lunedì 28 ottobre 2013

FOREVER LOU .

To our neighbors: What a beautiful fall! Everything shimmering and golden and all that incredible soft light. Water surrounding us. Lou and I have spent a lot of time here in the past few years, and even though we're city people this is our spiritual home. Last week I promised Lou to get him out of the hospital and come home to Springs. And we made it! Lou was a tai chi master and spent his last days here being happy and dazzled by the beauty and power and softness of nature. He died on Sunday morning looking at the trees and doing the famous 21 form of tai chi with just his musician hands moving through the air. Lou was a prince and a fighter and I know his songs of the pain and beauty in the world will fill many people with the incredible joy he felt for life. Long live the beauty that comes down and through and onto all of us. - Laurie Anderson his loving wife and eternal friend
Paolo Zaccagnini, per Dagospia. Lou Reed, io piango. La battuta e' di Roberto, Roberto D'Agostino, il fratello che non ho avuto. Essì, io piango. E pure Roberto. E spero tanti. Milioni. Roberto ieri sera mi ha mandato un messaggio ma no, ieri sera non ce la facevo a scrivere. Dovevo, devo, dovro' piangere. Roberto ha ripubblicato un mio pezzo e qualche lacrima, lo confesso, mi è scesa sulle barbute guance. Quindi, solo ricordi e niente commozione, Lou mi avrebbe sorrriso di traverso, sbattuto un po' le ciglia e detto "Paolo, Paolo, Paolo". E io avrei risposto, come al solito da quando ci conoscevamo, eravamo amici e piegando un po' la testa "ok,ok, mister Reed". Sì, per me Lou era Mr. Reed, io sono un fan, mica un critico. E come non ricordarlo come ci esaltava alla follia, a me a Roberto, al Titan Club di via della Meloria nei fine settimana degli anni '70. Quando Roberto cominciava la serata - metteva dischi straordinari su dischi straordinari e tutta Roma ballava e si divertiva fino all'esaurimento - con il suo ‘'Rock'nd'roll'' con l'assolo, sembra non finire mai, di Steve Hunter. E come era esaltante vedere tutti in pista a sbattersi, scuotersi, divertirsi, Roberto alacremente ai piatti e io, occhiali neri e spolverino nero chiuso fino al collo, a porgerglieli e rimetterli dentro le copertine.
Ricordo che dopo anni di amicizia gli raccontai di quelle serate, lui mi guardo' e mi regalo' uno di quei suoi sorrisi indecifrabili e mi disse "really?". E veramente sì, mister Reed. Ecco, su una cosa non siamo mai andati daccordo. Sulla sua grandezza e la sua portata nella storia della musica rock. Musica strapiena di buffoni e sbruffoni esaltati, riveriti e rispettati dai "critici rock". Lou, diciamolo, con il rock c'entrava poco e niente. Scrivera canzoncine sin da quando era ragazzino, le stesse che portava al Brill Building che in quegli anni era la meta ambita di chi scriveva canzonette. Era sopravvissuto a dieci sedute di elettroshock, a cui lo avevano fatto sottoporre i genitori per curarlo dalla sua presunta omosessualità, e da qui il durissimo pezzo ‘'Kill your sons'', uccidete i vostri figli. Uno dei suoi insegnanti all'università era il poeta, morto suicida, Delmore Schwartz. No, lui con il rock aveva poco a che vedere, basta leggere la sua collezione di poesie ‘'The bells''. Eppure e' una grande stella del rock'nd'roll. E' e sara'. Non era. Capace di incidere l'epocale ‘'The Velvet Underground'' in una settima, costo 3mila dolari. Di sentire un giovanissimo Bruce Springsteen, nello studio accanto dove stava registrando, e fargli borbottare, cantare, mugolare ‘'Street hassle''. Divertente, non glielo ho mai deto, che Robbie Robertson, della Band che accompagnava Bob Dylan, mi dissse che per fare all'amore con la bellissima, e strafattisima musa di Andy Warhol Edie Sedgewick una sera andarono alla warholiana Factory a sentire suonare i Velvet Undregroud: "Paolo - disse Robbie - erano terribili, nom sapevano suonare". E' e sara'. Perche del rock'nd'roll impersonava, anche ora che aveva 71 anni, la quintessenza della ribellione. Piu' oltre, ‘'Furtherto'', come recitava la grande scritta che campeggiva sul pullmann psichedelico del dottor Timothy Leary, il profeta dell'acido lisergico. Che alla fine degli anni '60 girava gli Stati Uniti. Gia', la droga. La droga e Lou Reed. La droga che non perdona, nemeno dopo decenni e decenni. Mi divertiva molto, e inorgogliva assai visto il lavoro che facevo e faccio e la gente che frequentavo, che quando mi presentava stringendomi le spalle a se' diceva "questo e' Paolo, pensate, non si e' mai fatto un joint". Vero. E forse questo lo affascinava e intrigava. L'argomento droga tra noi era, pensavo, tabu' fino a che un giorno mi disse " io ho vaghi ricordi di 30/35 anni della mia vita ma se tu mi dici gli episodi che mi avrebbero visto protagonista cerchero' di ricordare e dirti se sono veri o inventati". Lou. Lou Reed. Unico. Per me indimenticabile. Come quando lo intravidi per la prima volta nascosto da una grande palma, in un grande albergo a Genova, prima del suo concerto, con la moglie di allora, Silvia, che le malelingue dicevano essere un transessuale e che nella successiva causa di divorzio gli porto' via tutto, o quasi tutto, anche la sua amatissima Harley