lunedì 30 aprile 2012

Una ricetta da 50 cent contro la recessione.

L’importanza della sovranità monetaria di PierGiorgio Gawronski | 30 aprile 2012, da Il Fatto Quotidiano. Nei mesi scorsi la Bce ha “stampato moneta”, ben 214 mld., per sostenere sui mercati finanziari i prezzi – limitare gli spread – dei titoli del debito pubblico di Italia, Spagna, e altri paesi europei. Non riuscendovi, ha immesso altri 1000 mld (Ltro) per salvare il sistema bancario e gli Stati europei dal fallimento. In Gennaio Scalfari – in alcuni editoriali ispirati dai suoi contatti in Banca d’Italia – annunciava trionfalmente: “la fiducia nel nostro debito sta tornando”! Ma il calo degli spread è stato parziale ed effimero. Oggi possiamo dire: come previsto, il tentativo è fallito. Costi alti, pochi benefici (anche al confronto con altre banche centrali): un sicuro segnale d’inefficienza. Che fare? La Bce potrebbe risolvere la situazione, azzerare gli spread (non solo ridurli) spendendo 50 cent. È il costo dell’inchiostro di un comunicato stampa che annuncia la garanzia della Bce sui titoli pubblici. La Bce è l’unica al mondo in grado di offrire tale garanzia, eliminando alla radice il “rischio di default” e gli spread che ne derivano. Alcuni dettagli tecnici (saltate pure). Ad essere garantiti sarebbero solo i titoli
di nuova emissione; quelli già sul mercato determinano una spesa pubblica per interessi ormai fissa fino a scadenza, quindi non ci interessano emessi fra oggi e il 2015 di durata limitata (5 anni) emessi da paesi con spread superiori ai 200 bp sui titoli decennali emessi da paesi con i bilanci pubblici strutturali in buone condizioni, solventi, come Italia e Spagna; e/o disposti ad entrare in un programma speciale di disciplina fiscale, con temporanee cessioni di sovranità fiscale. Per i paesi non solventi (a causa del debito eccessivo), la Bce offrirebbe la garanzia solo dopo una ristrutturazione (riduzione) del debito a livelli sostenibili. La garanzia può limitarsi al 20% della somma dovuta: difficile infatti che Italia o Spagna restituiscano ai creditori meno dell’80% del dovuto. La disciplina fiscale si applicherebbe ai bilanci strutturali; lasciando margini per le politiche anticicliche (Romer). Le cessioni di sovranità scatterebbero solo quando non fossero rispettati i patti. I titoli garantiti dalla Bce resterebbero tali fino a scadenza (altrimenti che garanzia è?): ma la Bce potrebbe sempre rifiutarsi di garantire i titoli successivi, se il paese in questione non rispettasse i patti. Per maggiore sua tutela, la Bce potrebbe annunciare che: solo fra sei mesi offrirà la sua garanzia ai titoli emessi oggi, solo se il paese realizzerà nel frattempo le manovre concordate. Se i risparmiatori vedranno che le manovre si fanno, anticiperanno l’arrivo della garanzia, e gli spread crolleranno subito. Nel caso peggiore, ed inverosimile, in cui la Bce garantisse i titoli emessi da tutti i Piigs nel 2012-2015, e poi fosse costretta a onorare tutte le garanzie offerte (i Piigs facessero default su tutti i titoli garantiti per almeno il 20% delle somme dovute), il costo per la Bce sarebbe di circa 250 mld. Molto meno dei costi attuali, in cambio di benefici enormemente superiori: risolutivi. Grazie a questa manovra di quasi azzeramento degli spread, il rapporto debito/Pil, ad es. in Italia, comincerebbe a scendere senza altre manovre. L’economia si rinfrancherebbe, generando maggiori entrate fiscali, rinforzando il circolo virtuoso. Inoltre la Bce (e le banche: tedesche, francesi, ecc.) farebbe profitti stellari con la rivalutazione dei titoli Piigs in portafoglio. A tutto beneficio dei suoi azionisti: Germania in testa. La crisi – finanziaria – sarebbe risolta. Le altre banche centrali non hanno bisogno di fare comunicati stampa. Nei paesi che conservano la sovranità monetaria è scontato che le banche centrali non tollereranno mai un default dello Stato. Per questo lì la crisi degli spread non è mai nata, anche in condizioni fiscali peggiori delle nostre (Fig.2). La Bce invece ha detto e ripetuto che in caso di default non sarebbe intervenuta. Ha minato la fiducia: deve recuperare il terreno perduto. Perché non lo fanno? Perché non vogliono farlo. Quest’analisi sarà oggetto del mio prossimo post. I neo Hooveriani vi diranno che – per una sequela di astrusi pretesti teorici, politici, legali – tutto ciò non si può fare: i soldi alle banche bisogna continuare a darli. Ma allo stesso tempo, dicono di voler limitare la quantità di moneta: intendono quella in mano alla gente; quella che potrebbe rilanciare l’economia. Analizzano la moneta M dal solo lato dell’offerta (la quantità di M immessa). Dietro alle loro analisi c’è un’ipotesi nascosta: la stabilità della domanda di moneta (la quantità di M necessaria all’economia per funzionare bene). Se la quantità di moneta “giusta” non varia, un aumento dell’offerta di M non può che causare un eccesso di domanda di beni e servizi, oltre le capacità produttive, provocando inflazione, iper-inflazione. Citeranno Weimar, lo Zimbabwe! Attribuiranno ai loro interlocutori l’intenzione di stampare moneta all’infinito. Ma se invece la domanda di liquidità (M) fosse fortemente aumentata, dall’esplosione della crisi del 2008 in poi? In tal caso, laddove l’offerta di M non si fosse adeguata, questa sarebbe una politica destabilizzante nel senso contrario: provocherebbe crisi finanziarie, depressione della domanda (consumi) e recessione. Qual è la verità sulla moneta? Domandatevi: i problemi delle famiglie, delle imprese, dello Stato, sono causati dall’inflazione o dalla recessione?

domenica 29 aprile 2012

Gallino dà una lezione ai professori del governo, servi della finanza

Creare direttamente un milione di posti di lavoro Sgravi fiscali, investimenti in grandi opere, incentivi alle imprese perché assumano, sono poco o punto efficaci per creare rapidamente occupazione. Occorre che lo stato operi come datore di lavoro di ultima istanza, assumendo direttamente il maggior numero di persone. di LUCIANO GALLINO, da Il manifesto
29.04.2012 Istituire un’Agenzia per l’occupazione simile alla Works Progress Administration del New Deal americano (works = opere pubbliche). L’Agenzia stabilisce i criteri di assunzione, il numero delle persone da assumere, il livello della retribuzione, i settori cui assegnarle. Le assunzioni vengono però effettuate e gestite unicamente su scala locale, da comuni, regioni, enti del volontariato, servizi del lavoro, ecc. Per cominciare si dovrebbe puntare ad assumere rapidamente almeno un milione di persone. Poiché tale numero è inferiore a quello dei disoccupati e dei precari, occorre stabilire inizialmente dei requisiti in cui i candidati dovrebbero rientrare. Un requisito ovvio potrebbe essere l’età: p. e. 16-30 anni, oltre ovviamente alla condizione di disoccupato o precario. L’Agenzia offre un lavoro a chiunque, in possesso dei requisiti richiamati sopra, lo richieda e sia in grado di lavorare. Le persone assunte dall’Agenzia dovrebbero venire impiegate unicamente in progetti di pubblica utilità diffusi sul territorio e ad alta intensità di lavoro. (Le grandi opere non presentano né l’una né l’altra caratteristica). Progetti del genere potrebbero essere: la messa in sicurezza di edifici scolastici (oggi il 50% non lo sono); il risanamento idrogeologico di aree particolarmente dissestate; la ristrutturazione degli ospedali (nel 70% dei casi la loro struttura non è adeguata per i modelli di cura e di intervento oggi prevalenti). Per attuare progetti del genere sarebbero richieste ogni sorta di figure professionali. Finanziamento. Nell’ipotesi che ogni nuovo occupato costi 25.000 euro, per crearne un milione occorrono 25 miliardi l’anno (la maggior parte dei quali rientrebbero immediatamente nel circuito dell’economia). Si può pensare a una molteplicità di fonti: fondi europei; cassa depositi e prestiti; una patrimoniale di scopo dell’1% sui patrimoni finanziari superiori a 200.000 euro (la applica la Svizzera da almeno mezzo secolo); obbligazioni mirate. Andrebbero altresì considerate altre fonti. Ad esempio, si potrebbe offrire a cassaintegrati di lunga durata la possibilità di scegliere liberamente se lavorare a 1000-1200 euro al mese piuttosto che stare a casa a 750, a condizione che sia conservato il posto di lavoro (è possibile, con l’istituto del distacco). Qualcosa del genere andrebbe considerato per chi riceve un sussidio di disoccupazione. In questi casi l’onere per il bilancio pubblico (includendo in questo l’Inps) scenderebbe di due terzi. Infine va tenuto conto che molte imprese sarebbero interessate a utilizzare lavoratori pagando, per dire, soltanto un terzo del loro costo totale.

