venerdì 28 febbraio 2014

Grande Bifo sull'era Renzi.

Lo scossone di Renzi e il collasso dell’Italia.
Il sentimento anti-renziano che circola nella sinistra italiana rischia di essere speculare al renzismo che ha preso in mano le redini del governo con impeto decisionista. Bersani rimprovera il giovanotto di non essere umile come se l’ipocrisia fosse una virtù politica. E si tende a contrapporre con risentimento i valori democratici del passato repubblicano alla brutalità del decisionismo giovanilista. L’ascesa di Renzi si è caratterizzata come una campagna biopolitica, o se vogliamo come una terapia anti-depressiva. In un paese stremato dalla depressione e dalla stanchezza è arrivato un vento di aggressiva energia. Come viene propagandato il nuovo vincitore? Non sappiamo niente del suo programma se non vaghe dichiarazioni contraddittorie, ma il punto non è il programma, bensì l’iniezione di sostanze toniche nel corpo affaticato e nel cervello sfiduciato del paziente depresso. Nel 1993, dopo Tangentopoli e nel pieno della crisi dissolutiva della Prima Repubblica, il giovane Silvio Berlusconi si rivolse al ceto politico chiedendo che si facesse avanti un giovane democristiano disposto a rinnovare l’Italia nel senso che piaceva a lui: libertà d’impresa, competitività, privatizzazione, riduzione del costo del lavoro, lavorare di più, e guardare molto le televisioni di mediaset. Promise il suo sostegno i suoi soldi e i suoi media, ma nessuno si fece avanti con soddisfacente energia. Si fece avanti un giovane fascista di nome Gianfranco Fini che si presentò alle elezioni del Comune di Roma. Berlusconi dichiarò che se fosse stato cittadino romano avrebbe votato per il fascista. Vinse Rutelli. Berlusconi capì che non poteva delegare a nessuno la difesa dei suoi interessi e discese in campo con l’energia scalpitante di un calciatore dichiarando il suo amore per il suo paese con la stessa faccia con cui un giovane spasimante si presenta alla famiglia per chiedere la mano della fanciulla amata. Il 27 marzo del 1994 la fanciulla Italia corse fra le braccia dell’energico spasimante e cominciò l’epoca barocca del liberismo gangsteristico. Ma venti anni dopo l’energico conquistatore si ripresenta invecchiato, rugoso e declinante, inseguito da condanne penali e processi in corso. Che deve fare, per difendere i suoi interessi e quelli del ceto finanziario gangsteristico che rappresenta? I tentativi di concludere la vicenda secondo la sceneggiatura immaginata da Nanni Moretti nel finale del suo Caimano non sono riusciti molto bene. Quando Forza Italia ha chiamato le folle a difendere il vecchio leader sono arrivate poche migliaia di vecchiardi inviperiti e qualche centinaia di giovani lettori di Ezra Pound a fare il saluto romano. Non funziona. Ora il vero delfino del vecchio gangster sbuca fuori dalle fila del partito democratico. E’ un giovane democristiano decisionista e moderno, ammiratore di Tony Blair. Proprio quello che Berlusconi non aveva trovato nel 1993. Renzi è la vittoria di Berlusconi, il trionfo finale del suo progetto, il compimento della sua opera e la conquista dell’eterna energia. Incarna gli stessi valori, ma lo fa con le mani in tasca, strizzando l’occhiolino ai trentenni massacrati da venti anni di baldanza berlusconiana e aggrediti dai diktat del ceto finanzista europeo. Non ha nessun programma, oscilla fra promesse di sussidio ai disoccupati, abbattimento delle residue protezioni del lavoro, e appelli alla competitività. Ma il programma non conta niente, quel che conta è il messaggio biopolitico di energia e aggressività. La maggior parte degli estimatori del nuovo vincitore dicono infatti che Renzi è uno scossone. E cos’è uno scossone? E’ il gesto di prendere il depresso per le spalle e scuoterlo forte, dicendogli: non buttarti giù, devi avere fiducia in te stesso, smettila di piagnucolare, sii uomo. E’ un’iniezione di anfetamina nelle vene del corpo depresso. Può funzionare? Probabilmente la conclamata alleanza tra Renzi e Berlusconi – biopoliticamente definita “sintonia” – aiuterà la stabilizzazione del sistema politico italiano, ma come potrà reagire il corpo della società italiana? Invecchiato da tassi di natalità sotto zero, con un esercito di sessantacinquenni che annaspano nelle acque come stremati nuotatori che non riescono a raggiungere la pensione perché si allontana ogni volta che credono di averla raggiunta, con un sistema industriale strangolato dalle banche ingrassate dalla rapina monetarista europea, con milioni di ventenni che sanno di non avere prospettive se non precarie, il corpo italiano è ora spinto verso un collasso cardiocircolatorio. Una banda di allegri fustigatori della