Davidson. Lou, grazie di tutto, so che mi senti. Grazie per la strenua ricerca newyorchese, ed eventuale consiglio, circa i nuovi interruttori - "mr. Reed, scusi, sono ragioniere, laureato, appassionato cultore e lettore di letteratura poliziesca come lei, giornalista professionista, protagonista di due pellicole di Nanni Moretti ma no, elettricista proprio non sono". Grazie per le tende di casa sua di broccato rosso, che fece il suo mastodontico amico Julian Schnabel, e che tirammo in su insieme con sforzi pari a quelli per tirare su l'obelisco egizio a piazza San Pietro. Grazie per il consiglio, me lo scrisse in rosso su un pezzo di carta che ancora conservo gelosamente, di leggere ‘'Black cherry blues' di James Lee Burke, autore che amava e amo molto. Ma non come Raymond Chandler, il Ray della ‘'Sister Ray'': peccato solo che non lo abbia voluto scrivere tu un libro polziesco, mr. Reed. Fedele sempre al motto, mai detto, che se uno legge polizieschi non deve scrivere polizieschi. E che eccitazione e gioia spedirgliene e poi, quando ci incontravamo, sentirmi dire "Paolo, where did you find them? They're amazing" tradotto in "Paolo, dove li hai trovati? Sono fantastici". Nel ‘99 mi diagnosticarono la sclerosi multipla, sull'inserto Salute di La Repubblica avevo letto un pezzo intitolato "sclerosi multipla, malattia sconosciuta e incurabile", e dire che il mio viscerale pessimismo raggiunse livella altissimi e' dire veramente poco. No, non vi preoccupate, mai pensato al suicidio, per il primo mese mi ripetevo, come un mantra buddhista, "nonsonomalatononsonomalatononsonomalato". Nel '94 avevo scoperto di avere 350 giorni di ferie arretrati - e questo resti tremamente bene inciso nella testa di chi dice e pensa di tutto e di piu' su come quanto lavorava e lavora il sottoscritto, sapevo che volevano che venissero smaltite quindi chiesi e ottenni, subito, qualche giorno. Per andare da Padre Pio? Assisi? Loreto? Lourdes? Fatima? Lascio ad altri simili viaggi turistico-religiosi, io presi un aereo e andai a New York, citta' che non ho mai amato e Paese che non amo piu' perche' ha calpestato Thomas Payne, Cotton Mather, Nathaniel Hawthorne, Washington Irving, il mio amato Henry David Thoreau e non mi ha voluto per 18 anni perche' anarchico, non della sinistra extraparlamentare. Arrivo a New York dopo un viaggio travagliatissimo, con diversione e scalo a Boston causa maltempo, e ovviamente la cena tra amici che mi aveva organizzato mr. Reed va a carte quarantotto. Vado sconsolato in hotel e il portiere mi da' cinque messaggi relativi a cinque sue telefonate una piu' preoccupata dell'altra. E' tardissimo, decido di non chiamare. La mattina, appena sceglio, lo chiamo a casa, al Greenwich Village, gli dico che sono a New York perche' gli devo parlare di una cosa estremamente importante che mi riguarda. "Vieni subito". "Mr. Reed devo fare colazione". "Vieni subito". Come Garibaldi obbedisco. Sono gia' stordito assai, poi metteteci anche casa sua, come l'ha pensata e voluta, e forse capirete come sto. Gli porto regalo una rarita', una raccolta d'annata e ben rilegata di ‘'The master of men Spider'' di Grant Stockbridge, famoso serial poliziesco statunitense. E' contento, molto. Mi fa la colazione, io imbambolato a vederlo li' nella sua cucina ipertecnogica a farmi le uova, il bacon, le salsicce, il pane tostato invece di camminare sul lato violento della strada. Io, il Signor Nessuno, Paolo Zaccagnini e lui, Lou Reed. Mi mettte davanti la copiosa, sontuosa colazione, mi stimola a mangiarla tutta poi mi prende sottobraccio e andiamo in ufficio. Mi fa sedere sulla sua poltrona preferita in pelle, sagomata come la sella di una grossa Harley Davidson. "Speak". Gli racconto della diagnosi e del suo impatto devastante, del terrore per il mio futuro che mi ha invaso. "Thank you". Taccio e per due ore non la smette di parlare con quel suo tono di voce avvolgente, basso, permeante, rassicurante.
LOU REED, JAGGER E BOWIE. Due ore che mi hanno cambiato la vita. Per sempre. In meglio. Tempo prezioso come quello passato a Londra col professore, dublinese di Blackrock, Alan J. Thompson, che mi fece la diagnosi ufficiale, e a Dublino col professor Michael Hutchinson, maestro e amico di Thompson, che mi ha in cura. Parole che hanno picchiato duro, occhi che mi hanno perforato. Amicizia. Senza lacrime ne' mestizia. Malattia da affrontare a testa alta. Subito. Senza vergogna. Quasi orgoglioso di averla e desideroso di combatterla. Combatterla a testa alta e fino alla fine. E infatti comincio' a telefonare a tutti e a dirmi che in Arizona si era trasferita la sua amica cantante Victoria Williams e con il clima di laggiu' stava provando grande giovamento. Forse non sapendo, o volutamente dimenticando, che in Arizona anni prima era morto bruciato Ronnie Lane, tastierista di Small Faces e poi dei Faces, che non era riuscito, con la sedia a rotelle, a uscire dalla casa mobile dove viveva vicino al deserto per questione di salute. Anche lui malato di sclerosimultipla. E poi telefonate e telefonate per riempire pagine e pagine di numeri di telefono importanti. Capito chi era mr. Reed, Lou Reed, il mio amico Lou Reed che è morto ieri e mi ha lasciato nella disperazione? Che, come