sabato 29 dicembre 2012

Governi e governatori al servizio delle banche.

Il debito è pubblico, l’affare è per le banche. di Salvatore Cannavò, da Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2012.
E’ un documento da conservare con cura il rapporto “Moneta e banche” redatto dalla Banca d’Italia. Perché se si vuole vuole sapere per che cosa facciamo i sacrifici, subiamo le stangate, gli aumenti, il blocco dei servizi e dei diritti, parte della risposta è data dai numeri, un po’ complessi e fitti, che la banca centrale italiana pubblica sul proprio sito. Al 31 ottobre 2012, infatti, la proprietà di Titoli di Stato da parte delle banche italiane ammontava a 340 miliardi di euro, in aumento del 63% rispetto all’anno precedente (208 miliardi ma, nel 2009 a ridosso dell’esplosione della crisi, erano solo 147 miliardi). Una fetta importante del debito pubblico, quindi, si trova nella pancia delle banche: i Bot, nell’ultimo anno (ottobre 2011-ottobre 2012) sono passati da 32 miliardi a 54, i Btp da 106 a 182 miliardi ma anche Cct e Ctz sono cresciuti sia pure in misura minore. Ma perché questo aumento così significativo, nonostante lo “spread“? Semplice, le banche in quest’ultimo anno hanno visto aprirsi sopra di loro il paracadute della Bce che ha assicurato una liquidità pressoché illimitata consentendo così di disporre di una dote miliardaria a un tasso di interesse dell’1% appena. Con questi soldi cosa hanno fatto i nostri istituti di credito, prestato a famiglie e imprese? Neanche per sogno. Nello stesso arco di tempo i prestiti alle famiglie sono scesi da 616 a 610 miliardi di euro, soprattutto nel credito al consumo mentre i prestiti alle imprese sono calati di oltre 35 miliardi, da 905 a 870 miliardi di euro. Solo il settore “pubblica amministrazione“, in linea con il dato del debito pubblico, ha sostanzialmente retto perdendo circa due miliardi di finanziamento nei circa 1900 miliardi di prestiti. La realtà, dunque, è che le banche si sono finanziate presso la Bce e con quei soldi hanno acquistato i ben più redditizi titoli di Stato che quest’anno hanno assicurato rendimenti tra il 4 e il 6%. Le banche spiegano questa situazione appellandosi all’aumento consistente delle sofferenze (i crediti difficili da riscuotere) passate nell’arco dell’anno da 102 a 119 miliardi, una crescita del 16%. Un rischio che, almeno in parte, è stato coperto investendo sui titoli di Stato. Acquistando titoli per oltre 130 miliardi (la differenza positiva dell’ultimo anno) le banche hanno potuto guadagnare circa 5-6 miliardi in più di interessi. Chi ci rimette? La spesa per interessi sul debito pubblico, nello stesso periodo, è passata da 78 a 86 miliardi di euro secondo i dati della Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (redatto lo scorso 20 settembre). Quella stessa spesa è destinata ad aumentare a 89 miliardi nel 2013, a 96 nel 2014 e a 105 miliardi nel 2015. Per pagare la crescita degli interessi il governo Monti ha stabilito importanti tagli alla Sanità, alle pensioni e così via. Il trasferimento di risorse è quindi visibile a occhio nudo, basta leggere i numeri.

giovedì 27 dicembre 2012

L'agenda Monti malvista dai guru liberisti.