pigrizia promettono ai giovani di trovargli lavoro in cambio di miseria. Il simbolo delle nuove politiche del lavoro sarà l’Expo milanese, dove migliaia di giovani potranno lavorare gratis. A imitazione della Germania felix dove sette milioni e mezzo di persone lavorano per 450 euro al mese. Quando si tratta di curare una depressione gli scossoni non servono a niente, se non a irritare il povero depresso che forse ha tutte le ragioni per essere depresso. La depressione, ci insegna Hilmann, non è una malattia, ma una condizione di vicinanza alla verità. La depressione va interpretata come un annuncio: abbiamo raggiunto il limite oltre il quale l’organismo collassa, e non possiamo continuare accelerando. La ripresa che ci promettono è solo la ripresa dei profitti, dello sfruttamento devastante delle risorse naturali, e la privatizzazione dei beni comuni. Se non si spezza la macchina finanzista la miseria dilagherà e la depressione si trasformerà in disperazione suicidaria. La depressione non si cura con l’anfetamina, ma con la rifocalizzazione, cioè cambiando scenario, cambiando le aspettative e le priorità, e soprattutto cambiando le forme di relazione. Come si traduce una terapia di rifocalizzazione in termini politici? Franco Bifo Berardi

venerdì 14 febbraio 2014

Bifo pro Tsipras.

Bifo: Con Tsipras contro l’assolutismo finanziario. di Franco "Bifo" Berardi.
Alexis Tsipras rappresenta la resistenza della società greca contro l’aggressione finanziaria, e questa è per me una motivazione sufficiente per dichiarare il mio appoggio alla lista che si presenta a suo nome alle elezioni europee, e per andarlo a votare. Ma quale scopo si prefigge questa lista? Se alle elezioni otterremo soltanto un pronunciamento della minoranza senile e tardo-gauchista (di cui faccio parte) a favore dell’unico giovane politico europeo che non sia moralmente corrotto e intellettualmente conformista, non sarà un grande risultato. Perciò assumendo l’impegno a costruire le condizioni culturali e politiche per un’affermazione di questa lista, dobbiamo ragionare sugli scenari che una campagna per Tsipras può aprire, agli effetti di ricomposizione culturale e sociale che si possono ottenere. Non ho alcuna fiducia nella democrazia rappresentativa. E’ ormai senso comune lo svuotamento delle istituzioni democratiche di fronte agli automatismi del capitale finanziario. D’altra parte l’Unione europea è costitutivamente un’autocrazia finanziaria, dal momento che le decisioni della Banca centrale europea sono sottratte alle deliberazioni del Parlamento. Dunque perché mobilitarsi, perché votare? La società europea è depressa, disgregata, rabbiosamente aggressiva. La campagna per Tsipras deve comunicare la possibilità di un processo unitario di solidarietà e di rivolta, di insolvenza e di indipendenza della vita quotidiana dalla dittatura finanziaria. Oppure non servirà a niente. Il processo di disgregazione dell’Unione europea è ormai troppo avanzato per poterlo fermare. Gli egoismi identitari eccitati dalla violenza finanziaria sono destinati a produrre i loro effetti devastanti. Non illudiamoci. La lista Tsipras può essere l’inizio di un processo di ricostituzione dell’Unione oltre la presente catastrofe, può riattivare un processo di solidarietà sociale e creare le condizioni per una ricomposizione culturale che vada oltre la crisi attuale, per una ridefinizione strategica dell’unione europea. Il problema non è l’euro Sempre più frequentemente, in Italia come altrove, si levano voci a favore dell’uscita dall’euro. E’ un’illusione pericolosa, anche se nasce da motivazioni ben comprensibili: l’unione monetaria europea ha sospeso la democrazia per imporre misure che la maggioranza respinge, e impoverito la vita di milioni di persone. Da quando esiste l’euro il salario è dimezzato, la spesa pubblica ridotta in maniera drastica, la disoccupazione cresciuta a livelli mai visti prima, mentre l’orario di lavoro non ha più limiti. D’altra parte questo non è che l’inizio, poiché gli effetti del fiscal compact e l’implacabile determinazione austeritaria sono destinati a spingere nella miseria una parte crescente della popolazione, con gli effetti politici che già si vedono: disfacimento della democrazia, disgregazione della solidarietà sociale, crescita dell’aggressività identitaria, nazionalista, razzista. Solo una visione assai miope può indurci a pensare che la causa della catastrofe sia l’unione monetaria europea, per cui sarebbe risolutiva l’uscita dall’euro, con il ritorno alle monete nazionali. La nascita dell’euro e la deriva finanziarista dell’Unione europea non sono spiegabili se non nel contesto della mutazione del capitalismo globale. Perciò