tutte le persone dotate di un cervello funzionante, lo faceva funzionare, assai bene. Come quando capiva che chi lo stava intervistando non aveva sentito il disco, "i critici rock, Paolo, sono molto indaffarati, non possono sentire la musica" mi diceva con quel suo sorriso sardonico. Un pimpante "collega" al'Hilton di Roma lo stava intervistando - aveva preteso che assistessi a tutte le interviste che dava e ogni tanto mi sorrideva mentre i "colleghi " fumigavano e ribollivano di ira e rabbia per la mia presenza ma nessuno fiatava conoscendo bene la sua terribile fama e la sua ira funesta - sulla sua ultima fatica, l'album ‘'New York'' - uno dei suoi tantissimi capolavori, estremo atto d'amore per la su citta', che aveva impiegato sei mesi a riscrivere interamente perche' per la prima volta aveva usato il computer per scrivere i testi e nel momento di stamparli aveva pressato il tasto errato cancellandoli - ma lui, piu' che nelle precedenti interviste, smaccatamente lo snobbava rispondendo solo "yes" o "no" fino a che il pimpante, che non aveva la minima idea di cosa fosse il disco, scoppio' in un pianto a dirotto intervallato da "mr. Reed, please, Lou, please" e lui, imperturbabile, si volto' verso di me sorridendo. Felicemente bieco. Se andassi avanti per una settimana Dagospia sarebbe occupato. E invece no, chi sono io intasare l'unica fonte d'informazione - ripeto, informazione - italiana? Nessuno. E poi anche mr. Reed direbbe "Paolo, Paolo, Paolo". Ma e' dura, estremanente dura, seppellire quasi 40 anni di amicizia profonda. Mi era gia' successo con il mio, nostro, amico - si',perche' era anche amico di Roberto e Renato Fiacchini, in arte Zero - Stefano Bove' Benedetti, ‘'er parolaccia'', ma anche lui aveva abusato troppo. Droghe poi alcool, mr. Reed solo droghe pesanti. Per troppi anni per molti anni, forse anche quando ci conoscemmo. Pensate che la mattina cominciava, decenni fa e me lo disse lui, con la metredina poi... Heroin, Sister Morphine.. Mi sono sempre domandato e interrogato sul perche' siamo diventati cosi' amici e una risposta me la sono data e anche tenuta. Entrambi eravamo "hors du tropeau", fuori dal gruppo, come recitava il titolo di un giornale anarchico francese della fine dell'Ottocento. Io anarchico e lui diventato cattolico grazie all'amicizia di padre Riches, che poi lo sposo' con l'amata Laurie Anderson. Cattolico tanto da essere padrino di battesimo, a Napoli, del figlio di Davide DeBlasio, proprietario dell'antica e prestigosa pelleteria Tramontano alla Riviera Di Chiaia. Che amico. Ebbi una tremenda crisi della mia malattia, nella chiesa di Napoli dopo la cerimonia del battesimo, lui aspetto' fino a che mi passo'. E il giorno dopo in barca - Davide ci aveva organizzato un grande gita con un motoscafo d'alto bordo velocissimo, usato spesso e volentieri per il contrabbando delle sigarette - quando, prima di tuffarsi, mi tolse le scarpe Clark e i calzini per farmi stare meglio, piu' comodo? E al museo d'arte moderna MADRE, ci aspettavano alle 10 e arrivammo alle 18 perche' prima voleva mangiare e quando mr. Reed voleva una cosa VOLEVA UNA COSA, vedendomi arrancare in una bellissima, vecchia cappella sconsacrata annessa al museo, disse, sorridendo, a mia moglie "he's a bull", e' un toro. E la cena a New York con Laurie, Salman Rushdie, che raccontava cosa aveva visto dalle finestre di casa quel 9 settembre, e la stupenda ex moglie Padma, ex valletta di Fabrizio Frizzi? Ero in ritardo, parecchio in ritardo vista la mia totale ignoranza del dialetto afghano del volonteroso tassista, e lui vigilava a che nessuno toccasse nulla in questo strepitoso ristorante austriaco dove mi attendevano. E la visita alla Cappella Sistina, dove gli chiedevano gli autografi anche sotto la volta michelangiolesca? Le cene alle Colline Emiliane, l'Antica Pesa, Il Cortile? Lo sguardo incuriosito davanti alla lapide che ricorda la poetessa statunitense Margaret Fuller Rossetti davanti la Fontana del Tritone? La visita, c‘era ance Laurie, che facemmo al'Accademia Americana al Gianicolo? La faccia esterefatta, incredula, stralunata, che fece quando, volendo vedere dei Caravaggio, sul portone di san Luigi dei Francesi trovammo una placca di plastica con su scritto, in piu' lingue, "giovedi' pomeriggio chiuso per riposo settimana". Dopo il trapianto ci eravamo scritti a lungo, ripromettendo di vederci a Dublino, da me, o a New York, da lui. Maledizione. Maledizione. Maledizione. Aspettate la chiusura a effetto del pezzo? Fate male. Oggi non mi va, non si puo'. Devo piangere. ************************************************************************************************************** "The news I feared the most, pales in comparison to the lump in my throat and the hollow in my stomach. Two kids have a chance meeting and 47 years later we fight and love the same way -- losing either one is incomprehensible. No replacement value, no digital or virtual fill...broken now, for all time. Unlike so many with similar stories - we have the best of our fury laid out on vinyl, for the world to catch a glimpse. The laughs we shared just a few weeks ago, will forever remind me of all that was good between us." - John Cale, 27th Oct, 2013

