mercoledì 30 novembre 2011

Il nodo tedesco spiegato da Barbara Spinelli


Berlino salverà l'Europa?

di BARBARA SPINELLI, da Repubblica

DA QUANDO s'è inasprito l'attacco alla zona euro, il sociologo Ulrich Beck accusa la Germania di un peccato grave: l'euronazionalismo. Dimentica delle regole democratiche, spesso arrogante, Angela Merkel incarnerebbe "una versione europea del nazionalismo della Deutsche Mark", elevando a dogma continentale la propria cultura della stabilità. Per sua colpa i tecnocrati avrebbero soppiantato i politici europei.

Il veto opposto al referendum sull'austerità, annunciato e poi abbandonato dall'ex Premier Papandreou, testimonierebbe il divario apertosi fra Europa e democrazia. Sono molti gli indizi che sembrano dar ragione a Beck. La Merkel s'ostina a scartare proposte su un sostegno più attivo della Bce ai paesi in difficoltà, nonostante le obiezioni mosse nel suo stesso partito, nell'opposizione, perfino nel Comitato dei cinque Saggi (il Sachverständigenrat) incaricato di guidare i governi tedeschi nelle scelte economiche. Almeno due di loro, Peter Bofinger e Bert Rürup, si battono per una Bce più dinamica e per gli eurobond (non solo al fine di arginare la speculazione; anche per piani di rilancio che gli Stati non possono permettersi ma l'Unione sì). Romano Prodi ha detto, sul Messaggero: "È venuto ora il tempo che la Germania prenda una decisione su come vorrà utilizzare l'immenso potere raggiunto. Lo può usare a servizio di se stessa e dell'Unione europea, o contro se stessa e contro l'Europa". A Berlino, l'economista Henrik Enderlein non è meno duro: la Germania, dice, non ha capito che "l'euro non poteva vivere a lungo senza una comune politica fiscale, economica. Che non era un punto d'arrivo dell'integrazione, ma un punto di partenza".

Eppure la Germania non è stata sempre così riluttante, almeno in teoria. L'idea che l'euro fosse arrischiato, senza unione politica, affiorò più volte in passato - nella stessa Bundesbank, nella Corte costituzionale - e proprio ora che urge avanzare Berlino si ritrae, come inorridita da un ramarro. Iniziare avventure nuove in politica è difficile, quando il popolo impaurito si fa calmare da posizioni che hanno il potere ansiolitico delle ortodossie o dei localismi. Meglio chiudersi in recinti, e dire tanti No.

Alcune denunce di Beck sono diffuse nelle sinistre europee (non la parte del suo discorso favorevole a un'Europa cittadina, sovranazionale), ma molti critici del neo-nazionalismo tedesco non le condividono. Il referendum greco è da questi ultimi disapprovato non perché troppo democratico, ma perché chiedendo ai cittadini di pronunciarsi solo sui tagli di spesa, rischiava di usare il popolo anziché illuminarlo. Nessun cittadino ama i tagli, specie quando i più ricchi sono risparmiati. Se oggi venisse posta la vera questione ai greci ("Volete restare nell'euro?") non è detto che la risposta sarebbe negativa.

Quel che spesso viene trascurato, è che la cultura tedesca della stabilità non è un mostro, anche se radicalmente imperfetta perché orfana di un'autentica scelta europea. È una cultura che ha fatto della Germania l'unica alternativa non spietata ai modelli cinese e americano: è fondata sulla valorizzazione dei sindacati, su misure concordi contro le delocalizzazioni, su salari alti (Federico Rampini lo spiega bene in Alla mia sinistra). Anche la questione demografica, Berlino l'ha affrontata con saggezza: l'abbandono del diritto del sangue, che vietava agli stranieri nati in Germania d'esser cittadini tedeschi (un diritto "folle o assurdo", secondo Napolitano, tuttora valido da noi) risale al 2000. Mario Monti, parlando al Senato il 17 novembre, ha difeso una cultura non esogena della stabilità: "Gli studi dei migliori centri di ricerca italiani avevano individuato le misure necessarie molto prima che esse venissero recepite nei documenti che abbiamo ricevuto dalle istituzioni europee".

I critici più seri del comportamento tedesco sanno queste cose, e sperano dunque che le regressioni siano reversibili. Le lentezze della Merkel sulla Grecia sono state sciagurate (l'anno e mezzo perduto ha scatenato l'odierno marasma) ma sono anche il segno che il male tedesco non è la volontà imperiale, ma l'incapacità di volere. All'ultimo minuto, Berlino non ha mollato Atene. È il motivo per cui non si può escludere una svolta, sia pur timida, al vertice dei capi di Stato o di governo dell'8-9 dicembre. A meno di crisi aggravata, il governo tedesco continuerà a respingere una gestione comune del debito, dunque gli eurobond. A escludere che la Banca centrale europea diventi prestatore di ultima istanza. Ma qualcosa forse si muove: è successo il 23 novembre, quando Berlino ha visto pericolare i propri titoli di Stato, e toccato con mano la realtà. Se l'euro finisce sarà rovina anche per lei, che di una moneta più debole del marco ha profittato esportando al massimo.

La presa di coscienza potrebbe prender forme diverse, più o meno stabili o dannose. Il Cancelliere promette cose "molto impressionanti", e tra queste cose potrebbe esserci il ritorno all'antica convinzione europeista, secondo la quale occorre un'unione federale - specie fra stati dell'euro - perché si possa mettere in comune sforzi, sacrifici. A queste condizioni sì, la solidarietà è accettata: la paura che i soldi siano sperperati si attenuerebbe. Quel che potrebbe ripetersi, è la scommessa fatta con l'euro. Già allora la moneta tedesca era la più forte, e per spingere Kohl a sacrificare il marco sovrano fu necessario dare qualcosa in cambio: nacque così il Patto di stabilità e crescita. Lo stesso andrebbe fatto ora, per convincere la Merkel e il suo popolo. Oggi tocca fare un passo avanti ulteriore: se si vuole un Fondo salva-Stati davvero potente, urge dare alla Germania la garanzia che esso non faciliterà il lassismo e servirà a mettere sotto controllo la politica fiscale ed economica degli stati, che dovranno quindi rinunciare alla loro sovranità in materia. Tali garanzie dovranno valere anche per Berlino. Dice Alfonso Iozzo, economista e federalista militante: "Jean Monnet direbbe oggi: istituiamo subito un Governo provvisorio dell'Eurozona dotato dei poteri - a carattere federale come nel caso della moneta - per gestire l'Unione Fiscale: un governo che assicuri la stabilità finanziaria dei paesi che avranno così rinunciato alla piena sovranità, e avvii un nuovo ciclo di sviluppo". Non si otterrà questo: ma questo dovrebbe essere l'obiettivo.

La questione della Banca centrale europea prestatore d'ultima istanza è più complessa. Le resistenze non vengono solo da Berlino, ma dalle autorità monetarie europee. La Bce, dicono a Francoforte, è prestatore di ultima istanza nei confronti delle banche, non degli Stati. L'articolo 123 del Trattato di Lisbona vieta a Bce e banche centrali nazionali di prestare direttamente fondi ai governi. Questo significa che esse possono acquistare titoli solo sul mercato secondario, oggi instabile. È quello che la Bce ha fatto in questi mesi, anche se in misura limitata e senza certezze di continuità. L'assenza di certezza dà l'impressione di una Banca non affidabile come la Federal Reserve. I suoi difetti non solo imputabili solo a Berlino, ma difetti restano. La Germania che guida l'Europa è a un incrocio di strade. Può fare o disfare l'Unione. La disfa più che mai, quando sogna un piccolo nucleo di paesi risparmiatori: armato magari di eurobond, isola degli happy few. Sarebbe la soluzione più micidiale: getterebbe nel caos gli stati che usano l'euro, ma fuori dal cerchio magico.

Forse al prossimo vertice capiremo meglio dove voglia andare Berlino: se verso una spaccatura europea o un trattato più federale. Al centro, quella che Schmidt chiamava nel '96 l'"ipocondriaca paura tedesca del nuovo", unita ai timori che Berlino incute in Europa. Di questi timori il dispositivo centrale è la parola azzardo morale: quello che si corre quando i dilapidatori, perché assistiti o rassicurati, cessano di vigilare se stessi e disciplinarsi. Spetta alle istituzioni europee, e a tutti gli Stati, dimostrare che l'azzardo scema se accanto alla cultura della stabilità nasce una fiducia reciproca duratura, che solo l'unità politica dell'Europa può dare.

LIRETTA ALL'ORIZZONTE?




Banche: Vegas: E' allarme liquidità, Paese rischia fallimento

Roma, 30 nov. (TMNews) - "Sulle banche italiane c'è un problema che non può non preoccuparci tutti". E' l'allarme lanciato dal presidente della Consob Giuseppe Vegas che, in un'intervista alla Repubblica spiega: "il nostro sistema creditizio ha tra i usoi asset titoli di stato italiani per 160 miliardi e titoli di stato degli altri 'Pigs' per 3 miliardi. A fronte di questo - dice - le nostre banche hanno titoli 'tossici', essenzialmente mutui subprime, per una quota pari al 6,8% del patrimonio di vigilanza contro una media europea del 65,3%. Ora - aggiunge - secondo le nuove norme di valutazione degli asset stabilite dall'Eba, siamo al paradosso: i titoli di stato in portafoglio vengono considerati 'tossici' per le banche italiane peggio di quanto non lo siano i 'subprime' per le banche straniere". Per Vegas, "il pericolo è che vada definitivamente in tilt il circuito finanza economia reale. In base ai criteri Eba, le banche devono rafforzare il patrimonio e ricapitalizzare. Per farlo hanno due strade: o vanno sul mercato a cercare soldi o vendono asset. In entrambi i casi - sottolinea - il sentiero è strettissimo. Vendere asset vuol dire ridimensionare comunque l'operatività, ma trovare capitali, adesso, è ancora più difficile: vuol dire limitare il circolante, rinuciare alla leva, ridurre i prestiti e dunque strozzare il credito. E qui c'è il possibile corto circuito: che effetto ha tutto questo su un Paese che ha bisogno come il pane della crescita?". Infine, quanto alla crisi del debito a livello europeo, secondo Vegas "serve un approccio nuovo: la Fed e la Banca centrale inglese stampano moneta. La Bce non può farlo. Questa disparità va risolta. Allora o cambiamo il ruolo della Bce oppure dobbiamo accettare il rischio che l'euro salti e ogni Paese torni alla sua valuta".

martedì 29 novembre 2011

IL PD ecco cos'è

Impazza in rete il brano audio dell'assemblea di TILT in cui sabato scorso l'ex direttrice dell'Unità Concita De Gregorio racconta episodi imbarazzanti del rapporto con il PD.


