venerdì 21 marzo 2014

La canonizzazione di Enrico.

AI FUNERALI DEL PCI. POSTED BY CANECATTIVO ON 20/03/2014, Di Fulvio Abbate.
Dai, cominciamo dalla tragica fine. Berlinguer, dopo morto, è diventato il Padre Pio di una sinistra che purtroppo o magari per fortuna non esiste più. Ergo, così come un po’ dovunque in Italia c’è modo di appezzare le statue dell’umile frate di Pietrelcina, sarebbe non meno auspicabile che ne fossero collocate altrettante dedicate a colui che nella memoria di molti resta come l’indimenticato segretario generale del Partito comunista italiano scomparso a causa di un ictus trent’anni fa a Padova, dopo un tragico comizio. Il modello del manufatto artistico? Semplice, a Fiano Romano, alle porte di Roma, cittadina che ha visto nascere la simpatizzante Sabrina Ferilli, ce n’è già una, perfetta: un Berlinguer di bronzo, la mazzetta dei giornali sottobraccio, l’Unità in bella vista sugli altri, perfetta rappresentazione del dirigente che sembra raggiungere la sala del Comitato centrale alle Botteghe Oscure. Il Veltroni che adesso gli dedica un film-documentario, Quando c’era Berlinguer (al di là del fatto d’avere dichiarato anni addietro di «non essere mai stato comunista», conquistando così la prima pagina di il manifesto insieme a D’Alema, con tanto di foto giovanili dei due, e il titolo «Facevamo schifo»), diversamente perfino dall’ultimo militante spassionato di allora, non ha mai posseduto neppure uno straccio di pensiero magico rivoluzionario, quello che invece il Pci, nonostante la sua burocrazia, nonostante i “figiciotti” complessati e moralisti come appunto Veltroni, custodiva in un ideale doppiofondo, al punto che, nonostante i mille inviti alla moderazione, ci si aspettava comunque da un momento all’altro il segnale dell’ora X: il lancio di una rivoluzione che instaurasse le premesse di una società socialista benché per “via nazionale”. Oddio, sinceramente parlando in termini di ricorso alle armi, lo stesso Berlinguer qualcosa aveva perfino fatto intuire, soprattutto quando si parlava di trame nere; lo ricordo come fosse ieri durante una tribuna elettorale rivolgersi all’interlocutore missino, forse lo stesso Almirante, e dire che «i comunisti avrebbero fronteggiato una recrudescenza neo-fascista con ogni mezzo», e qui c’era da immaginare i militanti uscire dalle sezioni imbracciando gli Sten per combattere i “fasci”, gli stessi che Gino Galli, in arte Gal, disegnava sui manifesti con i fez del ventennio. Quanto al resto, il palmarès politico di Berlinguer mostra una trafila di brutali sconfitte, fallimentare l’idea stessa del “compromesso storico”, terrificante per la tenuta del suo partito “l’unità nazionale”, con l’ossessione di incontrare le “masse cattoliche” (leggi: i gruppi dirigenti della Dc), e poi, in quel 1977, dopo la cacciata del capo del sindacato operaio della Cgil Lama dall’università di Roma e i fatti di Bologna, con i carri armati fra le Due Torri, ecco Berlinguer perfino inimicarsi le masse giovanili, accusando gli studenti di essere “untorelli”, senza contare il non rendersi conto che il discorso dei “sacrifici” era puro delirio in anni in cui proprio a sinistra si affermavano le “teorie dei bisogni”, perfino indotti, ma pur sempre bisogni, come spiegava Agnes Heller, l’allieva di Lukács, e invece Berlinguer lì, al teatro Eliseo di Roma, a chiedere l’Austerità, affermando che «la classe operaia dovesse farsene carico in quanto critica dell’esistente», per non dire dell’opposizione alla televisione a colori insieme ai repubblicani di Ugo La Malfa, ma qui il discorso si sta facendo fin troppo serio ed è meglio andare avanti, oltre, non prima di aver detto che con i socialisti di Craxi proprio non ci poteva essere intesa, assodato il carattere clientelare e paramafioso, al Sud e non soltanto, di quel partito ormai svuotato della sua anima nenniana. Ma il discorso sul Pci di Berlinguer potrebbe andare perfino oltre nell’elenco dell’incapacità del sistema Pci a comprendere i nuovi tempi; come non ripensare anche al moralismo bigotto che si respirava nelle sezioni ancora nei primi anni Settanta (sia detto da uno che a quel mondo ha dedicato un romanzo, Zero maggio a Palermo) così come paradossalmente era stato annunciato perfino dall’ottuso del fronte opposto, Guareschi, in Don Camillo e i giovani d’oggi, nel senso che con l’arrivo dei beat, come fai a tenere l’attenzione dei ragazzi con l’epica della Resistenza e della cospirazione antifascista e della lotta per l’occupazione delle terre? Non per nulla, sempre in quei giorni, le ragazze migliori, le più libere, le più scafate, ai coetanei della Fgci e del Pci, cioè ai Veltroni, non la davano affatto, preferendo scopare con quelli dei gruppi extraparlamentari, a scelta tra Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia eccetera. Questo nodo desiderante l’ha spiegato assai bene nel 1978 in un suo libro Mauro Rostagno: «C’è una specie di ossessione all’interno della sinistra italiana su tutto quello che non rientra nei programmi stabiliti trent’anni fa. Per cui i giovani devono andare alla casa del popolo, andare a fare i bagni, studiare, fare dimostrazioni quando Lama e Berlinguer o gli altri stabiliscono che quelle sono le scadenze fondamentali della vita nazionale. Tutto quello che non è compreso nel perbenismo – continuava Rostagno – nel buon senso è un nemico potenziale. Il ‘diverso da noi’ è infernale.» Tra i ricordi più crudeli e insieme toccanti di quegli anni? I compagni Minichini che sostenevano d’avere ospite in casa un guerrigliero cubano che era stato nella Sierra con Fidel e Che Guevara, e a me, che li imploravo di farmelo salutare, rispondevano: «Non si può, sta riposando». E poi “l’internazionalismo proletario” per il Vietnam, il Cile, e slogan come “IRA- feddayd-tupamaros-vietcong”, e ancora il pensiero ai compagni dell’ERP laggiù in Argentina, un infuocato immaginario concesso più per inerzia che altro. Più nulla è rimasto. E quanto all’Urss, le timidezze di Berlinguer sono un dato evidente – «La spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre si è esaurita» visto che era davvero troppo poco considerando che appena 5 anni dopo la sua morte il sistema del Patto di Varsavia collasserà. La pagina più “operaia” di Berlinguer, ossia la sua presenza a Mirafiori nei primi anni Ottanta, cui seguirà la sconfitta con la marcia dei quarantamila, viene sempre indicata come un errore politico da parte degli stessi esegeti del nostro. Il Pci in ogni caso era molto più di Berlinguer. Berlinguer muore nel suo momento di minor consenso, è bene ricordarlo, nello stesso frangente in cui nel Pci si pensa già a una successione, assodato il bilancio fallimentare dei suoi passi politici, e quel funerale cui il sottoscritto, in piedi tra la Scala Santa e via di Santa Croce in Gerusalemme, ha partecipato, non è altro che il funerale del Pci, in prospettiva di una sinistra che paradossalmente non ha saputo regalare la rivoluzione ai suoi sognatori. Forse, sarebbe stato molto meglio girare Quando c’era Luigi Longo, con le immagini di questi, giovane, in divisa di commissario politico delle Brigate internazionali sul fronte di Madrid, guerra di Spagna, 1936. Perfino Venedikt Erofeev, il meraviglioso Bukowski sovietico, lo cita in Mosca sulla vodka, sognando di venire in Italia per andare a dormire a casa sua. Lì, con Longo, almeno c’è un vero pensiero magico. Berlinguer è diventato il Padre Pio della defunta sinistra italiana, la più moralista, la meno erotica, la meno testosteronica. Jovanotti che nel film spiega Berlinguer parlando di “leggerezza” e di “ossa piccole” è la dimostrazione che la squadra del cretino ha vinto sulla non meno inadeguata équipe del resto del mondo. L’esistenza, anzi, la persistenza dei Veltroni ne è la controprova. Molti di coloro che in questi giorni hanno commentato il film e il politico davano la sensazione di parlare di Berlinguer e del Pci come se stessero trattando di un ellepi inedito di John Lennon feat. Fabrizio De André e gli Squallor. P.S. Per andare oltre, suggerisco la lettura del mio pamphlet Sul conformismo di sinistra (Gaffi editore, 2005), scaricabile gratuitamente in Rete da questo link. PP. SS. Nella foto, il militante comunista Fulvio Abbate, al Primo Maggio del 1972, Portella della Ginestra, Palermo.