La saggezza di Parlato

Miseria fa miseria di VALENTINO PARLATO, da il manifesto
Sul Financial Times di ieri spiccava un titolo assai eloquente e tempestivo: «Time to say basta to the nonsense of austerity». Parole sante con quel «basta» in corsivo sulle quali dovrebbero riflettere i nostri attuali governanti che di tagli e austerità hanno fatto la loro bandiera. Vediamo come vanno le cose in Italia secondo una rilevazione dell'Istat e dell'Inps. Nel 2010 quasi la metà dei pensionati (7,6 milioni) ha ricevuto pensioni per un importo medio mensile inferiore a 1.000 euro. Per gli altri 2,4 milioni l'importo delle pensioni non ha superato i 500 euro. In totale i pensionati sono 16,7 milioni e percepiscono in media 15.471 euro l'anno, e sappiamo bene che le medie coprono disparità abissali. Questo è un aspetto dello stato della nostra società, nella quale la disoccupazione è in aumento e i prezzi in rialzo. Questa la situazione in Italia, ma anche in Spagna e terribilmente in Grecia. Secondo l'Ocse, ad Atene i redditi nel 2011 sono diminuiti di ben il 25 per cento rispetto al 2010. Per questo 2012 la recessione toccherà il 5 per cento mentre la Banca centrale prevede che per il periodo2013-2014 i redditi dei lavoratori del settore pubblico e privato subiranno una ulteriore riduzione di circa il 20 per cento e il tasso di disoccupazione resterà al di sopra del 19 per cento. Lo scorso gennaio, sempre in Grecia, la disoccupazione è arrivata al 21,8 per cento. Dunque la disoccupazione è quasi raddoppiata rispetto al 2010, quando la Grecia si rivolse alla Ue e la Fmi per ottenere prestiti di emergenza con l'impegno di praticare austerità. Italia e Grecia: due esempi piuttosto significativi di come vanno le cose con la politica del rigore e dell'austerity. Ma il male si sta diffondendo in tutta l'Europa, e non pare che i nostri attuali governanti ne traggano insegnamento e neppure le sinistre (mi pare) si stanno impegnando a frenare questa corsa al disastro, che - tra l'altro - come in Francia fa crescere la destra, nel senso che cresce una disperazione popolare che ha sempre meno fiducia in una sinistra succube dell'austerità risanatrice. Certo, c'è il debito pubblico e i debiti si debbono pagare. Ma c'è modo e modo di pagarli ed è forte il pericolo che queste imposizioni sul pagamento del debito blocchino la crescita e portino al tanto temuto default. Insomma siamo in una situazione nella quale Monti dice «no al keynesismo vecchio stile». E nel contempo l'altro Mario, Mario Draghi, dice giustamente che ci vuole «subito un patto per la crescita. Troppe tasse creano recessione». Mio nonno, che non sapeva chi fosse Keynes, mi ripeteva: «Miseria fa crescere miseria». Parole sante e, aggiungo, che il rigore tende ad avvicinarci al rigor mortis. Insomma sarebbe ora di avere il coraggio di finirla con i miti rigoristici e suicidi.

Krugman ancora contro l'austerità

KRUGMAN: "AUSTERITA' è COME IL VOODOO", IGNORA LA REALTA' Wall Street Italia - "Ogni volta che rifletto sul fatto che stiamo facendo progressi contro i pregiudizi e i falsi miti che in questi giorni passano per essere giudizi assennati, ecco che prontamente arriva qualcosa a rinnovare la mia disperazione, come questo editoriale sul Financial Times". Fin dall'incipit dell'editoriale pubblicato sul New York Times, il premio Nobel Paul Krugman fa capire chiaramente dove vuole andare a parare.
"L'articolo e' una risposta alle ultime brutte notizie economiche giunte dal Regno Unito, che, si dice, non offrono alcuna ragione per riconsiderare le politiche di austerita'. E' davvero straordinario, se ci si pensa per un minuto. Se da un lato e' innegabile che non vi e' alcuna garanzia che il Regno Unito si sarebbe comportato meglio con meno austerita', nella vita niente e' assicurato", scrive Krugman. Ed ecco che l'economista prepara l'affondo contro le politiche che impongono misure di austerita' "fuori dal mondo": "Il FT si sente in grado di respingere una prova sulla base di che cosa?" "Poi viene l'affermazione secondo cui i rendimenti obbligazionari potrebbero aumentare. Beh, sì certo, e ci potrebbe essere una crisi o qualsiasi altra cosa. Ma nulla nell'esperienza degli ultimi tempi suggerisce che i paesi con delle valute proprie sono a rischio di un attacco da parte dei bond vigilantes. Il tasso giapponese a 10 anni, dopo piu' di un decennio di avvertimenti in cui non si faceva che ripetere che la crisi sarebbe esplosa da un giorno all'altro, ora e' allo 0,91%". Inoltre, conclude Krugman, "gli economisti piu' rispettabili ora sostengono in modo convincente che l'austerita' in una economia fortemente depressa e' controproducente, allo stesso modo come indietreggiare nell'austerita' dovrebbe incoraggiare, non preoccupare, gli investitori obbligazionari". Insomma, "l'argomento del FT si riduce all'affermazione che la Gran Bretagna deve mantenere la sua rotta, affinche' non sia abbandonata dalla fiducia e attaccata da invisibili bond vigilantes", chiosa l'opinionista. "E chi ha scritto questo si considera ragionevole e giudizioso". http://nyti.ms/ID1W9V