Concita De Gregorio, il 26 Novembre 2011, durante l'incontro nazionale di TILT, ha raccontato più di un episodio in cui i dirigenti del Pd hanno impedito di fare campagne politiche. Bersani & co si rifiutarono di aderire alle campagne degli studenti perche' tanto "erano minorenni e non votavano", si rifiutarono di appoggiare i referendum perché "tanto non passava il quorum" e di sostenere il NO B DAY perché mica "era una manifestazione convocata dal PD".

Riferisce Concita che un "altissimissimissimo" dirigente del partito democratico a domanda specifica sul non formidabile sostegno che il Pd stava all'epoca garantendo alla candidata alla presidenza della Regione Lazio, Emma Bonino, avrebbe così risposto:

"Perché pensiamo sia meglio perdere. Perché, siccome la Polverini è la candidata di Fini e siccome è l'unica sua candidata della tornata, se vince, Fini si rafforza e, finalmente, si decide a mollare Berlusconi e a fare il terzo polo, insieme a Casini. E vale la pena perdere la Regione Lazio perché, se succede tutto questo, poi noi ci mettiamo con loro e vinciamo la partita più importante, quella che conta. Senza ovviamente che gli elettori ci mollino, senza perdere troppo consenso. Perché non saremo noi a condurre questa operazione, noi perdendo oggi daremo solo il via, il resto lo farà la crisi economica".
UN AUDIT SUL DEBITO

di Guido Viale, dal manifesto


Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell'ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan). Il liberismo ha di fatto esonerato dall'onere del pensiero e dell'azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, "i mercati"; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un'attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell'auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un'inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell'Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai "mercati" ha significato la rinuncia a un'idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra - quella "vera", come la vorrebbero quelli di sinistra - è tutta qui.
Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy. Poco importa che non abbiano ancora "un vero programma" (come gli rinfacciano tanti politici spocchiosi): sanno che cosa vogliono.
Mentre i politici spocchiosi non lo sanno: vogliono solo quello che "i mercati" gli ingiungono di volere. È il mondo, e sono le nostre vite, a dover essere ripensati dalle fondamenta. Negli anni il liberismo - risposta vincente alle lotte, ai movimenti e alle conquiste di quattro decenni fa - ha prodotto un immane trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale: mediamente, si calcola, del 10 per cento dei Pil (il che, per un salario al fondo alla scala dei redditi può voler dire un dimezzamento; come negli Usa, dove il potere di acquisto di una famiglia con due stipendi di oggi equivale a quello di una famiglia monoreddito degli anni sessanta). Questo trasferimento è stato favorito dalle tecnologie informatiche, dalla precarizzazione e dalle delocalizzazioni che quelle tecnologie hanno reso possibili; ma è stato soprattutto il frutto della deregolamentazione della finanza e della libera circolazione dei capitali. Tutto quel denaro passato dal lavoro al capitale non è stato infatti investito, se non in minima parte, in attività produttive; è andato ad alimentare i mercati finanziari, dove si è moltiplicato e ha trovato, grazie alla soppressione di ogni regola, il modo per riprodursi per partenogenesi. Si calcola che i valori finanziari in circolazione siano da dieci a venti volte maggiori del Pil mondiale (cioè di tutte le merci prodotte nel mondo in un anno, che si stima valgano circa 75 mila miliardi di dollari). Ma non sono state certo le banche centrali a creare e mettere in circolazione quella montagna di denaro; e meno che mai è stata la Banca centrale europea (Bce), che per statuto non può farlo (anche se in effetti un po' lo ha fatto e continua a farlo, per così dire, "di nascosto"). Se la Bce è oggi impotente di fronte alla speculazione sui titoli di stato (i cosiddetti debiti sovrani) è perché lo statuto che le vieta di "creare moneta" è stato adottato per fare da argine in tutto il continente alle rivendicazioni salariali e alle spese per il welfare. Una scelta consapevole quanto miope, che forse oggi, di fronte al disastro imminente, sono in molti a rimpiangere di aver fatto. A creare quella montagna di denaro è stato invece il capitale finanziario che si è autoriprodotto; i "mercati". E lo hanno fatto perché tutti i governi glielo hanno permesso. Certo, in gran parte si tratta di "denaro virtuale": se tutto insieme precipitasse dal cielo sulla terra, non troverebbe di fronte a sé una quantità altrettanto grande di merci da comprare. Ciò non toglie che ogni tanto - anzi molto spesso - una parte di quel denaro virtuale abbandoni la sfera celeste e si materializzi nell'acquisto di un'azienda, una banca, un albergo, un'isola; o di ville, tenute, gioielli, auto e vacanze di lusso. A quel punto non è più denaro virtuale, bensì potere reale sulla vita, sul lavoro e sulla sicurezza di migliaia e migliaia di esseri umani: un crimine contro l'umanità.
È un meccanismo complicato, ma facile da capire: in ultima analisi, quel denaro "fittizio" - che fittizio non è - si crea con il debito e si moltiplica pagando il debito con altro debito: in questa spirale sono stati coinvolti famiglie (con i famigerati mutui subprime; ma anche con carte di credito, vendite a rate e "prestiti d'onore"), imprese, banche, assicurazioni, Stati; e, una volta messi in moto, quei debiti rimbalzano dagli uni agli altri: dai mutui alle banche, da queste ai circuiti finanziari, e poi di nuovo alle banche, e poi ai governi accorsi in aiuto delle banche, e dalle banche di nuovo agli Stati. E non se ne esce, se non - probabilmente - con una generale bancarotta.
In termini tecnici, l'idea di pagare il debito con altro debito si chiama "schema Ponzi", dal nome di un finanziere che l'aveva messa in pratica negli anni '30 del secolo scorso (al giorno d'oggi quell'idea l'hanno riportata in vita il finanziere newyorchese Bernard Madoff e, probabilmente, molti altri); ma è una pratica vecchia come il mondo, tanto che in Italia ha anche un santo protettore: si chiama "catena di Sant'Antonio". In realtà, tutta la bolla finanziaria che ci sovrasta non è che un immane schema Ponzi. E anche i debiti degli Stati lo sono. Il vero problema è sgonfiare quella bolla in modo drastico, prima che esploda tra le mani degli apprendisti stregoni dei governi che ne hanno permesso la creazione. Nell'immediato, un maggiore impegno del fondo salvastati, o del Fmi, o gli eurobond, o il coinvolgimento della Bce nell'acquisto di una parte dei debiti pubblici europei potrebbero allentare le tensioni. Ma sul lungo periodo è l'intera bolla che va in qualche modo sgonfiata.
Prendiamo l'Italia: paghiamo quest'anno 70 miliardi di interessi sul debito pubblico (che è di circa 1900 miliardi). L'anno prossimo saranno di più, perché gli interessi da pagare aumentano con lo spread. Negli anni passati a volte erano meno, ma a volte, in proporzione, anche di più. Quasi mai sono stati pagati con le entrate fiscali dell'anno (il cosiddetto avanzo primario); quasi sempre con un aumento del debito. Basta mettere in fila questi interessi per una trentina di anni - da quando hanno cominciato a correre - e abbiamo una buona metà, e anche più, di quel debito che mette alle corde l'economia del paese e impedisce a tutti noi di decidere come e da chi essere governati. Perché a deciderlo è ormai la Bce. Ma la vera origine del debito italiano è ancora più semplice: l'evasione fiscale. Ogni anno è di 120 miliardi o cifre equivalenti: così, senza neanche scomodare i costi di "politica", della corruzione o della malavita organizzata, bastano quindici anni di evasione fiscale - e ci stanno - per spiegare i 1900 miliardi del debito italiano. Aggiungi che coloro che hanno evaso le tasse sono in buona parte - non tutti - gli stessi che hanno incassato gli interessi sul debito e il cerchio si chiude. La spesa pubblica in deficit ha la sua utilità se rimette in moto "risorse inutilizzate": lavoratori disoccupati e impianti fermi. Ma se alimenta evasione fiscale e "risparmi" che vanno solo ad accrescere la bolla finanziaria, è una sciagura.
Altro che pensioni da tagliare (anche se le ingiustizie da correggere in questo campo sono molte)! E altro che scuola, e università, e sanità, e assistenza troppo "generose"! Siamo di fronte a cifre incomparabili: per distruggere scuola e Università è bastato tagliare pochi miliardi di euro all'anno. E da una "riforma" anche molto severa delle pensioni si può ricavare solo qualche miliardo di euro all'anno. Dalla svendita degli immobili dello Stato e dei servizi pubblici locali non si ricava molto di più. Dalla liquidazione di Eni, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Fincantieri e quant'altro, come improvvidamente suggerito nel luglio scorso dai bocconiani Perotti e Zingales (l'economista di riferimento, quest'ultimo, di Matteo Renzi; ma anche di Sarah Palin!), si ricaverebbe non più di qualche decina di miliardi una volta per sempre, trasferendo in mani ignote (ma potrebbero benissimo essere quelle della mafia) le leve dell'economia di un intero paese. Mentre interessi ed evasione fiscale ammontano a decine di miliardi ogni anno e il debito da "saldare" si conta in migliaia di miliardi. Per questo il rigore promesso dal governo potrà fare male ai molti che non se lo meritano, ma non ha grandi prospettive di successo: affrontare con queste armi il deficit pubblico, o addirittura il debito, è un'impresa votata al fallimento. O una truffa. Per questo è urgente effettuare un audit (un inventario) del debito italiano, perché tutti possano capire come si è formato, chi ne ha beneficiato e chi lo detiene (anche per poter prospettare trattamenti diversi alle diverse categorie di prestatori).
L'altro inganno che domina il delirio pubblico promosso dagli economisti mainstream - e in primis dai bocconiani - è la "crescita". A consentire il pareggio del bilancio imposto dalla Bce e tra breve "costituzionalizzato", cioè il pagamento degli interessi sul debito con il solo prelievo fiscale, e addirittura una graduale riduzione, cioè restituzione, del debito dovrebbe essere la "crescita" del Pil messa in moto dalle misure liberiste che i precedenti governi non avrebbero saputo o voluto adottare: liberalizzazioni, privatizzazioni, riforma del mercato del lavoro (alla Marchionne), eliminazioni delle pratiche amministrative inutili (ben vengano, ma bisognerà riparlarne) e le "grandi opere" (in primis il Tav). Ma per raggiungere con l'aumento del Pil obiettivi del genere ci vorrebbero tassi di crescita "cinesi"; in un periodo in cui l'Italia viene ufficialmente dichiarata in recessione, tutta l'Europa sta per entrarci, l'euro traballa, gli Stati Uniti sono fermi e l'economia dei paesi emergenti sta ripiegando. È il mondo intero a essere in balia di una crisi finanziaria che va ad aggiungersi a quella ambientale - di cui nessuno vuole più parlare - e allo sconvolgimento dei mercati delle materie prime (risorse alimentari in primo luogo) su cui si riversano i capitali speculativi che stanno ritirandosi dai titoli di stato (e non solo da quelli italiani). Interrogati in separata sede, sono pochi gli economisti che credono che nei prossimi anni possa esserci una qualche crescita. Molti prevedono esattamente il contrario; ma nessuno osa dirlo. Questa farsa deve finire. È ora di pensare - e progettare seriamente - un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza "crescita". Semplicemente valorizzando le risorse umane, il patrimonio dei saperi, le fonti energetiche e le risorse materiali rinnovabili, gli impianti e le attrezzature che già ci sono; e rinnovandoli e modificandoli solo per fare meglio con meno. Non c'è niente di utopistico in tutto questo; basta - ma non è poco - l'impegno di tutti gli uomini e le donne di buon senso e di buona volontà.