lunedì 3 marzo 2014

Euro e finanza sono il fallimento delle élites.

3 marzo,di ENRICO PEDEMONTE, Lettera 99.
Crisi della delega.Una moneta mal progettata. Una libertà di muovere i capitali che favorisce le rendite e danneggia il lavoro. Una burocrazia europea sempre più lontana. E la sfiducia dilaga Una moneta mal progettata. Una libertà di muovere i capitali che favorisce le rendite e danneggia il lavoro. Una burocrazia europea sempre più lontana. E la sfiducia dilaga Jürgen Habermas lo va ripetendo da mesi: le élites politiche europee (in particolare quella tedesca) hanno fallito e il processo di integrazione politica dell’Europa è arrivato a un punto morto. Il filosofo tedesco lo ha scritto in un lungo saggio pubblicato nel settembre 2013, e lo ha ribadito in articoli e interviste, anche di recente su Le Monde. Parole pesanti le sue: le élites europee stanno mettendo la testa sotto la sabbia, inseguono progetti aristocratici senza coinvolgere i cittadini, hanno perso la legittimazione popolare anche perché in molti casi non sono state elette dal popolo ma solo nominate e questo ha fatto crescere un fossato ormai incolmabile. Un modo per giustificare la crescita dei movimenti populisti in Europa? Al contrario, una scossa per segnalare il problema: i partiti populisti hanno ragione quando dicono che l’Unione europea non ascolta i suoi cittadini. L’inadeguatezza delle élites europee fu la causa che scatenò la prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario quest’anno, dando l’avvio a una tragedia che durò oltre trent’anni. Una dimostrazione di quanto grave sia questo problema è fornita dalla trattativa in corso per la creazione di un’area di libero scambio Europa-Usa. Se i negoziati andranno a buon fine, nel giro di qualche anno esportare merci dall’Italia agli Stati uniti sarà facile come farlo tra due regioni qualunque dell’Europa. Apparentemente un risultato superbo: chi può schierarsi contro l’eliminazione delle barriere doganali? La narrativa che ci viene offerta è che un allargamento del mercato atlantico porterà benessere, aumento del Pil e nuova ricchezza. Oltreché la pace perpetua, naturalmente. Tutti contenti, dunque. Ma allora perché queste trattative procedono in modo rigorosamente riservato tra Bruxelles e Washington, e su di esse circola così poca informazione? Perché Obama si oppone alla richiesta (promossa da Harry Reid, capo dei democratici al Senato) di discutere nel merito di queste norme al Congresso? Si tratta di un'opposizione che probabilmente causerà lo slittamento delle trattative oltre le elezioni di novembre. Un giornale come l'Economist punta il dito contro la debolezza di Obama, che con questo gioco al rinvio causerebbe una perdita di ricchezza, per il mondo, di 600 miliardi di dollari. Ma c'è un'altra faccia della medaglia. Il trattato di libero scambio Usa-Europa avrà un significativo impatto su tutte le imprese, i lavoratori e i consumatori europei, cioè su tutti i cittadini: perché gestire le trattative in gran segreto? O meglio, perché nascondere questa discussione bilaterale agli occhi dei cittadini lasciando che a Bruxelles e a Washington siano le lobby economiche a occuparsene? Perché non è vero che tutte le categorie sociali ne trarranno vantaggio. Alcune ci guadagneranno e altre ci perderanno. Gli esperti dicono che alla fine la somma sarà positiva. Ma quali esperti, e in base a quali considerazioni? Certo, si tratta di un tema delicato di cui discutere in pubblico. Un tema specialistico, complesso, controverso. Ma il compito dei leader, delle élites politico-culturali dovrebbe essere proprio questo: semplificare i grandi temi, identificare gli obiettivi prioritari, mediare tra gli interessi di parte e quelli particolari. In altri termini: impegnarsi in battaglie culturali, e riuscire a vincerle. Invece nulla di tutto ciò avviene. Una trattativa che condizionerà il futuro dell’economia europea, specie quella italiana che dipende in modo rilevante dallo scambio con l’estero, è lasciata alle decisioni private di un gruppo di burocrati europei che non devono rispondere agli elettori. C’è da stupirsi se la credibilità delle istituzioni politiche è ai minimi storici, i movimenti populisti prosperano e il distacco dalle istituzioni europee cresce? In realtà di tratta di un cane che si morde la coda. Più le élites prendono le loro decisioni nel segreto delle loro stanze, a braccetto con le lobby, più aumenta la sfiducia collettiva. La lievitazione del fronte dei No, che blocca centinaia di cantieri in Italia (e non solo), nasce dal generale disprezzo nei confronti del potere costituito, dimostrazione concreta del fallimento delle élites nazionali. E il problema si fa più grave quando ci si sposta al di là dei confini nazionali. Perché negli ultimi decenni, mentre evolvevano i processi di globalizzazione, anche i meccanismi decisionali migravano all’estero, cooptati da organismi internazionali lontani dai cittadini, mai eletti direttamente dai popoli. Sono questi organismi che negli ultimi decenni hanno posto le basi della liberalizzazione dei mercati finanziari, e hanno progettato l’architettura istituzionale su cui è stato costruito il sistema dell’euro. C’è da stupirsi se il fallimento di queste scelte, decise da ristrette aristocrazie, sta portando a una rivolta che talvolta ha il sapore del populismo? Il tema del fallimento delle élites è stato rilanciato con forza (il 14 gennaio) da Martin Wolf, influente giornalista del Financial Times, in un editoriale che ha fatto scalpore. Secondo Wolf si possono citare almeno tre esempi recenti di questo fallimento storico. Il primo è stato l’aver sottovalutato le conseguenze della liberalizzazione del movimento dei capitali e della conseguente finanziarizzazione dell’economia mondiale, un fenomeno che da una parte ha ridotto gli incentivi a investire sul lavoro e dall’altra ha incoraggiato l'espansione del debito. L’incapacità di prevedere il disastro è stata micidiale, fino al paradosso che la crema della finanza ha dovuto chiedere di essere salvata con il denaro pubblico, cioè dalla povera gente. Il secondo fallimento è l’emergere di un’élite economico-finanziaria sempre più potente e sempre più estranea rispetto agli interessi dei paesi di origine. Una plutocrazia che ignora il concetto di cittadinanza e non risponde più né ai cittadini né alla democrazia. Perché salvare i ricchi con i soldi pubblici quando questi condividono così poco delle proprie ricchezze? Il terzo fallimento è costituito dall’euro, nato da una progettazione difettosa, che sta uccidendo le economie deboli ed è causa di migrazioni di massa e di debiti pubblici colossali. Oggi – dice Wolf – all’interno dell’eurozona il potere (oltre che in quelle della Germania) è nelle mani di un trio di burocrazie non elettive, la Commissione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale. Le stesse élites che non hanno previsto gli errori sono ora incaricate di risolverli. In realtà il fallimento delle élites potrebbe non essere un caso fortuito della storia. Recentemente due archistar dell’economia, Daron Acemoglu (del Massachussetts institute of technology) e James A. Robinson (dell’università di Harvard) hanno scritto un saggio (Persistence of Power, Elites and Institutions) nel quale analizzano come le élites, dopo aver visto decrescere il loro potere con la democratizzazione crescente del dopoguerra, si sono impegnate nella creazione di lobby per marcare la loro influenza sui partiti e sui governi e hanno sviluppato strumenti di potere de facto con i quali hanno apposto il loro sigillo sulle legislazioni locali e sulle norme internazionali. Lo stesso impegno è stato messo nel plasmare il sistema dei media perché è proprio attraverso il controllo della cultura collettiva che si manovra il potere. Nessuno si illude che le élites che governano le istituzioni si mobilitino per il benessere esclusivo della povera gente. Ma quando il risultato è il fallimento dell’intero sistema, come è accaduto negli ultimi anni, allora c’è il rischio che l’intero ordinamento politico collassi, esattamente come avvenne con la prima guerra mondiale. Non è un caso se quella guerra ebbe l’effetto immediato di distruggere la principale eredità del XIX secolo: la liberalizzazione degli scambi commerciali, con tutto quello che seguì. «La crisi europeai – dice Wolf – non è solo politica, è anche costituzionale.[…] Le élites devono fare meglio. Altrimenti la rabbia popolare le annienterà».