Non son più tempi di prepotenze, cari europei

La Kirchner alle prese con la prepotenza europea di Horacio Verbitsky | 27 aprile 2012, da Il Fatto Quotidiano
Nel 2008, quando la Repsol cedette il pacchetto di maggioranza a una società petrolifera russa, Mariano Rajoy disse che solo un Paese da nulla rinuncia al controllo degli approvvigionamenti energetici. Però nella sua qualità di primo ministro del governo spagnolo, non tollera che l’Argentina possa comportarsi in base al medesimo principio e minaccia rappresaglie per la nazionalizzazione dell’Ypf (la principale società petrolifera argentina che Repsol controlla da 13 anni). L’esclusione dell’Argentina dal G-20 altro non è che il sogno di una notte d’estate. Nessuno dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) approverebbe questa sanzione contro l’Argentina, tanto che hanno invitato la Kirchner a sottoscrivere una dichiarazione congiunta, critica con l’Europa, nella quale si afferma che non basta la liberalizzazione dei commerci per produrre crescita economica, sviluppo e inclusione sociale. E il Fondo monetario internazionale ha appena chiarito che si tratta di una questione di rapporti bilaterali tanto che alla fine il ministro degli Esteri spagnolo, Garcia Margallo, ha fatto un passo indietro dicendo che tutto dipende dall’ammontare dell’indennizzo a favore di Repsol. Un dato che nessuno può trascurare è che la nazionalizzazione è stata approvata con una maggioranza del 90% in Senato, una percentuale che corrisponde, stando ai sondaggi, al parere degli argentini e che basta a rendere improponibile qualsivoglia paragone con il Venezuela di Chavez. Il governo ha anche disposto un intervento immediato per fare chiarezza sulla situazione di Repsol, misura questa rivelatasi più che opportuna. L’iniziativa del governo ha permesso di sapere che alcuni dei pochi, ma battaglieri critici della nazionalizzazione erano a libro paga di Repsol, come, ad esempio, l’ex ministro Alberto Fernandez e l’ex ministro per l’Energia, Daniel Montamat. Inoltre è stato possibile accertare le perdite di Repsol su cui la società spagnola manteneva il più stretto riserbo. La presidente Cristina Fernandez de Kirchner non ha avuto peli sulla lingua e alcune sue affermazioni hanno scatenato l’ira degli spagnoli. Ha detto, ad esempio, che la curva della diminuzione delle riserve e della caduta della produzione dell’Ypf somigliava alla proboscide di un elefante. Ma ancora più chiara è stata sulla questione di fondo: i mancati investimenti di Repsol si sono tradotti per l’Argentina in una bolletta di dieci miliardi di dollari in importazioni petrolifere, una somma pari quasi al surplus commerciale argentino. “È una politica che porta il Paese indietro di anni”, ha detto Cristina Fernandez de Kirchner. Una situazione intollerabile se si considera che l’Argentina è al terzo posto per riserve di greggio e gas. La scoperta di queste riserve è merito dei geologi argentini dell’Ypf che hanno utilizzato tecniche modernissime sulla base delle informazioni sismiche disponibili. Queste riserve non sono state minimamente sfruttate da Repsol che, invece di investire in Argentina, ha preferito utilizzare gli utili per investire in altre zone del continente americano e nel Maghreb, proprio a danno dell’Argentina. La Repsol ha comprato l’Ypf nel 1999 per 13 miliardi e 158 milioni di dollari. Da allora si è limitata a monetizzare le riserve già esistenti in modo da percepire dividendi per oltre 13 miliardi e 423 milioni di dollari e ha venduto per tre miliardi e 625 milioni di dollari il 25,5% del pacchetto azionario a un gruppo di avventurieri argentini. Un altro 17,1% lo ha collocato in Borsa ricavandone 2 miliardi e 704 milioni di dollari. Il 57,5% del pacchetto azionario ancora in mano a Repsol varrebbe, secondo Repsol, oltre 10 miliardi di dollari. Quindi in dodici anni Repsol ha incassato utili per 17 miliardi e 767 milioni di dollari. Il momento di questa decisione non avrebbe potuto essere più opportuno. Il prezzo del barile ha toccato i 120 dollari e secondo Nuriel Roubini potrebbe aumentare ulteriormente – e anche di molto – se questa estate il presidente Barack Obama in campagna elettorale dovesse usare toni forti nei confronti dell’Iran, così come si augura il governo israeliano. Nessuno sfuggirebbe alla recessione globale provocata da una esplosione dei prezzi petroliferi, ma è comunque chiara a tutti la differenza tra i Paesi che dispongono di riserve di petrolio e Paesi costretti a importare il petrolio dall’estero.

Un impeccabile Travaglio

Grillo contro Maciste di Marco Travaglio | 28 aprile 2012
Le accaldate dichiarazioni dei politici su Beppe Grillo sono uno spettacolo impagabile, da scompisciarsi. Tutti contro uno, come contro la Lega delle origini. Sono talmente terrorizzati da non notare la ridicolaggine di un’intera classe politica, seduta su 2,5 miliardi di soldi pubblici camuffati da rimborsi, padrona del governo e del Parlamento nonché di tutti gli enti locali, ben protetta da Rai, Mediaset e giornaloni, infiltrata in banche, assicurazioni, aziende pubbliche e private, Tav, Cl, P2, P3, P4, ospedali, università, sindacati, coop bianche e rosse, confindustrie, confquesto e confquello che strilla come un ossesso contro un comico e un gruppo di ragazzi squattrinati, magari ingenui, ma armati solo delle proprie idee e speranze. Il presidente della Repubblica che commemora la Liberazione dal nazifascismo lanciando moniti, anzi anatemi contro un comico (“il qualunquista di turno”), è cabaret puro. Dice che “i partiti non hanno alternative”: ma quando mai, forse per lui che entrò in Parlamento nel ’53 senza più uscirne. Tuona contro l’“antipolitica” (e ci mancherebbe pure, vive di politica da 60 anni). Ma non si accorge che nessuno ha mai delegittimato i partiti e la politica quanto lui, che sei mesi fa prese un signore mai eletto da nessuno, lo promosse senatore a vita e capo di un governo con una sola caratteristica: nessun ministro eletto, tutti tecnici più qualche politico travestito da tecnico. E non se ne avvedono neppure i giornaloni che dedicano all’ultimo monito pensosi editoriali dal titolo “Il tempo è scaduto”. Se un comico parla del capo dello Stato e lo sbeffeggia, è normale, mentre non s’è mai visto un capo dello Stato che parla di un comico, per giunta neppure candidato, per dirgli quel che deve fare o dire. Napolitano contro Grillo è roba da “Totò contro Maciste”. Ma il meglio, come sempre, lo danno i partiti. Anche una personcina ammodo come Guido Crosetto del fu Pdl riesce a dire che Grillo gli ricorda “il fascismo”, anzi “il razzismo”, anzi “il nazifascismo”, anzi “Goebbels” in persona. Le pazze risate. Grillo dice che, se Napolitano difende i partiti, è “il presidente dei partiti”: logica pura, ma per Bersani è “insulto”. Segue minacciosa diffida per leso monito: “Grillo non si permetta di insultare Napolitano, non si arrischi a dire cosa direbbero i partigiani se tornassero: loro saprebbero cosa dire dell’Uomo Qualunque”. Brrr che paura. Livia Turco lacrima in tv perché la gente ce l’ha con i politici e non si capacita del perché. Casini intima a Grillo di “entrare in Parlamento a misurarsi coi problemi concreti” e “smetterla con le chiacchiere”. Perché se no? Forse dimentica che Grillo in Parlamento entrò tre anni fa, per portare le firme di 300 mila cittadini su tre leggi d’iniziativa popolare: ma, siccome prevedevano l’incandidabilità dei pregiudicati, il limite di due legislature per i parlamentari e una legge elettorale democratica al posto del Porcellum, i partiti le imboscarono tutte e tre. Anche perché, con quelle, l’Unione dei Condannati si sarebbe estinta e gli altri partiti quasi. Siccome Dio acceca chi vuole rovinare, i partitocrati seguitano a confondere le cause con gli effetti. Grillo l’hanno creato loro: rifiutando le sue proposte, asserragliandosi a palazzo, barricando porte e finestre, alzando i ponti levatoi per tenere lontani dalla politica i cittadini e rovesciando su di loro pentoloni d’olio, anzi di merda bollente. E ora che, al borsino della fiducia, raccolgono tutti insieme il 2%, non trovano di meglio che fare l’ammucchiata: ABC, il Trio Alfanobersanicasini, vanno in giro a braccetto per far numero e volume, annunciando riforme elettorali, leggi sui partiti, tagli alla casta, norme anti-corruzione e misure per la crescita che nessuno farà mai. Più gli elettori si allontanano, più i capi si avvicinano, illudendosi di riempire il vuoto da essi stessi creato. Sfilano al proprio funerale come se il morto fosse un altro. Il Fatto Quotidiano, 28 Aprile 2012