occorre risalire a scelte che furono compiute un po’ prima dell’avvento dell’euro, e su un piano che non è soltanto monetario. Dobbiamo risalire alla condizione radicalmente nuova che si aprì alla fine degli anni ’70 per effetto di due fattori convergenti: la lunga ondata di lotta operaia che aveva provocato una distribuzione del reddito a favore dei lavoratori, e l’immensa rivoluzione tecnologica prodotta dalle tecnologie digitali. Occorre risalire a quella congiunzione, occorre ripensare l’alternativa che in quel momento si aprì, e occorre ricostruire i passaggi successivi che hanno reso possibile la controffensiva capitalistica di cui oggi vediamo gli effetti. L’appuntamento perduto Negli anni Settanta si conclude il secolo operaio e si apre la prospettiva dell’informatizzazione di ogni attività di manipolazione fisica e semiotica della realtà: la trasformazione tecnica che ha investito il processo di produzione non è priva di rapporto con la forza politica operaia. Fu il rifiuto operaio dello sfruttamento che costrinse il capitale ad accelerare i processi di automazione del lavoro, e fu la scolarizzazione di massa e i movimenti libertari degli studenti che resero possibile l’esplosione della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica. Ma la trasformazione tecnica aprì un’alternativa che non aveva solo carattere politico e sindacale, ma disegnava due prospettive per l’evoluzione della stirpe umana: la prima era quella dell’applicazione condivisa della potenza tecnica e di una riduzione massiccia, costante, strategica del tempo di lavoro. La seconda era quella di una gestione capitalistica unilaterale dell’innovazione tecnica e di un attacco globale alle condizioni del lavoro, con riduzione dell’occupazione, delocalizzazione e riduzione generalizzata del salario e della quota di ricchezza destinata al bene sociale. Dal momento che grazie all’innovazione tecnologica il tempo di lavoro necessario diminuiva (e non smette di diminuire) si crearono le condizioni per liberare tempo dal lavoro, così da destinarlo all’autocura, all’educazione, al perseguimento della felicità. Oppure si poteva usare la tecnologia per cacciare masse crescenti nella disoccupazione e ricattare i lavoratori riducendo il salario complessivo. Sappiamo quale strada è stata scelta o meglio imposta alla società. Il movimento operaio, culturalmente subalterno all’ideologia lavorista e incapace di comprendere l’effetto potenzialmente liberatorio delle nuove tecnologie, vide in queste soltanto un pericolo, salvo ipocritamente esaltarle senza capirle, e scelse la difesa del posto di lavoro e della composizione esistente del lavoro. Da quel momento il movimento operaio divenne forza di conservazione incapace di resistere alla trasformazione tecnica di cui il capitale divenne il solo beneficiario. Aggressività del capitale e subalternità delle sinistre resero possibile una generale deregulation che significava al contempo accoglimento della potenza trasformativa delle tecnologie ed eliminazione delle difese legali e sindacali che proteggevano la società. La tecnologia è stato il fattore decisivo della trasformazione sociale planetaria negli ultimi decenni, non la politica. Ma la politica, che avrebbe potuto scegliere di assecondare la tecnologia favorendo una redistribuzione sociale dei suoi effetti, rinunciò a rivendicare una riduzione e redistribuzione del tempo di lavoro necessario e della ricchezza. Rinunciò così all’unica misura che avrebbe reso possibile una condivisione dell’arricchimento derivante dalla potenza dell’intelligenza tecnico-scientifica. L’assolutismo finanziario A partire dagli anni Ottanta si sono così create le condizioni dell’attuale assolutismo del capitale: smantellamento delle regolazioni di protezione dei lavoratori e del territorio, privatizzazione dei servizi sociali, globalizzazione del mercato del lavoro e precarizzazione. Quando il processo di globalizzazione integrò enormi settori di nuova forza lavoro nel ciclo di produzione industriale mentre crollava il socialismo totalitario, i lavoratori delle economie emergenti potevano vedere nel modello europeo un esempio di redistribuzione della ricchezza e di contenimento dello sfruttamento. La sinistra europea a quel punto si trovò di fronte ad un’alternativa: assumere il ruolo di esempio per i lavoratori dei paesi di nuova industrializzazione, facendo della riduzione del tempo di lavoro il tema unificante su scala mondiale, oppure integrarsi al modello neoliberista e mettersi al servizio delle politiche monetariste di finanziarizzazione. La sinistra europea subì il mantra della competitività in modo subalterno e si destinò così a una disintegrazione