venerdì 28 febbraio 2014

Grande Bifo sull'era Renzi.

Lo scossone di Renzi e il collasso dell’Italia.
Il sentimento anti-renziano che circola nella sinistra italiana rischia di essere speculare al renzismo che ha preso in mano le redini del governo con impeto decisionista. Bersani rimprovera il giovanotto di non essere umile come se l’ipocrisia fosse una virtù politica. E si tende a contrapporre con risentimento i valori democratici del passato repubblicano alla brutalità del decisionismo giovanilista. L’ascesa di Renzi si è caratterizzata come una campagna biopolitica, o se vogliamo come una terapia anti-depressiva. In un paese stremato dalla depressione e dalla stanchezza è arrivato un vento di aggressiva energia. Come viene propagandato il nuovo vincitore? Non sappiamo niente del suo programma se non vaghe dichiarazioni contraddittorie, ma il punto non è il programma, bensì l’iniezione di sostanze toniche nel corpo affaticato e nel cervello sfiduciato del paziente depresso. Nel 1993, dopo Tangentopoli e nel pieno della crisi dissolutiva della Prima Repubblica, il giovane Silvio Berlusconi si rivolse al ceto politico chiedendo che si facesse avanti un giovane democristiano disposto a rinnovare l’Italia nel senso che piaceva a lui: libertà d’impresa, competitività, privatizzazione, riduzione del costo del lavoro, lavorare di più, e guardare molto le televisioni di mediaset. Promise il suo sostegno i suoi soldi e i suoi media, ma nessuno si fece avanti con soddisfacente energia. Si fece avanti un giovane fascista di nome Gianfranco Fini che si presentò alle elezioni del Comune di Roma. Berlusconi dichiarò che se fosse stato cittadino romano avrebbe votato per il fascista. Vinse Rutelli. Berlusconi capì che non poteva delegare a nessuno la difesa dei suoi interessi e discese in campo con l’energia scalpitante di un calciatore dichiarando il suo amore per il suo paese con la stessa faccia con cui un giovane spasimante si presenta alla famiglia per chiedere la mano della fanciulla amata. Il 27 marzo del 1994 la fanciulla Italia corse fra le braccia dell’energico spasimante e cominciò l’epoca barocca del liberismo gangsteristico. Ma venti anni dopo l’energico conquistatore si ripresenta invecchiato, rugoso e declinante, inseguito da condanne penali e processi in corso. Che deve fare, per difendere i suoi interessi e quelli del ceto finanziario gangsteristico che rappresenta? I tentativi di concludere la vicenda secondo la sceneggiatura immaginata da Nanni Moretti nel finale del suo Caimano non sono riusciti molto bene. Quando Forza Italia ha chiamato le folle a difendere il vecchio leader sono arrivate poche migliaia di vecchiardi inviperiti e qualche centinaia di giovani lettori di Ezra Pound a fare il saluto romano. Non funziona. Ora il vero delfino del vecchio gangster sbuca fuori dalle fila del partito democratico. E’ un giovane democristiano decisionista e moderno, ammiratore di Tony Blair. Proprio quello che Berlusconi non aveva trovato nel 1993. Renzi è la vittoria di Berlusconi, il trionfo finale del suo progetto, il compimento della sua opera e la conquista dell’eterna energia. Incarna gli stessi valori, ma lo fa con le mani in tasca, strizzando l’occhiolino ai trentenni massacrati da venti anni di baldanza berlusconiana e aggrediti dai diktat del ceto finanzista europeo. Non ha nessun programma, oscilla fra promesse di sussidio ai disoccupati, abbattimento delle residue protezioni del lavoro, e appelli alla competitività. Ma il programma non conta niente, quel che conta è il messaggio biopolitico di energia e aggressività. La maggior parte degli estimatori del nuovo vincitore dicono infatti che Renzi è uno scossone. E cos’è uno scossone? E’ il gesto di prendere il depresso per le spalle e scuoterlo forte, dicendogli: non buttarti giù, devi avere fiducia in te stesso, smettila di piagnucolare, sii uomo. E’ un’iniezione di anfetamina nelle vene del corpo depresso. Può funzionare? Probabilmente la conclamata alleanza tra Renzi e Berlusconi – biopoliticamente definita “sintonia” – aiuterà la stabilizzazione del sistema politico italiano, ma come potrà reagire il corpo della società italiana? Invecchiato da tassi di natalità sotto zero, con un esercito di sessantacinquenni che annaspano nelle acque come stremati nuotatori che non riescono a raggiungere la pensione perché si allontana ogni volta che credono di averla raggiunta, con un sistema industriale strangolato dalle banche ingrassate dalla rapina monetarista europea, con milioni di ventenni che sanno di non avere prospettive se non precarie, il corpo italiano è ora spinto verso un collasso cardiocircolatorio. Una banda di allegri fustigatori della pigrizia promettono ai giovani di trovargli lavoro in cambio di miseria. Il simbolo delle nuove politiche del lavoro sarà l’Expo milanese, dove migliaia di giovani potranno lavorare gratis. A imitazione della Germania felix dove sette milioni e mezzo di persone lavorano per 450 euro al mese. Quando si tratta di curare una depressione gli scossoni non servono a niente, se non a irritare il povero depresso che forse ha tutte le ragioni per essere depresso. La depressione, ci insegna Hilmann, non è una malattia, ma una condizione di vicinanza alla verità. La depressione va interpretata come un annuncio: abbiamo raggiunto il limite oltre il quale l’organismo collassa, e non possiamo continuare accelerando. La ripresa che ci promettono è solo la ripresa dei profitti, dello sfruttamento devastante delle risorse naturali, e la privatizzazione dei beni comuni. Se non si spezza la macchina finanzista la miseria dilagherà e la depressione si trasformerà in disperazione suicidaria. La depressione non si cura con l’anfetamina, ma con la rifocalizzazione, cioè cambiando scenario, cambiando le aspettative e le priorità, e soprattutto cambiando le forme di relazione. Come si traduce una terapia di rifocalizzazione in termini politici? Franco Bifo Berardi

venerdì 14 febbraio 2014

Bifo pro Tsipras.