1- E PERFINO GOLDMAN SACHS ORA CRITICA MONTI. Fabrizio Goria per www.linkiesta.it
L'Agenda Monti rischia di essere un fallimento per l'Italia. E a dirlo, implicitamente, è Goldman Sachs. Pochi giorni prima della pubblicazione del memorandum dell'ultimo presidente del Consiglio, Mario Monti, la banca americana ha duramente criticato l'operato dell'ex commissario Ue. «Il governo Monti ha fallito la realizzazione della sua promessa iniziale», dice Goldman Sachs. Diverse riforme sono finite nel dimenticatoio, mentre quelle più importanti per la rivitalizzazione dell'economia, come le liberalizzazioni, non sono ancora del tutto ultimate. E se non ci è riuscito alla guida di un governo tecnico, quando il rendimento dei bond italiani era ai massimi dall'introduzione dell'euro, provare a farcela tramite un'agenda programmatica sarà ancora più difficile. Un pizzico di Matteo Renzi, di Fermare il Declino, di Pietro Ichino e, infine, dei famosi 39 punti della Commissione Ue dell'autunno 2011. L'Agenda Monti è una miscela di ricette economiche, sociali e politiche. Un mix che però sa di deja vu. In molti casi, come nel capitolo relativo alla riduzione del debito, oltre i 2.000 miliardi di euro, si tratta di ricette che si ripresentano da anni, senza successo. Lo stesso dicasi per le liberalizzazioni, o per il ritorno a una crescita sostenibile, anche utilizzando la leva della riforma fiscale, vera e propria chimera degli ultimi trent'anni di storia italiana, o una fantomatica facilitazione all'introduzione di «nuove forme di finanziamento per migliorare l'accesso al credito e promuovere misure che facilitino la crescita dimensionale delle nostre imprese». Ancora, nessun riferimento all'abbraccio mortale fra banche, fondazioni e politica, uno dei mali italiani degli ultimi vent'anni. L'obiettivo primario fissato nell'Agenda Monti è quello di abbattere il debito pubblico. Nello specifico, gli estensori del memorandum ritengono che «con un debito pubblico che supera il 120% del Pil non si può seriamente pensare che la crescita si faccia creando altri debiti». Un concetto chiaro, che è in linea con quanto sta succedendo nell'economia globale dalla primavera del 2007, ovvero quando scoppiò lo bolla immobiliare americana. L'attuale modello di sviluppo dell'Occidente, basato sull'indebitamento per il sostentamento dell'espansione economica, non è più sostenibile. L'austerity, o meglio il ritracciamento del livello di spesa dato il vincolo di bilancio esistente, deve continuare. È sullo spread, ovvero il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato italiani con scadenza decennale e i corrispettivi tedeschi di pari entità, che l'agenda inizia a traballare. Si spiega infatti che il finanziamento del debito pubblico costa all'Italia 75 miliardi di euro in interessi annuali, il 5% del Pil. In realtà, l'ultimo aggiornamento al Documento di economia e finanza (Def), relativo al 2012, fornisce cifre ben differenti. Il capitolo inerente alla spesa per interessi passivi vede una costante tendenza al rialzo. Se nel 2011 sono stati spesi 78,021 miliardi di euro, nel 2012 la previsione di spesa, quasi definitiva, è di oltre 86 miliardi. E le stime per i prossimi anni sono ben poco ottimistiche. Nel Def gli economisti del Tesoro hanno calcolato che dal 2011 al 2015 l'Italia registrerà un incremento di 27,373 miliardi di euro degli oneri di spesa per interessi passivi. In altre parole, nel 2015 l'Italia pagherà 105,394 miliardi di euro per questa voce. C'è anche la possibilità che questi oneri calino, se il rendimento dei bond italiani alle aste primarie, ovvero quelle dirette dal Tesoro, continua con il trend positivo vistosi da settembre a oggi. L'obbligo, in ogni caso, è quello di continuare a produrre un saldo primario, cioè spendere meno di quanto si incassa anno per anno. In questo caso, sarà positiva l'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, che vincola i prossimi governi dal punto di vista formale al rispetto del Fiscal compact, il nuovo patto fiscale europeo. Il target nel lungo periodo è quello della riduzione, a partire dal 2015, del debito pubblico, con il ritmo di un ventesimo all'anno, fino a toccare quota 60% del Pil. Secondo la banca americana Goldman Sachs, il mix di stagnazione economica, scarsa produttività e immobilismo nelle riforme, complice un quadro politico incerto e frammentato, rischia di durare per i prossimi cinque anni. Così si renderebbe ancora più difficile il rientro dell'Italia dentro i parametri del Fiscal compact, ovvero il deficit pubblico non oltre il 3% del Pil e il debito pubblico entro il 60% del Pil. Ridurre il debito per combattere la crisi. E per farlo, Monti ha deciso di continuare sulla via dettata dal ministro delle Finanze Vittorio Grilli: la valorizzazione e la dismissione del patrimonio pubblico. In luglio, Grilli aveva parlato di un maxi piano quinquennale di dismissioni per ridurre il debito di «15-20 miliardi di euro l'anno, pari all'1% del Pil». Il tutto con l'obiettivo di riportare il rapporto debito/Pil intorno quota 105% in un lustro, anche grazie alle altre misure di consolidamento fiscale. Eppure, come spiegato in luglio dal Fondo monetario internazionale (Fmi) nel corso della sua Debt sustainability analysis (Dsa) c'è il 95% delle possibilità che il debito italiano, nell'arco dei prossimi cinque anni, rimanga fra il 120% e il 130% del Pil. Più facile, invece, continuare ad allungare la scadenza del debito. Meno vincoli nel breve termine, quindi più respiro. E, allo stesso tempo, continuare nel processo di controllo della spesa pubblica, a cominciare dagli enti centrali. Sul fronte fiscale, la ricetta di Monti vede un riequilibrio dei carichi fiscali. Facile a dirsi, difficile a farsi. L'obiettivo finale è quello di una riduzione del peso fiscale, tanto per le famiglie quanto per le imprese. Il tutto «anche trasferendo il carico corrispondente su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio». In altre parole, patrimoniale e aumenti delle imposte su sigarette, alcolici e, forse, beni di lusso. Pertanto, spiega l'Agenda Monti, occorrono «meccanismi di misurazione della ricchezza oggettivi e tali da non causare fughe di capitali». Ed è proprio qui che sorgono i problemi. I blitz della Guardia di Finanza nelle località di villeggiatura, sia montane sia marittime sia lacustri, sono state più operazioni di facciata che altro. La verità, in questo caso, è che i capitali sono già all'estero. Nello scorso novembre la banca anglo-asiatica Hsbc ha calcolato che il 78% dei grandi patrimoni italiani (o High-net-worth individual, Hnwi, cioè sopra il milione di dollari) è allocato all'estero. Soldi che non torneranno mai in Italia perché non ne hanno la convenienza. E all'idea di una patrimoniale, quei pochi soggetti che hanno ancora ricchezza dentro i confini italiani inizieranno a pensare come proteggersi. Cosa fare quindi? Le vie possono essere diverse. Da un accordo fra Italia e i singoli paradisi fiscali all'introduzione di uno scudo fiscale con diverse agevolazioni per i dichiaranti, passando per la misura più drastica, l'acquisto dei file degli evasori, come avvenuto in diversi Paesi nel mondo. Del resto, l'esempio più concreto di cosa significa introdurre una patrimoniale lo si è visto in Francia dopo la vittoria di François Hollande nella lotta per l'Eliseo. La fuga di Gérard Depardieu è emblematica, ma secondo la banca transalpina Société Générale sono addirittura «migliaia» i cittadini francesi che stanno cercando di cambiare nazionalità. Infine, il capitolo più spinoso, quello sul welfare. L'Agenda Monti ribadisce che «lo Stato sociale è il cuore del modello sociale europeo e della sua sintesi tra efficienza ed equità, mercato e solidarietà». Il problema è che, come ha ricordato anche il presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi, l'attuale modello di welfare europeo è da ripensare. L'attuale livello di spesa, sanitaria e previdenziale, sarà presto insostenibile. Ecco quindi che l'Agenda Monti lascia intendere che ci dovranno essere ulteriori sacrifici per i cittadini. Sono stati troppi i tentativi, anche nel recente passato, di una razionalizzazione della spesa sanitaria, unita a una gestione manageriale degli enti basata sulla trasparenza. Tentativi tutti falliti o quasi per via di un sistema clientelare, una piovra che ha colpito anche i modelli più virtuosi. Le ambizioni dell'Agenda Monti sono elevate. Forse troppo. Crescita stagnante, debito pubblico elevato e riforme in bilico: è questo lo scenario in cui si troverà a governare il prossimo presidente del Consiglio. E se vorrà incrementare la fiducia verso gli operatori finanziari internazionali e gli investimenti diretti esteri, capitolo in cui come ricorda Monti siamo uno dei fanalini di coda dell'Ue, dovrà non solo adottare il memorandum dell'ex commissario europeo, ma anche quello del Fmi. Un obiettivo ancora più complicato. 2- SULLA CRESCITA SOLO PRINCIPI SENZA PROPOSTE Luigi Zingales per "Il Sole 24 Ore".
E l'agenda Monti si fece carne. Con qualche ora di anticipo sul Santo Natale, la buona novella centrista è apparsa sul Web: 24 pagine di linee programmatiche, divise in quattro capitoli: Europa, Crescita, Welfare, e un interessante "Cambiare mentalità e comportamenti." A grandi linee le proposte sono assolutamente condivisibili e in alcuni casi, come quello della scuola, addirittura rivoluzionarie per l'Italia. Ma l'agenda è priva di numeri e di dettagli. Più che un programma economico di rilancio, è un manifesto politico, che rigetta le posizioni delle estreme (Berlusconi e Vendola), per ritagliarsi un grande spazio al centro. L'agenda comincia non sorprendentemente con l'Europa. Al di là di dichiarazioni di principio ( "L'Italia deve battersi per un'Europa più comunitaria e meno intergovernativa, più unita e non a più velocità, più democratica e meno distante dai cittadini") non ci sono ne' nuove idee, ne' proposte concrete su come realizzare questi obiettivi. C'e' solo una dichiarazione di metodo: dall'Europa non si ottiene sbattendo i pugni sul tavolo, ma convincendo gli altri delle nostre ragioni. Un' affermazione profondamente giusta, ma anche una rivendicazione dello stile Monti in contrapposizione a quello Berlusconi. La parte più deludente è quella sulla crescita: non per i principi enunciati (altamente condivisibili), ma per l'assenza di proposte concrete. Si apre con una importante dichiarazione anti Fassina e Vendola: «Non si può seriamente pensare che la crescita si faccia creando altri debiti». Ma l'enfasi è sul pareggio di bilancio, non sul taglio delle spese e delle imposte. Si dice che la spesa pubblica va riqualificata, non necessariamente ridotta. E la riduzione delle imposte viene ritenuta «possibile», non necessaria e neppure probabile. C'è anche un accenno alla possibilità di una patrimoniale, come metodo per redistribuire (non ridurre) il carico fiscale. Non sembra un programma di riforme per un rilancio dell'economia, ma un programma per la protezione dei diritti acquisiti e di chi vive di spesa pubblica. Per non urtare la sensibilità dei boiardi di stato si parla addirittura di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico, non di "privatizzazioni" delle imprese pubbliche e di quelle municipali. Più audace e chiaro è invece il piano sull'istruzione, che vuole premiare il merito tra gli insegnanti e riconosce il valore delle valutazioni nazionali tipo Invalsi da usare per incentivare docenti e dirigenti scolastici. Una proposta sacrosanta, ma molto osteggiata dai sindacati, perfino quelli americani. Interessante è l'enfasi sulle liberalizzazioni, viste come «parte integrante di una politica economica che ha messo al centro l'interesse dei cittadini-consumatori piuttosto che quello delle singole categorie economiche o dei produttori». Purtroppo mancano le proposte concrete. Sul capitolo del welfare non ci sono novità. Spicca solo la giusta enfasi su misure per favorire il lavoro femminile e sulla meritocrazia nella pubblica amministrazione. Fa un po' sorridere l'uso della nuova dirigenza Rai come esempio della riduzione «dei condizionamenti della politica nelle carriere amministrative e professionali». Forse che la Tarantola è stata scelta per la sua competenza nel settore? Il capitolo più nuovo e importante è quello intitolato «cambiare mentalità e comportamenti». Qui l'agenda Monti esce dal tracciato dell'economia neoclassica tradizionale ed abbraccia l'importanza delle istituzioni, della cultura, e dell'etica. Monti propone una regolamentazione seria dell'attività di lobby, una trasparenza dei finanziamenti ai partiti politici, una tolleranza zero per l'evasione fiscale e la corruzione, una seria legge sul conflitto di interesse, ed una reintroduzione del falso in bilancio. Si rivendica anche l'importanza della trasparenza della pubblica amministrazione, proponendo anche per l'Italia un "Freedom of Information Act", ovvero un diritto dei cittadini di conoscere i dati a disposizione della Pubblica Amministrazione. Se introdotto, questo principio potrebbe trasformare non solo la Pubblica Amministrazione, ma anche la visione che il cittadino italiano ha della stessa. In questo capitolo si rivendica giustamente la politica come un servizio ai cittadini, invece che come metodo di arricchimento personale. Ma ci si dimentica che per moralizzare la politica bisogna impoverirla: privatizzazioni e tagli di spesa sono elementi necessari. Ma soprattutto ci si dimentica che un cambiamento di mentalità e comportamenti deve cominciare con un cambiamento di uomini. Questo ricambio non è sufficiente, ma è necessario. Ed questo è il vero buco dell'agenda Monti: proposte concrete per un ricambio delle classe politica e dirigenziale. Monti pensa che la sua ambiziosa agenda possa essere implementabile con quella stessa classe politica e dirigente che ha portato al fallimento la Seconda Repubblica? Al di là delle differenze lessicali (salita in politica, invece che discesa in campo), la manovra di Monti ricorda molto quella di Berlusconi nel 1994. Anche il Berlusconi del '94 aveva una agenda liberale, agenda che aveva ricevuto il plauso dello stesso Monti. Aveva perfino gli stessi alleati: Fini e Casini. Perché Monti dovrebbe riuscire laddove Berlusconi ha fallito? Se pensiamo che la colpa del fallimento sia solo di Berlusconi, allora forse la salita in politica di Monti è destinata ad avere effetti migliori. Io invece ritengo che il fallimento di Berlusconi sia dovuto a tre motivi. Innanzitutto, la struttura padronale del suo partito, fatto di stipendiati, che non rappresentano un'idea, ma operano nell'interesse del datore di lavoro, qualunque esso sia. Secondo, conflitti di interesse insanabili, che, in un partito padronale, trasformano il partito in una gigantesca organizzazione di lobby. Terzo, il desiderio di vincere a tutti i costi, anche ai costi degli stessi principi per cui si vuole vincere, che ha spinto Berlusconi ad allearsi con cani e porci. Se Monti vuole riuscire dove Berlusconi ha fallito deve evitare gli errori commessi dal suo predecessore. Deve costruire un partito che si differenzi dall'Udc ma anche da Italia Futura, che è un partito padronale, come lo era a suo tempo Forza Italia. Deve ridimensionare il ruolo di chi è portatore di conflitti di interesse. Ma soprattutto deve imporre che i suoi candidati siano persone nuove, non membri di quella casse politica che ha fallito. Ai miei studenti di private equity insegno che nel giudicare la credibilità di un fondo di investimento non basta valutare la strategia, ma bisogna valutare la coerenza della strategia con le persone che andranno ad implementarla. La migliore strategia di investimento nel settore delle biotecnologie non è credibile se i partner del fondo non hanno conoscenza, esperienza, e una storia di successo nel settore. Lo stesso vale per le agende politiche. Non si può parlare credibilmente di trasparenza dei finanziamenti ai partiti, con chi non ha oggi la massima trasparenza sui suoi finanziamenti. Non si può parlare credibilmente di regolamentazione delle lobby e dei conflitti di interesse, con chi organizza un partito personale ed è portatore di conflitti di interesse. Non si può parlare credibilmente di etica della politica con chi ha portato in parlamento Totò Cuffaro e Saverio Romano. Pur con tutti i suoi limiti l'agenda Monti è troppo importante per essere lasciata in mano a questi Montiani, perché dopo il tradimento di Berlusconi la cosa peggiore per gli italiani non sarebbe la sconfitta dell'agenda Monti, ma un suo ulteriore tradimento. Se un'altra volta l'agenda liberale viene usata come foglia di fico per difendere gli interessi di pochi, a soffrirne non sarebbe solo l'economia del nostro Paese, ma la sua stessa democrazia. 3- TROPPO STATO IN QUELL'AGENDA . Alberto Alesina e Francesco Giavazzi per il "Corriere della Sera".
Per diminuire in modo significativo la spesa pubblica, e quindi consentire una flessione altrettanto rilevante della pressione fiscale, è necessario ridurre lo spazio che lo Stato occupa nella società, cioè spostare il confine fra attività svolte dallo Stato e dai privati. Limitarsi a razionalizzare la spesa all'interno dei confini oggi tracciati (la cosiddetta spending review) non basta. Nel 2012 il governo ha tagliato 12 miliardi di euro; altri 12 miliardi di risparmi sono previsti dalla legge di Stabilità per il 2013. Troppo poco per ridurre la pressione fiscale. Abbassare la spesa al livello della Germania (di quattro punti inferiore alla nostra) richiederebbe tagli per 65 miliardi. Per riportarla al livello degli anni Settanta (quando la nostra pressione fiscale era al 33 per cento), si dovrebbero eliminare spese per 244 miliardi. Di ridurre lo spazio che occupa lo Stato non si parla abbastanza nel programma che Mario Monti ha proposto agli italiani. Anzi, finora il governo Monti si è mosso nella direzione opposta. Ad esempio ha trasferito Snam rete gas, l'azienda che gestisce la distribuzione del gas, dall'Eni, di cui lo Stato possiede il 30%, alla Cassa depositi e prestiti, di cui possiede il 70%, cioè l'ha in sostanza nazionalizzata. Non c'è bisogno di ripercorrere la storia dell'Iri (l'Istituto per la ricostruzione industriale) per ricordarci quanto sia costato ai contribuenti l'intervento pubblico nell'economia. Basta fare i conti di Alitalia. Cinque anni fa il governo Berlusconi si rifiutò di vendere l'azienda ad Air France. Invece ne scaricò i 3,2 miliardi di debiti lordi sui contribuenti e indusse alcuni imprenditori ad acquistarla, con l'impegno «implicito» a intervenire se le cose fossero andate male. Come era facile prevedere, Alitalia oggi è sostanzialmente fallita. Il governo deve ora fare fronte al suo impegno verso i nuovi azionisti. Peraltro in un'operazione della quale a suo tempo fu regista l'attuale ministro Passera. Circolano persino ipotesi di un ingresso delle Ferrovie dello Stato, cioè una ri-nazionalizzazione. Invece bisognerebbe andare nella direzione opposta: privatizzare la Cassa depositi e prestiti, come i governi degli anni Novanta seppero fare con l'Iri. Spostare il confine fra Stato e privati, restringendo lo spazio occupato dallo Stato, richiede alcune decisioni importanti. Cominciamo dalla sanità. Con l'invecchiamento della popolazione la spesa sanitaria è diventata un bomba a orologeria per le finanze pubbliche, un problema non solo nostro ma di tanti Paesi avanzati. L'offerta di servizi sanitari in Italia è per lo più gestita dallo Stato: l'area occupata dai privati è limitata, spesso di qualità inferiore ai servizi offerti dagli ospedali pubblici, con rapporti poco trasparenti (spesso vera e propria corruzione) con l'amministrazione. Esistono tuttavia centri privati eccellenti, sia per efficienza che per qualità e trasparenza. La prima cosa che il prossimo governo potrebbe fare è convocare gli imprenditori che gestiscono queste strutture e capire come riprodurle in altre regioni. C'è poi un problema di finanziamento della spesa sanitaria. Come abbiamo ripetuto più volte, non possiamo più permetterci di fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino, e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Con ciò che risparmiano, i «ricchi» potrebbero acquistare polizze assicurative, decidendo liberamente quanto assicurarsi. È un sistema che incoraggerebbe anche il lavoro: se anziché essere tassato con un'aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le rate. Lo stesso può accadere per l'università. Oggi l'università è pubblica e funziona male. È finanziata da tutti i contribuenti, ma frequentata soprattutto dai più ricchi. È un sistema che trasferisce (con grandi sprechi) reddito dai poveri ai ricchi. Perché non far pagare le rette universitarie in modo meno regressivo? Ci spiace parlare della nostra università, ma la Bocconi non riceve sussidi pubblici, si finanzia con rette scolastiche che sono modulate in funzione del reddito, ed è uno dei pochi atenei italiani che non fa brutta figura nelle classifiche internazionali. Riprodurre questo modello altrove non è impossibile. Il programma di Monti si occupa esplicitamente di famiglia e di occupazione femminile, ma anche qui proponendo di allargare lo spazio occupato dallo Stato: «Va incoraggiata la più ampia creazione di asili nido». La soluzione non è questa, bensì, come lo stesso programma indica in un altro punto, detassare il lavoro femminile e lasciare che le famiglie decidano come meglio credono la cura dei figli. Insomma, a noi pare che il programma di Monti sia troppo Stato-centrico e non punti abbastanza al ridimensionamento dell'intervento pubblico. Con un debito al 126 per cento del reddito nazionale e una pressione fiscale tra le più alte al mondo non si può sfuggire al problema di ridisegnare i confini fra Stato e privati. Illudersi che sia sufficiente «riqualificare la spesa» con la spending review rischia di nascondere agli italiani la gravità del problema.