irreversibile. Dopo gli accordi di Maastricht e poi con la creazione dell’euro il ceto finanziario globale ha portato a termine la distruzione del modello europeo e ha posto le condizioni per la deflagrazione del progetto politico dell’unione. Il capitalismo finanziario globale ha usato l’architettura monetaria dell’euro per sottomettere le dinamiche sociali e la crisi seguita al 2008 ha accelerato questa sottomissione facendo del debito la leva per l’attacco. Ma la logica monetaria sottende un processo più profondo: la deterritorializzazione del capitale resa possibile dalle tecnologie di rete ha modificato la natura del capitalismo. La borghesia industriale del passato aveva interessi fortemente territorializzati: i profitti dipendevano dalla crescita sociale complessiva. Il capitalista aveva bisogno di una comunità di consumatori e l’arricchimento della classe proprietaria non poteva prescindere dal benessere della società. Il progresso dell’economia di profitto era parallelo al progresso della società complessiva. Questo non è più vero. La macchina del capitalismo finanziario deterritorializzato non risponde più alla vecchia logica progressiva del capitalismo industriale perché l’incremento dei profitti finanziari non dipende dall’arricchimento complessivo della società, ma dalla sistematica predazione delle risorse sociali: privatizzazione della sfera pubblica, appropriazione finanziaria delle risorse comuni. Il sistema bancario produce debito, lo trasferisce alla società e la macchina politica si incarica di trasferire ricchezza dalla società verso il sistema bancario, surrettiziamente trasformato in beneficiario della predazione. Se l’accumulazione industriale dipendeva dall’estrazione di plusvalore dal lavoro operaio, l’accumulazione finanziaria contemporanea sembra piuttosto dipendere da un minus-valore, dalla predazione sistematica di ciò che la società produce, senza alcun incremento del bene pubblico. L’arricchimento della classe finanziaria (che procede imperterrito perfino negli anni più neri di recessione e di crisi) non può avvenire che al prezzo di un impoverimento della società. Il superamento della crisi del 1929 o della stagflazione degli anni ’70 comportava una riattivazione della crescita e una distribuzione (per quanto diseguale e iniqua) del valore prodotto. I lavoratori partecipavano alla ripresa economica: l’occupazione aumentava, i salari crescevano, la quota di reddito destinata al lavoro rimaneva stabile, o addirittura cresceva come accadde negli anni ’60. Ora non è più così. La formula jobless recovery è un ipocrita mascheramento della realtà: la fuoriuscita dalla recessione e l’incremento della produttività non comportano assolutamente un aumento dell’occupazione, e meno che meno un progresso salariale. Al contrario, la ripresa si fonda proprio su aumento del tempo di lavoro e riduzione dell’occupazione. Più disoccupati, più miseria, più sfruttamento, quindi più profitti. La dissociazione tra il destino della macchina finanziaria e il destino della società è totale, perché il solo modo di arricchirsi della macchina finanziaria consiste nell’impoverire la società. L’euro è stato lo strumento per l’imposizione di questo modello predatorio. Il problema dunque non è uscire dall’euro, ma uscire dal modello predatorio del capitalismo finanziario. Uscire dall’euro significherebbe accelerare la fine del progetto politico europeo senza mettere in questione le vere cause dell’impoverimento della società. Ma chi ha la forza per fermare o rovesciare la dinamica predatoria finazista? Un movimento solidale dei lavoratori europei potrebbe farlo, ma la precarizzazione sta distruggendo ogni tessuto di solidarietà, e sul piano politico si sgretola il consenso di cui godeva l’Unione europea fino a pochi anni fa. Lo sgretolamento politico d’Europa è all’orizzonte, come indica la crescita di forze nazionaliste in molti paesi del continente. Se FN diventa partito di maggioranza alle prossime elezioni francesi l’Unione europea non esiste più. A partire da Tsipras In questo contesto nasce la proposta della lista Tsipras. Questa lista può creare le condizioni per la ricostruzione di lungo periodo della solidarietà sociale, e per riaprire il discorso sul carattere progressivo della tecnologia, sull’alleanza tra lavoro cognitivo e società, sul reddito di cittadinanza e sulla riduzione del tempo di lavoro sociale. Un’affermazione strepitosa della lista Tsipras alle elezioni di maggio è la condizione per rimettere in moto l’intelligenza collettiva, per ricollegare intelligenza e solidarietà, per diradare la nebbia depressiva in cui sembra vagare la mente collettiva. (8 febbraio 2014)

EUROFATTI.