Bifo: Con Tsipras contro l’assolutismo finanziario. di Franco "Bifo" Berardi.
Alexis Tsipras rappresenta la resistenza della società greca contro l’aggressione finanziaria, e questa è per me una motivazione sufficiente per dichiarare il mio appoggio alla lista che si presenta a suo nome alle elezioni europee, e per andarlo a votare. Ma quale scopo si prefigge questa lista? Se alle elezioni otterremo soltanto un pronunciamento della minoranza senile e tardo-gauchista (di cui faccio parte) a favore dell’unico giovane politico europeo che non sia moralmente corrotto e intellettualmente conformista, non sarà un grande risultato. Perciò assumendo l’impegno a costruire le condizioni culturali e politiche per un’affermazione di questa lista, dobbiamo ragionare sugli scenari che una campagna per Tsipras può aprire, agli effetti di ricomposizione culturale e sociale che si possono ottenere. Non ho alcuna fiducia nella democrazia rappresentativa. E’ ormai senso comune lo svuotamento delle istituzioni democratiche di fronte agli automatismi del capitale finanziario. D’altra parte l’Unione europea è costitutivamente un’autocrazia finanziaria, dal momento che le decisioni della Banca centrale europea sono sottratte alle deliberazioni del Parlamento. Dunque perché mobilitarsi, perché votare? La società europea è depressa, disgregata, rabbiosamente aggressiva. La campagna per Tsipras deve comunicare la possibilità di un processo unitario di solidarietà e di rivolta, di insolvenza e di indipendenza della vita quotidiana dalla dittatura finanziaria. Oppure non servirà a niente. Il processo di disgregazione dell’Unione europea è ormai troppo avanzato per poterlo fermare. Gli egoismi identitari eccitati dalla violenza finanziaria sono destinati a produrre i loro effetti devastanti. Non illudiamoci. La lista Tsipras può essere l’inizio di un processo di ricostituzione dell’Unione oltre la presente catastrofe, può riattivare un processo di solidarietà sociale e creare le condizioni per una ricomposizione culturale che vada oltre la crisi attuale, per una ridefinizione strategica dell’unione europea. Il problema non è l’euro Sempre più frequentemente, in Italia come altrove, si levano voci a favore dell’uscita dall’euro. E’ un’illusione pericolosa, anche se nasce da motivazioni ben comprensibili: l’unione monetaria europea ha sospeso la democrazia per imporre misure che la maggioranza respinge, e impoverito la vita di milioni di persone. Da quando esiste l’euro il salario è dimezzato, la spesa pubblica ridotta in maniera drastica, la disoccupazione cresciuta a livelli mai visti prima, mentre l’orario di lavoro non ha più limiti. D’altra parte questo non è che l’inizio, poiché gli effetti del fiscal compact e l’implacabile determinazione austeritaria sono destinati a spingere nella miseria una parte crescente della popolazione, con gli effetti politici che già si vedono: disfacimento della democrazia, disgregazione della solidarietà sociale, crescita dell’aggressività identitaria, nazionalista, razzista. Solo una visione assai miope può indurci a pensare che la causa della catastrofe sia l’unione monetaria europea, per cui sarebbe risolutiva l’uscita dall’euro, con il ritorno alle monete nazionali. La nascita dell’euro e la deriva finanziarista dell’Unione europea non sono spiegabili se non nel contesto della mutazione del capitalismo globale. Perciò occorre risalire a scelte che furono compiute un po’ prima dell’avvento dell’euro, e su un piano che non è soltanto monetario. Dobbiamo risalire alla condizione radicalmente nuova che si aprì alla fine degli anni ’70 per effetto di due fattori convergenti: la lunga ondata di lotta operaia che aveva provocato una distribuzione del reddito a favore dei lavoratori, e l’immensa rivoluzione tecnologica prodotta dalle tecnologie digitali. Occorre risalire a quella congiunzione, occorre ripensare l’alternativa che in quel momento si aprì, e occorre ricostruire i passaggi successivi che hanno reso possibile la controffensiva capitalistica di cui oggi vediamo gli effetti. L’appuntamento perduto Negli anni Settanta si conclude il secolo operaio e si apre la prospettiva dell’informatizzazione di ogni attività di manipolazione fisica e semiotica della realtà: la trasformazione tecnica che ha investito il processo di produzione non è priva di rapporto con la forza politica operaia. Fu il rifiuto operaio dello sfruttamento che costrinse il capitale ad accelerare i processi di automazione del lavoro, e fu la scolarizzazione di massa e i movimenti libertari degli studenti che resero possibile l’esplosione della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica. Ma la trasformazione tecnica aprì un’alternativa che non aveva solo carattere politico e sindacale, ma disegnava due prospettive per l’evoluzione della stirpe umana: la prima era quella dell’applicazione condivisa della potenza tecnica e di una riduzione massiccia, costante, strategica del tempo di lavoro. La seconda era quella di una gestione capitalistica unilaterale dell’innovazione tecnica e di un attacco globale alle condizioni del lavoro, con riduzione dell’occupazione, delocalizzazione e riduzione generalizzata del salario e della quota di ricchezza destinata al bene sociale. Dal momento che grazie all’innovazione tecnologica il tempo di lavoro necessario diminuiva (e non smette di diminuire) si crearono le condizioni per liberare tempo dal lavoro, così da destinarlo all’autocura, all’educazione, al perseguimento della felicità. Oppure si poteva usare la tecnologia per cacciare masse crescenti nella disoccupazione e ricattare i lavoratori riducendo il salario complessivo. Sappiamo quale strada è stata scelta o meglio imposta alla società. Il movimento operaio, culturalmente subalterno all’ideologia lavorista e incapace di comprendere l’effetto potenzialmente liberatorio delle nuove tecnologie, vide in queste soltanto un pericolo, salvo ipocritamente esaltarle senza capirle, e scelse la difesa del posto di lavoro e della composizione esistente del lavoro. Da quel momento il movimento operaio divenne forza di conservazione incapace di resistere alla trasformazione tecnica di cui il capitale divenne il solo beneficiario. Aggressività del capitale e subalternità delle sinistre resero possibile una generale deregulation che significava al contempo accoglimento della potenza trasformativa