La stanchezza cura.

Una stanchezza che cura. Riccardo Panattoni.
Nel suo libro La società della stanchezza (Nottetempo, 2012, pp. 81, Traduzione di Federica Buongiorno), il filosofo Byung-Chul Han sostiene che la società del XXI secolo non può più essere intesa come una società di tipo disciplinare, ma una società della prestazione. I soggetti infatti che la compongono non sono più sottoposti, attraverso determinati dispositivi, a forme di obbedienza, come magistralmente ci ha insegnato Michel Foucault, si caratterizzano piuttosto come imprenditori di se stessi. Le patologie cui tale soggetto incorre non sono più di tipo batterico o virale, a istanza immunologica, quanto di tipo neuronale. La depressione, la sindrome da deficit di attenzione o iperattività, il disturbo borderline di personalità o la sindrome di burnout, derivano da un eccesso di positività. È il terrore di non essere all’altezza delle proprie aspettative, qui ed ora, immediatamente, nella situazione di performance che ogni singolo individuo sente di dover offrire, ma che in effetti pretende prima di tutto da se stesso. Questo non significa che il cambiamento di paradigma dalla società disciplinare alla società della prestazione sia in perfetta discontinuità, anzi, persiste una profonda continuità. Il soggetto di prestazione rimane a suo modo disciplinato, obbediente, ma la sua capacità produttiva introduce una risorsa in più: il proprio desiderio. Si tratta di una risorsa perché desiderio e prestazione non trovano mai il loro perfetto congiungimento, anzi rimangono semmai l’uno l’alimento della mancanza dell’altro; in modo tale che il sentimento di fondo che permane nel soggetto è la necessità di rispondere positivamente al timore di non riuscire a reggere la pressione. Il permanente stato depressivo latente con cui il soggetto di prestazione si misura non deriva allora da un eccesso di responsabilità e di iniziativa, ma dalla sensazione di non riuscire a corrispondere all’obbligo assunto con se stessi. Nonostante il fondo di insoddisfazione latente da fronteggiare, tale soggetto rimane un individuo che fondamentalmente non fa altro che lavorare, in qualsiasi momento, anche quando è alla ricerca del proprio godimento. È l’animal laborans che sfrutta se stesso in modo del tutto volontario, senza alcuna evidente costrizione esterna, divenendo così al tempo stesso vittima e carnefice della propria autoreferenzialità. Il lamento interiore di questo soggetto non corrisponde a un “niente è più possibile”, ma alla paura della propria inadeguatezza a fronte del fatto che “niente è impossibile”. Il non riuscire a essere a questa altezza conduce il soggetto a una guerra intestina con se stesso. Libertà e costrizione coincidono, o meglio, si arriva alla paradossale costruzione di una libertà costrittiva, dove risiede il desiderio incolmabile di massimizzare la propria prestazione. Lo sfruttatore è al tempo stesso lo sfruttato. Le malattie psichiche della società della prestazione sono appunto le manifestazioni patologiche di questa libertà paradossale. Dunque, che fare? Non si può certo contrapporre a questa iperattività un altro contromovimento, che non farebbe altro che aggiungere altra attività, si tratta piuttosto di fare un buon uso della stanchezza che tutto questo comporta. È sentire la stanchezza come una forma di cura, mantenendo attiva la consapevolezza che al fondo di un’attenzione contemplativa è insita una forma profonda di staticità. Se il sonno infatti è il culmine del riposo fisico, il sentimento di un’immobilità profonda è il culmine del riposo spirituale, tanto è vero che, come ci ricorda Walter Benjamin, è solo l’uccello incantato che può covare l’uovo dell’esperienza. La capacità di posare uno sguardo incantato su ciò che ci circonda, è una capacità di attenzione profonda, contemplativa, a cui l’ego iperattivo non ha più alcuna via d’accesso. Il soggetto preso da questo sentimento di immobilità profonda può allora passare da un’andatura lineare, retta, incentrata sul passo di corsa, a una danza statica che si sottrae completamente al principio di prestazione. L’atmosfera fondamentale che lo circonda diviene lo stupore per l’essere-così delle cose. Un’attenzione contemplativa posa infatti il proprio sguardo incantato sull’incerto, sull’impalpabile, su ciò che rimane fugace, ma che al tempo stesso è esattamente lì, davanti ai propri occhi. Le forme e gli stati della durata non possono che sottrarsi all’iperattività della comprensione. Nello stato contemplativo ci si ritrae fuori di sé e ci si immerge nelle cose, imparando a guardarle. Questo per Nietzsche significa assuefare l’occhio alla calma, alla pazienza, a lasciar venire le cose a sé. Significa rendere l’occhio abile a un’attenzione profonda e contemplativa, uno sguardo lento e prolungato nel tempo che perde il senso del proprio tempo. Si tratta di un momento in cui il soggetto introduce, rispetto alla positività del fare, quella particolare forma di negatività espressa dallo scrivano Bartebly di Melville: “preferirei di no”. È grazie a questa interruzione che il soggetto può misurarsi con tutta l’estensione che lo spazio della contingenza comporta e sottrarsi alla dinamica di una pura attività. L’indugiare, l’esitare, il non rispondere immediatamente alle sollecitazioni, è certamente un’attività fattiva e tuttavia non permette che l’agire degeneri necessariamente nel lavoro. Uno dei problemi che il nostro vivere comune comporta è che viviamo in un mondo troppo povero di interruzioni, di spazi intermedi, di intervalli. D’altronde la prima cosa che la frenesia performativa elimina è proprio ogni forma di intervallo. Esistono allora due forme di potenza: una potenza positiva, quella che ci permette di fare qualcosa e una potenza negativa, quella che ci permette, di fronte a un’immediata realizzazione, di dire di no, grazie. Questa potenza negativa si distingue tuttavia dalla mera impotenza, dall’incapacità di fare qualcosa, è una stanchezza profonda che si aggiunge insieme a una sottrazione di Io. È ciò che fa dischiudere untra, uno spazio della cortesia in cui niente e nessuno domina o è anche solo predominante. Mentre la stanchezza dell’Io è solitaria, è priva di mondo, questa stanchezza profonda è invece fiduciosa di mondo, rende infatti possibile soffermarsi, indugiare, non tanto su ciò che dobbiamo fare, ma su ciò che ci circonda. Questa stanchezza fondamentale è allora tutt’altro che uno stato di esaurimento, nel quale ci si sente incapaci di fare alcunché, essa diviene piuttosto quella particolare facoltà che è l’ispirazione, un elevarsi dell’anima. Una stanchezza che ci permette di abbandonarci e che risveglia in noi una particolare capacità di guardare. È ciò che indica Peter Handke quando parla di una “stanchezza dagli occhi limpidi”. Si tratta di accedere a un’attenzione completamente diversa, a forme prolungate e lente che si sottraggono alla tipica iperattenzione breve e veloce della nostra società. Questa stanchezza profonda allenta l’identità dell’Io e lascia che le cose sfavillino, risplendano e tremino oltre i loro margini; lascia che si facciano indefinite, permeabili e perdano qualcosa della loro nettezza, per ritrovare così tutta la loro realtà. Per questo la stanchezza profonda è disarmante e nel lento sguardo di chi è stanco sorge incantata la risolutezza della quiete.