mercoledì 25 aprile 2012

Servire Dio e lo Spread

di RANIERO LA VALLE – da Micromega
Il martedì nero è stato un brutto risveglio dopo la radiosa notte di Pasqua. Lo Spread, cioè il differenziale tra i titoli italiani e tedeschi, è schizzato di nuovo sopra quota 400, come ai peggiori tempi di Berlusconi, e le Borse sono sprofondate. Il magico professor Monti, che si trovava in Egitto, ha fatto sapere che lui non poteva farci niente, che la cosa non dipendeva da cause “endogene”, cioè italiane. Erano i Mercati. Gli speculatori, cioè i signori del Mercato, avevano preso un’altra rincorsa per arricchirsi a spese nostre e di altre economie dell’Occidente. Poi si sono ritirati, fino alla prossima occasione. La delusione è stata cocente. Noi avevamo fatto tutto per lo Spread. Per lo Spred avevamo mandato via Berlusconi, dopo non esserci riusciti per anni per altre cose, anche più gravi, che stava facendo ai danni della Repubblica. Per lo Spread avevamo venduto l’anima, e la politica, a una squadra di tecnici che sembrava fossero gli unici a sapere che cosa si dovesse fare (né mancavano di dircelo). Per lo Spread avevamo gettato nella disperazione quelli che avrebbero dovuto essere pensionati e d’improvviso più non lo furono. Per lo Spread avevamo tolto soldi ai Comuni e alle Imprese, togliendo assistenza ai vecchi, asili ai bambini, guide ai ciechi, e mettendo in mezzo alla strada lavoratori nel pieno della loro capacità operativa. Per lo Spread avevamo aumentato le tasse, di ogni genere e misura. Per lo Spread avevamo aperto a freddo un conflitto caldissimo sull’art. 18 e sui diritti del lavoro. Per lo Spread avevamo liberalizzato perfino i tassì, che ora riempiono tutte le strade e non sappiamo dove metterli. Ed ecco che lo Spread si rivolta contro di noi, non era un idolo a cui bastassero i sacrifici umani. E ci dicono che non c’è niente da fare, bisogna stare nei rifugi aspettando che finiscano i bombardamenti, come quando c’era la guerra, e qualcuno ancora se lo ricorda. Ma a chi è posta la questione? La questione non è posta all’economia, è posta alla politica. Perché l’economia, dopo che le abbiamo sciolto le briglie, le abbiamo tolto lacci e lacciuoli, le abbiamo permesso di battere non solo moneta, ma derivati, usure e prodotti finanziari di ogni tipo, corre libera e felice lì dove trova profitti rendite e potere. Ma è stata la politica che ha fatto questa scelta. È lei che si è invaghita del liberismo, che nemmeno Einaudi immaginava così incontrollato. E a rovesciare le conquiste costituzionali e internazionaliste del dopoguerra, prima sono arrivate le politiche reaganiane e tatcheriane, poi le politiche dei neofiti del capitalismo nei Paesi dell’Est, poi le politiche subalterne delle sinistre europee, di Tony Blair, dei partiti postcomunisti. La conseguenza è che gli Stati, le democrazie, non hanno più in mano gli strumenti per governare il corso delle cose. Non la moneta, non la leva del credito, degli investimenti, delle politiche industriali, delle partecipazioni statali. Siamo in mano a poteri incondizionati e incontrollabili, siamo affidati a automatismi che nessuno può fermare. Abbiamo manomesso anche la Costituzione, facendo del pareggio di bilancio non un’opzione politica ma un obbligo giuridico, e in quattro e quattr’otto abbiamo cambiato l’art. 81; e quando entrerà in vigore il “Fiscal compact” firmato a Bruxelles, i governi dovranno andare a giustificare le loro politiche economiche non davanti ai Parlamenti ma alle Corti di giustizia. Un monito si leva allora da questa lezione: non compiamo altri atti irreversibili, che ci mettano in condizioni di sempre maggiore impotenza. Non continuiamo a fare scelte che decidano per noi una volta per tutte. Non continuiamo a firmare trattati, a cambiare Costituzioni, a alienare diritti per cui, ai figli che chiedono pane, dovremo dare pietre, dicendo che è Maastricht, che è l’euro, che è il Patto di stabilità, che è la Banca centrale, che è il debito. Cioè, torniamo alla politica. Chi non vede che la crisi dei partiti sta anche nel fatto che in realtà non possono fare più nulla per dare vere risposte, per dare aiuto alla vita della gente che rappresentano? La Repubblica non può fare più nulla di quelli che sarebbero i suoi compiti secondo la Costituzione: garantire, tutelare, curare, provvedere, rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, e così via. E non potendo fare nulla per il bene comune, i partiti sono rimasti senza causa. È rimasto solo il potere, e la lotta per il potere. È colpa loro, hanno tagliato i rami su cui erano seduti. Ed è qui il vero incentivo alla corruzione: i soldi dei finanziamenti statali, non impiegati per mettere in grado i partiti di fare politica, di servire gli interessi pubblici, sono destinati, dai partiti disonesti e dagli amministratori infedeli, ai godimenti privati. Non solo perciò bisogna rendere trasparenti i soldi dei partiti, ma bisogna vincolarli a fini sociali. Se non vogliono più fare i comizi, che almeno facciano una scuola. Raniero La Valle (25 aprile 2012)

Capire il successo del FN in Francia


Marine Le Pen, la signora in nero

Ritratto della donna che ha cambiato il volto dell'estrema destra francese e che annuncia la trasformazione del populismo europeo da fenomeno antisistema in sfida aperta per l'egemonia politica e culturale, in nome della difesa delle identità nazionali e dei settori più deboli della società, a partire dal mondo del lavoro.

di Guido Caldiron, da Micromega

"Hollande e Sarkozy? Per me rappresentano e hanno sempre rappresentato la stessa cosa. Siamo noi del Front National l'unica vera opposizione al sistema". Grazie alla sua clamorosa affermazione al primo turno delle elezioni presidenziali francesi, ha raccolto circa il 18% dei voti, Marine Le Pen ha raggiunto più di un risultato.

Da un lato, a circa un anno dal passaggio di testimone con il padre per la guida del partito, avvenuto all'inizio del 2011 a Tours in occasione del XIV congresso nazionale del Fn, ha dimostrato di poter far crescere ancora il consenso per le tesi dell'estrema destra, dall'altro, forte dei voti raccolti, si è posta nella condizione di poter giocare il ruolo dell'arbitro per il ballottaggio delle presidenziali, fissato per il 6 maggio, da cui uscirà il nome del futuro inquilino dell'Eliseo. Non a caso, i media francesi più che celebrare il successo registrato fin qui dal socialista François Hollande, hanno lanciato l'allarme proprio per lo score raggiunto da Marine Le Pen. Anche perché la candidata del Front National, che scioglierà la riserva sulla sua indicazione di voto per il ballottaggio solo il 1 maggio in occasione della tradizionale manifestazione parigina del Fn - in onore di Giovanna d'Arco e del "lavoro francese" -, non fa mistero di considerarsi già oggi come l'unica vera leader dell'opposizione futura e di scommettere su una sconfitta di Sarkozy, e su un'implosione del partito di centro-destra Ump, proprio per poter costruire un nuovo rassemblement di tutta la destra, stavolta riunita intorno al suo partito. Con le elezioni legislative, le nostre politiche, fissate per giugno, gli auspici di Marine Le Pen suscitano non poche inquietudini oltralpe: stavolta il vecchio partito xenofobo fondato nel 1972 da Jean Marie Le Pen come federazione di gruppi neofascisti sotto la guida degli uomini di “Ordre Nouveau”, non sembra trovarsi più ai margini della politica francese, per occuparne invece un ruolo centrale.

Nel corso della sua lunga esistenza il Front National aveva già raccolto significative affermazioni, su tutte la vittoria al primo turno delle presidenziali del 2002 di Le Pen sul candidato della sinistra Lionel Jospin e il successivo ballottaggio tra l'ex parà della guerra d'Algeria e il presidente gollista Jacques Chirac. Mai però c'era stata la sensazione che le idee dell'estrema destra potessero costruire una sorta di egemonia nella società francese. A conclusione del decennio segnato dalla figura di Nicolas Sarkozy, comunque vada la sua sfida con Hollande tra 15 giorni, che ha costruito le proprie fortune elettorali proprio pescando apertamente nel repertorio identitario e xenofobo del Front National, e perciò rendendo in qualche modo legittimo ciò che prima appariva come un tabù della democrazia, con l'arrivo di Marine Le Pen alla guida del partito razzista, il peggiore dei fantasmi che ossessionano la Francia della Quinta repubblica, sembra ora poter diventare realtà. E' quell'"effetto Marine", quella "normalizzazione" del Front e delle sue idee, che in molti avevano paventato quando la figlia del vecchio capo dell'estrema destra transalpina aveva annunciato di voler prendere le redini dell'"impresa di famiglia".

Nata nel 1968 a Parigi, avvocato, tre figli, già eletta nelle fila frontiste al Parlamento europeo e nel consiglio regionale del dipartimento del Nord Pas de Calais, Marine Le Pen ha definito un proprio percorso personale in seno al Front National, non ha esitato a criticare le intemperanze verbali di suo padre, a prendere le distanze dal suo negazionismo – «Io non metterò mai in dubbio l’esistenza delle camere a gas», dichiarava già nel 2004 – e a segnalare di voler consegnare definitivamente, almeno in apparenza, al passato la Storia del Novecento. Non solo, si è allontanata anche da alcuni cliché dell’estrema destra: parla senza tabù di aborto e famiglia e si presenta come una donna che lavora, con “i piedi per terra”. E ha posto al centro della sua azione politica “la questione sociale”, anche se declinata in termini di difesa degli interessi nazionali, e la minaccia dell’“islamizzazione” del paese, sorta di versione popolare del tema dello “scontro di civiltà”. Quando, nel 2006, ha tracciato in un libro, A contre flots, a metà strada tra l’autobiografia e il manifesto politico, il suo orizzonte e annunciato, tra le righe, la sua futura candidatura ai vertici del Fn, Marine Le Pen è stata del resto molto chiara: «Penso che se il Front National è stato in passato un partito di estrema destra, sia oggi diventato un grande partito popolare. E che a questo titolo si debba preparare ad accogliere al suo interno milioni di francesi. Per fare questo ci si deve volgere risolutamente verso il futuro e, senza dimenticare il passato, smetterla di litigare sulle guerre del passato. Fedele alle sue idee, il Fn deve però tenere conto fino in fondo della società attuale, per convincere tutti della sua attitudine a governare».