L'uscita dall'euro prossima ventura
di Alberto Bagnai, da Sbilanciamoci,23/08/2011. Il problema non è il debito pubblico, ma il debito estero, e i paesi che mantengono la loro moneta possono cavarsela con la svalutazione. L’Unione monetaria attuale serve solo alla Germania, impone bassi salari e disciplina economica. Finirà con l’uscita dell’Italia dall’euro Un anno fa, discorrendo con Aristide, chiedevo come mai la sinistra italiana rivendicasse con tanto orgoglio la paternità dell’euro: non vedeva quanto esso fosse opposto agli interessi del suo elettorato? Una domanda simile a quella di Rossanda. Aristide, economista di sinistra, mi raggelò: “caro Alberto, i costi dell’euro, come dici, sono noti, tutti i manuali li illustrano. Li vedevano anche i nostri politici, ma non potevano spiegarli ai loro elettori: se questi avessero potuto confrontare costi e benefici non avrebbero mai accettato l’euro. Tenendo gli elettori all’oscuro abbiamo potuto agire, mettendoli in una impasse dalla quale non potranno uscire che decidendo di fare la cosa giusta, cioè di andare avanti verso la totale unione, fiscale e politica, dell’Europa.” Insomma: “il popolo non sa quale sia il suo interesse: per fortuna a sinistra lo sappiamo e lo faremo contro la sua volontà”. Ovvero: so che non sai nuotare e che se ti getto in piscina affogherai, a meno che tu non “decida liberamente” di fare la cosa giusta: imparare a nuotare. Decisione che prenderai dopo un leale dibattito, basato sul fatto che ti arrivo alle spalle e ti spingo in acqua. Bella democrazia in un intellettuale di sinistra! Questo agghiacciante paternalismo può sembrare più fisiologico in un democristiano, ma non dovrebbe esserlo. “Bello è di un regno come che sia l’acquisto”, dice re Desiderio. Il cattolico Prodi l’Adelchi l’ha letto solo fino a qui. Proseguendo, avrebbe visto che per il cattolico Manzoni la Realpolitik finisce in tragedia: il fine non giustifica i mezzi. La nemesi è nella convinzione che “più Europa” risolva i problemi: un argomento la cui futilità non può essere apprezzata se prima non si analizza la reale natura delle tensioni attuali. Il debito pubblico non c’entra Sgomenta l’unanimità con la quale destra e sinistra continuano a concentrarsi sul debito pubblico. Che lo faccia la destra non è strano: il contrattacco ideologico all’intervento dello Stato nell’economia è il fulcro della “controriforma” seguita al crollo del muro. Questo a Rossanda è chiaro. Le ricordo che nessun economista ha mai asserito, prima del trattato di Maastricht, che la sostenibilità di un’unione monetaria richieda il rispetto di soglie sul debito pubblico (il 60% di cui parla lei). Il dibattito sulla “convergenza fiscale” è nato dopo Maastricht, ribadendo il fatto che queste soglie sono insensate. Maastricht è un manifesto ideologico: meno Stato (ergo più mercato). Ma perché qui (cioè a sinistra?) nessuno mette Maastricht in discussione? Questo Rossanda non lo nota e non se lo chiede. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori. Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione. Già nel 2006 la Bce indicava che in Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna l’inflazione non stava convergendo verso quella dei paesi “virtuosi”. I Pigs erano un club a parte, distinto dal club del marco (Germania, Francia, Belgio, ecc.), e questo sì che era un problema: gli economisti sanno da tempo che tassi di inflazione non uniformi in un’unione monetaria conducono a crisi di debito estero (prevalentemente privato). Inflazione e debito estero Se in X i prezzi crescono più in fretta che nei suoi partner, X esporta sempre meno, e importa sempre più, andando in deficit di bilancia dei pagamenti. La valuta di X, necessaria per acquistare i beni di X, è meno richiesta e il suo prezzo scende, cioè X svaluta: in questo modo i suoi beni ridiventano convenienti, e lo squilibrio si allevia. Effetti uguali e contrari si producono nei paesi in surplus, la cui valuta diventa scarsa e si apprezza. Ma se X è legato ai suoi partner da un’unione monetaria, il prezzo della valuta non può ristabilire l’equilibrio esterno, e quindi le soluzioni sono due: o X deflaziona, o i suoi partner in surplus inflazionano. Nella visione keynesiana i due meccanismi sono complementari: ci si deve venire incontro, perché surplus e deficit sono due facce