mercoledì 26 dicembre 2012

Il nuovo che avanza.Stringiamo le chiappe.

IL PRIMO “CINGUETTIO” DEL GRANDE ROTTAMATORE - MOSÈ MONTI SU TWITTER: "INSIEME ABBIAMO SALVATO L'ITALIA DAL DISASTRO. ORA VA RINNOVATA LA POLITICA. LAMENTARSI NON SERVE, SPENDERSI SÌ. 'SALIAMO' IN POLITICA!" - UNA WAR ROOM DI MONTIANI DOC AVRÀ IL COMPITO DI ESAMINARE LE LISTE - ACCANTO AL PREMIER, OLTRE AL SUO UOMO OMBRA TONIATO, CI SARÀ PASSERA, FERMAMENTE INTENZIONATO A CANDIDARSI. INTANTO, TELEFONA (ANCHE) A BERLUSCONI PER GLI AUGURI…
da dagospia. "Insieme abbiamo salvato l'Italia dal disastro. Ora va rinnovata la politica. Lamentarsi non serve, spendersi si. 'Saliamo' in politica!". Lo ha scritto ieri sera sul suo profilo Twitter il presidente del Consiglio Mario Monti che nel tweet seguente fa riferimento alla sua agenda ribadendo: "Insieme... 'Saliamo' in politica! #AgendaMonti". I SEGRETI E LA STRATEGIA DIETRO L'AGENDA MONTI di Andrea Carugati per http://www.unita.it L'Agenda Monti si potrà consultare sul sito www.agenda-monti. it. Il sito è stato registrato a nome di Elisabetta Olivi, che è la portavoce del presidente del Consiglio. Monti ha anche lanciato un nuovo profilo twitter: «senatoremonti». In precedenza il premier compariva solo nella veste istituzionale. Il sito non è gestito dall'Ufficio Stampa della presidenza. Intanto oggi, dopo gli attacchi continui da parte di Berlusconi, Monti lo ha chiamato nel giro di classiche telefonate per lo scambio di auguri. E' il primo gesto distensivo da quando il professore si è dimesso e il Cavaliere ha iniziato a martellare l'esecutivo di critiche feroci. Negli ultimi due giorni, invece, mentre Monti lanciava segnali a destra e a manca per far credere di essere a un passo dal ritiro, gli uomini di Montezemolo e Riccardi erano stati gli unici a intuire il bluff, a credere caparbiamente che la mossa del premier fosse solo tattica. Un modo per far capire a partiti e movimenti, Udc in primis, quello che ieri ha detto a chiare lettere: che se farà il candidato premier sarà alle «sue condizioni», e che non ha alcuna intenzione di cedere il suo marchio a liste prefabbricate da altri. Un bluff molto serio, visto che chi gli ha parlato dopo il vertice a palazzo Chigi del 19 dicembre con Montezemolo e Casini, lo ha descritto inorridito dall'approccio litigioso e dalle ambizioni dei due potenziali partner. Un bluff da consumato leader politico, che ieri è quasi del tutto caduto, per la inattesa forza con cui Monti si è detto pronto a fare il candidato premier. «Ho fatto un gigantesco passo avanti...», ha chiosato lo stesso Monti al brindisi con i cronisti. E tuttavia, il messaggio di ieri contiene ancora un margine di ambiguità. Una sorta di ultimatum in modo che, prima della «salita in campo» ufficiale, tutti capiscano che le carte le darà lui solo nel nuovo centro ispirato all'agenda Monti. Che lui non sarà la foglia di fico di Casini e Fini, e neppure dei «carini» di Montezemolo, ma il dominus indiscusso su uomini e programmi. Sul tema della credibilità delle liste, del resto, il professore non ha fatto sconti. Parlando con Eugenio Scalfari ieri su Repubblica ha espresso la preferenza per l'operazione «società civile» di Montezemolo e Riccardi, e ha spiegato che il centro di Casini e Fini «non decolla perché la gente non sopporta più i politici professionali». Se ci sarà la lista unica che vuole Monti, le truppe di Casini rischiano di uscire decimate. Ieri mentre Italia Futura è corsa ad applaudire il premier («Condividiamo ogni parola dalla prima all'ultima»), l'Udc ha aspettato. E se Montezemolo ha parlato di loro come «vecchia politica», Casini al Tg3 è sbottato: «Con i personalismi non si va da nessuna parte, io sono in Parlamento da tanti anni, mica mi posso fare la plastica facciale...». Non è un mistero che un passo indietro di Monti avrebbe accresciuto il peso dell'Udc fino a farle superare lo sbarramento del 4%, unica zattera anche per gli uomini di Montezemolo. Con Monti in campo, e alle sue condizioni, cambia tutto. E infatti lui ha concesso a Casini almeno una carezza: «L'Udc è stato il più coerente sostenitore del mio governo». Ieri tra le fila di «Verso la terza repubblica» (il gruppo del patron Ferrari e del ministro Riccardi), il clima era di giubilo. «Un discorso con la cifra, lo stile e la lungimiranza di un grande statista gongola il capo di Sant'Egidio Il suo spessore morale sarà, a partire dalla sua agenda, ancora al servizio dell'Italia». Nessuno, tranne forse lo stesso Riccardi, si aspettava parole così chiare dal premier. E molti temevano di dover sbaraccare tutto e tornare a casa ancor prima di partire. Ieri pomeriggio invece la macchina si è rimessa in moto a pieno regime, per la raccolta delle firme ma anche per la composizione delle liste. «Noi ci prepariamo con la nostra lista e preferiamo andare soli, ma siamo completamente a disposizione di Monti. Se lui vorrà faremo la lista unitaria», spiegano fonti vicine a Riccardi. Insomma, una resa senza condizioni. Che potrebbe riguardare anche la persona di Montezemolo, che è sempre stato molto restio a candidarsi. «Parlerò con Monti, farò ciò che serve», ha assicurato. Il patron Ferrari ha molto apprezzato la rottamazione dei concetti di destra e sinistra fatta dal premier: «Dobbiamo uscire da questi vetero confini che rischiano di non affrontare i problemi in maniera reale». Non è solo un fatto di opportunismo: la critica durissima a Berlusconi da un lato e a Vendola e Camusso dall'altro, sono esattamente quello che Montezemolo predica da mesi. Così come il tentativo di arruolare spezzoni montiani di Pdl e Pd, opera in cui ieri Monti si è esercitato con insolita spregiudicatezza: da Frattini a Cazzola a Ichino, Monti ha fatto alcuni nomi-simbolo di persone che è pronto ad ingaggiare (e che sono prontissime a seguirlo). Ma il tentativo del Prof è decisamente più ambizioso della raccolta di qualche transfuga. Lui vuole «scomporre» l'attuale bipolarismo sulla base della sua agenda, e attrarre una fetta di società civile «assai più ampia» di quella coinvolta da Riccardi e Italia Futura. Se Monti è pronto a tagliarsi i ponti alle spalle, a rinunciare al Quirinale e al ruolo di riserva della Repubblica, è perché ha in testa un progetto molto ambizioso: cambiare la geografia politica italiana. E non è un caso se il premier insiste a citare De Gasperi e a Scalfari ha citato «i sondaggi che mi danno al 40%». «La sua è proprio una prospettiva desgasperiana, siamo a un punto di svolta della vicenda politica italiana», ragiona Lorenzo Dellai, presidente della Provincia di Trento e tra le menti più fini di Terza repubblica. PROPRIETÀ DEL DOCUMENTO DI MONTI BY PIETRO ICHINO Nei prossimi giorni si insedierà una war room di montiani doc, che avrà il compito di esaminare le liste. Si parla di alcune decine di nomi di giovani brillanti pescati nelle migliori università, per dar vita a una falange di fedelissimi, che dovrà rappresentare almeno il 30% degli eletti. Nel gruppo ristretto accanto al premier, oltre al suo uomo ombra Federico Toniato, ci sarà sicuramente Corrado Passera, fermamente intenzionato a candidarsi. Intanto, il premier uscente sbarca su Twitter come @SenatoreMonti.

domenica 23 dicembre 2012

I balletti elettorali montiani.