Con questo profilo, accompagnato da uno sguardo triste e da un sorriso misurato che la rende simile ai “piccoli bianchi” che intende rappresentare, Marine Le Pen è subito riuscita gradita al pubblico televisivo ed è diventata negli ultimi anni, e ancora di più negli ultimi mesi, una presenza fissa nei maggiori talk-show del paese, al punto che la giornalista di Le Monde Christiane Chombeau la definisce come «una nuova stella mediatica» nella sua inchiesta Le Pen fille & père. «Con lei – spiegano Caroline Monnot e Abel Mestre in Le Système Le Pen – si gira definitivamente una pagina della storia del Front National. Nata sei anni dopo la fine della guerra d’Algeria e ventiquattro dopo la fine della Liberazione, i suoi riferimenti e le sue riflessioni non sono radicate nel passato. Lei non è certo, come suo padre e altri fondatori del Front, “la figlia” di una sconfitta. Ciò che l’ha davvero segnata sono gli attentati dell’11 settembre e la crescita dell’islamismo». Marine Le Pen, aggiungono, «appare come una donna moderna. Lontana dall’immagine che ci si può fare dell’estrema destra. Una modernità che si rivela anche nel modo che ha di affrontare alcuni temi della società e su cui arriva, dolcemente, a modificare la linea stessa del suo partito. Come è accaduto con l’aborto – lei non vuole modificare la legge Veil che regola l’interruzione volontaria della gravidanza, pur difendendo una politica basata sull’aumento della natalità – o esprimendo grande tolleranza verso l’omosessualità».

Ma se Marine Le Pen si rivolge esplicitamente a quella parte dell’elettorato che stenta a riconoscersi in una visione troppo stretta e arcaica della cultura dell’estrema destra, per capirsi alla “Dio, patria e famiglia”, la prima novità rappresentata dalla sua leadership risiede proprio nel fatto che sia una donna a guidare per la prima volta una famiglia politica, che ha sempre amato dare di sé un’immagine virile e machista. Eppure, suggeriscono le giornaliste studiose Caroline Fourest e Fiammetta Venner, nella loro opera più recente, Marine Le Pen, proprio il Front National dovrebbe sapere bene quanto possa contare questo elemento di genere presso i suoi elettori. «Quando il Fn presenta una donna come candidato a una qualunque elezione – spiegano –, riceve mediamente più voti di quando il candidato è un uomo. È l’effetto “correttivo” femminile: nell’inconscio di molti francesi, specie i più tradizionalisti, una donna è naturalmente “più dolce” di un uomo. Votare per una candidata del Fn rappresenterebbe perciò una scelta meno “radicale”, ma senza attenuare per nulla il carattere protestatorio del proprio voto».

Prima di affermarsi sulla scena nazionale come nuova leader del Front, Marine Le Pen si è inoltre fatta conoscere sul terreno, impegnandosi per quasi un decennio in una regione francese particolarmente toccata dalla crisi sociale. È a Hénin-Beaumont, un comune di 26mila abitanti nella 14a circoscrizione elettorale della regione del Nord Pas de Calais, una ex zona industriale e comunista al confine con il Belgio devastata dalla delocalizzazione delle fabbriche e dalla crisi economica da più di vent’anni, che si è “fatta le ossa”. Ed è qui che si è costruita la fama di interprete del malessere e delle preoccupazioni dei francesi “dimenticati dalla politica”.

Un successo costruito passo dopo passo, elezione dopo elezione che ha fatto raddoppiare i voti frontisti nell’area. «Ho sempre detto a Marine che avrebbe avuto più chance di essere eletta in questa zona popolare piuttosto che tra i bobo dell’Ile de France, dove il Front National non gode di grande seguito», ha raccontato al giornalista di origine ungherese Laszlo Listai nel suo Marine Le Pen. Un nouveau Front National?, Bruno Bilde, uno dei responsabili della campagna della nuova leader frontista. E così, a partire da 2002, anno della sua prima candidatura nella zona, Marine Le Pen ha fatto di questo pezzo di Francia invisibile “la sua seconda casa”: attraverso un continuo porta a porta, la frequentazione dei mercati e la costruzione di una rete di rapporti con gli abitanti, ma anche con lo stanziamento di importanti risorse per le campagne elettorali: per le municipali del 2008 il Front ha inviato oltre 11mila dvd di propaganda agli abitanti: più o meno uno per ogni famiglia. «Sui suoi manifesti elettorali – segnala ancora Liszkai – c’era scritto semplicemente “Marine à l’Assemblée”. E lei spiegava a tutti: “Sarò il vostro avvocato difensore, combatterò per i grandi cambiamenti di cui avete bisogno”». E durante la campagna per le regionali del 2010, davanti alla fabbrica Psa Citroen di Trith Saint Léger, una delle poche a essere sopravvissute in questa zona un tempo piena di industrie e miniere, l’erede di casa Le Pen distruisce un volantino dal titolo “Crisi dell’industria: gli operai francesi traditi dal sistema”.

Di fronte a questa trasformazione dell'estrema destra, ammonivano già prima delle elezioni di questi giorni Monnot e Mestre, «denunciare il rischio di una “lepenizzazione delle coscienze”, tema evocato negli anni Novanta per segnalare come le idee del Front National rischiassero di sedurre la Francia ben al di là delle percentuali di voto raccolte da questo partito, non sembra più sufficiente davanti all’emergenza politica e mediatica di Marine Le Pen. Si è infatti perso il conto delle personalità che, se anche non integrano le fila del suo partito, ne banalizzano però le tesi e ne legittimano, nei fatti, la corsa verso le presidenziali. Questa battaglia “culturale”, preambolo necessario alla vittoria politica, è sul punto di essere vinta da parte della presidente del Fn».

(24 aprile 2012)

