credibilità.
Sabato a Berlino un piccolo corteo si è diretto al ministero della difesa è ha appeso un bel po' di vecchie scarpe agli spuntoni della ringhiera che delimita l'edificio: il barone ha da andarsene, come Mubarak e compagnia. I simboli della lotta ai mille sultanati di questo mondo globalizzato volano da piazza Tahir sulla Sprea.
E, come nel Maghreb, internet è un ottimo antidoto alla manipolazione mediatica. Guttenberg avrebbe potuto cavarsela se un gruppo di ricerca della galassia wikipedia non si fosse messo a sezionare la «sua» dissertazione. Risultato provvisorio della ricerca, aggiornata a ieri e puntigliosamente documentata sulla pagina guttenplag.wikia.com: su 324 delle 407 pagine della dissertazione (senza considerare indice e bibliografia), ovvero sull'82% delle pagine, compaiono passi copiati. I brani plagiati senza citare gli autori sono 891, tratti da 120 fonti diverse. E in questa statistica manca ancora una valutazione dell'uso che Guttenberg ha fatto di sei ricerche da lui commissionate all'ufficio studi del Bundestag. L'ufficio del presidenza del parlamento, a maggioranza di centro-destra, si è finora rifiutato di pubblicare gli originali, impedendo così un confronto con la dissertazione.
Su 16.325 righe di testo, 8.061, ovvero il 49 per cento, risultano copiate, o di sana pianta, o con piccole modifiche formali, o usando come «alibi» brevi citazioni per poi continuare a saccheggiare l'originale senza virgolette.
Guttenberg, pur ammettendo «errori», ha avuto l'improntitudine di rivendicare la sua buona fede in una lettera scritta il 21 febbraio all'università di Bayreuth: «Io non ho mai falsificato intenzionalmente o con premeditazione». Questa recentissima menzogna è imperdonabile. Delle due l'una: o il barone si è fatto scrivere la dissertazione da altri, o nel lungo lavoro di redazione, durato a suo dire sei anni, è stato permanentemente incapace di intendere e di volere.

Classe dirigente di banditi, segue...



Fine del conflitto

di Norma Rangeri dal manifesto




Quel conflitto di interessi che per molti anni i leader del centrosinistra hanno smesso di nominare, tentando di mimetizzarlo nelle partite di giro tra un'elezione e l'altra, è l'anomalia italiana destinata a trascinare tutte le altre. «Nel '94 le abbiamo dato garanzia piena che non avremmo toccato le sue televisioni», diceva l'onorevole Violante rivolgendosi a Berlusconi, in un purtroppo celebre discorso alla camera, qualche anno fa. E quella ferita inflitta al sistema democratico ora trascina a valanga i fragili contrappesi istituzionali che tentano di arginarla. Dall'uso contundente della maggioranza parlamentare per sottrarsi al processo Ruby, fino al paradosso di queste ore quando un primo ministro editore può decidere se e come si intrecceranno le proprietà di giornali e televisioni.
In un paese normale sarebbe il presidente del consiglio l'autorità deputata a firmare il provvedimento che proroga il divieto di incrocio tra le proprietà di stampa e tv, come è necessario dopo il pasticcio delle modifiche al decreto milleproroghe. Ma nella patria del conflitto di interessi l'unico che non può mettere la firma per regolare questo macigno della nostra democrazia è esattamente l'attuale capo del governo. Lo scrive l'Antitrust nella lettera inviata al premier e ai presidenti di camera e senato, cioè alle più alte cariche parlamentari e di governo. Il gesto dell'Autorità è l'estremo tentativo dell'arbitro di fischiare il fallo, di segnalare il vicolo cieco di una anomalia ormai irriducibile. E' un atto che mette in pubblico il degrado istituzionale, ormai fuori misura e fuori controllo.
La pur sbiadita legge sul conflitto di interessi (firmata dal fedele Frattini) prevede che Berlusconi esca dalla stanza del consiglio dei ministri quando si discutano provvedimenti che potrebbero coinvolgere le sue aziende (e il suo portafoglio). In questo caso non solo dovrebbe essere presente ma addirittura firmare l'atto che lo riguarda.
Possiamo facilmente immaginare in quale considerazione terrà questo rilievo Berlusconi.
Dopo aver aggiunto anche l'Antitrust alle istituzioni (Parlamento, Quirinale, Consulta) che non lo lasciano lavorare, prenderà la penna e firmerà l'atto. Diversamente, in mancanza di una proroga, avrà la via spianata per aggiungere al suo impero mediatico i quotidiani che preferisce, magari uno solo, il più corteggiato e ambito.
E' la quadratura perfetta del cerchio, il regime che trova finalmente la conclusione del ventennio.
Cementato così, con o senza firma, il conflitto di interessi, Berlusconi potrà avviare la fase successiva, necessaria a perfezionare l'ultimo capitolo: la definitiva blindatura della televisione, con l'azzeramento delle ultime sacche di resistenza. Lo stato dei lavori è molto avanzato, manca giusto qualche dettaglio. Fatti gli ultimi acquisti (Sgarbi e Ferrara arruolati nella rete ammiraglia del servizio pubblico), si può concludere la partita con la fantastica trovata elaborata nelle stanze della commissione parlamentare di vigilanza: alternare Floris e Santoro con due conduttori di «diversa formazione culturale». Una rotazione settimanale tra destra e sinistra. Naturalmente il democratico e pluralista avvicendamento vale solo per questi due talk-show, tutto il resto (Tg1, Ferrara, Sgarbi, Vespa) non si tocca perché in questo caso il pluralismo è incorporato nella loro specchiata autonomia. E' grottesco, ma anche semplice. Basta avere la maggioranza parlamentare (in questo caso della vigilanza) e il gioco è fatto.