della stessa medaglia (non puoi essere in surplus se nessuno è in deficit). Ai tagli nel paese in deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus. Ma la visione prevalente è asimmetrica: l’unica inflazione buona è quella nulla, i paesi in surplus sono “buoni”, e sono i “cattivi” in deficit a dover deflazionare, convergendo verso i buoni. E se, come i Pigs, non ci riescono? Le entrate da esportazioni diminuiscono e ci si deve indebitare con l’estero per finanziare le proprie importazioni. I paesi a inflazione più alta sono anche quelli che hanno accumulato più debito estero dal 1999 al 2007: Grecia (+78 punti di Pil), Portogallo (+67), Irlanda (+65) e Spagna (+62). Con il debito crescono gli interessi, e si entra nella spirale: ci si indebita con l’estero per pagare gli interessi all’estero, aumenta lo spread e scatta la crisi. Lo spettro del 1992 E l’Italia? Dice Rossanda: “il nostro indebitamento è soprattutto all’interno”. Non è più vero. Pensate veramente che ai mercati interessi con chi va a letto Berlusconi? Pensate che si preoccupino perché il debito pubblico è “alto”? Ma il nostro debito pubblico è sopra il 100% da 20 anni, e i nostri governi, anche se meno folcloristici, sono stati spesso più instabili. Non è questo che preoccupa i mercati: quello che li preoccupa è che oggi, come nel 1992, il nostro indebitamento con l’estero sta aumentando, e che questo aumento, come nel 1992, è guidato dall’aumento dei pagamenti di interessi sul debito estero, che è in massima parte debito privato, contratto da famiglie e imprese (il 65% delle passività sull’estero dell’Italia sono di origine privata). Cui Prodest? Calata nell’asimmetria ideologica mercantilista (i “buoni” non devono cooperare) e monetarista (inflazione zero) la scelta politica di privarsi dello strumento del cambio diventa strumento di lotta di classe. Se il cambio è fisso, il peso dell’aggiustamento si scarica sui prezzi dei beni, che possono diminuire o riducendo i costi (quello del lavoro, visto che quello delle materie prime non dipende da noi) o aumentando la produttività. Precarietà e riduzioni dei salari sono dietro l’angolo. La sinistra che vuole l’euro ma non vuole Marchionne mi fa un po’ pena. Chi non deflaziona accumula debito estero, fino alla crisi, in seguito alla quale lo Stato, per evitare il collasso delle banche, si accolla i debiti dovuti agli squilibri esterni, trasformandoli in debiti pubblici. Alla privatizzazione dei profitti segue la socializzazione delle perdite, con il vantaggio di poter incolpare a posteriori i bilanci pubblici. La scelta non è se deflazionare o meno, ma se farlo subito o meno. Una scelta ristretta, ma solo perché l’ottusità ideologica impone di concentrarsi sul sintomo (lo squilibrio pubblico, che può essere corretto solo tagliando), anziché sulla causa (lo squilibrio esterno, che potrebbe essere corretto cooperando). Alla domanda di Rossanda “non c’è stato qualche errore?” la risposta è quella che dà lei stessa: no, non c’è stato nessun errore. Lo scopo che si voleva raggiungere, cioè la “disciplina” dei lavoratori, è stato raggiunto: non sarà “di sinistra”, ma se volete continuare a chiamare “sinistra” dei governi “tecnici” a guida democristiana accomodatevi. Lo dice il manuale di Acocella: il “cambio forte” serve a disciplinare i sindacati. Più Europa? Secondo la teoria economica un’unione monetaria può reggere senza tensioni sui salari se i paesi sono fiscalmente integrati, poiché ciò facilita il trasferimento di risorse da quelli in espansione a quelli in recessione. Una “soluzione” che interviene a valle, cioè allevia i sintomi, senza curare la causa (gli squilibri esterni). È il famoso “più Europa”. Un esempio: festeggiamo quest’anno il 150° anniversario dell’unione monetaria, fiscale e politica del nostro paese. “Più Italia” l’abbiamo avuta, non vi pare? Ma 150 anni dopo la convergenza dei prezzi fra le varie regioni non è completa, e il Sud ha un indebitamento estero strutturale superiore al 15% del proprio Pil, cioè sopravvive importando capitali dal resto del mondo (ma in effetti dal resto d’Italia). Dopo cinquanta anni di integrazione fiscale nell’Italia (monetariamente) unita abbiamo le camicie verdi in Padania: basterebbero dieci anni di integrazione fiscale nell’area euro, magari a colpi di Eurobond, per riavere le camicie brune in