Come la finanza affama le popolazioni

Come la finanza affama le popolazioni
Dalla sua entrata in carica,all’inizio di gennaio, José Graziano, il nuovo direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura, ha promesso di aumentare le risorse destinate all’Africa, la «priorità» del suo mandato. Ma al di là del puntuale – e necessario – aiuto, si dovrebbero sottrarre al sistema speculativo le materie prime agricole, come suggeriscono alcuni economisti. di Jean Ziegler, da Le Monde Diplomatique, febbraio 2012 Una strada dritta, asfaltata, monotona. I baobab sfilano e la terra è gialla, polverosa, malgrado l’ora mattutina. Nella vecchia Peugeot nera l’aria è soffocante e irrespirabile. In compagnia di Adama Faye – ingegnere agronomo e consigliere per la cooperazione dell’ambasciata svizzera – e del suo autista, Ibrahima Sar, ci dirigiamo al nord, verso i grandi possedimenti del Senegal. Per misurare l’impatto delle speculazioni sui prodotti alimentari disponiamo – stese sulle ginocchia – delle ultime tabelle statistiche della Banca africana di sviluppo. Ma Faye sa che, più avanti, ci aspetta un’altra dimostrazione di tale impatto. La vettura penetra nella città di Louga, a 100 chilometri da Saint-Louis. Poi, all’improvviso, si ferma e Adama dice: «Vieni! Andiamo a vedere la mia sorellina. Lei non ha bisogno delle tue statistiche per spiegare ciò che sta succedendo.» Un mercato povero, alcune bancarelle sul bordo della strada. Mucchi di niébè e di manioca, qualche pollo che chioccia dietro le reti. Arachidi, pomodori raggrinziti, patate. Arance e clementine dalla Spagna. Non c’è un mango, frutto tuttavia noto in Senegal. Dietro una bancarella di legno, una giovane donna, vestita con un ampio boubou giallo acceso e con un foulard sul capo, chiacchiera con i suoi vicini, È Aïsha, la sorella di Faye. Risponde vivacemente alle nostre domande, ma, man mano che parla, la sua collera monta. Presto, sul bordo della strada del nord, si forma intorno a noi un chiassoso e gioioso assembramento di bambini di tutte le età, di giovani e di donne anziane. Un sacco di 50 chilogrammi di riso importato costa 14.000 franchi Cfa (1). Di colpo, la zuppa della sera è sempre più liquida. Solo pochi chicchi sono autorizzati a galleggiare nell’acqua della pentola. Presso i mercanti, le donne acquistano ormai riso al bicchiere. Una piccola bombola di gas è passata, nell’arco di pochi anni, da 1 300 a 1.600 Cfa; un chilo di carote da 175 a 245 franchi Cfa; una baguette di pane da 140 a 175 franchi Cfa. Quanto alla vaschetta da trenta uova, il suo prezzo è salito in un anno da 1.600 a 2.500 franchi Cfa. Rispetto al pesce, le cose non sono molto diverse. Aïsha finge ora di litigare con i suoi vicini, a suo parere troppo timidi, nella descrizione che essi fanno della loro condizione: «Dì al Toubab [parola che designa le persone bianche e occidentali] quel che paghi per un chilo di riso! Diteglielo, non abbiate paura! Quasi ogni giorno aumenta tutto.» È così che, lentamente, la finanza affama le popolazioni, Senza che queste ultime comprendano sempre i meccanismi su cui si fonda la speculazione. Un dispositivo perverso All’origine di tutto c’è una specificità, perché lo scambio dei prodotti agricoli non funziona affatto come gli altri: su questo mercato, si consuma più di quanto si vende. Così – stima l’economista Olivier Pastré (2) – «il commercio internazionale di cereali rappresenta poco più del 10 % della produzione, comprendendo tutte le colture (7 % per il riso)». L’economista conclude che «uno spostamento minimo della produzione mondiale in un senso o nell’altro potrebbe fare tremare il mercato (3).» Davanti alla crescente domanda, l’offerta (la produzione) si scopre non soltanto frammentata, ma estremamente sensibile alle variazioni climatiche: siccità, grandi incendi, inondazioni, ecc. È per questa ragione che all’inizio del XX secolo, a Chicago, apparvero i prodotti derivati. Questi strumenti finanziari, il cui valore è «derivato» dal prezzo di un altro prodotto, definito «sottostante» – come azioni, obbligazioni, strumenti monetari –, erano inizialmente destinati a permettere agli agricoltori del Middle west di vendere la loro produzione ad un prezzo fissato prima della raccolta – da cui il nome di «contratto a termine». In caso di caduta dei prezzi al momento della mietitura, l’agricoltore era protetto; in caso di impennata, gli investitori registravano un profitto. Ma, all’inizio degli anni ’90, questi prodotti a vocazione prudenziale si sono trasformati in prodotti speculativi. Heiner Flassbeck, economista alla guida della Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), ha stabilito che tra il 2003 e il 2008 la speculazione sulle materie prime per mezzo di fondi indicizzati (4) è aumentata del 2.300% (5). Al termine di questo periodo, l’impennata dei prezzi degli alimenti di base ha provocato le famose «rivolte della fame» che hanno scosso trentasette paesi. Le immagini delle donne della bidonville haitiana di Cité Soleil che preparavano gallette di fango per i loro figli sono circolate sugli schermi televisivi. Violenze urbane, saccheggi, manifestazioni che radunavano centinaia di migliaia di persone nelle strade del Cairo, di Dakar, di Bombay, di Port au Prince, di Tunisi, che reclamavano pane per assicurarsi la sopravvivenza, hanno occupato per diverse settimane la prima pagina dei giornali. L’indice 2008 dei prezzi dell’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) si stabiliva in media al di sopra del 24% rispetto a quello del 2007, e del 57% rispetto a quello del 2006. Nel caso del mais, la produzione di bioetanolo americano – dopato da circa 6 miliardi di dollari (4,7 miliardi di euro) di sovvenzioni annuali erogate ai produttori di «oro verde» – ha considerevolmente ridotto l’offerta statunitense sul mercato mondiale del mais. Dal momento che questo serve in parte all’alimentazione animale, la sua scarsità sui mercati, mentre la domanda di carne cresce, ha contribuito ad aumentare i prezzi del 2006. L’economista Philippe Chalmin (6) rivela che «l’altro grande cereale coltivato, il riso, ha conosciuto all’incirca la stessa evoluzione, con prezzi che, a Bangkok, sono passati da 250 a oltre 1.000 dollari per tonnellata (7).» Il mondo ha preso bruscamente coscienza del fatto che nel XXI secolo decine di milioni di persone muoiono di fame. Poi il silenzio ha ricoperto nuovamente la tragedia. Ma, dopo lo scoppio della crisi finanziaria, la speculazione sulle materie prime alimentari non ha fatto che accelerare: fuggendo dal disastro che essi stessi avevano provocato, gli speculatori – in particolare i più importanti, gli hedge funds, o fondi speculativi – si sono spostati sui mercati agroalimentari. Per loro, tutti i beni del pianeta possono diventare oggetto di scommesse sul futuro. Allora perché non gli alimenti «di base» – riso, mais e grano – che, insieme, coprono il 75% del consumo mondiale (50% per il riso)? Secondo il rapporto 2011 della Fao, solo il 2% dei contratti a termine sulle materie prime si conclude effettivamente con la consegna di una merce. Il restante 98% è rivenduto dagli speculatori prima della data di espirazione. Questo fenomeno ha preso una tale ampiezza che il Senato americano se ne è preoccupato. Nel luglio 2009 ha denunciato una «speculazione eccessiva» sui mercati del grano, criticando in particolare il fatto che alcuni traders detengono fino a cinquantatremila contratti nello stesso momento! Il Senato ha anche denunciato il fatto che «sei fondi indicizzati sono attualmente autorizzati a tenere centotrentamila contratti sul grano nello stesso momento, per un ammontare superiore al limite autorizzato per gli operatori finanziari standard (8)». Il senato statunitense non è l’unico ad allarmarsi. Nel gennaio 2011, un’altra istituzione ha classificato l’impennata dei prezzi delle materie prime, soprattutto alimentari, come una delle cinque maggiori minacce che pesano sul benessere delle nazioni, allo stesso livello della guerra cibernetica e della detenzione di armi di distruzione di massa da parte dei terroristi: il Forum economico mondiale di Davos…. Una condanna che ha del sorprendente, dato il meccanismo di reclutamento di questo cenacolo. Il fondatore del Forum economico mondiale, l’economista svizzero Klaus Schwab, non ha lasciato al caso la domanda di ammissione al suo Club dei 1.000 (nome ufficiale del circolo): sono invitati esclusivamente i dirigenti di società il cui bilancio supera il miliardo di dollari. Ognuno dei membri paga 10.000 dollari per l’entrata nel Forum. Essi solo possono avere accesso a tutte le riunioni. Tra loro, evidentemente, gli speculatori sono numerosi. Per un controllo mondiale dei prezzi I discorsi di apertura tenuti nel 2011 nel bunker del centro congressi hanno tuttavia indicato chiaramente il problema. Essi hanno condannato con tutte le loro forze gli «speculatori irresponsabili» che, per il puro richiamo del profitto, rovinano i mercati alimentari e aggravano la fame nel mondo. Poi, per sei giorni, una sequela di seminari, conferenze. Incontri, riunioni confidenziali nei grandi alberghi della piccola città innevata, hanno discusso la questione… Ma è davvero nelle sale dei ristoranti, nei bar, nei bistrot di Davos specializzati nella vendita di raclette (formaggio fuso, ndt) che il problema della fame nel mondo troverà le orecchie più attente? Per vincere una volta per tutte gli speculatori e preservare i mercati delle materie prime agricole dai loro attacchi a ripetizione, Flassbeck propone una soluzione radicale: «togliere agli speculatori le materie prime, in particolare quelle alimentari (9).» E rivendica un mandato specifico dell’Organizzazione delle Nazioni unite. Ciò, spiega, conferirebbe ad Unctad il controllo mondiale sulla formazione dei prezzi di Borsa delle materie prime agricole. A partire da quel momento, solo i produttori, i commercianti e gli utilizzatori di materie prime agricole potranno intervenire sui mercati a termine. Chiunque negozierà un lotto di grano o di riso, degli ettolitri di olio ecc., dovrà essere costretto a consegnare il bene negoziato. Converrà anche instaurare – per gli operatori – un’elevata quota minima di autofinanziamento. Chi non farà uso del bene negoziato verrà escluso dalla Borsa. Il «metodo Flassbeck», se venisse applicato, allontanerebbe gli speculatori dai mezzi di sopravvivenza dei dannati della terra e ostacolerebbe seriamente la finanziarizzazione dei mercati agroalimentari. La proposta di Flassbeck e della Unctad è energicamente sostenuta da una coalizione di organizzazioni non governative (Ong) e di ricerca (10). Ciò che manca, ora, è la volontà degli stati. NOTE * Vicepresidente del comitato consultivo del Consiglio di diritti umani dell’Organizzazione delle Nazioni unite. Autore di Destruction massive. Géopolitique de la faim, Seuil, Parigi, 2011. (1) Le cifre risalgono al maggio 2009, 1 euro = 655,96 franchi Cfa. Il Salario minimo intercategoriale (Smic) ammonta a 40.000 franchi Cfa. (2) Ndr. Anche presidente di IMbank (Tunisia) dal 2001, amministratore dell’Associazione dei direttori di banca (dal 1998) e di Cmp-Banque (depuis 2004). (3) Olivier Pastré, «La crise alimentaire mondiale n’est pas une fatalité», in Pierre Jacquet e Jean- Hervé Lorenzi (a cura di), Les Nouveaux Equilibres agroalimentaires mondiaux, Presses universitaires de France (Puf), Parigi, 2011. (4) Si dice a proposito di fondi di investimento il cui rendimento è supposto sposare quello di un indice di riferimento (portafoglio valori, Cac 40, ecc.). (5) Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo, «Rapport sur le commerce et le développement», Ginevra, 2008. (6) Ndr. Inoltre, ex consigliere della Società francese di assicurazioni (Euler-Sfac), tra il 1991 e il 2003, e presidente d’Objectif alpha obligataire (gruppo Lazard) dal 2005. (7) Philippe Chalmin, Le Monde a faim, Bourin editeur, Parigi, 2009. (8) Paul-Florent Montfort, «Le Sénat américain dénonce la spéculation excessive sur les marchés à terme agricoles», rapporto del sotto-comitato permanente del Senato degli Stati uniti incaricato delle inchieste, www.momagri.org/fr (9) Heiner Flassbeck, «Rohstoffe den Spekulanten entreissen», Handelsblatt, Düsseldorf, 11 febbraio 2010. (10) Le loro argometazioni sono riassunte in un saggio di Joachim von Braun, Miguel Robles e Maximo Torero, «When Speculation Matters », International food policy research institute (Ifpri), Washington, 2009. (Traduzione di Al. Ma.) (4 aprile 2012)