Il tecnico non è fesso e studia da lontano. di Pino Corrias, da Il Fatto Quotidiano.
Mario Monti avrà pure cento difetti – compreso quello di non essere troppo coraggioso – ma non è affatto stupido. Solo uno come Luca Cordero di Montezemolo poteva credere che Monti gli avrebbe prestato la faccia, la camicia immacolata, i gemelli e il gessato per fargli fare la sua prima comunione elettorale. E graziosamente mandarlo in Parlamento a vendere strette di mano e bolle di sapone con quella bella compagnia di faticatori italiani, Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Francesco Rutelli, che mai ebbero la ventura di lavorare un solo giorno, se non per idratare l’abbronzatura dei rispettivi maestri, Forlani, Almirante e Pannella. In assenza di Monti e del re dei voti siciliani Totò Cuffaro (che con massima dignità sta scontando la sua pena) gli allegri centristi rischiano di ritrovarsi ad affrontare il drago elettorale dietro alla guida vaporosa di Emma Marcegaglia, la ex signora di Confindustria sperando nella sua proverbiale capacità di cavarsela ogni volta che incrocia una catastrofe, tipo il terremoto a L’Aquila, il G8 alla Maddalena, Gianni Riotta al Sole 24 ore. Monti li guarderà da lontano, pronto a incassare i dividendi della nuova Repubblica, calcolati in spread. Il Fatto Quotidiano, 23 Dicembre 2012

domenica 16 dicembre 2012

LETTERA APERTA A NAPOLITANO.

da dagospia.
Signor Presidente, gentile Re Giorgio, Siamo un sito web piccolo ma libero e, visto che non lo fanno altri mezzi di comunicazione più importanti di noi, ci rivolgiamo direttamente a Lei come garante supremo e custode della Costituzione, nel suo spirito e nella sua prassi, per sottoporre alla Sua alta considerazione alcuni aspetti della contraddittoria evoluzione del quadro politico nelle ultime settimane, cosa che alimenta disorientamento e confusione tra gli italiani, italiani peraltro gia' duramente provati da una crisi economica che le attuali generazioni mai avevano dovuto affrontare. Noi siamo certi che Ella soltanto possa riportare tali aspetti nell'alveo dell'ineccepibilita' istituzionale, poiché sa bene che la miscela di una crisi che impoverisce e di una politica che rischia di uscire dai binari istituzionali costituiscono un rischio effettivo per la nostra democrazia che Lei, Signor Presidente, ha a cuore più di ogni altra cosa. Lunedì si apre la settimana decisiva della legislatura e dell'attuale governo. E subito dopo tutto sara' nelle Sue mani per le ultime determinazioni, che sono di competenza propria del Capo dello Stato. Approvata la legge di stabilita', il professor Monti Le ha preannunciato che verra' a rassegnare nelle Sue mani le dimissioni irrevocabili del governo, dimissioni che, secondo i più, avranno come conseguenza l'immediato scioglimento delle Camere e l'indizione delle elezioni politiche generali conseguenti. Qui ci permettiamo di sottoporLe una questione molto delicata: sulla base di cosa Lei potrà accettare le dimissioni del presidente Monti e procedere al decreto di scioglimento? Vi e' stato forse un voto di sfiducia al governo in una delle due Camere o il governo avendo posto la fiducia su di un atto di particolare rilievo del proprio indirizzo politico non l'ha ottenuta? Nessuna di queste precondizioni si e' verificata, infatti il presidente del Consiglio in carica vorrebbe basare le sue dimissioni con il discorso in Aula dell'onorevole Angelino Alfano e con la successiva astensione del Pdl, partito di maggioranza relativa, su due provvedimenti tutto sommato non decisivi per l'azione del governo come la legge di stabilita' su cui pure verra' posta la fiducia e sulla quale il medesimo Alfano ha gia' annunciato il voto favorevole del partito che formalmente egli continua a guidare. Se anche si volesse strumentalizzare il discorso in aula dell'onorevole Alfano, esso manca di un requisito essenziale ai fini della valutazione del Capo dello Stato: Alfano non ebbe a concludere il suo discorso invitando il presidente del Consiglio a recarsi al Quirinale per le conseguenti determinazioni. Ci siamo andati a rileggere il resoconto stenografico dell'intervento di Alfano e abbiamo potuto vedere che tutto ciò non c'è. C'e' invece quanto basta, Signor Presidente, secondo le nostre a tutta evidenza modeste nozioni di diritto costituzionale, per consigliare al presidente Monti una verifica politica della sua maggioranza attraverso un formale dibattito in Parlamento su di un documento politico proposto dal governo per verificare il consenso dei deputati e dei senatori. Se il presidente Monti, come sembra, non intendesse fare ciò prima delle dimissioni Lei avrebbe ampia materia per rinviare il governo in Parlamento in modo da verificare se la fiducia e' venuta davvero meno e dunque il presidente del Consiglio ritorna dal Capo dello Stato a reiterare le proprie dimissioni, che solo a quel punto diventano davvero irrevocabili secondo il dettato costituzionale e non secondo gli umori dello stesso presidente del Consiglio. E' questo, crediamo, il percorso coerente con la prassi costituzionale di cui Ella e' garante. Nel caso del presidente Monti vi e' di più: 1. Egli venne al Quirinale a dirLe che si sarebbe dimesso irrevocabilmente per via del discorso di Alfano ma meno di 48 ore dopo il capo vero del Pdl, Silvio Berlusconi, e lo stesso Alfano (ovviamente) chiedono al professor Monti di fare il candidato premier di una larga coalizione di centrodestra, cosa legittima ma che dimostra ancor più come non sia venuta meno la fiducia del Pdl nell'attuale premier. Che gioco e' questo, Signor Presidente? 2. Dopo le recenti decisioni del Tar sul Lazio, che ha revocato l 'obbligo di votare il 3 e il 4 di febbraio e venute meno le polemiche circa l'accettazione dell'election day da parte delle forze politiche, ci permettiamo di chiederLe: perché votare il 17 febbraio e non tornare invece alla ipotesi della seconda domenica di marzo o al 7 aprile, che sappiamo essere di Suo gradimento, attraverso un percorso, questo si davvero ordinato, di fine legislatura, come da Lei sempre auspicato? 3. Lei sa, Signor Presidente, che i partiti che non sono in Parlamento, nonostante il numero sia stato dimezzato, non riusciranno a raccogliere le firme necessarie entro il 12 di gennaio. E sa anche che Beppe Grillo sta gia' gridando dal suo blog alla democrazia dimezzata. Il suo movimento si sta muovendo per raccoglierle ma se si accorge di non farcela ci mette poco a boicottare le elezioni in segno di protesta e il rischio che, come in Sicilia, l'astensionismo superi il 50 per cento degli aventi diritto diventa reale. – Che ne sarà' in tal caso del futuro Parlamento, quale legittimazione e quale autorevolezza avrà il governo che ne sarebbe espressione? Senza contare, come lo stesso Grillo paventa, l'eventualità del cattivo tempo, molto comune in febbraio come ad esempio proprio il 12 febbraio dell'anno scorso, data della bufera di neve a Roma e nel Centro Italia, quella bufera che il sindaco di Roma, Alemanno, ben ricorda. 4. Sappiamo bene, Signor Presidente, che i nostri destini sono legati all'Europa, ma non Le sembra che l'attuale premier, che in Italia appare molto "choosy" verso tutti, a Bruxelles o Strasburgo non tema di prendere partito, aiutato magari in tale operazione da membri italiani del Parlamento europeo come gli onorevoli Mauro Mario e Mastella Clemente? Non sarebbe il caso di spiegargli che non e' poi così opportuno e apprezzato dagli italiani farsi definire, mentre presenta in tv il suo libro sulla democrazia in Europa, "Governatore della regione Italia" dalla sua coautrice e moltissimo amica Sylvie Gaulard, mentre egli stesso la guarda adorante? Affidiamo a Lei con rispetto, Signor Presidente, queste domande che Aldo Moro avrebbe definito "angosciose", consapevoli come siamo che solo Lei ha l'autorità, l'autorevolezza e le prerogative assegnateLe dalla Costituzione per mettere al bando tutte le miserie, oggettive (a partire dai "mercati" che non rispettano i paesi che non si fanno rispettare) e soggettive (dispetti, ombrosità, ambizioni giuste o sbagliate e quant'altro), rammentando a tutti che la forma e il rispetto delle regole in democrazia sono sostanza e non orpelli. Con deferente stima, a nome dei nostri lettori. I collaboratori e il Fondatore Signor Presidente, gentile Re Giorgio, anche noi abbiamo cercato di incanalare nella più corretta forma istituzionale il nostro pensiero. E' nostro dovere aggiungere, agganciati come siamo al pensiero vero di un paese tanto stremato quanto arrabbiato, che se non si rispettano le regole tanto vale che Lei, nell'ordine: 1. Faccia un decreto per prolungare il Suo mandato al Colle per altri tre anni e si occupi direttamente un paio di ore al giorno di crescita e sviluppo, facendo squadra con Mario Draghi. 2. Ne faccia un altro per spostare le elezioni ad anno e secolo da destinarsi, almeno risparmiamo 3. Riconfermi direttamente Monti a palazzo Chigi e ne informi Lei la signora Merkel e anche il signor Barroso e Goldman Sachs ovviamente. Se crede, gli metta Bersani come vice ma senza Alfano, basta Letta Gianni per ogni evenienza. Per Casini, se necessario, veda Lei qualcosa così il suocero e' contento. 4. Nomini, sempre con lo stesso decreto, Luca di Montezemolo ministro degli Esteri. Fara' certamente meglio di Terzi di Santaqualcosa, così non perde tempo a fare il partito e può liberare i maro' detenuti in India usando la sua amicizia con Ratan Tata, sbloccando contemporaneamente anche gli affari Finmeccanica in quel Paese, tanto le cose appaiono ormai ben legate. A patto che resti presidente della Ferrari, ciò e' evidentemente necessario al miglior espletamento delle funzioni di ministro. 5. Revochi la nomina di senatore a vita al professor Monti e nomini al suo posto per sei mesi l'anno Beppe Grillo (così anche gli italiani che non vanno sul web possono godere di un suo show in Senato) e per gli altri sei mesi Silvio Berlusconi (resta inteso che nei sei mesi di Grillo Berlusconi se ne starà a Malindi o in altra località esotica con la sua o con le sue fidanzate, così e' al riparo dai giudici cattivi tutto l'anno). Anche in questo caso, ne siamo certi, il Paese gliene renderà merito. Se si muovesse con tempestivita' salverebbe anche l'esimio professor Monti dall'abbraccio di tutti i riciclati, voltagabbana, ex banchieri e banchieri in servizio, incandidabili e ciellini che stanno salendo sulla sua zattera.

Ricordando Piervittorio Tondelli.