mercoledì 2 marzo 2011

Classe dirigente di delinquenti





Questo paese ha una classe dirigente di delinquenti, un'economia sempre più centrata sui flussi finanziari della criminalità organizzata, nessun punto di competitività o eccellenza sul piano internazionale.Geronzi è ancora oggi ai vertici delle Generali Assicurazioni e da lì decide le sorti di aziende e strategie finanziarie. Io mi vergogno di essere italiana.

02/03/2011 - PER IL CRAC CIRIO
Il pm: 15 anni a Cragnotti, 8 a Geronzi


Sergio Cragnotti, ex patron di Cirio, è stato presidente della Lazio


Al termine della requisitoria chiesta anche la condanna a 6 anni per Gianpiero Fiorani

ROMA
Condannare l’ex patron Sergio Cragnotti a 15 anni di reclusione e il l’allora presidente della banca di Roma, Cesare Geronzi, a 8 anni. Sono alcune delle richieste dell’accusa al processo in corso a roma per il crac Cirio. I magistrati, i pm Gustavo De Marinis, Rodolfo Sabelli e Tiziana Cugini, hanno chiesto anche 6 anni per Gianpiero Fiorani.

Sei anni sono stati chiesti anche per un figlio di Cragnotti, Massimo, e per la moglie dell’ex patron della Cirio, Flora Pizzicheni.Otto anni di reclusione invece nei riguardi di Andrea e Elisabetta Cragnotti, figli dell’ex patron della Lazio, dell’avvocato Riccardo Bianchini Riccardi; otto anni anche per Antonio Nottola anch’egli della Banca di Roma.

Sei anni sono stati chiesti per un' ulteriore serie di funzionari di banca e anche per sindaci e amministratori delle società che facevano capo alla holding di Sergio Cragnotti. Per tutti poi sono state chieste le pene accessorie come l’interdizione dai pubblici uffici e l’interdizione da attività. Per tre degli imputati, Angelo Brizzi, Alberto Giovannini e Sebastiano Baudo, è stata chiesta la prescrizione.

Il processo si riferisce a fatti risalenti al 2003, quando il fallimento del gruppo Cirio, allora guidato da Cragnotti, fece andare in default obbligazioni per 1,125 miliardi di euro emesse tra il 2000 e il 2002. Gli imputati devono rispondere, a vario titolo, dei reati di falso e bancarotta in tutte le sue declinazioni: fraudolenta, preferenziale, distrattiva.