La Francia contro Sarkozy, Merkel, Monti e… Napolitano

di GIORGIO CREMASCHI,da Micromega
Nonostante i filtri del palazzo e del sistema informativo italiano, il messaggio delle elezioni francesi è chiaro. Da sinistra e anche da destra si dice basta con l’Europa delle banche, della finanza e dell’austerità. E il sistema finanziario l’ha capito subito e ha automaticamente reagito facendo salire lo spread e calare le borse. Non sappiamo se alla fine la sinistra vincerà. Se dovesse succedere e se, cosa non scontata, Hollande dovesse mantenere i suoi programmi, si aprirebbe finalmente la crisi di quell’Europa che ci sta dissanguando. Le elezioni francesi infatti sono avvenute all’insegna della messa in discussione dell’innalzamento dell’età pensionabile, della flessibilità del lavoro, delle delocalizzazioni, e – ultimo ma non da ultimo – del pareggio di bilancio e dell’accordo di rigore e austerità che, con il nome di fiscal compact, sta imprigionando nella catastrofe economica tutta l’Europa. Per essere ancor più chiari i francesi hanno votato contro la politica economica del loro Presidente, che è la stessa del governo italiano di unità nazionale. Politiche che poi nascono dalle scelte di fondo e dagli indirizzi del governo tedesco, della signora Merkel, e della Banca centrale europea, guidata da Mario Draghi. E’ questa Europa delle banche e della finanza, dell’austerità e del rigore, che sta esplodendo nelle proprie contraddizioni, come dimostra anche la crisi del governo Olandese e come mostreranno tutte le prossime elezioni, a partire da quelle greche. E’ l’Europa della dittatura delle banche che viene contestata dai suoi popoli e quest’onda di contestazione arriverà anche in Italia. Se si vuole qui da noi apprendere qualcosa dalla lezione francese bisogna allora cominciare a dire che il sistema politico e istituzionale che sostiene il governo Monti è l’avversario da battere. In Italia abbiamo un governo indicato dallo spread e nominato dal Presidente della Repubblica. Come è utile ricordare, fu il capo dello Stato a negare il ricorso alle urne dopo il crollo di Berlusconi. L’argomento principale era che l’aumento dello spread sui titoli di stato avrebbe travolto l’Italia. Oggi lo spread risale. In tutta Europa ogni elezione, ogni crisi politica diventa occasione per speculazioni finanziarie. O vota lo spread, o votano i cittadini, questa è l’alternativa secca che oggi è di fronte ai popoli europei. Il peccato originale del governo Monti e della scelta del Presidente delle Repubblica può essere rimosso quindi solo ripristinando la democrazia e mandando a casa una classe politica che si è piegata ai voti della finanza. Nessun trasformismo, nessun gattopardismo della ultima ora sarebbe a questo punto tollerabile. Il governo tecnico è nato per attuare in Italia i dettami della signora Merkel e della finanza internazionale. Se davvero si vuol cambiare, i professori debbono essere rimandati al loro mestiere e chi ha voluto questo governo deve democraticamente pagare il prezzo di questa scelta disastrosa. Giorgio Cremaschi (24 aprile 2012)

ROSSANDA SUL RISULTATO FRANCESE


La Francia che cambia

di Rossana Rossanda, dal Manifesto

25.04.2012

Non considero così irrilevante il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali francesi come lo giudicano Marco d'Eramo e Daniela Preziosi. Certo è l'opposto della marmellata parlamentare italiana, dove tutti, salvo la Lega, accettano Monti e Fornero dopo qualche flebile tentativo di divincolarsene. La Francia è invece divisa almeno in due, destra e sinistra, e fortemente radicalizzata da una parte e dall'altra. Ma mentre i socialisti di Hollande e il Front de gauche di Mélenchon vanno uniti al secondo turno, le destre di Sarkozy e di Marine Le Pen sono aspramente divise.
Il Front National, al livello più alto mai ottenuto in una presidenziale - la figlia ha superato il genitore -, mira ad assai più che a portare sangue a Sarkozy, nonostante la corte sfrenata che egli ha fatto al suo elettorato e accentua da due giorni, «a destra tutta». La bionda e virulenta Marine non nasconde che punta a spaccare il partito del presidente e diventare la sola forte destra, e non ha cessato di impallinare Sarkozy, che è l'Europa di Bruxelles e il gemello di Angela Merkel, cioè il nemico principale. Darà la consegna di voto il primo maggio, quando i suoi si riuniscono tradizionalmente sotto il monumento di Giovanna d'Arco ma sembra che lascerà libertà di voto con un accento sull'astensione. Fra due mesi ci sono le legislative e ad esse punta.
Anche per Sarkozy sarà più facile tentare di demolire Hollande sulla spesa pubblica e la sicurezza che giocare la carta del protezionismo, che di Marine Le Pen è l'asso di cuori, quella che le ha permesso di pescare il voto operaio nel diluvio di delocalizzazioni, anche sfondando le sue roccaforti tradizionali a nord e sud. Sarkozy ha già ricevuto un ammonimento da Bruxelles preoccupata dalla crescita delle destre estreme; neanche la Merkel è entusiasta, sono entrate in comprensibile fibrillazione le associazioni ebraiche. I Le Pen, padre e figlia, sono poco digeribili per quella abbondante metà del paese che ha ancora sullo stomaco il petainismo. Insomma la libertà di movimento di Sarkozy ha dei limiti. Intanto si è inventato per il primo maggio una «festa del vero lavoro» che si contrapporrà al corteo dei sindacati.
Hollande non ha certo il temperamento di un rivoluzionario, ma è tenace, si è preparato, ha scelto come Mitterand la force tranquille ed ha ribadito fino all'ultimo il punto che allarma i mercati: non accetta il «fiscal compact» e rimetterà in causa l'adesione del passato governo. CONTINUA | PAGINA 3
Una cosa gli è chiara, che su quella linea alla Francia, che ha un deficit molto superiore al nostro (più basso in relazione al Pil) non resterebbe un quattrino per la crescita, e crescita e tagliare le unghie alla finanza sono i suoi argomenti più forti.
Sui quali sarà incalzato da Mélenchon, che rappresenta la vera novità: dai minimi cui era arrivato il Pcf è salito in poche settimane di calorose manifestazioni, affollate di giovani e operai, al 16 per cento nei sondaggi. Ne ha realizzato soltanto 11 e rotti, ma è un risultato senza pari per una sinistra radicale, che ha con sé anche il Pcf senza avergli concesso nulla.
Benché i media abbiano fatto di tutto per appaiare in antieuropeismo Mélenchon e la figlia di Le Pen, essi non si somigliano in nulla se non nel rifiuto del rigore. Mélenchon non è protezionista, non è xenofobo, il 1 maggio sfilerà con i sindacati. È insomma riapparso il fantasma di una sinistra radicale non gruppuscolare, che non entrerà al governo ma appoggia la candidatura di Hollande e si conterà nelle elezioni legislative che seguiranno a giugno. La nuova Assemblée Nationale sarà non poco diversa dall'attuale.
In verità il duo franco-tedesco che ha diretto quest'anno l'Europa senza alcuna legittimità sta subendo un fiero colpo. Se passa Hollande, se si considera che anche Angela Merkel è già meno forte, dell'Italia non si occupa nessuno, e che la apparentemente inossidabile Olanda è entrata in questi giorni in apnea, l'ipotesi più verosimile è che si incrina in Europa il fronte dell'austerità.
Farebbero bene a pensarci Bersani e D'Alema, dopo lo scacco dell'incontro con il Ps e la Spd. Le carte europee possono essere ridistribuite, e se non lo fa Bersani lo farà qualcun altro.