NO TAV!


Conti truccati ad Alta velocità

di Marco Ponti, Professore ordinario di Economia applicata, Politecnico di Milano

Non è facile recensire Il libro nero dell’Alta velocità di Ivan Cicconi, pubblicato prima on line da ilfattoquotidiano.it e poi in libreria da Koiné.

Una critica possibile riguarda il ruolo degli ambientalisti nel progetto, nel complesso micidiale, e che Cicconi sfiora soltanto: sono gli ambientalisti che hanno contribuito, con grande giubilo dei costruttori, a passare da un modello “francese”, cioè di linee per soli passeggeri, a un molto più costoso modello di “alta capacità”, cioè che consentisse anche il passaggio di treni merci, molto più pesanti. In realtà, non solo i treni merci non hanno fretta, ma il fatto che i treni passeggeri di lunga distanza avrebbero viaggiato sulle nuove linee dell’Alta velocità avrebbe liberato le vecchie linee, lasciandovi una capacità che sarebbe bastata per le merci nei secoli futuri. Cicconi non sembra neppure dar peso al ruolo che gli ambientalisti hanno avuto anche nella costosissima richiesta di stazioni in galleria per l’Av a Bologna prima, e a Firenze poi (“per motivi acustici…”), con quadruplica-mento dei costi. Anche qui, certo i costruttori non hanno pianto. Ciò detto come critica, si possono solo aggiungere dei “cammei” che rafforzano ulteriormente la straordinaria analisi di Cicconi.

Per esmpio, nel libro, l’autore ricorda il ruolo quasi eroico di oppositore del progetto avuto dall’allora ministro Andreatta: bene, posso aggiungere che Andreatta fu talmente orripilato dalla vicenda Av (e dalle sue connotazioni economiche) da dichiarare in una celebre intervista a Repubblica che “i politici che promuovono questi grandi investimenti sono interessati solo alle loro tangenti”. Chi scrive poi è stato coinvolto come tecnico in molte vicende dell’Av ricordate da Cicconi, e può solo confermarle o rafforzarle. Il primo Piano Generale dei Trasporti, nel quale assieme all’Ing. Beltrami fui responsabile della parte ferroviaria, promuoveva poche linee nuove da 250 km/h e il mantenimento sulla rete della tensione a 3.000 volt (quella esistente, sufficiente per quella velocità ma non per i 300 km/h). Se quel piano non fosse finito in un cassetto, avremmo già da 10 anni una rete ferroviaria principale moderna e veloce, con un decimo dei costi dell’Av.

L’avvocato Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie, mi chiese di valutare il complicato sistema di finanziamento. Io riferii che era tutto a carico del pubblico, anche se così non appariva. Necci mi disse che la cosa era nota a tutti i “giocatori”, ma dire che i privati pagavano il 60 per cento dell’opera era l’unico modo per ottenere i soldi pubblici necessari. Io diffusi poi questo risultato, ma senza alcuna conseguenza pratica, come ovvio, se non forse nella prima “esternazione” del ministro Burlando, che dichiarò appunto che in realtà non vi era alcun finanziamento privato.

Un’altra “valutazione”, che lo scrivente richiese a gran voce a Fs, riguardava l’analisi costi-benefici della linea Torino-Venezia: le distanze medie di percorrenza erano molto basse e per il traffico merci esisteva una linea un po ’ tortuosa ma deserta, nota come “mediopadana”. Chiesi di confrontare i risultati di una linea nuova Av tra Torino e Venezia con la riqualificazione della mediopadana per le merci. Miracolo! Contro ogni ragionevole aspettativa l’analisi dava vincente la linea nuova Av. La ragione era semplice: non fu confrontata la riqualificazione della linea mediopadana, ma il suo totale rifacimento con standard di Alta velocità, assurdi per le merci.

Più recentemente, quella linea ha avuto un’altra vicenda di valutazioni “imbarazzanti”: due anni fa fu presentato a Milano uno studio che dimostrava che la linea avrebbe generato enormi benefici alla collettività. Applausi da politici “bipartisan”, Confindustria e Ferrovie. Peccato che lo studio conteneva una moltiplicazione errata, che sovrastimava di 10 volte certi benefici. Correggendo quel banale (ingenuo?) errore, i benefici sociali dell’opera diventavano clamorosamente negativi. La volontà politica di promuovere quell’investimento è passata, e passa, al di là di ogni verifica tecnica non “truccata” da interessi di parte, come documenta Cicconi.

I fautori della “finanza creativa” non dormono: falliti i tentativi precedenti, ci provano adesso con una nuova formula, il “canone di disponibilità”. Fs è una Spa, quindi formalmente privata, anche se in realtà al 100 per cento pubblica (e già questa è una pericolosa anomalia). Si finge che sia disposta a pagare come privato un onerosissimo “canone di disponibilità” annuo per una nuova linea con poco traffico (es. Torino-Lione, Napoli-Bari). Quel canone finanzia l’opera in modo sostanziale, e proviene formalmente da un soggetto privato, anzi, da un “utente”. Fs ci perde un sacco di soldi, che verranno poi ripianati dai contribuenti.

Due note ottimistiche finali: non ci sono più soldi per costruire a costi folli opere di dubbia utilità e, sotto la minaccia di non costruire nulla, sembra che anche gli interessi costituiti si siano “rassegnati” a ridimensionare le spese, costruendo le opere per fasi, si spera in funzione della crescita del traffico. Per molte di queste opere verosimilmente ciò significa che sarà realizzata solo la prima fase, visto che le stime ufficiali di crescita del traffico sono assurdamente ottimistiche. Ma farsi illusioni in questo settore rimane pericoloso.

Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2011

Il realismo di Padellaro


Finirà così?

di Antonio Padellaro da "Il Fatto Quotidiano"

Finirà che il Pdl voterà i “sacrifici” del governo Monti, ma solo dopo aver proclamato ai quattro venti quanto segue: l’abbiamo fatto per senso di responsabilità verso il Paese, però sia ben chiaro che il governo Berlusconi non ha messo le mani nelle tasche degli italiani e proprio per questo l’hanno fatto fuori con un colpo di mano. Poi (con la supervisione del famoso venditore di patacche) la lunga campagna elettorale di Alfano & soci suonerà la grancassa contro la moneta unica: tutta colpa dell’euro, imposto da Prodi in combutta coi comunisti, se i prezzi di colpo raddoppiarono lasciandoci più poveri; meglio ritornare alla vecchia, cara lira. Dopodiché, senza più la zavorra mortale dell’ex Caimano e con i sondaggi di nuovo in salita, il Pdl cambierà di nuovo nome contando sulla proverbiale smemoratezza italica. Bel colpo.

Finirà che il Pd voterà tutto, anche le lacrime e sangue del governo Monti se necessario. Lo farà per autentico senso di responsabilità nazionale e perché glielo chiederà Napolitano. E così Bersani, che aveva in tasca il biglietto vincente della lotteria, dopo aver rinunciato alle elezioni col Pd favorito e dopo aver rinunciato a essere il candidato premier (e forse anche il premier), sarà costretto a far digerire al suo elettorato e alla Cgil la stretta sulle pensioni e sul mercato del lavoro. E così, forse, i sondaggi sorrideranno di meno, anche perché i Democratici dovranno guardarsi dagli attacchi di Vendola e Di Pietro, liberi di fare opposizione a piacimento.

Finirà che Casini, col Terzo polo, giocherà al gioco preferito nella Prima Repubblica: la politica dei due forni. Dialogherà a lungo con il Pd, ma se il Pdl dovesse mollare la Lega (o essere mollato), chi può escludere un ritorno ai tristi amori con una nuova maggioranza in Parlamento? Alfano a Palazzo Chigi e Casini al Quirinale: è solo un incubo?

Finirà che Monti farà certamente il possibile per salvarci dal default e restituire un futuro all’Italia. Ma non potrà fare certamente l’impossibile per impedire che, dietro il paravento dell’unità nazionale, le forze dell’inciucio si accordino su quelle nomine che perfino a B. non sarebbero state concesse. Per esempio, l’avvocato di Schifani all’Antitrust. E certi sottosegretari in conflitto di interessi fino al collo. O siamo troppo pessimisti?

Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2011

lunedì 28 novembre 2011

Ciao Lucio, che la terra ti sia lieve.









Il suicidio assistito di Lucio Magri. L'addio ai compagni: "Ho deciso di morire"
Il fondatore del Manifesto morto in Svizzera ha deciso tutto con lucidità; dalla fine alla sepoltura vicino alla sua Mara. Gli amici hanno tentato di dissuaderlo ma lui era depresso per la morte della moglie.


di SIMONETTA FIORI, da Repubblica

E ALLA FINE la telefonata è arrivata. Sì, tutto finito. Ora si rientra in Italia. Alle pompe funebri aveva provveduto lo stesso Lucio Magri, poco prima di partire per la Svizzera. Era il suo ultimo viaggio, così voleva che fosse. Non ce la faceva a morire da solo, così il suo amico medico l'avrebbe aiutato. Là il suicidio assistito è una pratica lecita, anche se poi bisogna vedere nei dettagli, se ci sono proprio le condizioni. Ma ora che importa? Che volete sapere? Non fate troppi pettegolezzi, l'aveva già detto qualcun altro ma in questi casi non conta l'originalità.