Germania. L’integrazione fiscale non è politicamente sostenibile perché nessuno vuole pagare per gli altri, soprattutto quando i media, schiavi dell’asimmetria ideologica, bombardano con il messaggio che gli altri sono pigri, poco produttivi, che “è colpa loro”. Siano greci, turchi, o ebrei, sappiamo come va a finire quando la colpa è degli altri. Deutschland über alles Le soluzioni “a valle” dello squilibrio esterno sono politicamente insostenibili, ma lo sono anche quelle “a monte”. La convivenza con l’euro richiederebbe l’uscita dall’asimmetria ideologica mercantilista. Bisognerebbe prevedere simmetrici incentivi al rientro per chi si scostasse in alto o in basso da un obiettivo di inflazione. Il coordinamento del quale Rossanda parla andrebbe costruito attorno a questo obiettivo. Ma il peso dei paesi “virtuosi” lo impedirà. Perché l’euro è l’esito di due processi storici. Rossanda vede il primo (il contrattacco del capitale per recuperare l’arretramento determinato dal new deal post-bellico), ma non il secondo: la lotta secolare della Germania per dotarsi di un mercato di sbocco. Ci si estasia (a destra e a sinistra) per il successo della Germania, la “locomotiva” d’Europa, che cresce intercettando la domanda dei paesi emergenti. Ma i dati che dicono? Dal 1999 al 2007 il surplus tedesco è aumentato di 239 miliardi di dollari, di cui 156 realizzati in Europa, mentre il saldo commerciale verso la Cina è peggiorato di 20 miliardi (da un deficit di -4 a uno di -24). I giornali dicono che la Germania esporta in Oriente e così facendo ci sostiene con la sua crescita. I dati dicono il contrario. La domanda dei paesi europei, drogata dal cambio fisso, sostiene la crescita tedesca. E la Germania non rinuncerà a un’asimmetria sulla quale si sta ingrassando. Ma perché i governi “periferici” si sono fatti abbindolare dalla Germania? Lo dice il manuale di Gandolfo: la moneta unica favorisce una “illusione della politica economica” che permette ai governi di perseguire obiettivi politicamente improponibili, cavandosela col dire che sono imposti da istanze sopraordinate (quante volte ci siamo sentiti dire “l’Europa ci chiede...”?). Il fine (della lotta di classe al contrario) giustificava il mezzo (l’ancoraggio alla Germania). La svalutazione rende ciechi È un film già visto. Ricordate lo Sme “credibile”? Dal 1987 al 1991 i cambi europei rimasero fissi. In Italia l’inflazione salì dal 4.7% al 6.2%, con il prezzo del petrolio in calo (ma i cambi fissi non domavano l’inflazione?). La Germania viaggiava su una media del 2%. La competitività italiana diminuiva, l’indebitamento estero aumentava, e dopo la recessione Usa del 1991 l’Italia dovette svalutare. Svalutazione! Provate a dire questa parola a un intellettuale di sinistra. Arrossirà di sdegnato pudore virginale. Non è colpa sua. Da decenni lo bombardano con il messaggio che la svalutazione è una di quelle cosacce che provocano uno sterile sollievo temporaneo e orrendi danni di lungo periodo. Non è strano che un sistema a guida tedesca sia retto dal principio di Goebbels: basta ripetere abbastanza una bugia perché diventi una verità. Ma cosa accadde dopo il 1992? L’inflazione scese di mezzo punto nel ’93 e di un altro mezzo nel ’94. Il rapporto debito estero/Pil si dimezzò in cinque anni (da -12 a -6 punti di Pil). La bolletta energetica migliorò (da -1.1 a -1.0 punti). Dopo uno shock iniziale, l’Italia crebbe a una media del 2% dal 1994 al 2001. La lezioncina sui danni della svalutazione (genera inflazione, procura un sollievo solo temporaneo, non ce la possiamo permettere perché importiamo il petrolio) è falsa. Irreversibile? Si dice che la svalutazione non sarebbe risolutiva, e che le procedure di uscita non sono previste, quindi... Quindi cosa? Chi è così ingenuo da non vedere che la mancanza di procedure di uscita è solo un espediente retorico, il cui scopo è quello di radicare nel pubblico l’idea di una “naturale” o “tecnica” irreversibilità di quella che in fondo è una scelta umana e politica (e come tale reversibile)? Certo, la svalutazione renderebbe più oneroso il debito definito in valuta estera. Ma porterebbe da una situazione di indebitamento estero a una di accreditamento estero, producendo risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992. Se non lo fossero, rimarrebbe la possibilità del default. Prodi vuol far sostenere una parte del conto ai “grossi investitori istituzionali”? Bene: il modo più diretto per farlo non è emettere Eurobond “socializzando” le perdite a beneficio della Germania (col rischio camicie brune), ma dichiarare, se sarà necessario, il default, come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo. È già successo e succederà. “I mercati ci puniranno, finiremo stritolati!”