martedì 15 ottobre 2013

domenica 13 ottobre 2013

FUTURO NON DISPONIBILE.

Massimo Gaggi, per "La Lettura" del Corriere della Sera.
S'intitola I nequality for All il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale cinematografiche d'America le lezioni universitarie in cui Robert Reich (docente di Berkeley ed ex ministro del Lavoro di Bill Clinton) denuncia gli effetti sociali dirompenti dell'accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni Venti del Novecento. E, mentre Barack Obama promette di dedicare ciò che resta della sua presidenza alla creazione di posti di lavoro e a ridare fiato a un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Secondo il consigliere della Casa Bianca negli anni di Bill Clinton, che ora lavora al fianco di Hillary, la probabile candidata di quelle elezioni, il fronte progressista punterà proprio sulla battaglia contro le diseguaglianze in un'America sempre più divisa tra un ceto benestante e una società di massa a reddito medio-basso - o addirittura alle soglie dell'indigenza - senza più nulla in mezzo. Negli Stati Uniti non è solo la sinistra a mettere sotto i riflettori la questione della crescente divaricazione tra ricchi e poveri: nelle librerie è appena arrivato Average is Over , un saggio di Tyler Cowen nel quale l'economista della George Mason University - geniale, provocatorio, di certo non progressista - disegna scenari futuri allarmanti nei quali i ceti intermedi, come suggerisce il titolo, scompaiono. Più precisamente: si allarga sempre più il divario tra il 10-15 per cento della popolazione che, svolgendo professioni non intaccate dall'automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento, vivrà in condizioni di grande benessere e tutti gli altri. Gli altri sono quelli che troveranno impieghi negli interstizi della società robotizzata o che svolgeranno lavori, come quelli degli infermieri, che le macchine non riescono a sostituire ma non richiedono una grande qualificazione. Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero. Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi. Sarà una società diversa, sempre più meritocratica, anzi «ipermeritocratica», mentre la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più. Fino a quando quell'epoca sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile. Uno scenario cupo, che per fortuna altri analisti non condividono (non fino in fondo, almeno). Ma è un fatto che improvvisamente le voci un tempo isolate di chi da anni prevede una crescente polarizzazione dei redditi e una sostanziale sparizione del ceto medio, sono diventate mainstream in America. Com'è maturato questo cambiamento di prospettiva? E che tipo di risposte politiche possono essere elaborate, ammesso che in un campo come questo i governi abbiano significativi margini di manovra? Fino a qualche tempo fa, l'opinione prevalente era che le difficoltà nelle quali si dibattono quasi tutti i Paesi industrializzati fossero legate, oltre che alla crisi finanziaria planetaria del 2008, a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall'Occidente ai Paesi emergenti, soprattutto quelli dell'Asia. La tecnologia non aveva un ruolo centrale in queste analisi: la nuova economia digitale veniva vista come un fattore che da un lato crea problemi sociali quando i robot sostituiscono gli uomini, ma dall'altro aumenta l'efficienza del sistema, producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i «tecno-ottimisti», nel 1790 il 93 per cento degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2 per cento, eppure gli Stati Uniti erano un Paese di incredibile prosperità, che aveva raggiunto il pieno impiego. Meglio, quindi, non fasciarsi la testa: potremmo essere entrati in una nuova era di «distruzione creativa». Come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l'economia che gli era cresciuta intorno. Ma il cavallo di ferro - la locomotiva con le sue reti ferroviarie e le fabbriche costruite vicino ai binari - ha alimentato una nuova e ben più vasta economia: lavori qualificati o umili ma comunque numerosi e pagati, in media, assai più di quelli dei braccianti agricoli. Pian piano ci si è, però, resi conto che nell'epoca del rapido sviluppo delle tecnologie digitali, nei Paesi industrializzati il motore della creazione di posti di lavoro si è inceppato. È un dibattito che abbiamo raccontato nei mesi scorsi anche sulla «Lettura»: dalle analisi di Robert Gordon della Northwestern University (le tecnologie digitali, leggere e virtuali, non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti - vapore, elettricità, motore a scoppio - che hanno fatto nascere nuovi universi industriali) a Race Against the Machine , l'ormai celebre saggio di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee del Mit di Boston. Negli ultimi mesi però sono emerse nuove analisi più focalizzate sugli effetti che la rivoluzione digitale sta avendo sulla distribuzione del reddito. Noah Smith, giovane economista della Michigan University e attivissimo blogger, ha concentrato la sua attenzione sul cambiamento della distribuzione del reddito tra capitale e lavoro in un saggio pubblicato da «The Atlantic»: «Durante quasi tutta la storia moderna i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 - quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 - le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60 per cento, mentre i redditi da capitale sono cresciuti». La causa, secondo Smith, va ricercata nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell'essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell'era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l'estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell'uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli» nell'era del motore a vapore. Ancora più interessante, forse, l'analisi di un altro docente del Mit di Boston, David Autor, dai cui studi emerge che i computer, capaci di sostituire anche lavoratori con mansioni piuttosto complesse, ma con una elevata componente di routine , lasciano all'uomo i mestieri non routinari che sono essenzialmente di due tipi: «In alto ci sono i lavori astratti, quelli che richiedono intuito, creatività, capacità di persuadere e risolvere problemi. Sono i lavori di manager, scienziati, medici, ingegneri, designer. Dall'altro lato troviamo i lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione, saper riconoscere un linguaggio: preparare un pasto, guidare un camion in città, pulire una stanza d'albergo. Questi lavori non vengono sostituiti dai computer, ma non richiedendo grosse competenze professionali, in genere sono pagati poco. Meno di molti mestieri spariti con l'automazione. Un processo tutt'altro che esaurito con i robot al lavoro nelle fabbriche di tutto il mondo che ormai si contano in milioni. Un recente e dettagliatissimo studio della Oxford University che ha esaminato in profondità, uno per uno, 72 settori produttivi, giunge alla conclusione che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall'uomo (il 47 per cento, per la precisione) verrà prima o poi sostituito dalle macchine. Più ottimista di Gordon, che teme un futuro di disoccupazione di massa, Autor pensa che il mercato del lavoro si allargherà comunque a nuove attività che oggi non immaginiamo: la computerizzazione della società potrebbe anche non ridurre il numero complessivo dei posti di lavoro, ma ne degraderà la qualità (e quindi il reddito). Le sue conclusioni, alla fine, non sono molto diverse da quelle di Cowen: crescente polarizzazione dei salari, divaricazione abissale tra le classi sociali. Come evitare questa trappola? Dovrebbe essere questa la sfida alla quale i politici dedicano la maggiore attenzione. Invece, scrive sul «New York Times», Stephen King (il capo economista del gigante bancario Hsbc, non lo scrittore, anche se le sue analisi, ironizza qualche suo collega, sono da romanzi horror), «i governi si limitano a pregare perché arrivi una forte ripresa: preferiscono optare per l'illusione perché la realtà è troppo cupa». Per adesso a «sporcarsi le mani» col tentativo di individuare soluzioni sono soprattutto gli economisti. Con risultati non entusiasmanti. Quelli di idee progressiste non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie, a differenza di Cowen che prevede un adattamento all'ineluttabile in un mondo che non si ribellerà e, anzi, sarà sempre più conservatore (come conservatori sono, già oggi, gli Stati Usa più poveri, non i più ricchi). Noah Smith vuole stimolare la moltiplicazione delle piccole aziende per rendere il maggior numero possibile di lavoratori imprenditori di se stessi e immagina un meccanismo di compensazione del trasferimento di ricchezza dalla manodopera alle imprese: un portafoglio di azioni di società quotate da consegnare a ogni cittadino al compimento del diciottesimo anno. Una sorta di polizza assicurativa per proteggere l'individuo dall'impatto dei robot sul mercato del lavoro. Autor pensa, invece, ad uno sforzo per estendere il raggio dei mestieri che richiedono intuito e discrete capacità professionali - dall'infermiera capace anche di aggiornare la terapia di un diabetico agli idraulici e gli elettricisti capaci di ridisegnare una rete - in modo da ricreare uno spazio intermedio per un ceto di quelli che chiama i «nuovi artigiani». Altri, come il tecnologo-visionario Jaron Lanier, pensano a una redistribuzione della ricchezza prodotta dalla civiltà di Big Data : i grandi gruppi dell'economia digitale, che mettono da parte ricchezze immense grazie alla loro capacità di accumulare e analizzare un volume enorme di informazioni, dovrebbero effettuare micropagamenti con meccanismi automatici a tutti noi quando utilizzano i dati che immettiamo in Rete. Tutte idee intelligenti, che cercano di immaginare un riequilibrio basato, per quanto possibile, su meccanismi di mercato, ma che difficilmente possono essere risolutive. La sfida della politica è proprio questa: in fondo, quando mezzo secolo fa si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana, si dava per scontato che le macchine avrebbero sostituito l'uomo, ma si pensava anche che dei frutti della loro maggior produttività avrebbero beneficiato più o meno tutti. All'inizio del XXI secolo il problema è ancora quello: favorire una redistribuzione almeno parziale senza ricadere nel dirigismo e negli eccessi di statalismo le cui ustioni sono ben visibili sulla pelle delle società occidentali, specie quella italiana.