S'era raccomandato con i suoi amici più cari, quelli d'una vita, i compagni del Manifesto. Non voglio funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne. Luciana si occuperà della gestione editoriale dei miei scritti. Per gli amici e compagni lascio una lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto finito. Sì, ora è finito. La notizia può essere resa pubblica. Lucio Magri, fondatore del Manifesto, protagonista della sinistra eretica, è morto in Svizzera all'età di 79 anni. Morto per sua volontà, perché vivere gli era diventato intollerabile.
A casa di Lucio Magri, in attesa della telefonata decisiva. È tutto in ordine, in piazza del Grillo, nel cuore della Roma papalina e misteriosa, a due passi dalla magione dove morì Guttuso, pittore amatissimo ma anche avversario sentimentale. Niente sembra fuori posto, il parquet chiaro, i divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la collezione del Manifesto vicina a quella dei fascicoli di cucina, si sa che Lucio è un cuoco raffinato. Intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un quarto di secolo. No, Valentino non c'è, Valentino Parlato lo stiamo cercando, ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che Lucio non c'è più.

Da questa casa Magri s'è mosso venerdì sera diretto in Svizzera, dal suo amico medico. Non è la prima volta, l'aveva già fatto una volta, forse due. Però era sempre tornato, non convinto fino in fondo. Ora però è diverso. Domenica mattina rassicura gli amici: "Ma no, non preoccupatevi, torno domani". La sera il tono cambia, si fa più affannato, indecifrabile, chissà. Il lunedì mattina appare sereno, lucido, determinato. Ha scelto, e dunque il più è fatto. Bisogna solo decidere, e poi basta chiudere gli occhi. L'ultima telefonata nel pomeriggio, verso le sedici. Poi il silenzio.

Una depressione vera, incurabile. Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul fallimento politico - conclamato, evidentissimo - s'era innestato il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il mondo. "Lucio non sapeva usare il bancomat né il cellulare", racconta una giovane amica. Mara che oggi sorride dalle tante fotografie sugli scaffali, vestita color ciclamino nel giorno delle nozze. Un vuoto che Magri riempie in questi anni con le ricerche per il suo ultimo libro, una possibile storia del Pci che certo non a caso titola Il sarto di Ulm, il sarto di Brecht che si sfracella a terra perché non sa volare. Ucciso da un'ambizione troppo grande, così almeno appare ai suoi contemporanei. Anche Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e il mondo degli ultimi anni gli appariva un'insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato.

Aspettando l'ultima telefonata, a casa Magri. Lalla, la cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo, vi fermate vero a colazione? E' affettuosa, Lalla, ha ricevuto tutte le ultime disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il pranzo, ci sono ancora quelli vecchi che lui le ha lasciato. È stata lei ad assistere Mara nei tre anni di agonia per il brutto tumore, e poi ha visto spegnersi lui, sempre più malinconico, quasi blindato in casa. Ogni tanto qualche amico, compagno della prima ora. Ma dai, reagisci, che fai, ti lasci andare proprio ora? Ora che esce l'edizione inglese del tuo libro? E poi quella argentina, e quella spagnola? Dai, ripensaci, c'è ancora da fare. Ma lui non era convinto. Non poteva fare più nulla. Lucido e razionale, fino alla fine. E poi s'era spenta la sua stella, così scrive anche nell'ultima lettera ai compagni.

Sembra tutto surreale, qui in piazza del Grillo, tra squilli di telefono e porte che si aprono. Arriva Valentino, invecchiato improvvisamente di dieci anni. Lo accolgono con calore. No, non sappiamo ancora niente. Aspettiamo. Ricordi privati e ricordi pubblici, lui grande giocatore di scacchi, lui grande sciatore, lui politico generoso che preparava i documenti e nascondeva la sua firma. Ma attenzione a come ne scrivete, non era un vanesio, non era un mondano. Dalle fotografie sui ripiani occhieggia lui, bellissimo e ancora giovane, un'espressione tra il malinconico e il maledetto. Dietro la foto più seducente, una dedica asciutta. "A Emma, il suo nonno". Neppure Emma, la bambina di sua figlia Jessica, è riuscito a fermarlo.

Poi la telefonata, quella che nessuno avrebbe voluto mai ricevere. Ora davvero è finita. Le pompe funebri andranno a prelevarlo in Svizzera, tutto era stato deciso nel dettaglio. L'ultimo viaggio, questo sì davvero l'ultimo, è verso Recanati, dove sarà seppellito vicino alla sua Mara, nella tomba che lui con cura aveva predisposto dopo la morte della moglie. Luciana Castellina s'appoggia allo stipite della porta, tramortita: "Non avrei mai immaginato che finisse così". Il tempo dell'attesa è concluso, comincia quello del dolore.


DAI CATTOLICI ALLO STRAPPO CON IL PCI UNA STORIA A SINISTRA FUORI DAGLI SCHEMI

Nello Ajello per "la Repubblica"

Un pilastro portante del "Manifesto", rivista e partito. L´interprete d´una maniera di concepire la sinistra italiana diversa da ogni schema. Questo è stato in sintesi Lucio Magri. Ma è una sintesi che non esaurisce la singolarità del personaggio. Perché lui aveva, rispetto ai compagni della sua stagione dorata - dalla Rossanda a Pintor, da Natoli a Caprara, da Luciana Castellina a Valentino Parlato - un´origine più avventurosa. E, soprattutto, una preistoria precoce.


Precoce, Magri lo era stato in maniera spettacolare. Nato a Ferrara nel 1932 (e poi cresciuto a Bergamo), nei primi anni Cinquanta già figurava fra i redattori della rivista mensile "Per l´azione", un organo dei giovani della Dc cui si consentivano attacchi quasi temerari alle «brutture del capitalismo». Del Magri di allora ci rimane un ritratto che ne fece anni fa Giuseppe Chiarante, suo amico d´una vita: «Era ammirato dalle compagne di scuola», così egli ricorda, «per la sua presenza atletica e perché considerato molto bello».

Quello della prestanza fisica resterà per lui una costante. Che poi fosse interessato «alla politica» veniva dato per scontato. Quando, nel 1955, esce un altro periodico democristiano di sinistra, "Il Ribelle e il Conformista", è lui, Magri, a condividerne di fatto la direzione con Carlo Leidi. Fu lì che appare a firma di Cesare Colombi (è uno pseudonimo di Magri) un articolo dal titolo "Bilancio del centrismo", nel quale di delinea un´ipotesi di apertura a sinistra - «senza contemplare una contrapposizione» fra il Psi e quel Pci, che in casa democristiana è il nemico.


Sta intanto per uscire un´ennesima rivista, "Il Dibattito politico", che, legata all´orbita ideologica di Franco Rodano, è diretta da Mario Melloni, con condirettore Ugo Bartesaghi: per misurarne le qualità ereticali basti ricordare che i due saranno espulsi dalle file dello Scudo crociato per aver votato contro l´ingresso dell´Italia nell´Unione europea occidentale.

Il gruppo redazionale nel quale Magri esercita con passione il suo ruolo riunirà poi, accanto al solito Chiarante, intellettuali del rango di Ugo Baduel, Giorgio Bachelet, Edoardo Salzano (per citarne qualcuno). Programma dichiarato è «la ricerca delle necessità che sollecitano il mondo cattolico e quello comunista al dialogo». Potrà un simile progetto attuarsi dentro la DC?. Magri e gli altri sono i primi a dubitarne. La diaspora verso «la sinistra storica» è nei fatti.

La "vita democristiana" di Lucio Magri è stata breve e intensa: più lunghi saranno il tragitto verso il Pci e poi la permanenza in quel partito. Nell´estate del ´58, Giorgio Amendola, responsabile dell´organizzazione, lo riceve nel suo studio a Botteghe Oscure. Con Magri c´è il quasi gemello Chiarante. «Parlammo un po´ di tutto», racconterà quest´ultimo. L´impressione dei due, che avevano sporto regolare domanda, fu che l´illustre ospite li ritenesse «forse non a torto, degli intellettuali un po´ astratti».


Gli raccomandò, comunque, «di avere delle esperienze di base». Così avvenne. Magri se ne tornò a Bergamo, diventando prima segretario cittadino, e, due anni dopo, vicesegretario regionale. Poco più tardi, a Roma, prese a lavorare nell´ufficio studi economici. La sua fama tardava a diffondersi. Non bastava a consolidarla il fatto di essere vicino, come idee, a Pietro Ingrao: gli ingraiani erano tanti.

Lo aiutò alquanto l´amicizia della Rossana Rossanda, e fu Luciana Castellina a procurargli un visto d´ingresso in Polonia dove si svolgeva un´assise di giovani comunisti. In casa di Alfredo Reichlin conobbe Enrico Berlinguer, senza ricavarne alcun pronostico sulla sua successiva, luminosa carriera.

Nel Pci si discuteva tanto. Fra i temi, il trauma causato dal XX Congresso, l´avvento di Krusciov. Non fu occasionale l´accoglienza che a Magri riservò il settimanale "Il Contemporaneo", diretto da Salinari e Trombadori, pubblicandogli vari pezzi polemici. Nel novero delle "bestie nere" di Magri era entrato, accanto al capitalismo che aveva acuito le sue riserve nella fase dc, il riformismo come una forma di inerte ipocrisia a sinistra.
Col tempo, nella galassia degli ingraiani più fattivi, il nome di Magri divenne di casa.


Ma non fu certo suo esclusivo merito l´evento cruciale che stiamo per raccontare. Porta la data del 23 giugno 1969 l´arrivo in edicola, a Roma, della rivista "Il Manifesto", che subito apparve un caso esemplare di eresia politica. Stampata a Bari dalla casa editrice Dedalo e diretta da Magri e Rossanda, il periodico è promosso anche da Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara, Luciana Castellina, Valentino Parlato. Sulle prime, Magri vorrebbe chiamarlo "Il Principe", ma poi rinunzia. In un suo volume, "Ritratti in rosso", Massimo Caprara descriverà i responsabili dell´avventura: «Rossanda lucidamente egemone, Pintor imprevedibile, Natoli rigoroso».

A Magri assegna un superlativo: «ferratissimo». Ma che cosa c´è scritto nella rivista-scandalo, il cui primo numero ha venduto 50 mila copie? Si riserva un devoto rilievo alla «rivoluzione culturale» cinese. Si biasimano certi anticipi di «compromesso» fra Pci e Dc. Sotto il titolo "Praga è sola", si tesse un elogio della "primavera" di quella capitale, che Mosca ha represso.