. Altra idiozia. Per decenni l’Italia è cresciuta senza ricorrere al risparmio estero. È l’euro che, stritolando i redditi e quindi i risparmi delle famiglie, ha costretto il paese a indebitarsi con l’estero. Il risparmio nazionale lordo, stabile attorno al 21% dal 1980 al 1999, è sceso costantemente da allora fino a toccare il 16% del reddito. Nello stesso periodo le passività finanziarie delle famiglie sono raddoppiate, dal 40% all’80%. Rimuoviamo l’euro, e l’Italia avrà meno bisogno dei mercati, mentre i mercati continueranno ad avere bisogno dei 60 milioni di consumatori italiani. Non faccia la sinistra ciò che fa la destra Dall’euro usciremo, perché alla fine la Germania segherà il ramo su cui è seduta. Sta alla sinistra rendersene conto e gestire questo processo, anziché finire sbriciolata. Non sto parlando delle prossime elezioni. Berlusconi se ne andrà: dieci anni di euro hanno creato tensioni tali per cui la macelleria sociale deve ora lavorare a pieno regime. E gli schizzi di sangue stonano meno sul grembiule rosso. Sarà ancora una volta concesso alla sinistra della Realpolitik di gestire la situazione, perché esiste un’altra illusione della politica economica, quella che rende più accettabili politiche di destra se chi le attua dice di essere di sinistra. Ma gli elettori cominciano a intuire che la macelleria sociale si può chiudere uscendo dall’euro. Cara Rossanda, gli operai non sono “scombussolati”, come dice lei: stanno solo capendo. “Peccato e vergogna non restano nascosti”, dice lo spirito maligno a Gretchen. Così, dopo vent’anni di Realpolitik, ad annaspare dove non si tocca si ritrovano i politici di sinistra, stretti fra la necessità di ossequiare la finanza, e quella di giustificare al loro elettorato una scelta fascista non tanto per le sue conseguenze di classe, quanto per il paternalismo con il quale è stata imposta. Si espongono così alle incursioni delle varie Marine Le Pen che si stanno affacciando in paesi di democrazia più compiuta, e presto anche da noi. Perché le politiche di destra, nel lungo periodo, avvantaggiano solo la destra. Ma mi rendo conto che in un paese nel quale basta una legislatura per meritarsi una pensione d’oro, il lungo periodo possa non essere un problema dei politici di destra e di sinistra. Questo spiega tanta unanimità di vedute. La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info?

lunedì 10 febbraio 2014

Bebo Storti "State of the Art"

SAREBBE LO SPUTTANARE IL RENZI FACILE COME SI DICEVA UNA VOLTA? ......"COME PICCHIARE UN BAMBINO CHE CAGA"...... MA DI CONTRO DA PARTE DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE TUTTI O QUASI SEMPRE CON LA BAVA ALLA BOCCA IN QUESTO PAESE QUANDO TROVANO UN DEMOCRISTIANO CHE LE SPARA GROSSE E' PARTITA DICEVO UNA GARA A CHI LANCIA LA LINGUA OLTRE L'OSTACOLO NEL MIGIORE DEI MODI A CHI LA SPARA PIU' GROSSA A CHI MEGLIO NASCONDE LA NOTIZIA O NE INVENTA UNA CHE NON C'E' E VIA COI CALCI DI RIGORE CON APPARIZIONI A TRASMISSIONI DOVE SI RISCHIA DI SCIVOLARE SULLA SALIVA APPENA ENTRATI CON LE FRASI LAPIDARIE "RIPULIRO' LA DIRIGENZA" "ROTTAMERO' IL PARTITO" "BASTA COL VECCHIO" "ARMATEVI E PARTITE" NEANCHE LO SFORZO DI PROVARE A DIRE "ARMIAMOCI" POI SI ALLEA COL B. E ME LI VEDO LUI E MISTER CONDANNATO A FARE LA BATTAGLIA DEL GRANO LUI SUDATO, PER LA PRIMA VOLTA IN VITA SUA, DOPO LA DOLORORSA ESPERIENZA DELLA RUOTA DELLA FORTUNA COL GIUBBINO DI FONZIE SOTTO IL SOLE (perché la presenza di spirito non è proprio la prima delle sue qualità....ne ha altre....va beh poi mi vengono) SOTTO IL SOLE FRA I COVONI MENTRE DIETRO, SULLO SFONDO B.....CHE CORTEGGIA UNA MUCCA "TESORO CHE BEGLI OCCHIONI CHE HAI....SE FAI LA CARINA C'E' UN MINISTERO PER TE....SEI MAGGIORENNE? CHE TETTONE CHE HAI? E CHE LINGUA! OLLAMADONNA COME LAPPI!! E LO ZIO MUBBY COME STA?" E DI FIANCO AL CARRO BOSSI E CASINI L'UN CHE RUTTA E L'ALTRO CHE SCORREGGIA QUIETI NEL LOR NON ESSER MA NEL FARSI BEN PAGARE.... Bebo Storti