giovedì 10 ottobre 2013

Bauman state of the art.

Bauman: “Il web promuove la democrazia. Finora, però, non ci sono risultati” Il sociologo, ospite di "Meet the media guru" a Milano, riconosce le potenzialità di Internet ma, al momento, nessuno ha trovato la soluzione per superare quello che chiama “divorzio tra potere e politica”. Nemmeno i movimenti della primavera araba, Occupy Wall Street e gli indignados di Luigi Franco, da Il Fatto Quotidiano. 9 ottobre 2013.
“Internet è lo strumento naturale per promuovere la democrazia. Ma è ancora troppo presto per vedere i risultati, siamo ancora alla fase sperimentale”. Questa in sintesi l’analisi sulle conseguenze della rivoluzione digitale sulla vita politica tracciata con i giornalisti da Zygmunt Bauman, in occasione della sua visita a Milano dove mercoledì sera ha tenuto una lezione al Teatro Dal Verme per il ciclo ‘Meet the media guru’ organizzato dalla Camera di commercio. Le tradizionali forme di governo, secondo il teorico della ‘modernità liquida’, non sono più in grado di risolvere problemi che sono diventati globali e di controllare poteri che ormai hanno natura sovranazionale. Ma, al momento, nessuno ha trovato la soluzione per superare quello che chiama “divorzio tra potere e politica”. “Ci sono profeti – dice Bauman – convinti che Internet crei la più ampia democrazia possibile”. In effetti, sostiene il sociologo, la rete è “lo strumento naturale per promuovere la democrazia. Un mondo con Internet deve diventare un mondo democratico”. Deve, è proprio questo il problema. Perché finora non ci sono prove che tutto ciò stia accadendo. Secondo Bauman, “siamo di fronte alla crisi delle istituzioni politiche esistenti. La gente crede sempre meno che le istituzioni politiche inventate dai nostri antenati, come partiti e parlamenti, possano mantenere le promesse”. Non è solo una questione di corruzione, oppure di fallimento di un partito o di un ministro. “Le istituzioni politiche – ragiona – ormai sono organicamente incapaci di mantenere le promesse. E molti di noi pensano di sostituirle”. Nessuno, però, è stato sinora in grado di trovare la soluzione. Per Bauman, siamo in una situazione analoga a quella che Antonio Gramsci definiva ‘interregno’: “Le regole vecchie non portano più a risultati, ma quelle nuove non sono ancora state inventate”. Non hanno infatti portato agli obiettivi sperati le manifestazioni pubbliche in Iran, che Hillary Clinton aveva definito “la prima rivoluzione democratica fondata su Internet”. E nemmeno movimenti come quello degli indignados in Spagna o come la primavera araba: “Tutti attendevano l’estate araba – continua Bauman – ma quello che è arrivato è stato l’inverno arabo, direttamente dopo la primavera”. Un altro esempio? “Occupy Wall Street – dice il sociologo -. Tutti si sono accorti che Wall Street era occupata, tranne Wall Street stessa, che non è cambiata per nulla in seguito a quelle azioni”. Il problema, secondo Bauman, è che oggi potere e politica non sono più uniti come un tempo. Fino a mezzo secolo fa il potere (“l’abilità di fare le cose”) e la politica (“l’abilità di decidere che cosa è urgente fare”) erano entrambi nelle mani dei governi democraticamente eletti. “A causa della globalizzazione non è più così – spiega -. Il potere è evaporato dagli stati sovrani verso un’area libera dalla politica, un’area sovranazionale. Da una parte abbiamo un potere libero dal controllo politico. Dall’altra una politica che costantemente e permanentemente soffre di deficit di potere”. Così i politici inseriscono nelle loro piattaforme elettorali i desideri degli elettori, ma non possono mantenere le promesse. Se le mantenessero – sostiene Bauman – verrebbero punti dai poteri sovranazionali, come le borse e la finanza, che hanno interessi diversi da quelli degli elettori. Per questo la gente cerca nuove soluzioni. Ma i risultati tardano ad arrivare: “Per ora ho visto solo degli esperimenti – assicura il sociologo -. E non ho avuto alcuna prova che questi stiano funzionando”. Le tipologie di democrazia inventate in passato, come la democrazia rappresentativa parlamentare, sono dunque in crisi. Il futuro è in forme di democrazia diretta basate sulla Rete? Lo sostengono per esempio i partiti pirata europei e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Per Bauman siamo all’inizio del processo: “Nessuna soluzione è stata ancora raggiunta – ribadisce -. Il potere ormai è globale, mentre la politica è locale. I problemi creati da un potere globale non possono essere affrontati localmente con efficacia. Abbiamo bisogno di una politica che sia commisurabile con il tenore dei problemi”.