A Magri e Rossanda venne rivolto un vano invito a ritrattare. Rimbalzarono da "Rinascita" all´Unità" i preannunzi d´un "redde rationem" rivolto ai reprobi. La liturgia della repressione è macchinosa. Una Comissione, detta "la Quinta", presieduta da Alessandro Natta, delibera la soppressione della rivista, ma la decisione viene delegata al Comitato centrale, dove Rossanda difende con dignità le posizioni del Manifesto.

Alla fine, lo stesso Comitato centrale delibererà - è ormai il novembre ´69 - la «radiazione» dal Pci della stessa Rossanda, di Pintor e Natoli. Pene equivalenti vengono comminate a Caprara, Castellina e Parlato. Un analogo «provvedimento amministrativo» (vaghezza del lessico repressivo!) è applicato ai danni del "ferratissimo" Magri.

Fine anni Cinquanta: fuori dalla Dc. Fine anni Sessanta: fuori dal Pci. Ma di Lucio Magri si continuerà a parlare. Almeno un po´. Nel settembre del 1977, sul Manifesto, egli attacca Berlinguer per la sua decisione di reprimere chiunque si collochi alla sinistra del Pci, e questa sua protesta trova l´appoggio di Norberto Bobbio (è Giuseppe Fiori a ricordare l´episodio nella sua biografia del leader sardo). Alla sinistra del Pci, egli di fatto era collocato, avendo assunto la segreteria del Pdup, partito di unità proletaria, con il quale il gruppo del Manifesto s´era fuso. Nel 1984 lo si ritrova daccapo nel Pci, quando il Pdup vi confluisce. Sempre in Parlamento, a volte in questo o quel vertice di partito.


Fino alla finale dissoluzione del Pci, Rimini, febbraio 1991. La scena mostra la patetica assise nella quale per pochi voti Achille Occhetto non viene eletto segretario del partito che subentrerà al Pci (vi sarà reintegrato poco più tardi). Chi era presente in quell´occasione conserva un´immagine di Lucio Magri. Lo ricorda in piedi, mentre, apprendendo l´esito delle votazioni, agita il pugno chiuso e scandisce un antico slogan: «Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-tung!».


ottobre 2009,la Rossanda recensisce il libro di Magri "Il sarto di Ulm" e ce lo ricorda.

Appuntamenti mancati

di Rossana Rossanda, dal manifesto

La parabola della sinistra dallo scontro nell'XI congresso al Sessantotto, al compromesso storico di Enrico Berlinguer, quando il maggior partito della classe operaia chiude gli occhi sulla società italiana, aprendo così la strada al suo scioglimento. «Il sarto di Ulm» di Lucio Magri, diario di una crisi tra passato e presente

Il sarto di Ulm di Lucio Magri (Saggiatore, pp. 442, euro 18) è una riflessione seria e serrata, forse la prima, sulle scelte che hanno guidato il Pci dalla seconda guerra mondiale sino alla fine. Volontaria. Altro sarebbe stato imporsi nell'89 una riflessione di fondo su di sé, altro dichiarare la liquidazione. Magri ne cerca le cause nella problematica che si apriva negli anni Sessanta e nelle divisioni del gruppo dirigente davanti ad essa. Questa è la tesi de Il sarto di Ulm. Lucio Magri è una figura singolare. Era entrato nel Pci negli anni Cinquanta, poco più che ventenne, alle spalle l'esperienza della gioventù democristiana a Bergamo, assieme a Chiarante, nella temperie dei Dossetti e soprattutto di Franco Rodano, figura atipica di cattolico acuto e fuori dei ranghi. Viene accolto nella segretaria di Bergamo e poi nel regionale lombardo, e di là scenderà a Botteghe Oscure. Quando entra nel Pci molto è avvenuto dal 1945. L'Italia ha avuto una grande resistenza, nessun tribunale alleato ha processato i suoi crimini di guerra, il Pci ha partecipato da una posizione forte alla Costituente, il più della ricostruzione è stato fatto, e anche del partito. Era ancora sotto botta per il 18 aprile, quando un folle attenta alla vita di Togliatti. Attentato che suona, e non era, comandato dal governo, gli operai occupano le fabbriche in uno sciopero generale illimitato. Togliatti e Longo ordinano il ritorno al lavoro. Il furore di quella massa di operai è qualcosa che chi l'ha vissuta non scorderà: non era la conclusione di una protesta ma la dura introiezione d'un limite che non si sarebbe potuto superare. Togliatti lo subiva o ne profittò? I fatti militano per la seconda ipotesi. Perché su di esso - obbligato dai rapporti di forza mondiali, e confermato dall'infelice guerriglia greca - fondava la scelta del partito nuovo e lo innestava del «genoma gramsciano». E' il tema della prima parte del volume; l'analisi di Magri è persuasiva. Anche se si può discutere su Gramsci, e non per le speculazioni sulla prima edizione delle opere che - Magri ha ragione - rese accessibili i «Quaderni», ma per la curvatura del gramscismo assunta dal partito, la lunga sottovalutazione della «sovrastruttura» avendo indotto all'offuscamento della «struttura», sbrigativamente definita «economicismo». E si potrebbe discutere sul governo interrotto nel 1947, che Magri non conobbe se non per quanto si rifletteva nella Democrazia cristiana, alla quale oggi l'Istituto Gramsci preferirebbe che il Pci si fosse alleato da subito - ipotesi fantasiosa. E sulla Costituente, nella quale le scelte comuniste sull'art.7 fecero chiasso, mentre sulla pochezza delle proposte sul terreno economico non si sollevò sopracciglio alcuno.L'interpretazione che Magri ne dà nel 2009 è, grosso modo, quella che il Partito dette di sé con alcune sfumature critiche. Ne esce rafforzata, rispetto al giudizio che formulammo negli anni '70, la figura di Togliatti nella costruzione di un partito diverso da quello leninista, mirato a un rivoluzionamento dei rapporti sociali e «utilmente costretto» alla legalità. Non è un paradosso. Soltanto un punto non mi persuade: Magri considera obbligata e positiva l'adesione incondizionata all'Unione Sovietica, questione che, a distanza e visto l'esito, andrebbe discussa più che egli non faccia, salvo la nota (che è anche la più seria di François Furet): il leninismo non ha «lasciato eredità».Su quel legame ci sarebbe molto da chiedersi. Non se schierarsi dall'altra parte o restare neutrali nella guerra fredda; lo spazio di Tito in Italia non c'era. Ma si poteva mantenere - almeno dopo la svolta all'est del '48 - uno sguardo critico che, riannodando con gli anni Venti e con il pensiero di Lenin sullo stato, tenesse aperta una problematica che già presentava i suoi conti. Peggio di come è andata non poteva andare; Togliatti era un uomo accorto, non era scomunicabile, il suo partito era il più forte d'occidente e aveva frontiere strategiche. È che sperava ancora nell'Urss, come Isaac Deutscher, ma sbagliava, come Deutscher. Il 1956, conseguenza del '48-'49, segnava una spaccatura irrimediabile, non solo nell'estate polacca e nell'insurrezione ungherese (forse meno diverse di quanto Magri ritenga) ma nell'impossibilità di Gomulka o Kadar di riannodare un qualsiasi filo con le loro società.È vero che una critica al modello dell'est traspariva attraverso Gramsci, ma anche a Gramsci dovettero sfuggire le dimensioni del disastro fino al '34, quando Piero Sraffa poté parlargliene senza testimoni. Di quel che si dissero non sappiamo nulla. E non appare gran che, a distanza, la famosa intervista di Togliatti su Nuovi Argomenti e tragico il suo «non sapevamo, non potevamo sapere». Avrebbe aperto il discorso soltanto nel 1964, andando più a fondo di Berlinguer nel 1981, nel memoriale che voleva discutere con Krusciov. Ma in quegli stessi giorni morì. Il solo che ebbe il coraggio di pubblicare il memoriale fu Longo. Poi tutto si richiuse. E a Longo fu spesso informalmente vicino Magri negli anni seguenti - quando la sua testimonianza diventa diretta e, per così dire, interna corporis.Al centro stanno gli anni Sessanta. È allora che si decide la successione a Togliatti, e soprattutto che cosa deve essere il Pci quando il dopoguerra è finito, Kennedy sembra allentare la guerra fredda, la Chiesa si spalanca al Vaticano II, l'avanzata del Pci nel 1963 fa piangere Moro, la crescita è trainata dall'edilizia, le automobili e gli elettrodomestici, il paese ha cambiato composizione sociale con le grandi migrazioni e l'entrata delle donne nell'industria, mentre radio e tv sono ancora più mezzo di comunicazione che di spappolamento. E tutto questo in un crescere di popolo convinto di avere dei diritti e deciso a conquistarli con le sue braccia, il suo sindacato e il suo partito. Di questa, che è la vera egemonia dei comunisti, è prova la proletarizzazione dei contadini che vanno al nord. Sono loro a formare l'«operaio massa», sul quale disquisiremo assieme ai francesi André Gorz e Serge Mallet, la Cfdt più che la Cgt, agli inizi del decennio.Nel 1962, al Convegno sul capitalismo italiano del Gramsci si evidenziano due ottiche, quella di Amendola e quella di Trentin e Magri, appoggiata da Longo. Oggi Magri sottolinea i limiti delle posizioni difese anche da lui, ma è un fatto che per la prima volta viene contestata la tesi amendoliana di un capitalismo italiano torpido e tendenzialmente fascista. Così mentre la Dc capisce la dimensione del cambiamento, si apre al Partito socialista, e si affiderà d'ora in poi più a La Malfa che alla Coldiretti, il vertice del Pci si limita a constatare «bene, ora passano i socialisti, domani passiamo noi».Così mi accolse Botteghe Oscure nel 1963, e mi parve un umore delirante (se formalmente contavo più di Lucio, ne sapevo di meno, salvo qualche colloquio mattutino con Togliatti, che non era uomo da dire mezza parola più che non volesse. E che mi calò un fendente quando intervenni contro Amendola su «Rinascita»). Ma, per grezze che fossero, le critiche alla linea amendoliana non cessarono più e si andarono aggregando - Magri lo descrive esattamente - in modo informale attorno a Ingrao, che è tutto fuorché un capocorrente. Ad ogni modo il Pci al centrosinistra non aderisce e non sabota. Ma Togliatti si è appena spento che Amendola propone di cancellare l'errore del congresso di Livorno e unificare Pci e Psi.Inimmaginabile Togliatti vivente. Il Partito sobbalza, il gruppo dirigente non approva ma non attacca. Amendola non pagherà alcun prezzo. Da allora all'XI Congresso, due anni, il partito è determinato a distruggere qualsiasi alternativa al centrosinistra nel quale punta a inserirsi da una posizione forte: Ingrao, che non non è d'accordo, è il bersaglio. Al congresso Ingrao oppone all'unificazione fra Pci e Psi un coinvolgimento delle sinistre dei partiti e dei sindacati e i movimenti sociali nonché la breccia aperta, più che nella Dc, fra i cattolici - solo possibile blocco storico delle «riforme» di struttura. E termina con il diritto al dissenso, accolto da un'immensa ovazione della sala e da un immenso gelo della presidenza. Seguirà un fuoco di contestazioni, il suo isolamento e la diaspora dei sospetti di ingraismo. Magri, non difeso da cariche elettive, viene scaraventato fuori.Oggi egli considera che è stata la domanda di legittimare il dissenso a riuscire indigeribile per le Botteghe Oscure. Ne dubito, il dissenso più clamoroso era venuto da Amendola, e senza conseguenze per il reo. La resistenza più spessa, come diranno gli anni seguenti, è di linea. E comporterà il progressivo perdere di peso di Longo.Sul quale cadono due sessantotto, quello degli studenti e quello cecoslovacco. Non è vero che il Pci abbia favorito il primo, non fosse che per la differenza radicale di cultura, ma è vero che non lo ha attaccato. Amendola e Sereni obiettano, ma le federazioni si sono aperte agli studenti e Longo li riceve. L'anno seguente, quando esplode l'«autunno caldo» in contenuti e forme del tutto fuori dalla tradizione del partito e del sindacato, il Pci è occupato nel cacciare «il manifesto», pratica che il segretario avrebbe volentieri evitato. Già l'anno prima si erano dovuti registrare molti voti contro le Tesi del XII congresso, in centro e in periferia, e il districarsi malamente dall'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Ed è con questo pretesto che il manifesto viene fatto fuori. E' di Magri l'editoriale «Praga è sola» nel settembre 1969 e saremo radiati in capo a tre comitati centrali.Magri spende poche parole sul «manifesto», ma senza di lui non sarebbe nato, come senza Pintor non avremmo il giornale. Non credo per le divisioni e amarezze che conoscemmo nel tempo: sono passati quarant'anni da quando fummo messi fuori dal Pci e una trentina da quando alcuni di noi separarono il giornale dal Pdup. Anni che non hanno risparmiato nessuno. La verità è che gli iniziatori del «manifesto» sono stati sconfitti nell'essenziale: non ci è mai bastata la buona coscienza, volevamo cambiare il corso delle cose, e la strada più percorribile sembrava quella di costringere, da dentro o da fuori, il Pci a elaborare i fermenti del '68 e del '69; insomma indurvi un cuneo profondo. Questo avrebbe salvato il comunismo da pesanti continuità e salvato dalla fragilità e dalle derive le spinte del '68 e del '69. Magri sperò che saremmo stati per il Pci come il Vietnam per gli Stati Uniti, Pintor puntò sul quotidiano come la forma politica più capace di penetrazione, i compagni spinsero per mietere un trionfo nelle elezioni del '72. Non mietemmo trionfi, non dividemmo il Pci, non costruimmo fuori di esso una grossa alternativa. Oggi Magri riconosce le ragioni di Natoli, che si oppose a ogni accelerazione, insistendo perché lavorassimo sui tempi lunghi. Concordo. Ma avremmo dovuto essere assieme più compatti ed aperti. Magri vide via via nel manifesto delle concessioni all'estremismo che avrebbero impedito ogni ascolto nel Pci, io vedevo nel Pci un ostinato chiudersi alle forze che dovevano esserne il blocco sociale moderno. Minacce di intervento esterno erano ormai da escludere. Sta di fatto che dagli anni Ottanta il Pci tracolla, nessuna sinistra fuori di esso riesce a durare, il manifesto scivola verso la figura attuale di libero giornale di diverse opinioni. Poteva non andare così, sostiene Il sarto di Ulm. Anzi per quanto riguarda il Pci, forse non è andata così fino alla morte di Berlinguer. Che aveva accumulato molti errori, specie con il compromesso storico e la politica dell'unità nazionale, ma nel 1979 tentò una svolta di 180 gradi, e ne fu impedito dalla maggioranza del gruppo dirigente. Magri rifiuta la tesi che fa delle Brigate Rosse l'artefice del suo destino: uccidendo Moro avrebbero precluso al Pci la strada al governo. Moro - egli ritiene - al governo non ve l'avrebbe portato, né andarvi gli avrebbe evitato la crisi, che veniva dal non intendere il mutare delle condizioni interne e internazionali. I fatti parlano: se la scelta del '73 a lungo covata (e Il sarto di Ulm lo documenta) era già «senza avvenire», l'astensione del 1976 al governo Andreotti è uno sbaglio rovinoso. Come la sordità ai movimenti sociali, anche più convulsi: per inaccettabili che fossero i gruppi armati, bisognava chiedersi perché si fossero formati allora. E che senso aveva gettare sul '77, che rovinoso non era, l'accusa di diciannovismo? Più grave è nel Pci di allora la ormai insufficiente attrezzatura intellettuale e il dubbio su di sé. Se si aggiunge che le scelte diventano interamente di vertice e affidate a diplomazie segrete e snervanti, è chiaro che Berlinguer cerca di cambiar rotta fuori tempo massimo.Volere o no una riflessione seria riporta al '64 e al '66. E il metodo seguito da Magri - l'attenzione ai mutamenti internazionali, macroscopici dal 1974 in poi, e alle condizioni interne, sociali e di governo - lo porta a prenderne atto. L'89 segna una conclusione, non un capovolgimento. Anche se egli cerca fino all'ultimo i margini che eviterebbero la catastrofe: il documento del 1987, in appendice al volume, poco prima della caduta del Muro, è ancora una proposta. Che non trova portatori, come non li troverà la sua relazione ad Arco, sulla quale Ingrao scarta. E comincia male la vicenda di Rifondazione comunista.La domanda che il suo lavoro induce è fino a quando c'era realmente tempo e se il materiale, di cui era fatta la proposta di cambiamento non era logorato. Lo era, risponderei oggi al compagno ed amico di tanto lavoro e tante zuffe. E a me stessa. Magri no, pensa che non tutto era giocato, anche se il suo giudizio su Berlinguer è non meno definitivo del mio. Specie sugli anni '70 e i guasti che vennero dal compromesso storico, al quale non si oppose nessuno, salvo un Longo inascoltato, e c'è chi lo difende ancora. Il gruppo dirigente che bloccò il tardivo cambio di politica del segretario nel '79 ne è un frutto. Berlinguer che va ai cancelli della Fiat, in appoggio a un movimento destinato a perdere, pare a me l'immagine di una solitudine. Sbagli, oppone Magri, era determinato; e non aveva con sé Lama ma la base popolare del partito. E la leva giovane? Gli Occhetto? Obietto. Così continua fra noi la discussione di una vita.