delle tecnologie ed eliminazione delle difese legali e sindacali che proteggevano la società. La tecnologia è stato il fattore decisivo della trasformazione sociale planetaria negli ultimi decenni, non la politica. Ma la politica, che avrebbe potuto scegliere di assecondare la tecnologia favorendo una redistribuzione sociale dei suoi effetti, rinunciò a rivendicare una riduzione e redistribuzione del tempo di lavoro necessario e della ricchezza. Rinunciò così all’unica misura che avrebbe reso possibile una condivisione dell’arricchimento derivante dalla potenza dell’intelligenza tecnico-scientifica. L’assolutismo finanziario A partire dagli anni Ottanta si sono così create le condizioni dell’attuale assolutismo del capitale: smantellamento delle regolazioni di protezione dei lavoratori e del territorio, privatizzazione dei servizi sociali, globalizzazione del mercato del lavoro e precarizzazione. Quando il processo di globalizzazione integrò enormi settori di nuova forza lavoro nel ciclo di produzione industriale mentre crollava il socialismo totalitario, i lavoratori delle economie emergenti potevano vedere nel modello europeo un esempio di redistribuzione della ricchezza e di contenimento dello sfruttamento. La sinistra europea a quel punto si trovò di fronte ad un’alternativa: assumere il ruolo di esempio per i lavoratori dei paesi di nuova industrializzazione, facendo della riduzione del tempo di lavoro il tema unificante su scala mondiale, oppure integrarsi al modello neoliberista e mettersi al servizio delle politiche monetariste di finanziarizzazione. La sinistra europea subì il mantra della competitività in modo subalterno e si destinò così a una disintegrazione irreversibile. Dopo gli accordi di Maastricht e poi con la creazione dell’euro il ceto finanziario globale ha portato a termine la distruzione del modello europeo e ha posto le condizioni per la deflagrazione del progetto politico dell’unione. Il capitalismo finanziario globale ha usato l’architettura monetaria dell’euro per sottomettere le dinamiche sociali e la crisi seguita al 2008 ha accelerato questa sottomissione facendo del debito la leva per l’attacco. Ma la logica monetaria sottende un processo più profondo: la deterritorializzazione del capitale resa possibile dalle tecnologie di rete ha modificato la natura del capitalismo. La borghesia industriale del passato aveva interessi fortemente territorializzati: i profitti dipendevano dalla crescita sociale complessiva. Il capitalista aveva bisogno di una comunità di consumatori e l’arricchimento della classe proprietaria non poteva prescindere dal benessere della società. Il progresso dell’economia di profitto era parallelo al progresso della società complessiva. Questo non è più vero. La macchina del capitalismo finanziario deterritorializzato non risponde più alla vecchia logica progressiva del capitalismo industriale perché l’incremento dei profitti finanziari non dipende dall’arricchimento complessivo della società, ma dalla sistematica predazione delle risorse sociali: privatizzazione della sfera pubblica, appropriazione finanziaria delle risorse comuni. Il sistema bancario produce debito, lo trasferisce alla società e la macchina politica si incarica di trasferire ricchezza dalla società verso il sistema bancario, surrettiziamente trasformato in beneficiario della predazione. Se l’accumulazione industriale dipendeva dall’estrazione di plusvalore dal lavoro operaio, l’accumulazione finanziaria contemporanea sembra piuttosto dipendere da un minus-valore, dalla predazione sistematica di ciò che la società produce, senza alcun incremento del bene pubblico. L’arricchimento della classe finanziaria (che procede imperterrito perfino negli anni più neri di recessione e di crisi) non può avvenire che al prezzo di un impoverimento della società. Il superamento della crisi del 1929 o della stagflazione degli anni ’70 comportava una riattivazione della crescita e una distribuzione (per quanto diseguale e iniqua) del valore prodotto. I lavoratori partecipavano alla ripresa economica: l’occupazione aumentava, i salari crescevano, la quota di reddito destinata al lavoro rimaneva stabile, o addirittura cresceva come accadde negli anni ’60. Ora non è più così. La formula jobless recovery è un ipocrita mascheramento della realtà: la fuoriuscita dalla recessione e l’incremento della produttività non comportano assolutamente un aumento dell’occupazione, e meno che meno un progresso salariale. Al contrario, la ripresa si fonda proprio su aumento del tempo di lavoro e riduzione dell’occupazione. Più disoccupati, più miseria, più sfruttamento, quindi più profitti. La dissociazione tra il destino della macchina finanziaria e il destino della società è totale, perché il solo modo di arricchirsi della macchina finanziaria consiste nell’impoverire la società. L’euro è stato lo strumento per l’imposizione di questo modello predatorio. Il problema dunque non è uscire dall’euro, ma uscire dal modello predatorio del capitalismo finanziario. Uscire dall’euro significherebbe accelerare la fine del progetto politico europeo senza mettere in questione le vere cause dell’impoverimento della società. Ma chi ha la forza per fermare o rovesciare la dinamica predatoria finazista? Un movimento solidale dei lavoratori europei potrebbe farlo, ma la precarizzazione sta distruggendo ogni tessuto di solidarietà, e sul piano politico si sgretola il consenso di cui godeva l’Unione europea fino a pochi anni fa. Lo sgretolamento politico d’Europa è all’orizzonte, come indica la crescita di forze nazionaliste in molti paesi del continente. Se FN diventa partito di maggioranza alle prossime elezioni francesi l’Unione europea non esiste più. A partire da Tsipras In questo contesto nasce la proposta della lista Tsipras. Questa lista può creare le condizioni per la ricostruzione di lungo periodo della solidarietà sociale, e per riaprire il discorso sul carattere progressivo della tecnologia, sull’alleanza tra lavoro cognitivo e società, sul reddito di cittadinanza e sulla riduzione del tempo di lavoro sociale. Un’affermazione strepitosa della lista Tsipras alle elezioni di maggio è la condizione per rimettere in moto l’intelligenza collettiva, per ricollegare intelligenza e solidarietà, per diradare la nebbia depressiva in cui sembra vagare la mente collettiva. (8 febbraio 2014)