mercoledì 2 ottobre 2013

Il cainano è bollito.

BERLUSCONI E' INCAPACE DI PRENDERE DECISIONI LUCIDE.
di: Alessandro Gilioli, su Espresso. Pubblicato il 02 ottobre 2013. Depresso, finito. Gli occhi socchiusi di rabbia e paura. Terrore di essere isolato e finire in galera. In onda la terra dei cachi in diretta. Berlusconi con gli occhi socchiusi di rabba e paura. Il terrore di essere isolato e finire in galera. Al Senato in onda la terra dei cachi in diretta. ROMA (WSI) - Un senatore pidiellino, mentre Bondi gridava in Aula contro il governo Letta, spiegava che in mattinata Berlusconi aveva già cambiato idea tre volte. Non sapeva, evidentemente, che stava cambiandola ancora. Perché un’ora e mezza dopo, in quattro minuti, il Caimano stanco rovesciava di nuovo tutto, accennando appena al ‘travaglio interno’ del suo partito e confermando la fiducia a quell’esecutivo che novanta minuti prima Bondi aveva accusato di tradimento. Aveva gli occhi socchiusi, l’ex premier. Di rabbia, ma anche di paura. Il terrore di essere sbattuto all’opposizione: con la Santanchè e Verdini, certo, ma poi in galera rischia di andarci solo lui. Così alla fine li ha mollati: ha messo sul piatto – di nuovo – la ‘pacificazione’ e fondamentalmente ha chiesto un time out, come nel basket, forse perché ha capito di essere suonatissimo, incapace oggi come oggi di prendere decisioni lucide e utili a se stesso. L’importante per lui, stamattina, era evitare che nel pomeriggio si formasse il nuovo partito di Formigoni-Cicchitto-Lupi: quella sarebbe stata la morte immediata, così almeno l’ha rimandata un po’, o comunque lui crede così. In Aula, prima di lui, si erano alternati discorsi surreali (il leghista che metteva sul bilancino i disoccupati del nord e del sud), psicanalitici (Casini che invitava i pidiellini a mollare il Capo sulla base del ‘ci siamo passati tutti, è dura ma poi ci si sente meglio’) e pure psichiatrici (la fuoriuscita grillina De Pin stava palesemente malissimo, non so come abbiano fatto i suoi ex compagni ad aggredirla, bisognava darle un bicchier d’acqua e un calmante, poveraccia). Poi appunto è arrivato Bondi e ha rotto l’ipocrisia: di Silvio si doveva parlare, e della sua galera, il resto essendo fuffa. Ha sparato ad alzo zero, lo sfigato Bondi, senza immaginare che poco dopo l’avrebbero richiamato dalla trincea. Comunque, gli altri hanno fatto tutti finta di non sentire: doveva essere molto fastidioso sentirsi ricordare che per vent’anni – chi più chi meno – ci avevano avuto tutti a che fare, con l’ex premier. Meglio rimuovere il passato, siamo pur sempre il Paese in cui il 26 aprile del ‘45 eravamo stati tutti antifascisti. Poi ha parlato di nuovo Letta, che ormai incarna l’idea platonica della democristianità: ha ringraziato tutti ma proprio tutti, anche chi gli aveva appena dato dell’incapace e del traditore, nominando a uno a uno i senatori che avevano parlato, distribuendo camomille di parole, soldarizzando senza se e senza ma con il "travaglio" dei fuoriusciti grillini, e a quel punto Scilipoti si è giustamente incazzato perché a lui da tre anni invece lo prendono per il culo tutti, mai aveva avuto un riconoscimento in Aula per i suoi "travagli", lui. Insomma scene surreali, la terra dei cachi in diretta tivù, con un premier che citava Einaudi e Croce preparandosi a tirare a campare con Giovanardi e Mastrangeli. Poi, appunto, è arrivato B. a sgonfiare l’attesa della conta, a far rimettere nell’armadio il pallottoliere. Bondi ammette che a «pugnalare alle spalle» Silvio è stato il suo stesso partito. Il Caimano, probabilmente, per la prima volta si sta chiedendo se in questi giorni guadagnati non sia il caso di infilarsi in uno dei suoi aerei.

TROTTOLINI AMOROSI.