Pier Vittorio Tondelli e questo presente post ideologico di Marco Righi, da Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2012.
Lo ammetto: è da un bel po’ di tempo che non mi alzavo così presto la mattina. Ho preso un treno a Reggio, un Frecciargento, sto andando a Milano per lavoro. Venerdì è nevicato e lungo i campi, a chiazze, alcune spruzzate bianche persistono. Il sole sta sorgendo, la luce rossastra – intensa – taglia i casali dispersi nelle campagna, l’aria è tersa. Gli alberi sono secchi e ancora avvolti dalla brina della scorsa notte. Le autovetture ferme ai caselli producono gran fumane, dirimpetto a me un popolo di pendolari a bocca aperta è intento nel rubare gli ultimi istanti di dormiveglia. Lungo questo tratto d’Emilia che tra breve sconfinerà oltre il Po in Lombardia mi viene alla mente Pier. La sua epopea del viaggio della provincia italiana quanto è mutata in questi ultimi anni. In tanti si sono trasferiti verso i centri urbani, altrettanti emigranti li hanno sostituiti: arrivano dall’India per occuparsi del bestiame, dall’Est Europa per assistere i nostri anziani, ultimi testimoni del Ventennio nero del secolo appena trascorso. Gente umile quest’ultima, come scrive Pier Vittorio, che ci ha tenuto in braccio, che ci ha in qualche modo contenuti. Anche le ideologie in questo cambiamento hanno compiuto vari giri di boa. Basti pensare alla «bassa» padana, da sempre rossa come lo era la bandiera del Pci prima che si dissolvesse; dalla quasi-unanimità di comunisti e socialisti formati dai commissari politici durante gli anni della Resistenza, alle ondate – deriva culturale – catturate dal rancore xenofobo leghista, fino ai movimenti attuali che rifiutano qualsiasi inquadramento. Le cosiddette generazioni a cui i politici e i partiti chiedono di essere, oggi, post-ideologici. Nella più grande crisi finanziaria vissuta dal dopoguerra. In questo mutamento, nonostante le dure calamità distruttive che li ha colpiti, la gente ha resistito, si è fatta forza come collettività. Ha cercato di rimboccarsi le maniche più di prima, ospitando, ricostruendo, provando a continuare a vivere. Tondelli adorava gli abitanti della sua terra, era una difficile convivenza a volte ma ne riconosceva sempre il valore (soprattutto nelle donne, “rezdore” cioè reggenti, schiena d’Emilia) umano. Sottolineava spesso il cuore e la generosità di queste persone semplici non perdendo mai di vista però i loro nipoti, i giovani, affinché fossero consci del loro passato ritagliandosi il presente. Pier Vittorio Tondelli moriva ventuno anni fa, il 16 dicembre del 1991, su un lettino ospedaliero. La malattia (l’Aids) lo aveva definitivamente prelevato dal suo piccolo borgo, nel quale, per quanto lui avesse potuto viaggiare attraverso il mondo, abitando da una parte all’altra del continente: “tutta la sua vita sarà contenuta in questo budello che va dalla casa in cui è nato al camposanto. Un paio di chilometri che percorrerà come le stazioni di una via della croce, quella dell’incarnazione e della sofferenza; “da qui a là” è un gesto mentale che lui ora ripete guardando in fondo al viale e ritornando con gli occhi sulla finestra che gli ha aperto il primo panorama della sua vita. “Da qui a là” è tutta intera la sua vita» (estratto da Camere Separate, Pier Vittorio Tondelli, 1989). Grazie Pier.

sabato 15 dicembre 2012

La vergogna di Trenitalia.

Moretti dimettiti oggi. Ci fai bella figura
di Simone Perotti, da Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2012. Moretti, fai una cosa per la tua immagine, dimettiti. Trenitalia non va. I tuoi treni non vanno. Tu non vai. E noi non ne possiamo più. Sono su uno dei tuoi treni, Moretti. Treni vecchi, sporchi, privi di manutenzione. E sono fermo a La Spezia, dove dovevo partire alle 10.40. Il treno ha 70 minuti di ritardo in partenza, e Dio solo sa quanti ne avrà in arrivo. Quello che viene in senso inverso ne ha 220. Il tutto per un po’ di pioggia e qualche centimetro di neve. Stavolta ti ha detto male, non c’è stato nessun disastro. A Genova non hanno neppure chiuso le scuole. Nessuna “bomba d’acqua”. Nessun Tifone africano. Niente. Solo pioggia e due fiocchi di neve. D’inverno capita. E quando va così si vede meglio come funziona male la tua azienda. Nessuna scusa, stavolta. Tu, dammi retta, dimettiti dal vertice delle Ferrovie. Ho fatto il comunicatore per vent’anni, me ne intendo di queste cose: ci faresti bella figura. Uno che vuole fare il Tav, che perde tempo a competere con Montezemolo su quale treno vada più veloce… ma non sa far andare i treni normali, quelli degli italiani, della gente comune, beh, uno così non sa fare il suo mestiere. Non è grave, capita di sbagliare, di fallire. Capita agli operai, e li cacciano. Capita agli impiegati, e li licenziano. Capita a tutti. Anche a te. Magari, Moretti, eri adatto a fare gelati, oppure a occuparti di storia antica. Chi lo sa. Chissà che Mozart assassinato c’era in te. Non certo un capostazione. Quello, mi pare evidente, non lo sai fare. E mi fermo qui. Se ti riferisco cosa si dice di te in Italia, su questo treno, tra la gente, ci resti male. Però noi siamo qui. Nel mio scompartimento c’è un signore di settant’anni e una cinesina gentile. Poveri cristi come me, fermi. Mentre tu guadagni una barca di soldi e se i treni non vanno te ne stai ugualmente sulla tua poltrona, te ne sbatti. Fino a che gente come te non si dimette, come questo treno, il nostro Paese non potrà partire. Il problema dell’Italia non è lo spread, sei tu. E quelli come te.

venerdì 14 dicembre 2012

Deprofundis per Monti.

HA FATTO ALMENO QUESTO. di Beppe Grillo, dal suo blog.
A tutti si concede la frase "Ha fatto almeno questo..". L'onore delle armi. Anche il critico più feroce riconosce alla sua vittima un piccolo insignificante merito. Mussolini ha almeno prosciugato le paludi pontine. Nerone ha almeno costruito la Domus Aurea. Brunetta almeno conosce la ricetta originale della pasta e fagioli. Berlusconi ha almeno evitato il carcere. Fassino aveva almeno una banca. D'Alema ha almeno una barca. Scalfari ha almeno scassato i cosiddetti per quarant'anni filati con i suoi editoriali. Mastella ha almeno una piscina a forma di cozza. Tutti hanno un almeno, anche i più sfigati. Un "almeno" nel proprio curriculum serve per evitare la "damnatio memoriae", la cancellazione dalla memoria collettiva e la distruzione di ogni traccia che possa essere tramandata ai posteri. Mi sono chiesto quale fosse l'almeno di Rigor Montis, il dimissionario extraparlamentare. Ho pensato allo spread, il suo unico alibi governativo, ma lo spread non si è turbato più che tanto dalla sua prossima dipartita e neppure i titoli di Stato che anzi chiudono in rialzo. Certo, lo ammetto, sono leggermente prevenuto dopo una debacle degna di Caporetto, con disoccupazione, debito, tassazione alle stelle e aziende che muoiono come le mosche d'inverno e il PIL che sprofonda. Ho pensato quindi che l'almeno di Monti fosse la sua reputazione internazionale, nessuno è profeta in patria. Vederlo abbracciato spesso alla Merkel e a Hollande come a due salvagenti personali era più che un indizio di almeno. Ho letto per conferma il Financial Times a firma Wolfgang Munchau "L'anno di Monti è stato una bolla, buona per gli investitori finché è durata. E probabilmente gli italiani e gli investitori stranieri non ci metteranno molto a capire che ben poco è cambiato nel corso dell'ultimo anno, ad eccezione che l'economia è caduta in una profonda depressione. Due cose devono essere sistemate in Italia, la prima è invertire immediatamente l'austerità, in sostanza smantellare il lavoro di Monti... la seconda è scendere in campo contro Angela Merkel...". Forse il FT è di parte, troppo di sinistra. Ho dato una scorsa al New York Times, un articolo di Paul Krugman "Tecnocrati "responsabili" costringono le nazioni ad accettare la medicina amara dell'austerità, l'ultimo caso è l'Italia dove Monti lascia in anticipo, fondamentalmente per aver portato l'Italia in depressione economica". Il NYT deve essere comunista. Sono passato a sfogliare il Daily Telegraph "Monti ha portato l'inasprimento fiscale al 3,2% del Pil quest'anno: tre volte la dose terapeutica. Non vi è alcuna ragione economica per farlo. L'Italia ha avuto infatti un budget vicino al saldo primari nel corso degli ultimi sei anni". Maoista! Forse però un almeno lo ha anche Monti. Almeno si toglie dalle balle. Ci vediamo in Parlamento. O fuori o dentro. Sarà un piacere.

giovedì 13 dicembre 2012

I banksters vanno fermati.

Il secondo default della Grecia. di GUIDO VIALE, da il manifesto.
Concentrata sulle dimissioni di Monti e sulla ridiscesa in camposanto (ovviamente in senso metaforico) di Berlusconi, la stampa nazionale ha dato poco rilievo a una notizia che invece ne meritava assai di più. Per la seconda volta nel giro di un anno o poco più lo Stato greco è fallito: cioè ha ristrutturato il suo debito con una manovra che altrove si chiama default, e che consiste nella decisione di rimborsare solo in minima parte un debito in scadenza; una specie di "concordato preventivo". Tutto su indicazione della Troika (Bce, Fmi e Commissione europea), del Governo tedesco e di tutti gli altri Stati che in questi tre anni hanno imposto alla Grecia, alla sua economia e alla sua popolazione, di andare i malora. Se quella ristrutturazione fosse stata fatta tre anni fa, allo stesso costo, l'economia greca sarebbe ancora in piedi e l'euro e l'Unione europea non ne avrebbero subito i contraccolpi che hanno spinto l'intero continente (Germania compresa: anche lì la crisi è alle porte) verso il cosiddetto double dip : cioè una ricaduta nella crisi molto peggiore della prima. Ma chi sono i responsabili di questa situazione? Sapientoni come Trichet, Draghi e Monti che vivono solo di spread e denaro e non sanno niente del sangue che scorre nelle vene e nei corpi della gente che governano; o, meglio, che amministrano. Nessuno di loro aveva previsto la crisi: né la prima né la seconda. E Monti, dopo il primo memorandum della Troika che aveva messo la Grecia alle corde, sosteneva che quel paese aveva finalmente imboccato la strada della ripresa. Così, diventato Presidente del Consiglio, ha lavorato e ancora lavora per fare imboccare all'Italia la stessa strada; sostenendo, naturalmente, che sta salvando il paese. Ma è molto interessante il meccanismo di questo secondo default della Grecia. Il governo greco ha ricomprato una grande quantità di propri titoli di debito (ormai considerati carta straccia) pagandoli meno di un terzo del loro valore di emissione. Per farlo ha utilizzato fondi concessi dall'Esfs (il cosiddetto "fondo salvastati") che a sua volta li ha avuti in prestito dalla Bce. Questi fondi sono garantiti da tutti gli Stati dell'eurozona, i cui debiti pubblici sono così aumentati in misura proporzionale ai rispettivi Pil. E fin qui, niente di male: solidarietà, si potrebbe dire. Ma a chi sono finiti i fondi con cui il governo greco ha ricomprato quei titoli? In parte alle banche greche, sull'orlo del fallimento per le operazioni speculative che hanno messo in atto negli anni passati. Per questo il Governo greco si appresta a sostenerle con un'altra tranche di un nuovo prestito concesso dalla Troika, utilizzando anche in questo caso fondi dell'Esfs. Con questa operazione, da un lato le banche ci perdono, perché rivendono a 10 quello che avevano comprato a 30 (ma che in realtà non valeva più niente). Dall'altro vengono ricompensate con denaro fresco, che non saranno mai più in grado di restituire (pronte, magari, a utilizzarlo in nuove operazioni speculative). Ma in parte a rivendere al governo greco quei titoli sono stati degli hedge fund (fondi speculativi) che li hanno comprati da chi ancora li deteneva per niente, o quasi, sicuri di poterli rivendere a un prezzo molto più alto, anche se inferiore al loro valore nominale, una volta che la Troika avesse imposto al Governo greco di ricomprarli. Si tratta di quegli stessi hedge fund che con le loro manovre governano come vogliono i cosiddetti "mercati", per lo più con operazioni "allo scoperto": cioè vendendo titoli che non hanno ancora o comprandoli senza avere il denaro per pagarli, giocando sulle oscillazioni degli spread che essi stessi provocano con queste operazioni. In sostanza il circuito è questo: il governo Monti, e prima di lui quello Berlusconi, mettono alla fame pensionati, lavoratori, studenti e disoccupati per ridurre la spesa pubblica e pagare gli interessi sul debito. La Bce da un lato finanzia a costo zero le banche che comprano quel debito, ricavandone lauti interessi; dall'altro finanzia, sempre a costo zero, l'Esfs, il quale finanzia il governo greco, il quale ricompra i propri titoli a un prezzo che fa guadagnare somme astronomiche agli speculatori che li hanno acquistati a pochi euro. Per la proprietà transitiva della finanza, quello che Monti - e il Monti che verrà dopo di lui, e il Berlusconi che è venuto prima di lui - sottrae a lavoratori, disoccupati e pensionati finisce, dopo un giro tortuoso, nelle tasche degli speculatori che lo usano per mettere alle corde il paese. Si tratta di un meccanismo ben collaudato. L'Argentina, che ha appena varato una legge che vieta qualsiasi forma di speculazione, cioè di impiego di danaro che non sia il finanziamento di imprese produttive o di famiglie, è di nuovo sull'orlo del default , nonostante che la sua economia abbia ripreso a "girare", anche grazie alla rivolta popolare contro le politiche recessive adottate in passato. Perché? Perché è stata messa in mora - e rischia il sequestro di fondi e beni delle sue imprese, per esempio conti correnti per finanziare il normale commercio internazionale, o navi e aerei, con il loro carico, che sbarchino o atterrino all'estero da un tribunale degli Stati Uniti. Questo ha dato ragione a una serie di hedge fund che hanno rivendicato, e intendono ottenere, il pagamento integrale, al loro valore originario più gli interessi, dei titoli del debito argentino (i cosiddetti Tango bond) in loro possesso: titoli che hanno ricomprato a costo quasi zero da risparmiatori che non avevano accettato, perdendo così l'intero valore del loro investimento, una transazione proposta anni fa dal governo dell'Argentina. Se ne ricava che senza una ristrutturazione del nostro debito pubblico, fatta prima che questa ci venga imposta, come alla Grecia, solo come misura per salvare banche in crisi e ingrassare speculatori d'assalto, l'Italia non potrà adottare autonomamente alcuna vera politica: né economica, né industriale, né sociale, né culturale e nemmeno civile (saremo sempre ostaggio anche del Vaticano, che di finanza, alta e bassa, se ne intende parecchio). E meno che mai si potrà promuovere un programma di conversione ecologica, necessario per ristabilire nel mondo giustizia sociale e sostenibilità ambientale. È questa la discriminante fondamentale tra chi si è aggregato al carro del centrosinistra, che è anche quello di Monti, e chi capisce che un mondo diverso può nascere solo da una netta contrapposizione di tutti i paesi dell'Europa mediterranea alle norme e ai vincoli con cui la finanza internazionale ha imbrigliato e sta condannando a morte l'economia e la convivenza civile di un intero continente.