EUROFATTI.

L'uscita dall'euro prossima ventura
di Alberto Bagnai, da Sbilanciamoci,23/08/2011. Il problema non è il debito pubblico, ma il debito estero, e i paesi che mantengono la loro moneta possono cavarsela con la svalutazione. L’Unione monetaria attuale serve solo alla Germania, impone bassi salari e disciplina economica. Finirà con l’uscita dell’Italia dall’euro Un anno fa, discorrendo con Aristide, chiedevo come mai la sinistra italiana rivendicasse con tanto orgoglio la paternità dell’euro: non vedeva quanto esso fosse opposto agli interessi del suo elettorato? Una domanda simile a quella di Rossanda. Aristide, economista di sinistra, mi raggelò: “caro Alberto, i costi dell’euro, come dici, sono noti, tutti i manuali li illustrano. Li vedevano anche i nostri politici, ma non potevano spiegarli ai loro elettori: se questi avessero potuto confrontare costi e benefici non avrebbero mai accettato l’euro. Tenendo gli elettori all’oscuro abbiamo potuto agire, mettendoli in una impasse dalla quale non potranno uscire che decidendo di fare la cosa giusta, cioè di andare avanti verso la totale unione, fiscale e politica, dell’Europa.” Insomma: “il popolo non sa quale sia il suo interesse: per fortuna a sinistra lo sappiamo e lo faremo contro la sua volontà”. Ovvero: so che non sai nuotare e che se ti getto in piscina affogherai, a meno che tu non “decida liberamente” di fare la cosa giusta: imparare a nuotare. Decisione che prenderai dopo un leale dibattito, basato sul fatto che ti arrivo alle spalle e ti spingo in acqua. Bella democrazia in un intellettuale di sinistra! Questo agghiacciante paternalismo può sembrare più fisiologico in un democristiano, ma non dovrebbe esserlo. “Bello è di un regno come che sia l’acquisto”, dice re Desiderio. Il cattolico Prodi l’Adelchi l’ha letto solo fino a qui. Proseguendo, avrebbe visto che per il cattolico Manzoni la Realpolitik finisce in tragedia: il fine non giustifica i mezzi. La nemesi è nella convinzione che “più Europa” risolva i problemi: un argomento la cui futilità non può essere apprezzata se prima non si analizza la reale natura delle tensioni attuali. Il debito pubblico non c’entra Sgomenta l’unanimità con la quale destra e sinistra continuano a concentrarsi sul debito pubblico. Che lo faccia la destra non è strano: il contrattacco ideologico all’intervento dello Stato nell’economia è il fulcro della “controriforma” seguita al crollo del muro. Questo a Rossanda è chiaro. Le ricordo che nessun economista ha mai asserito, prima del trattato di Maastricht, che la sostenibilità di un’unione monetaria richieda il rispetto di soglie sul debito pubblico (il 60% di cui parla lei). Il dibattito sulla “convergenza fiscale” è nato dopo Maastricht, ribadendo il fatto che queste soglie sono insensate. Maastricht è un manifesto ideologico: meno Stato (ergo più mercato). Ma perché qui (cioè a sinistra?) nessuno mette Maastricht in discussione? Questo Rossanda non lo nota e non se lo chiede. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori. Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione. Già nel 2006 la Bce indicava che in Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna l’inflazione non stava convergendo verso quella dei paesi “virtuosi”. I Pigs erano un club a parte, distinto dal club del marco (Germania, Francia, Belgio, ecc.), e questo sì che era un problema: gli economisti sanno da tempo che tassi di inflazione non uniformi in un’unione monetaria conducono a crisi di debito estero (prevalentemente privato). Inflazione e debito estero Se in X i prezzi crescono più in fretta che nei suoi partner, X esporta sempre meno, e importa sempre più, andando in deficit di bilancia dei pagamenti. La valuta di X, necessaria per acquistare i beni di X, è meno richiesta e il suo prezzo scende, cioè X svaluta: in questo modo i suoi beni ridiventano convenienti, e lo squilibrio si allevia. Effetti uguali e contrari si producono nei paesi in surplus, la cui valuta diventa scarsa e si apprezza. Ma se X è legato ai suoi partner da un’unione monetaria, il prezzo della valuta non può ristabilire l’equilibrio esterno, e quindi le soluzioni sono due: o X deflaziona, o i suoi partner in surplus inflazionano. Nella visione keynesiana i due meccanismi sono complementari: ci si deve venire incontro, perché surplus e deficit sono due facce della stessa medaglia (non puoi essere in surplus se nessuno è in deficit). Ai tagli nel paese in deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus. Ma la visione prevalente è asimmetrica: l’unica inflazione buona è quella nulla, i paesi in surplus sono “buoni”, e sono i “cattivi” in deficit a dover deflazionare, convergendo verso i buoni. E se, come i Pigs, non ci riescono? Le entrate da esportazioni diminuiscono e ci si deve indebitare con l’estero per finanziare le proprie importazioni. I paesi a inflazione più alta sono anche quelli che hanno accumulato più debito estero dal 1999 al 2007: Grecia (+78 punti di Pil), Portogallo (+67), Irlanda (+65) e Spagna (+62). Con il debito crescono gli interessi, e si entra nella spirale: ci si indebita con l’estero per pagare gli interessi all’estero, aumenta lo spread e scatta la crisi. Lo spettro del 1992 E l’Italia? Dice Rossanda: “il nostro indebitamento è soprattutto all’interno”. Non è più vero. Pensate veramente che ai mercati interessi con chi va a letto Berlusconi? Pensate che si preoccupino perché il debito pubblico è “alto”? Ma il nostro debito pubblico è sopra il 100% da 20 anni, e i nostri governi, anche se meno folcloristici, sono stati spesso più instabili. Non è questo che preoccupa i mercati: quello che li preoccupa è che oggi, come nel 1992, il nostro indebitamento con l’estero sta aumentando, e che questo aumento, come nel 1992, è guidato dall’aumento dei pagamenti di interessi sul debito estero, che è in massima parte debito privato, contratto da famiglie e imprese (il 65% delle passività sull’estero dell’Italia sono di origine privata). Cui Prodest? Calata nell’asimmetria ideologica mercantilista (i “buoni” non devono cooperare) e monetarista (inflazione zero) la scelta politica di privarsi dello strumento del cambio diventa strumento di lotta di classe. Se il cambio è fisso, il peso dell’aggiustamento si scarica sui prezzi dei beni, che possono diminuire o riducendo i costi (quello del lavoro, visto che quello delle materie prime non dipende da noi) o aumentando la produttività. Precarietà e riduzioni dei salari sono dietro l’angolo. La sinistra che vuole l’euro ma non vuole Marchionne mi fa un po’ pena. Chi non deflaziona accumula debito estero, fino alla crisi, in seguito alla quale lo Stato, per evitare il collasso delle banche, si accolla i debiti dovuti agli squilibri esterni, trasformandoli in debiti pubblici. Alla privatizzazione dei profitti segue la socializzazione delle perdite, con il vantaggio di poter incolpare a posteriori i bilanci pubblici. La scelta non è se deflazionare o meno, ma se farlo subito o meno. Una scelta ristretta, ma solo perché l’ottusità ideologica impone di concentrarsi sul sintomo (lo squilibrio pubblico, che può essere corretto solo tagliando), anziché sulla causa (lo squilibrio esterno, che potrebbe essere corretto cooperando). Alla domanda di Rossanda “non c’è stato qualche errore?” la risposta è quella che dà lei stessa: no, non c’è stato nessun errore. Lo scopo che si voleva raggiungere, cioè la “disciplina” dei lavoratori, è stato raggiunto: non sarà “di sinistra”, ma se volete continuare a chiamare “sinistra” dei governi “tecnici” a guida democristiana accomodatevi. Lo dice il manuale di Acocella: il “cambio forte” serve a disciplinare i sindacati. Più Europa? Secondo la teoria economica un’unione monetaria può reggere senza tensioni sui salari se i paesi sono fiscalmente integrati, poiché ciò facilita il trasferimento di risorse da quelli in espansione a quelli in recessione. Una “soluzione” che interviene a valle, cioè allevia i sintomi, senza curare la causa (gli squilibri esterni). È il famoso “più Europa”. Un esempio: festeggiamo quest’anno il 150° anniversario dell’unione monetaria, fiscale e politica del nostro paese. “Più Italia” l’abbiamo avuta, non vi pare? Ma 150 anni dopo la convergenza dei prezzi fra le varie regioni non è completa, e il Sud ha un indebitamento estero strutturale superiore al 15% del proprio Pil, cioè sopravvive importando capitali dal resto del mondo (ma in effetti dal resto d’Italia). Dopo cinquanta anni di integrazione fiscale nell’Italia (monetariamente) unita abbiamo le camicie verdi in Padania: basterebbero dieci anni di integrazione fiscale nell’area euro, magari a colpi di Eurobond, per riavere le camicie brune in Germania. L’integrazione fiscale non è politicamente sostenibile perché nessuno vuole pagare per gli altri, soprattutto quando i media, schiavi dell’asimmetria ideologica, bombardano con il messaggio che gli altri sono pigri, poco produttivi, che “è colpa loro”. Siano greci, turchi, o ebrei, sappiamo come va a finire quando la colpa è degli altri. Deutschland über alles Le soluzioni “a valle” dello squilibrio esterno sono politicamente insostenibili, ma lo sono anche quelle “a monte”. La convivenza con l’euro richiederebbe l’uscita dall’asimmetria ideologica mercantilista. Bisognerebbe prevedere simmetrici incentivi al rientro per chi si scostasse in alto o in basso da un obiettivo di inflazione. Il coordinamento del quale Rossanda parla andrebbe costruito attorno a questo obiettivo. Ma il peso dei paesi “virtuosi” lo impedirà. Perché l’euro è l’esito di due processi storici. Rossanda vede il primo (il contrattacco del capitale per recuperare l’arretramento determinato dal new deal post-bellico), ma non il secondo: la lotta secolare della Germania per dotarsi di un mercato di sbocco. Ci si estasia (a destra e a sinistra) per il successo della Germania, la “locomotiva” d’Europa, che cresce intercettando la domanda dei paesi emergenti. Ma i dati che dicono? Dal 1999 al 2007 il surplus tedesco è aumentato di 239 miliardi di dollari, di cui 156 realizzati in Europa, mentre il saldo commerciale verso la Cina è peggiorato di 20 miliardi (da un deficit di -4 a uno di -24). I giornali dicono che la Germania esporta in Oriente e così facendo ci sostiene con la sua crescita. I dati dicono il contrario. La domanda dei paesi europei, drogata dal cambio fisso, sostiene la crescita tedesca. E la Germania non rinuncerà a un’asimmetria sulla quale si sta ingrassando. Ma perché i governi “periferici” si sono fatti abbindolare dalla Germania? Lo dice il manuale di Gandolfo: la moneta unica favorisce una “illusione della politica economica” che permette ai governi di perseguire obiettivi politicamente improponibili, cavandosela col dire che sono imposti da istanze sopraordinate (quante volte ci siamo sentiti dire “l’Europa ci chiede...”?). Il fine (della lotta di classe al contrario) giustificava il mezzo (l’ancoraggio alla Germania). La svalutazione rende ciechi È un film già visto. Ricordate lo Sme “credibile”? Dal 1987 al 1991 i cambi europei rimasero fissi. In Italia l’inflazione salì dal 4.7% al 6.2%, con il prezzo del petrolio in calo (ma i cambi fissi non domavano l’inflazione?). La Germania viaggiava su una media del 2%. La competitività italiana diminuiva, l’indebitamento estero aumentava, e dopo la recessione Usa del 1991 l’Italia dovette svalutare. Svalutazione! Provate a dire questa parola a un intellettuale di sinistra. Arrossirà di sdegnato pudore virginale. Non è colpa sua. Da decenni lo bombardano con il messaggio che la svalutazione è una di quelle cosacce che provocano uno sterile sollievo temporaneo e orrendi danni di lungo periodo. Non è strano che un sistema a guida tedesca sia retto dal principio di Goebbels: basta ripetere abbastanza una bugia perché diventi una verità. Ma cosa accadde dopo il 1992? L’inflazione scese di mezzo punto nel ’93 e di un altro mezzo nel ’94. Il rapporto debito estero/Pil si dimezzò in cinque anni (da -12 a -6 punti di Pil). La bolletta energetica migliorò (da -1.1 a -1.0 punti). Dopo uno shock iniziale, l’Italia crebbe a una media del 2% dal 1994 al 2001. La lezioncina sui danni della svalutazione (genera inflazione, procura un sollievo solo temporaneo, non ce la possiamo permettere perché importiamo il petrolio) è falsa. Irreversibile? Si dice che la svalutazione non sarebbe risolutiva, e che le procedure di uscita non sono previste, quindi... Quindi cosa? Chi è così ingenuo da non vedere che la mancanza di procedure di uscita è solo un espediente retorico, il cui scopo è quello di radicare nel pubblico l’idea di una “naturale” o “tecnica” irreversibilità di quella che in fondo è una scelta umana e politica (e come tale reversibile)? Certo, la svalutazione renderebbe più oneroso il debito definito in valuta estera. Ma porterebbe da una situazione di indebitamento estero a una di accreditamento estero, producendo risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992. Se non lo fossero, rimarrebbe la possibilità del default. Prodi vuol far sostenere una parte del conto ai “grossi investitori istituzionali”? Bene: il modo più diretto per farlo non è emettere Eurobond “socializzando” le perdite a beneficio della Germania (col rischio camicie brune), ma dichiarare, se sarà necessario, il default, come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo. È già successo e succederà. “I mercati ci puniranno, finiremo stritolati!”. Altra idiozia. Per decenni l’Italia è cresciuta senza ricorrere al risparmio estero. È l’euro che, stritolando i redditi e quindi i risparmi delle famiglie, ha costretto il paese a indebitarsi con l’estero. Il risparmio nazionale lordo, stabile attorno al 21% dal 1980 al 1999, è sceso costantemente da allora fino a toccare il 16% del reddito. Nello stesso periodo le passività finanziarie delle famiglie sono raddoppiate, dal 40% all’80%. Rimuoviamo l’euro, e l’Italia avrà meno bisogno dei mercati, mentre i mercati continueranno ad avere bisogno dei 60 milioni di consumatori italiani. Non faccia la sinistra ciò che fa la destra Dall’euro usciremo, perché alla fine la Germania segherà il ramo su cui è seduta. Sta alla sinistra rendersene conto e gestire questo processo, anziché finire sbriciolata. Non sto parlando delle prossime elezioni. Berlusconi se ne andrà: dieci anni di euro hanno creato tensioni tali per cui la macelleria sociale deve ora lavorare a pieno regime. E gli schizzi di sangue stonano meno sul grembiule rosso. Sarà ancora una volta concesso alla sinistra della Realpolitik di gestire la situazione, perché esiste un’altra illusione della politica economica, quella che rende più accettabili politiche di destra se chi le attua dice di essere di sinistra. Ma gli elettori cominciano a intuire che la macelleria sociale si può chiudere uscendo dall’euro. Cara Rossanda, gli operai non sono “scombussolati”, come dice lei: stanno solo capendo. “Peccato e vergogna non restano nascosti”, dice lo spirito maligno a Gretchen. Così, dopo vent’anni di Realpolitik, ad annaspare dove non si tocca si ritrovano i politici di sinistra, stretti fra la necessità di ossequiare la finanza, e quella di giustificare al loro elettorato una scelta fascista non tanto per le sue conseguenze di classe, quanto per il paternalismo con il quale è stata imposta. Si espongono così alle incursioni delle varie Marine Le Pen che si stanno affacciando in paesi di democrazia più compiuta, e presto anche da noi. Perché le politiche di destra, nel lungo periodo, avvantaggiano solo la destra. Ma mi rendo conto che in un paese nel quale basta una legislatura per meritarsi una pensione d’oro, il lungo periodo possa non essere un problema dei politici di destra e di sinistra. Questo spiega tanta unanimità di vedute. La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info?