Suicidio assistito in Svizzera. Il triste addio di Lucio Magri

La morte di Magri annunciata stamane sul sito de "il manifesto"




fonte: La Stampa

Il suo giornale, "il Manifesto", racconta l’ultima scelta: «La vita gli era diventata insopportabile, sia sul piano politico che su quello personale, specialmente dopo la scomparsa della sua compagna». Magri se ne è andato così ieri sera, a 79 anni (era nato a Ferrara il 19 agosto del 1932), venti anni dopo la fine del Pci, il "Gran Partito" che nel 1970 lo aveva radiato insieme allo storico drappello de "Il manifesto".

Di quel gruppo dissidente Magri era tra i più intellettualmente raffinati. Il suo ultimo atto pubblico è stato, pochi mesi fa, proprio ricordare i venti anni dalla morte del Pci, partito a cui aveva dedicato una personalissima ricostruzione storica che prende il titolo da una poesia di Bertold Brecht: «Il sarto di Ulm». Lo aveva concluso, con fatica ma con una scrittura densa, meditata e alta, come ultimo atto d’amore verso il partito e verso la sua amatissima Mara, la compagna morta tempo fa. «Il sarto di Ulm» è infatti un bilancio d’amore verso l’idea centrale della vita di Magri - il comunismo - e come tutti i bilanci contiene le ragioni dell’altro filtrate dalla densità regalata dagli anni. Ma non si tratta di una autobiografia. La scelta di quel titolo non fu né casuale né senza un preciso significato: il celebre apologo di Brecht era stato evocato da Pietro Ingrao quando Achille Occhetto, nel novembre del 1989, volle dissociare il Pci dal comunismo che stava crollando proprio in quelle settimane.

Il sarto di Ulm era un artigiano di nome Albert Ludwig Beblinger che già nel 1592 sosteneva di aver inventato un apparecchio che permetteva ad ogni essere umano di volare. Il vescovo della città lo invitò a provare pubblicamente la sua scoperta lanciandosi dal campanile della città. Lo schianto fu mortale e il vescovo sentenziò: «Mai l’uomo volerà». L’apologo-titolo utilizzato da Magri per raccontare il contrastato amore con il comunismo era polemicamente chiaro dato che l’essere umano, tre secoli dopo l’avventura solitaria del sarto di Ulm, era riuscito a volare. Un modo per dire che se il comunismo del XX secolo, così marchiato dalle stigmate del secolo, si è schiantato al suolo, il futuro dell’ideale e di quel nome non è esaurito con la fine di una esperienza storicamente determinata. Per raccontare questa metafora però Magri stila il suo personale bilancio non nei cieli delle idee o attraverso ripensamenti teorici ma riattraversando con tanti episodi, nodi, date, fatti, volti e grazie ad una rigorosa «disciplina della memoria». Si tratta di una serie di «nodi», di «biforcazioni» che se valutate adeguatamente all’epoca avrebbero evitato lo schianto del 1991.