Anche Valentino lascia.Manifesto Norma-lizzato.

Mi chiamo fuori, mi dispiace.
Cara Norma, quel che state facendo, sulla nuova cooperativa e sul possibile rilancio del giornale non mi convince affatto. La crisi non è solo di soldi, ma anche di soldati e di linea. Anche la riunione del 4 di novembre non so che fine abbia fatto. Per tutto questo mi pento di non essermi associato subito alla posizione di Rossana, cioè di separazione. Lo faccio con questa lettera, con moltissima amarezza e anche pensando che negli anni passati avrei dovuto fare di più e anche litigare di più. Dopo più di quarant'anni sono fuori da questo manifesto che è stata tanta parte della mia vita. Mi dispiace. Un abbraccio. Valentino Parlato
Antonello Caporale per il "Fatto quotidiano" Valentino Parlato è stato l'unico comunista al mondo che ha fatto scucire soldi ai capitalisti. L'unico intellettuale che si è così impadronito delle virtù (e dei vizi) dei banchieri da averli saputo tenere a bada. Senza Valentino Parlato il manifesto avrebbe smesso di respirare da tempo. Lui ha bussato a ogni porta e sempre un filo d'aria ha trovato: uno sconto cambiali, un prestito a sessanta giorni, un anticipo sui finanziamenti. Da Cuccia a Geronzi, tutti hanno firmato assegni o consigliato di farlo. Però, ed è anche questo un unicum nel mondo dell'informazione, il quotidiano non ha mai avuto bisogno di parlar bene dei suoi finanziatori, mai succube, mai con la bocca cucita. Ora Parlato prende cappello e lascia la ciurma. È l'ultimo dei grandi vecchi che abbandona il vascello già corsaro, oggi invece preda di onde così alte che prefigurano (e noi invece scongiuriamo che così non sia) l'inabissamento. Parlato insieme a Rossana Rossanda e Luigi Pintor ha anche rappresentato per la cultura della sinistra e per intere generazioni di intellettuali l'enunciazione quotidiana di una possibilità diversa dal comunismo sovietico: la rivoluzione dei rapporti tra le classi sociali non come sogno ma come pratica sperimentabile, sostenibile, moderna. Quarant'anni a sognare e a provare l'alternativa, e poi la resa. "Non abbandono la battaglia, non ho smesso di combattere e non ho voglia di desistere. Penso che ci sia un campo aperto per questo giornale, ma non in questo modo, con questa direzione, seguendo questa linea editoriale". È colpa di Norma Rangeri dunque? È responsabilità della direttrice se il comunismo non è una parola più comprensibile né spendibile? Un giornale deve avere un'identità e custodirla. La colpa di Rangeri è di averne smarrito la missione, resa opaca l'identità. Cosa è oggi il manifesto? Il 31 dicembre rischia di chiudere. E la sua defezione non aiuta. La mia e quella di tanti altri. La Rangeri non ha tenuto conto dei miei consigli e io ne prendo atto. Ritengo di formalizzare un dissenso, certo non mi sogno neanche di ritirarmi a vita privata. Ci sono con le mie forze di ottantaduenne. Ma sono qua e non mi eclisso. Il giornale ha bisogno di finanziatori, e tu eri un impeccabile cercatore di funghi. Cercavi e trovavi. Certo, ho sempre avuto un buon rapporto con i banchieri. Il mio lavoro all'interno del giornale era anche questo, e io lo portavo avanti. E devo dire di più: molti banchieri mi stanno davvero simpatici. Ci credo, con tutti i quattrini che gli hai spillato! Leggo continuamente che la finanza è il male assoluto di questa società. Ma il predominio della finanza è l'effetto della crisi della politica, della mancanza di governo. La finanza non è buona né cattiva. Contenerla, governarla, gestirne lo sviluppo, sovraintendere agli affari è compito della politica. Ma lo Stato, il potere del Palazzo e la sua rispettabilità, la sua reputazione sono andati smarriti. E allora l'effetto ottico è quel che si diceva... Con quali banchieri hai legato di più, ti sei capito di più? Con Enrico Cuccia, anzitutto. Soldi anche da lui? No, soldi niente. Ma buoni consigli, ottime entrature e una sintonia che non è mai finita. Cuccia era un lettore del manifesto? Nooo. Lo annusava, lo sfogliava ma niente più. Però comprendeva il suo ruolo e in qualche modo lo difendeva. E poi aveva radici siciliane come le mie e spesso mi diceva: tra greci e greci non si vende roba cattiva. Un motto antico, il senso di una condivisione, l'appartenenza a un mondo in qualche modo comune. Da Geronzi invece parecchi assegni. Parecchi no. Era sincero, schietto con me. Diceva sì ed era sì. Molte volte diceva no, e purtroppo era no. Un tipo glaciale, freddo, calcolatore. Non direi. Ho conservato buoni rapporti con lui e ancora due sere fa ero alla presentazione del suo libro. La stima è rimasta. Sembra invece che l'amicizia sia finita con i tuoi compagni Il disaccordo è sulla linea editoriale. E io sono l'ultimo della lista che prende posizione. Forse avrei dovuto farlo prima. Ma ripeto: il mio no è a questo giornale, a come oggi interpreta questo mondo. Non è un addio al manifesto.
Alessandra Longo, per Repubblica,intervista Norma Rangeri. «Un atto di grave inimicizia ». Norma Rangeri, direttore del Manifesto in crisi, censura, senza complessi anagrafici, l'atteggiamento del fondatore Valentino Parlato che ha deciso di chiamarsi fuori dal giornale. Rangeri-San Sebastiano restituisce le frecce che le arrivano addosso quotidianamente: «Sento un clima da cupio dissolvi, da muoia sansone con tutti i filistei, un istinto di morte che è nefasto e nel quale non mi riconosco». Le viene in mente Lucio Magri, il cui suicidio «è stato anche il segno di una sconfitta politica che lui ha assunto su di sé». Evoca con una certa durezza Rossanda: «ha preferito scrivere di Lucio sul Corriere anziché sul Manifesto. Una cosa che mi ha molto colpito». E ammette le ultime dimissioni, quelle del suo vicedirettore, Angelo Mastrandrea.
Valentino Parlato se ne va rimproverandoti di aver rinunciato al giornale-partito, di aver fatto perdere fisionomia alla sua creatura. «Capisco che Valentino sia nostalgico dei bei vecchi tempi. gli ricordo però le rotture durissime di allora. Luigi Pintor si dimise proprio contro l'idea del giornale partito. E io, che considero Pintor mio maestro, sono sulle stesse posizioni. Se identità significa ortodossia rispetto al gruppo dirigente di 40 anni fa e rispetto a quel comunismo che un lettore ventenne nemmeno conosce, io dico no, ho un'altra idea ed esigo un confronto adulto tra posizioni diverse. Non può esserci il manifesto di 40 anni fa che si staccava dal Pci. Non esiste più il Pci e nemmeno il gruppo dirigente che derivava da quella storia. Il mondo è cambiato. Tenendo fermi l'orizzonte di riferimento e la linea antisistema, il Manifesto deve avere la massima apertura politica e culturale. E' quello che ho cercato di fare con la mia direzione. La linea editoriale c'è ed è diversa da quella che vorrebbe Valentino». E' vero che anche il vicedirettore Angelo Mastrandea si è dimesso? «Sì, ha anticipato noi tutti... siamo alla chiusura del ciclo di liquidazione coatta». Come si fa senza Valentino, senza Rossana, senza tutti quei giornalisti che hanno ritirato le firme o addirittura se ne sono andati? «Nessuno di loro ha proposto una ricetta favolosa e salvifica. chiedo a chi sta fuori: come intendono combattere per rilanciare il giornale se non sono al giornale? Valentino era una presenza preziosa. Tuttavia se, come dice lui, c'è questa grande differenza di vedute, ognuno si assuma le sue responsabilità. A 15 giorni dalla fine della liquidazione coatta andarsene è un atto di grave inimicizia». Valentino è stato il vostro ambasciatore. «Valentino, poveretto, si è dato molto da fare ma non è mai riuscito, frequentando un banchiere e l'altro, a togliere l'impresa dalla massima precarietà, cosa che scontiamo adesso. Siamo andati avanti con una gestione allegra, facendo debiti. Forse si sarebbe potuto evitare, con comportamenti diversi, il fallimento». Adesso ci sarà una nuova cooperativa e il manifesto avrà un padrone. «Tra l'essere finanziati da Geronzi, com'è accaduto in passato, o avere qualcuno che compra limpidamente la testata e la affida al collettivo garantendogli piena autonomia non vedo il problema ». Porte aperte per chi vuol tornare? «Le porte sono state sbattute da altri, da chi, con un certo menefreghismo, ha lasciato il giornale in un momento difficile».