lunedì 10 febbraio 2014

Bebo Storti "State of the Art"

SAREBBE LO SPUTTANARE IL RENZI FACILE COME SI DICEVA UNA VOLTA? ......"COME PICCHIARE UN BAMBINO CHE CAGA"...... MA DI CONTRO DA PARTE DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE TUTTI O QUASI SEMPRE CON LA BAVA ALLA BOCCA IN QUESTO PAESE QUANDO TROVANO UN DEMOCRISTIANO CHE LE SPARA GROSSE E' PARTITA DICEVO UNA GARA A CHI LANCIA LA LINGUA OLTRE L'OSTACOLO NEL MIGIORE DEI MODI A CHI LA SPARA PIU' GROSSA A CHI MEGLIO NASCONDE LA NOTIZIA O NE INVENTA UNA CHE NON C'E' E VIA COI CALCI DI RIGORE CON APPARIZIONI A TRASMISSIONI DOVE SI RISCHIA DI SCIVOLARE SULLA SALIVA APPENA ENTRATI CON LE FRASI LAPIDARIE "RIPULIRO' LA DIRIGENZA" "ROTTAMERO' IL PARTITO" "BASTA COL VECCHIO" "ARMATEVI E PARTITE" NEANCHE LO SFORZO DI PROVARE A DIRE "ARMIAMOCI" POI SI ALLEA COL B. E ME LI VEDO LUI E MISTER CONDANNATO A FARE LA BATTAGLIA DEL GRANO LUI SUDATO, PER LA PRIMA VOLTA IN VITA SUA, DOPO LA DOLORORSA ESPERIENZA DELLA RUOTA DELLA FORTUNA COL GIUBBINO DI FONZIE SOTTO IL SOLE (perché la presenza di spirito non è proprio la prima delle sue qualità....ne ha altre....va beh poi mi vengono) SOTTO IL SOLE FRA I COVONI MENTRE DIETRO, SULLO SFONDO B.....CHE CORTEGGIA UNA MUCCA "TESORO CHE BEGLI OCCHIONI CHE HAI....SE FAI LA CARINA C'E' UN MINISTERO PER TE....SEI MAGGIORENNE? CHE TETTONE CHE HAI? E CHE LINGUA! OLLAMADONNA COME LAPPI!! E LO ZIO MUBBY COME STA?" E DI FIANCO AL CARRO BOSSI E CASINI L'UN CHE RUTTA E L'ALTRO CHE SCORREGGIA QUIETI NEL LOR NON ESSER MA NEL FARSI BEN PAGARE.... Bebo Storti

giovedì 30 gennaio 2014

ECONOMIA OCCULTA. LA MAFIA POLITICO BANCARIA.

Imu-Bankitalia: se il governo e le banche diventano soci in affari di Loretta Napoleoni | 30 gennaio 2014.
Questa settimana l’Italia ha regalato al mondo un bellissimo esempio di economia occulta. Il decreto approvato su Bankitalia ed Imu sembra uscito da un manuale di dietrologia economico-finanziaria. Gli elementi ci sono tutti: un accordo tra classi politiche e banche, che viene fatto passare per una manovra per evitare che i cittadini paghino una tassa odiosa, imposta da Bruxelles: la tassa sulla casa; un sistema di informazione al servizio di questi stessi politici, che ha sapientemente insabbiato la verità e divulgato informazioni false; un Parlamento, fatta eccezione per il Movimento 5 Stelle e dei Fratelli d’Italia, che ha fatto gli interessi propri, corporativi e di casta, invece che quelli della popolazione che dovrebbe rappresentare; individui preposti ad istituzioni democratiche che le rendono strumenti di potere nelle proprie mani ed in quelle del governo. Vediamo di analizzare per una volta tanto i fatti. Non c’è stata alcuna privatizzazione di Bankitalia per il semplice motivo che questa banca è già stata privatizzata nel 1992 quando Mario Draghi ha venduto gran parte dei nostri gioielli di famiglia. E’ stato allora le banche di diritto pubblico azioniste di Bankitalia sono passate in mano privata senza che gli acquirenti contribuissero un solo centesimo al capitale della Banca d’Italia. La proposta approvata del governo Letta era quella di aumentare il valore dei pacchetti azionari attraverso la ricapitalizzazione di Bankitalia il cui capitale era ancora fermo ai valori del 1936, e cioè circa 156 mila euro, pari a 300 milioni di vecchie lire. Gli aumenti di capitale ortodossi si fanno chiedendo ai soci di aumentare il capitale investito nell’impresa, quelli non ortodossi e truffaldini si fanno con giochetti contabili. Il governo Letta ha concesso alla Banca d’Italia di usare 7,5 miliardi di euro delle riserve statutarie per aumentare il proprio capitale. Le riserve statutarie sono in monete estere ed appartengono al patrimonio dello Stato, non al capitale della banca centrale. Bankitalia gestisce questo patrimonio come una qualsiasi banca gestisce quello dei propri correntisti. A sua volta le riserve statutarie appartengono alla nazione Italia, sono soldi accumulati per noi, è una parte della nostra ricchezza monetaria. Quindi, va bene che una parte sia servita a non farci pagare l’Imu, sono soldi nostri, i nostri risparmi e ci possiamo fare ciò che vogliamo. Il problema si pone quando 4 di questi miliardi vengono usati esclusivamente per aumentare il capitale di Bankitalia e, quindi, per far salire il valore delle azioni degli azionisti, e cioè banche private. Adesso immaginate che la vostra banca faccia una cosa del genere e voi vi ritroviate con i risparmi dimezzati mentre gli azionisti della banca si ritrovano con azioni maggiorate di valore che vanno subito a vendere realizzando un profitto pari alla vostra perdita. Sarebbe uno scandalo epocale. Ebbene questo hanno fatto il governo e il Parlamento e questo l’opposizione voleva evitare. Vi chiederete ma perché il governo fa questo regalo alle banche? E la risposta è semplice: chi pensate che dal 2010 ad oggi acquista ogni mese i titoli di Stato necessari per ripagare l’interesse sul debito? Sempre loro, anche e soprattutto con i nostri soldi. Le banche hanno troppi pochi capitali ed il 2014 è l’anno dei controlli e delle nuove regole imposte da Bruxelles sulla capitalizzazione del sistema bancario. Insomma, il debito richiede che governo e banche siano soci in affari, anche quando questo business va contro gli interessi del paese. Il sistema di contabilità bancarie e finanziaria offre ampie possibilità per imbrogliare il prossimo, è per questo che esiste l’informazione e l’opposizione, ma se la prima è complice e la seconda viene stoppata, o meglio ghigliottinata, allora le cose si fanno serie. Oggi ogni italiano è più povero di 7,5 miliardi di riserve statutarie, 3,5 miliardi gli hanno evitato di pagare l’Imu, gli altri sono stati fagocitati dalle banche. Se agli italiani questo do ut des sta bene, allora gli editoriali usciti sulla carta stampata ed anche in digitale in difesa del governo, del Parlamento, delle istituzioni e così via hanno ragione, se invece agli italiani questo scambio non piace allora è arrivato il momento di smettere di frignare e di lamentarsi della crisi, della disoccupazione perché mai come oggi il detto ‘Governo Ladro’ è stato più vero. E’ ora di spegnere il televisore, chiudere l’iPad, staccarsi da Facebook e Twitter, basta con le parole, gli insulti, le bugie e le illusioni, basta anche con la vita virtuale, è ora di fare qualcosa di concreto, di mobilitarsi per cambiare un sistema politico che qualcuno prima di me ha giustamente definito di stampo mafioso.