Un esempio: nel 1962 Magri si prese i duri rimbrotti dei vertici del partito per aver richiamato l’attenzione, ben prima di Pasolini, sulla forza della «rivoluzione passiva» avviata dalla diffusione del consumismo neo capitalista. Il fascino di quel complessivo bilancio che è insieme politico ed umano è che è condotto in mare aperto non avendo più porti dove tornare, rotte da seguire, approdi da raggiungere. Magri venne emarginato dal Pci dopo l’XI Congresso, quello del 1966 insieme a quel piccolo gruppo di giovani che ruotavano attorno a Pietro Ingrao e e che rappresentavano la ’sinistrà del partito. La sue scelte, influenzate fortemente dal contesto internazionale con l’emergere della esperienza cinese, lo portarono alla rottura insieme a Rossanda, Natoli, Pintor, Castellina ed altri. Si spese prima per la nascita del quotidiano (che era la non scontata evoluzione del mensile teorico-politico) e poi nella nascita del Pdup, fondato nel 1974. Nel 1984 tutto il partito era rientrato nel Pci. Quando nel 1991 Occhetto cambiò il Pci in Pds Magri aderì al Partito di Rifondazione comunista, fondando una piccola corrente interna. Nel giugno del 1995 la sua corrente lasciò il partito per sostenere il governo Dini e divenendo Movimento dei Comunisti italiani. Negli ultimi tempi ai più intimi dichiarava solo una volontà: raggiungere M

Sono già 30 gli italiani che nel 2011 hanno bussato alle strutture svizzere che offrono la dolce morte, cioè un’assistenza al suicidio. Diciotto di questi sono stati "convogliati" alla clinica Dignitas di Zurigo dall’associazione Exit Italia, che si pone come tramite tra gli italiani che hanno deciso di ricorrere al suicidio assistito e la struttura sanitaria svizzera dove questo è permesso, con l’assistenza dei medici.

La scelta eutanasica di Magri ha scatenato inevitabili polemiche tra chi chiede di rispettare comunque la sua volontà e chi attacca la strada della «dolce morte». Critica Paola Binetti (Udc): «Rispetto la persona, ma mi auguro che questa scelta non diventi un modello». Resta, dice, «il mistero della libertà umana», ma «mi auguro che non ci sia il fenomeno del contagio di quando certe scelte sono compiute da un uomo pubblico». Per Gaetano Quagliarello (Pdl), «non è possibile pretendere che scelte personali, che ritengo in contrasto con il diritto naturale, le compia lo Stato». Si dice «molto addolorato» l’ex ministro Gianfranco Rotondi, che però aggiunge: «Onestamente non riesco a nascondere il rammarico per una scelta che non posso comprendere, ma della quale è opportuno non parlare per evitare che il dibattito ideologico si sovrapponga al doveroso omaggio che la democrazia italiana deve a questo protagonista assoluto della vicenda democratica italiana».

Difendono invece la scelta di Magri Mina Welby e Beppino Englaro, protagonisti a loro volta di scelte drammatiche: per la moglie di Piergiorgio Welby «la scelta dell’individuo è l’unica cosa che conta», quindi «non ci sono critiche da fare, solo massimo rispetto». È d’accordo il papà di Eluana: «Nessuno può entrare nella coscienza di una qualsiasi persona. Questo signore evidentemente ha esercitato il primato della sua coscienza. È tutto lì. E tutto si riassume in queste parole, nel primato della coscienza personale, che non può essere messo in discussione da nessuno sulla faccia della terra». E se Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, dice di provare «un profondo sentimento di pietà per la drammatica decisione di Lucio Magri di togliersi la vita», la radicale Antonietta Farina Coscioni attacca: «Magri riteneva intollerabile vivere, per porre fine al suo dolore, ha però dovuto "emigrare", un viaggio con un biglietto di sola andata, in Svizzera. Questo perchè viviamo in un Paese dove vige una regola ipocrita, quella del "si fa ma non si deve dire"».

Capire il capitalismo finanziario


Denaro-denaro-denaro: il ciclo della finanziarizzazione


Oggi tocca all’Italia seguire le richieste della Banca europea, dell'Fmi, della Commissione della UE, cioè della finanza, per scivolare lentamente in un remake aggiornato del film di Atene

C’è un po’ di terrorismo in chi è contrario al fallimento nel descriverne gli effetti. Mi è chiaro che giungere a una qualche forma di fallimento non è come bere una tazza di caffè, ma il problema non è questo, il tema è: se ne può fare a meno? Una risposta a questo interrogativo presuppone una qualche considerazione sulle trasformazione del capitalismo. Un po’ mi devo ripetere, mi scuso.

Si sostiene che la crisi attuale è una crisi da eccessiva capacità produttiva e da mancanza di domanda solvibile. Due osservazioni: da una parte questa interpretazione è contraddittoria con l’osservazione che la crisi prende corpo da un eccesso di domanda a “credito”, quindi non la domanda ma la sua finanziarizzazione è il problema; dall’altra parte è vero che c’è una crisi di domanda dato che la popolazione viene continuamente tosata per far fronte alle ingiunzioni della finanza.

È necessario riflettere che la finanziarizzazione dell’economia non è solo una evoluzione del capitalismo ma la modificazione della sua natura. Il processo è passato dalla proposizione denaro-merce-denaro (D-M-D), attraverso il quale il capitale, con una distribuzione non equa del valore prodotto tra capitale e lavoro, accumulava ricchezza, a quella odierne denaro-denaro-denaro (D-D-D), che senza la “mediazione” della produzione di merci (e servizi), permette di accumulare ricchezza (in poche mani).

Si rifletta sui seguenti dati mondiali: il PIL ammonta a 74.000 miliardi; le Borse valgono 50.000 miliardi; le Obbligazioni ammontano a 95.000 miliardi; mentre gli “altri” strumenti finanziaria ammontano a 466.000 miliardi. Risulta così che la produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari. Quanto uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della “ricchezza” finanziaria che circola. Questo dato quantitativo ha modificato la qualità dell’organizzazione economica: mentre resta attiva la parte di produzione materiale si è sviluppata un’enorme massa di attività finanziaria che mentre trent’anni fa lucrava sul “parco buoi”, nome affibbiato a chi affidava alla borsa i propri risparmi nella speranza di arricchirsi, ora lucra sui popoli che da una parte sono sottoposti a una distribuzione non equa di quanto producono (gli indipendenti sono poco tali e sono entrati nella catena allungata del valore aggiunto) e, dall’altra parte, sono tosati (più tasse e meno servizi) in quanto cittadini.

Si tratta di un mutamento che investe la produzione, la distribuzione della ricchezza, ma anche il processo politico e la stessa, tanta o poca che sia, democrazia. Quando la ricchezza si produce attraverso la mediazione della merce era attiva dentro lo stesso corpo della produzione, una forza antagonistica che cercava di imporre una diversa distribuzione della ricchezza prodotta e l'affermarsi di diritti di cittadinanza. Nessun regalo, conquiste frutto di lotte, di lacrime e sangue. Al contrario quando diventa prevalente il meccanismo finanziario, si scioglie il rapporto tra capitale e società, e diventa impossibile ogni antagonismo specifico. Tutto si sposta sul piano politico, un bene e un male insieme. Un male perché manca una cultura alternativa, tutti viviamo entro la dimensione liberista e del mercato, un bene perché è possibile andare alla radice del problema.

È diventato senso comune che il mercato (finanziario) vuole sicurezza e credibilità! È una parte molto modesta della verità. La speculazione finanziaria da se stessa, data la massa di risorse che muove, e le tecnologie che usa (gli High Frequency Trading – HFT – che muovono due terzi delle borse), si crea autonomamente le occasioni di successo per speculare. Come ha scritto Prodi “i loro computer scattano tutti insieme, comprano e vendono gli stessi titoli e forzano in tal modo il compimento delle aspettative”. Contrastare la speculazione, come lo si sta facendo, significa solo offrirle alimento continuo. Si può fare più equamente, e sarebbe importante, ma questo non intaccherebbe il meccanismo. Bisogna colpire direttamente la speculazione al cuore, toglierle l’acqua nella quale nuota. Certo che ci vorrebbe un’azione comune a livello internazionale, ma l’elite politica e tecnica è figlia ideologica, qualche volta non solo ideologica, del liberismo e della finanza; ambedue si possono “criticare” ma non toccare, bisogna farli “operare meglio”. Come ha scritto Halevi, le maggiore banche tedesche e francesi sono piene di titoli tossici, messi in bilancio al loro valore nominale mentre valgono zero, ma il sistema (la governance europea franco-tedesca) difende le banche tedesche e francesi, mettendo in primo piano i debiti sovrani e le banche dei paesi sotto tiro (e quando toccherà alla Francia? Perché toccherà!).

In sostanza il sistema non si tocca; si possono punire, anche severamente, come in America, chi la fa grossa, ma poi si finanziano le banche, né si riesce a mettere una qualche freno (amministrativo, fiscale, legislativo, ecc.) alla speculazione. Come l’apprendista stregone che non riesce a gestire le forze che ha scatenato.

Non voglio dire che il sistema è al collasso, ma è sulla strada; ci vorrà tempo (anche secoli secondo Ruffolo) e ci vorranno forze, ma si coglie “una condizione di insoddisfazione diffusa, di generale incertezza e di sfiducia e timore del futuro”.

La Grecia ha fatto tutto quello che le era stato richiesto, licenziamenti, diminuzione di stipendi, tagli, ecc. ed è giunta, di fatto al fallimento (controllato). La speculazione finanziaria ha aggredito la Grecia, ha tosato la popolazione, ha scarnificato la società. Il furbo Papandreu ha tentato la mossa democratica del referendum, è stato redarguito, bastonato ed ha fatto marcia indietro.

Oggi tocca all’Italia (un po’ alla Spagna, domani la Francia, nessuno è al riparo. La finanza non ha patria, non ha terra, non ha sangue), che si appresta (con serietà, si dice) a seguire le richieste della Banca europea, del Fondo monetario, della Commissione della UE, cioè di fatto della finanza, per scivolare lentamente in una versione diversa della Grecia. Ha senso? Certo che no, ma la questione è: ha senso una politica keynesiana? Ha senso una più equa distribuzione dei sacrifici? Ha senso pensare a risposte più “riformiste” e civili alle indicazione della Banca europea? Ha senso pensare ad operation twist (di che dimensione dato l’ammontare del debito italiano), proposta da Bellofiore e Toporowski? senza con tutto questo intaccare il potere e la capacità operativa della speculazione (che costituisce parte strutturale del sistema)?

Credo di no, e mi domando: è necessario continuare ad avere la Borsa che ha perso ogni originale funzione? È possibile dividere le banche che fanno finanza da quelle della raccolta e collocamento del risparmio? È possibile avere una banca europea che operi come una banca nazionale? È possibile avere un governo europeo, non solo economico ma generale? È possibile tassare le rendite e i patrimoni? Ecc. Tutto è possibile ma poche cose sono probabili.