IL CAINANO E' STRATEGICO PER MONTI.

I populisti dello spread hanno già vinto le elezioni. Il ruolo dello spread nelle prossime elezioni come in tutto ciò che resta della nostra democrazia è potentemente riemerso. Lo aveva già annunciato Giorgio Napolitano dichiarando di attendere i mercati. Gli hanno fatto eco i mass media e gli attori, da Fiorello a Littizzetto. Così lunedì mattina le banche e i fondi, soprattutto quelli italiani, hanno unito l’utile con il dilettevole. Hanno venduto titoli di stato che avevano acquistato a prezzo più basso realizzando un discreto utile. E hanno fatto risalire lo spread chiarendo a tutti coloro che si candidano alle elezioni chi comanda davvero. Berlusconi è stato solo un utile idiota di questa operazione di regime. Tutti in Italia sanno che non solo non ha alcuna possibilità di vincere, ma che il suo ritorno in campo è il segno di una crisi della destra e dei suoi penosi gruppi dirigenti che è destinata a durare. Quel vero politico cinico e spregiudicato quale è Mario Monti, ha usato la disperazione del populista di Arcore per mettere sull’avviso tutti e in primo luogo Bersani ed il centro sinistra. Io sono lo spread, ha fatto sapere il nuovo Re Sole, la politica italiana deve inchinarsi a me e alla mia agenda, il modo si vedrà. Subito il can can di regime si è scatenato. Il problema non è solo Berlusconi, ma anche l’inaffidabilità del centro sinistra che ha al proprio interno chi, udite udite, osa mettere in dubbio qualche parte dell’operato del governo. I telegiornali si sono diffusi nell’intervistare i nuovi leader della indignazione civile, i broker della Borsa, trovando pensosa conferma di queste preoccupazioni. A cui il centro sinistra ha risposto o con balbetti, o con la fiera affermazione di Bersani sul Wall Street Journal: noi siamo con Monti, che non ha bisogno di candidarsi perché manterremo tutti i suoi impegni e magari lo faremo Presidente della Repubblica. Così lo spread ha già vinto le elezioni prima dello scioglimento delle Camere. Chi oserà più, stando al governo, non dico mettere in discussione il fiscal compact o il pareggio di bilancio, ma la controriforma delle pensioni e del lavoro o l’Imu? Ma andiamo, sappiamo tutti che a questo punto le elezioni diventano soprattutto una bolla mediatica di chiacchiere nelle quali diventa difficile anche promettere, e per questo tornerà in scena il vecchio spettacolo di berlusconiani e anti berlusconiani. Se si volesse fare diversamente si dovrebbe avere il coraggio di sfidare apertamente lo spread e di predisporre misure atte a neutralizzarne i contraccolpi. Così come, se si mettono le tasse ai ricchi ci si deve preparare alla loro fuga all’estero e agire di conseguenza, così se si vuole fare qualcosa di diverso da Monti bisogna dare per scontata la vendetta dello spread e attrezzarsi contro la speculazione e la finanza. Altrimenti è quest’ultima che governa, con Monti. Non è lo stanchissimo populismo di Berlusconi a farmi paura, ma quello dello spread, la lotta di classe dall’alto del grande capitale che fa appello al popolo per difendere il governo delle banche. Il palazzo politico e lo stesso Vaticano si sono già prostrati. E non credo che Grillo possa rappresentare una reale alternativa, per la semplice ragione che i voti li prende contro i ladri di galline della casta politica e non contro i signori dello spread. La sinistra alternativa si sta precipitosamente e disperatamente organizzando, ma non so se c’è il tempo per superare anni di ritardi nelle scelte e nei programmi. Così siamo politicamente molto più indietro della Spagna o della Grecia, ma come la Grecia andremo a votare sotto la dittatura dello spread. L’unico vantaggio che abbiamo è che queste elezioni già segnate sono vicine e passeranno presto. Poi ci sarà la lotta contro il potere dei signori dello spread che dovremo organizzare, e che sarà sempre più forte man mano che l’avanzare della crisi di quel potere mostrerà l’inutile ferocia. Per definire una agenda politica ed economica alternativa a quella che ci domina, noi che abbiamo organizzato il primo No Monti Day e che già sappiamo ce ne vorranno altri ci incontriamo a Roma il 15 dicembre. Giorgio Cremaschi (11 dicembre 2012)

martedì 4 dicembre 2012

No al Monti- bis.

Quelli che “ci vuole credibilità per attirare i capitali esteri…” di Alberto Bagnai,da Il Fatto Quotidiano.
(Chiedo scusa se vi ho trascurato, so che avete sentito la mia mancanza – soprattutto i moderatori! – ma come sapete ho avuto di peggio da fare). Il mondo ideale del luogocomunista è un mondo austero, popolato da virili lavoratori a torso nudo, dal bicipite tornito e dalla mascella squadrata (come in un affresco littorio o sovietico), che producono, producono, producono, senza preoccuparsi troppo di chi comprerà. In questo mondo sobrio e severo nessuno regala niente, devi meritarti tutto. Come dicono gli economisti: non ci sono pasti gratis, non ci sono free lunch, e, naturalmente, non bisogna vivere al di sopra dei propri mezzi. O meglio…per quanto questo possa sembrare strano, i luogocomunisti, sì, proprio loro, in realtà sono convinti che al mondo un free lunch ci sia. Quale? Non ce la farete mai, ve lo dico io: i capitali esteri! Sì, proprio quei capitali dei quali, a sentire il governo, abbiamo tanto bisogno per risolvere tutti i nostri problemi, inclusi, guarda un po’, quelli della Sanità, al punto che per attirarli, questi capitali, facciamo strame dei diritti dei lavoratori. Cerchiamo di ragionare, non è difficile (tranne che per i luogocomunisti). Quando ti fai prestare soldi? Normalmente, quando ne hai bisogno. E quando si ha bisogno di soldi? Normalmente, quando non si guadagna, e quindi non si risparmia, abbastanza. Ma se ti prestano soldi, contrai un debito, no? Certo! E i tuoi redditi futuri, se contrai debiti, aumentano o diminuiscono? Dipende da cosa fai coi soldi che ti prestano, ma una cosa è certa: dai redditi futuri dovrai in ogni caso detrarre gli interessi che paghi al tuo creditore. Un dato sul quale i luogocomunisti glissano con eleganza. L’esilarante paradosso del luogocomunismo è questo: le stesse persone che “lo Stato, come una famiglia, non deve fare debiti”, vedono poi la panacea dei problemi del paese nel contrarre ulteriore debito estero. Perché il debito del “sistema paese” verso l’estero non aumenta solo quando il governo vende all’estero un titolo di Stato (il debitopubblicobrutto che i luogocomunisti vogliono abolire). Il debito estero aumenta anche se un imprenditore (o lo Stato) italiano cede all’estero un’azienda, vendendo un pacchetto di controllo. Infatti le statistiche, correttamente, collocano la cessione a un investitore estero del controllo di una azienda italiana tra le passività estere dell’Italia (chi non ci crede legga pag. 74, e chi non lo sa non è un economista). Ma poi scusate, il problema non era che “abbiamovissutoaldisopradeinostrimezzi”? E la soluzione sarebbe? Farsi prestare altri soldi dall’estero!? Ci vuole molto a capire che, se un’azienda italiana passa in mano estera, l’Italia è meno ricca? Per i luogocomunisti evidentemente sì. E ci vuole molto a capire che, dopo, i redditi che l’azienda produce verranno molto probabilmente espatriati, riducendo il reddito nazionale e aggravando la bilancia dei pagamenti? Pare di sì. Notate: in entrambi i casi (vendita di un titolo all’estero, cessione di un’azienda all’estero) in Italia affluiscono capitali dall’estero, cioè il paese si fa prestar soldi, contrae un debito, accumula passività. La posizione patrimoniale netta del paese si deteriora, ma c’è una differenza: per il “sistema paese” il debito contratto vendendo un’azienda è ben più costoso di quello contratto collocando un titolo (pubblico o privato), per il semplice e ovvio motivo che il capitale di rischio normalmente riceve una remunerazione più elevata. So che anche qui, formati al divino insegnamento del pubblicobruttoprivatobello, non mi crederete, ma un esempio lo avete avuto sotto gli occhi: guardate che bella fine ha fatto l’Irlanda, che per attirare i capitali esteri ha slealmente praticato una politica di dumping fiscale! I capitali privati esteri sono arrivati, e il paese è rimasto schiacciato sotto il loro costo (mentre il debitopubblicobrutto era esiguo, al 24% del Pil). Non so se è chiaro: le ripetute esortazioni a vendere i “gioielli di famiglia” (cioè le imprese italiane, specie pubbliche, soprattutto se remunerative) a capitalisti stranieri, allo scopo di ridurre il debito pubblico, se fossero in buona fede sarebbero deliranti! Equivarrebbero a dire: sbarazziamoci di un debito che costa molto, per contrarne uno che costa di più (in termini di redditi destinati a lasciare il paese). In generale, la politica di “credibilità” del governo Monti, vista alla luce della bilancia dei pagamenti, equivale a quella di una persona che, perso il lavoro, non si preoccupa di trovare un’altra fonte di reddito, ma va in un negozio a comprare un bel vestito costoso, che lo renda più “credibile” presso la banca alla quale vuole chiedere in prestito i soldi per campare un altro mese (sì, sto parlando di questo). Ma l’austerità ha distrutto ulteriori redditi, si è risolta in un colossale spreco di risorse, proprio come l’acquisto del vestito “credibile”. Il problema è che l’austerità è la risposta giusta all’ennesima domanda tragicamente sbagliata: “come facciamo a sembrare credibili per farci prestare soldi che ci facciano tirare avanti per un po’?” La domanda giusta sarebbe: “come facciamo a rilanciare la nostra economia, creando reddito e quindi risparmio, ed evitando così di farci incaprettare dai mercati?” E la risposta lo sapete qual è, è dentro di voi, ed è giusta: uscendo dalla trappola dell’euro e riacquistando sovranità monetaria, per rilanciare la competitività e stimolare la domanda interna. Questo, vi assicuro, lo sanno anche i tecnici, è scritto anche nei loro libri. Ma la buona fede, è evidente, non c’è: c’è invece l’ovvia intenzione di favorire i creditori esteri, facilitando in tutti i modi (col dumping sociale, con la distruzione del sistema produttivo italiano) l’acquisto da parte loro di attività reali italiane (aziende, ospedali, immobili, marchi di fabbrica, know-how), che in caso di uscita dall’euro non potrebbero svalutarsi (mai visto un capannone restringersi dopo una svalutazione!), e garantirebbero bei profitti (da espatriare rigorosamente all’estero). Ne riparliamo dopo il Monti bis, o preferite evitare?

lunedì 3 dicembre 2012

La mossa arancione .