Qual è l’ottica con la quale un governo di centro-sinistra (che si dice probabile) deve guardare alla situazione? Certo c’è da ricostruire il senso della società, come dice Rosy Bindi, c’è da ricostruire un ruolo internazionale, c’è da rilanciare lo sviluppo (sostenibile, equilibrato, ambientale, risparmiatore, ecc. lo si qualifichi quanto lo si vuole), c’è da affrontare il problema del lavoro di giovani, donne, precari, disoccupati, c’è da occuparsi di scuola, sanità, territorio, ecc. La domanda è: tutto questo è fattibile insieme al pagamento del debito? Qualcuno (Amato) parla di una patrimoniale di 300-400 miliardi per ridurre drasticamente il debito. Bene, ma tutto il resto come lo si fa? Sacrifici, per piacere no, riforme impopolari per piacere no, e non solo per collocazione politica ma perché inutili e dannosi per fare tutte le cose elencate prima.

Penso che bisogna mettere mano al debito. Il come, dipende da volontà e forza: un concordato con i creditori (via il 30%); una moratoria di 3-5 anni; differenziato rispetto alle persone fisiche e alle istituzioni (le banche che hanno in bilancio titoli tossici potrebbero benissimo tenersi anche i titoli sovrani, con buona pace del Cancelliere tedesco), ecc. La patrimoniale certo che ci vuole, ma dovrebbe servire ad avviare tutte le altre cose, così come una ristrutturazione della spesa pubblica (spese militari, ecc.) potrebbe liberare risorse. Mentre la lotta all’evasione (mancati introiti per 120 miliardi l’anno) e alla corruzione (60 miliardi l’anno) potrebbero servire alla diminuzione delle imposte dei lavoratori. Insomma ci sarebbe tanto da fare, ma bisogna in parte, in toto, o per un certo numero di anni, liberarsi del debito.

Non dovrebbe essere una iniziativa europea? Certo, ma in sua mancanza facciamo da soli, non c’è da salvare una astratta Italia, ma una concreta popolazione di uomini e donne. Questo è il tema.

Oggi ci avviamo al governo del “grande” Mario; che si tratti di persona onesta e retta è molto probabile, ma è il suo pensiero che preoccupa, un pensiero tanto forte quanto inefficace.

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I dieci giorni clou dell'euro: ecco come la Germania potrebbe affondarlo definitivamente


fonte: Repubblica online

Iniziano i dieci giorni che salveranno o sconvolgeranno l´Europa e il mondo, e Berlino è l´epicentro del ciclone. Per Angela Merkel il tempo stringe, deve scegliere se intestardirsi nell´ortodossia rigorista o concedere più poteri di soccorso alla Bce. Sarebbe una concessione grossa, ma i falchi alzano la testa. Un piano per l´abbandono dell´euro da parte della prima potenza economica europea è pronto.

L´ha elaborato Dirk Meyer, professore all´università Helmut Schmidt di Amburgo, l´ateneo più prestigioso della Bundeswehr, le forze armate federali. Scenario fantapolitico, ma val la pena raccontarlo. Anche se intanto il governo suggerisce che, in cambio della riforma rapida dei Trattati Ue proposta coi francesi come somma di accordi bilaterali, «ci sarebbe nella Bce una maggioranza favorevole a interventi più decisivi sui mercati».

Il piano del professor Meyer è scandito in fasi concrete. Tutto comincerebbe un qualsiasi lunedì. A sorpresa, cittadini tedeschi e residenti nella Repubblica federale troverebbero ogni sede, filiale o sportello di banca chiusa: in quel giorno, gli istituti di credito esamineranno tutti i conti e depositi. La decisione è stata presa nel week-end da una seduta d´emergenza del governo. Passano 24 ore, martedì le banche riaprono.



Cominciano a distribuire alla clientela banconote euro diverse dalle altre, perché hanno una stampata di inchiostro magnetico, o a sostituire quelle non timbrate con le nuove. Alle frontiere della Repubblica federale, e nei movimenti di capitali, in ogni bonifico da e per oltre confine, cominciano intanto controlli severi ed efficienti.

Occorre evitare che stranieri, o tedeschi non residenti in Germania, tentino d´introdurre nel territorio nazionale banconote euro venenti da fuori, per cambiarle con quelle timbrate con l´inchiostro magnetico anti-falsificazione. Il processo di separazione è cominciato. Le banconote euro non timbrate cominciano a svalutarsi rispetto alle altre. Lo Stato aiuta le banche nazionali che hanno depositato investimenti, conti, patrimoni all´estero, anche nell´eurozona.

Poi viene il passo successivo: dopo circa due mesi dal timbraggio dei biglietti, la Germania annuncia la sua uscita dall´eurozona. Da sola, o insieme ad altri paesi, «euro-rinnegati». Magari Finlandia, Olanda o altri falchi monetari. Un altro lunedì di chiusura permette alle banche di convertire tutti i conti e depositi dall´euro, che diventa rapidamente una moneta più debole, alla nuova valuta, la quale si apprezza sull´euro del 25% in media. Tutti i tedeschi e tutte le persone o aziende residenti o con sede in Germania hanno diritto a cambiare. Finché la distribuzione della nuova valuta non è finita trascorre un anno, in cui gli euro timbrati hanno il loro ruolo di mezzo di pagamento col valore della nuova divisa.


Poi arriverebbe l´impatto dei costi. Per banche e assicurazioni, perdite fino a 225 miliardi, lo Stato forse dovrebbe provvedere. In tutto, costi tra i 250 e i 340 miliardi, cioè dal 10 al 14 per cento del prodotto interno lordo della quarta economia mondiale. Una mazzata per la Germania e per il mondo.

Ma restare nell´euro assumendosi i costi di una Transferunion (un´unione monetaria in cui eurobond o spese Bce o Fesf trasferiscano risorse dal nucleo duro forte ai paesi deboli) secondo il professore costerebbe di più, cioè 80 miliardi di dollari l´anno. Tesi estrema, ma anche l´istituto Ifo di Monaco ammonisce che l´euro con eurobond e più spese costerebbe a Berlino, tra finanziamenti e garanzie, 560 miliardi, quasi il doppio dei 306 miliardi di bilancio federale annuo.

domenica 27 novembre 2011

Euro in bilico, Italia commissariata




DEBITO FUORI CONTROLLO, SI RISCHIA L'INCIDENTE IN OGNI MOMENTO

di Superbonus, per Il Fatto

Ora che abbiamo scoperto che l'Italia paga per il suo debito a sei mesi come il Portogallo cosa succederà ? Probabilmente quello che è già accaduto agli altri Paesi europei che sono entrati nella fase terminale della crisi finanziaria. Martedì sarà il giorno della verità quando il Tesoro emetterà 8 miliardi di Btp sperando che qualcuno se li compri, una speranza molto labile perché venerdì nessuno voleva acquistare i due miliardi di Ctz con scadenza 2013.

La legenda della solidità delle banche italiane si basa sul presupposto che esse riescano comunque a raccogliere denaro pagando tassi d'interesse ragionevoli. Ma alcuni istituti di credito non hanno più accesso al mercato internazionale e presto dovranno rivolgersi alla clientela italiana offrendo tassi superiori di del 4 o 5 per cento a quanto incassano sui mutui erogati.


Quanto potranno andare avanti in questa situazione? Da mercoledì in poi ogni giorno sarà quello buono per andare in crisi di liquidità e chiedere con urgenza una linea di credito internazionale. Al Tesoro sperano che sia la Bce a comprare i nostri titoli di Stato stampando tutti gli euro che saranno necessari a coprire la nostra offerta.



Ma per il momento questa soluzione non è praticabile: la Germania non ha alcuna intenzione di aumentare la massa monetaria e importare inflazione per mantenere l'insostenibile stile di vita italiano e spagnolo, non ha intenzione di allargare i cordoni della borsa senza una contropartita senza un'effettiva e stabile cessione di sovranità che le consenta di controllare spese ed entrate di ogni singolo paese.

La modifica dei trattati per consentire l'intromissione di Berlino nella politica di bilancio degli altri Stati richiede troppo tempo e troppe discussioni, la strada più veloce è quella di affondarli per poi offrire loro un finto salvagente targato Fondo monetario internazionale. I tedeschi potrebbero consentire alla Bce di fornire liquidità illimitata al Fondo che a sua volta la presterebbe ai singoli stati con condizioni capestro.


Una volta accettata la linea di credito del Fmi per l'Italia si chiuderebbe la via di accesso al mercato, perché tutti i prestiti effettuati dal fondo sono ‘senior' cioè hanno il diritto ad essere pagati prima di ogni altra obbligazione dello Stato debitore. Con questa condizione chi comprerebbe più un Btp?

Il fondo costringerebbe l'Italia a privatizzare tutte le aziende e le infrastrutture pubbliche oltre che a varare a misure fiscali draconiane che deprimerebbero il paese per i prossimi dieci anni. Ma anche questo non servirebbe a tirarci fuori dai guai. Gli interventi del Fmi hanno avuto successo solo quando sono stati accompagnati da massicce svalutazioni della moneta del Paese in crisi, non si è mai verificato nella storia il salvataggio di un Paese a cambio fisso.


L'euro salirà presto sul banco degli imputati, colpevole di avere un'architettura e una governance arzigogolata e inadatta ai mercati moderni. Mario Monti è stato uno dei grandi sostenitori della moneta unica, un suo strenuo difensore e probabilmente non riuscirà a rinnegare le sue idee ed il suo passato.

Ma è inevitabile che le forze politiche aprano questa discussione che sarebbe opportuno passasse per una consultazione popolare. Il ricorso al Fondo monetario senza un dibattito democratico sarebbe, questa si, una sospensione prolungata della democrazia che potrebbe produrre conseguenze irreparabili sulla tenuta sociale del Paese.

V : liberiamoci del liberismo



Mr. V, la vendetta dei popoli avanza...





"C'è molto più che della carne sotto questa maschera. C'è un'idea, e le idee sono a prova di proiettile..."



Se qualcuno si fosse chiesto l'origine della maschera che sta invadendo il mondo della protesta globale, sappia che nasce dal graphic novel di David Lloyd e Alan More, adattata poi per il cinema: "V per Vendetta" è un profetico film del 2005 diretto da James McTeigue, di cui riporto il link qui sotto.

Il geniale film, tratto dal graphic novel "V for Vendetta", scritta da Alan Moore e
illustrata da David Lloyd, è stato adattato per il grande schermo dai fratelli
Wachowski.


Ecco il link per vederlo in streaming:http://www.megavideo.com/?d=V89CD361