Al voto quelli di cambiare si può. Di Daniela Preziosi, da il manifesto. Sala strapiena al lancio delle liste «cambiare si può». Il 14 e il 15 dicembre una nuova mobilitazione. Lungo applauso a Ingroia: «Io non mi tiro indietro». De Magistris: "Ci sto per vincere".
«Il ventennio berlusconiano ci ha lasciato le macerie delle leggi ad personam. L'Italia è come il Guatemala». E chi altro potrebbe dire una roba così, se non il pm Antonio Ingroia, fra gli applausi del teatro Vittoria, «un paese a sovranità limitata, con le reti criminali che ne considizionano l'economia. È questa la vera anomalia italiana». All'assemblea della campagna Cambiare si può - l'appello dei 70 per far nascere le liste arancioni, primi firmatari Gallino, Pepino e Revelli -, convocata alla vigilia delle primarie con ostentata noncuranza verso il vincitore, sono arrivati in mille da tutta Italia. Nello storico teatro di Testaccio si fanno i turni per entrare, il dibattito è amplificato per chi resta fuori sotto l'acquazzone. Lo diciamo subito, quello del magistrato palermitano non è un intervento fra gli altri. Applausi quando sale sul palco, molti in piedi. Il teatro viene giù quando conclude «io non mi sono mai tirato indietro, sia al palazzo di giustizia di Palermo che fuori. Io sarò con voi, dal Guatemala o dall'Italia». Ingroia è il corteggiato speciale del movimento arancione. Per una candidatura o anche meglio la leadership del futuribile quarto polo. E lui dice sì, o quasi, «la vostra iniziativa è lodevole e necessaria, cambiare si deve, dico di più: si può». Si fa avanti, aderendo al progetto di democrazia radicale, «non serve un salvatore della patria», ai toni anticasta e anti borghesia criminale, «l'antimafia italiana ha avuto come principio il contenimento delle mafie, la politica ha tutelato questo principio per tutelare i legami che aveva con la mafia», «bisogna progettare un politica che abbia l'ambizione di eliminare la mafia, ma non può farla questa classe politica», intendendo quella uscente e anche quella rientrante. Scende dal palco rincorso dagli applausi, dalle strette di mano e dai cronisti: lascerebbe già il suo incarico in Guatemala?, «Non è escluso, tutto è possibile». Intanto una firma ce la mette: sul referendum per il ripristino dell'articolo 18 e per la cancellazione dell'art.8 della legge Sacconi. De Magistris: autonomi o alleati Ripartiamo dall'inizio. Perché non è di leadership che si discute, per sette ore senza interruzione, 47 interventi su 220 richieste. Piuttosto di organizzazione, per non evaporare come successe ai girotondi. Fin dall'apertura Livio Pepino dà gambe al progetto, lanciando i «Cambiare si può day» per il 15 e il 16 dicembre. La strada è «unire tutte le forze anticapitaliste» (Antonio De Luca, uno dei 19 operai reintegrati di Pomigliano, altro papabile candidato), «praticare una rivoluzione pacifica di massa, rifondare la democrazia» (Paul Ginsborg, che invece annuncia di non volersi candidare). Dal palco arriva la voce No Tav di Gianna De Masi, quella «No Triv», no alle trivelle, di Guido Claps, fratello della giovane Elisa, uccisa dalla mafia basilisca (uno dei firmatari dell'appello è don Marcello Cozzi, responsabile di Libera in Basilicata e braccio destro di don Ciotti), degli insegnanti (Roberta Roberti, Parma), studenti, medici, l'attore Moni Ovadia, l'economista Giuseppe De Marzo (A sud): tutte le sfumature dell'antimontismo, dall'arancione al rosso di Prc e di Sinistra Critica. In platea voti noti e non, ex lontani o vicini da sempre: l'ex dipietrista Elio Veltri fa una puntatina, il regista Citto Maselli ascolta tutti dall'inizio alla fine. Fino all'atteso Luigi De Magistris, l'unico sindaco arancione doc che l'assemblea riconosce. Il 12 dicembre a Roma presenterà la sua lista, ci saranno «un veneto attivista contro il nucleare, un siciliano contro il Ponte sullo stretto, un campano contro le discariche». Deve spiegare l'apertura all'alleanza con il centrosinistra, prima o dopo il voto, dichiarata in un'intervista al manifesto. In effetti qui gli appelli a rivolgersi anche a chi ha partecipato alle primarie - gli elettori di Vendola - sono tanti (tra gli altri, Tiziano Rinaldini), ma altrettante le scomuniche: «Una cosa è certa, chi ha firmato la carta d'intenti non sta con noi», dice l'assessore di Napoli Alberto Lucarelli.Eppure il giurista Ugo Mattei, fra i promotori dei referendum sull'acqua del 2011, ha appena svolto l'argomentazione opposta. De Magistris mette insieme tutto: «Le nostre idee sono maggioranza nel Paese. Se vogliamo combattere per vincerle, le elezioni, io ci sto. La sfida è battere le massomafie, realizzare la rivoluzione governando». Quanto alle alleanze «credo nell'autonomia, e con il centrosinistra così com'è ora non mi alleo». E però: «Non mi interessa il diritto di tribuna». Ai cronisti, poi, deve spiegare ancora: «Vendola e Bersani non sono nemici. Vorrei una legge elettorola con le preferenze e l'indicazione della coalizione». Roma, partiti, e soggetto nuovo Ieri Cambiare si può ha presentato una traccia di programma di governo, 25 punti dai bene comuni al taglio degli F35, alla difesa della scuola e della sanità pubblica. Ma c'è ancora strada da fare. Intanto nei rapporti interni. «Diciamocelo chiaro: qui non comandano i partiti, no alla riedizione della Sinistra Arcobaleno», si appassiona il toscano Massimo Torelli (Alba). Di quella nomenklatura in sala c'è qualche dirigente Sel in sofferenza (Alfonso Gianni, vicino a Fausto Bertinotti). Ma c'è il Prc al gran completo, dal segretario Ferrero a tanti militanti. Parlano dal palco (non Ferrero) ma a nome di altre militanze (No debito, Social forum). C'è chi chiede un passo indietro comunque. E chi dall'altra parte trattiene il malumore, è un po' una beffa essere mescolato nel calderone della casta per il solo fatto di aderire a un partito, benché antimontiano, anticapitalista e movimentista. «Siamo lungimiranti», tranquillizza l'ex senatore Giovanni Russo Spena. Il problema non si porrà, se la legge elettorale consentirà a ciascuno di fare le sue liste, per poi unirsi in coalizione. Se no, se ne discuterà. Intanto è già partita la prima lista arancione alle amministrative di Roma. Il candidato è Sandro Medici, «la mia è un'esperienza che sta dentro quest'assemblea». Anche la partenza verso le politiche è cosa fatta, alla fine un voto lo sancisce. Anche se alcuni saggi consigliano di non precipitare. Così Tonino Perna: «Per insegnare a nuotare a un bambino piccolo non lo butta all'improvviso nell'acqua». E sociologo Marco Revelli, in conclusione: «I 'Cambiare si può day' saranno una consultazione nei territori. Ci rivediamo entro dicembre e valutiamo com'è andata». Per vedere se il quarto polo davvero si può.

domenica 2 dicembre 2012

Han la faccia come il culo worldwide.

I Will NOT Be Silenced by a Congressman! By Jeff Siegel | Saturday, December 1st, 2012
His name is Hank Johnson. He is the Georgia Representative you may remember from back in 2010, when he told Admiral Robert Willard he was worried too many troops stationed on the island of Guam would cause it to capsize... The actual quote is as follows: “My fear is that the whole island will become so overly populated that it will tip over and capsize.” That this guy still works in Washington further proves that most voters are completely clueless to the fact that those they elect are rarely honorable or, to be frank, sane. But, as it goes, Hank Johnson is still enjoying the spoils of bureaucracy... And he's still saying really, really stupid things. A Bunch of Poppycock Last month at the Annesbrooks HOA Candidate Forum in Georgia, Johnson declared the benefits and salary members of Congress receive are “earned.” He went on to say... It's not elaborate, it's just a bunch of poppycock that a lot of people have spread around trying to get us to hate our own government and our government representatives. First of all, the fact that he used the word “poppycock” to describe folks questioning his compensation makes me hate him right off the bat. And the extravagant compensation he receives for basically being an incompetent government worker... well that's just icing on my cake of disgust. Most members of Congress make about $174,000 a year. The median pay of a typical American worker that must produce in order to keep his job: $39,416. Members of Congress also enjoy premium health insurance plans and a retirement plan that is guaranteed, even if they only serve one term. Can you imagine working just six years then being guaranteed a sweet retirement plan? And that doesn't even include the lucrative book, speaking, and consulting gigs these guys land after leaving office. This isn't “poppycock” my friends. This is bullshit! And the fact that these guys can continue to dismantle our freedoms and facilitate the destruction of this once great Democracy — and get paid for it — makes the whole thing infuriating. So if Hank Johnson believes the words that I've published on this page are causing people to hate our elected Representatives, so be it. But the truth is many people hate politicians because most of them are nothing more than bureaucratic bums who don't even work a full week, and suck off the collective teat of the American taxpayer. I have to admit I'm amazed this guy still has a job. I get that most voters are too stupid or enslaved by their party affiliations to look beyond the “Democrat” or “Republican” tag line on their ballot, but come on! This guy is just a mess. But that's just how it goes in Washington these days. Once you're there, you can pretty much stay there — as long as you provide plenty of back-scratching for all the folks who get you there... Hank Johnson is no exception. Since first being elected back in 2006, Johnson has raised more than $2 million from special interests. His three favorite sectors include: Finance, Insurance and Real Estate – $311,214 raised Lawyers and Lobbyists – $268,802 raised Labor – $371,621 raised Those three alone speak volumes about this guy's intentions. Question Authority To be honest, I really don't hate the guy. I don't actually hate any of the incompetent bureaucrats squatting in the Halls of Congress. What I do hate is the fact that most of these guys are not fit to repair the damage that's been done to this country. Instead, they're actually making it worse. So when Hank Johnson starts boasting about how he “earns” his salary and suggests that questioning his extremely generous compensation is somehow equated with facilitating hate against government officials, well, I'm sorry... As far as I'm concerned, that's grounds for dismissal. He's basically suggesting that anyone questioning his compensation is questioning the authority of the government. And yes, that's exactly what I'm doing. It's exactly what all of us should be doing. It is not only our right, but our responsibility. As Benjamin Franklin once said, “It is the first responsibility of every citizen to question authority.” And for the record, this “authority” is minimal at best. Don't let these guys bully you into believing they have more than the Constitution allows. It is "we the people" who grant authority — and it remains “we the people” that can revoke it. Live honorably, live free... Jeff Siegel for Freedom Watch P.S. Not all lawmakers have supported lavish pay raises and benefits packages... In fact, back in 1997 Ron Paul refused to participate in the pension system, calling it immoral: Members of Congress are elected by the people to handle the affairs of this nation in a responsible, efficient manner, not to enrich themselves for a lifetime. To participate in a pension plan at taxpayers expense would for me be hypocritical and immoral. I hope everyone in the 105th Congress will do as I have done: reject the pension and prepare for retirement without burdening the taxpayers for decades to come. To do any less is to perpetuate what is at it's most basic level an arrogant insult to the people we were elected to represent.