lunedì 23 aprile 2012

BYE EURO NEL 2014?




Unione Europea, aumentano i mal di pancia e riappare la Dracma come possibilità di rimborso su finanziamenti BEI


In Olanda il Primo ministro olandese, Mark Rutte, presentera’ questo pomeriggio le sue dimissioni alla regina Beatrice aprendo cosi’ la strada alle elezioni anticipate.
La notizia giunge dopo il fallimento delle trattative tra la coalizione di governo e il partito populista di Geert Wilders sulle misure da adottare per riportare i conti pubblici in linea con gli obiettivi fissati da Bruxelles. La causa è quindi il mancato accordo sulle misure di risanamento dei conti pubblici.

La Francia intanto sembra voler voltare pagina, lo si vede anche nel dato pesante ed imprevisto del 20% della candidata di estrema destra Marine Le Pen, che inaspettatamente irrompe come protagonista sulla scena politica francese. Le Pen è antieuropeista convinta.

Ed infine in un contratto di finanziamento riappare per la prima volta la possibilità di rimborsare in una valuta nazionale, la Bei infatti…

Atene, 23 apr – La Bei (Banca europea per gli investimenti) ha iniziato a includere nei contratti di finanziamento a societa’ greche una clausola che prevede la possibilita’ di rinegoziazione e di rimborso in altra valuta diversa dall’euro. E’ quanto scrive il quotidiano greco ‘Kathimerini’, spiegando che la clausola e’ stata inserita per la prima volta nel contratto per un finanziamento da 92 milioni di dollari alla Ppc (Public Power Corporation), la societa’ elettrica ellenica. La clausola prevede l’obbligo di rinegoziazione in caso di reintroduzione della dracma sia nell’evento che sia la Grecia a decidere di uscire dall’Eurozona sia per l’eventuale collasso dell’intera area della moneta unica. Fonti Bei, citate dal quotidiano, precisano che si tratta di una nuova procedura standard che sara’ estesa in futuro a tutti gli altri Paesi dell’Eurozona sotto programma di aiuti, e cioe’ Portogallo e Iralnda e, a termine, a tutti i Paesi dell’Eurozona.


fonte: Il Sole 24 Ore Radiocor

23 Aprile 2012

ABC SONO L'ANTIPOLITICA




Democrazia: i Nuer e noi

di Massimo Fini, da Il Fatto Quotidiano

Noi paghiamo della gente perchè ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava Jacques Necker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione” ('Du pouvoir exécutif dans les grands États'). Noi invece ci siamo talmente assuefatti che non ci facciamo più caso, ma è una cosa che farebbe sbellicare dalle risa un Nuer. I Nuer sono un popolo nilotico (200 mila persone circa) che vive nelle paludi e nelle vaste savane del Sudan meridionale. Un Nuer non solo non paga nessuno perchè lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. “E' impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un'educazione dura ed egualitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile, nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza...Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non viene trattato in modo differente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza... Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino”. Così li descrive l'antropologo inglese Evans Pritchard che, negli anni Trenta, visse tra loro a lungo e li studiò.

Un popolo di liberi e uguali. Un'eccezione? Non precisamente. Si tratta infatti di una di quelle 'società senza capi' o di 'anarchie ordinate' nient'affatto rare nel Continente Nero prima che (oltre agli islamici) arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, funzionale alla nostra economia, che ha completamente distrutto l'equilibrio su cui si sostenevano le popolazioni africane e l'Africa stessa.

Liberi e uguali. Una bella lezioncina che ci dovrebbe far riflettere se, per dirla con Necker, fossimo ancora capaci di riflessione. Soprattutto oggi che il terrore corre sul filo e la classe politica, dopo un trentennio di ruberie, di malversazioni, di soprusi, di abusi, di un sacco devastante del paese, dopo aver favorito disuguaglianze enormi e indecenti, economiche, sociali e di status (loro, insieme ai loro sgherri televisivi e di altro tipo, sono i Vip, imbottiti di privilegi che nemmeno la nobiltà medioevale aveva, noi la 'gente comune') cerca gattopardescamente di far finta di cambiare perchè nulla cambi. Così Pier Ferdinando Casini, 'Pierferdi' per gli amici, ex portaborse di Arnaldo Forlani, si rivernicia sotto il 'Partito della Nazione', Beppe Pisanu, ex portaborse di Benigno Zaccagnini, cerca di smarcarsi dal Pdl. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano tuona: “Guai a rifiutare la politica” (e lo credo bene: è la politica che gli ha permesso, come a tanti altri, di vivere una vita senza fare un giorno di lavoro).

L'attacco all' 'antipolitica' è diventato il leit motiv degli esponenti del regime. Antipolitici sono i grillini, antipolitici sono tutti coloro che si rifiutano di partecipare al rito truffaldino del voto che serve a legittimare per l'ennesima volta questi ladri, questi parassiti, questi privilegiati, questi usurpatori. Mentre chi denuncia che i partiti sono il cancro del sistema è assimilato, o quasi, ai terroristi.

In realtà tutti questi anatemi contro 'l'antipolitica' mascherano l'abbietto terrore di costoro di essere spazzati via dalla collera popolare. A parte il fatto che la politica non è una categoria sacrale e divina, intoccabile e intangibile (il cittadino ha tutto il diritto di infischiarsene), fare oggi dell' 'antipolitica' non significa affatto non fare politica. Siamo stufi di essere sudditi, pecore da tosare, asini da soma da sfruttare per i migliori comodi di lorsignori. Vogliamo tornare, senza tante sofisticate teorizzazioni liberali e marxiste, nella pratica a essere liberi e uguali. Come i Nuer.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, sabato 21 aprile 2012

sabato 21 aprile 2012

L'urlo di Mélenchon il Santerre di sinistra che sfida Sarkozy Finalmente la stampa italiana si accorge che in Francia non esistono solo Sarkozy o Hollande, ma anche candidati come Jean-Luc Mélenchon, di cui per completezza di informazione non si dovrebbe però tacere (visto che sulla stampa d'oltralpe se ne parla molto, come mostra anche la vignetta che pubblichiamo più sotto) l'appartenenza, comune a molti trotskisti ed ex-trotskisti francesi, al Grande Oriente di Francia.(Commento di Giorgio Amico,blog "Ventolargo")
L'urlo di Mélenchon il Santerre di sinistra che sfida Sarkozy di BERNARDO VALLI, DA REPUBBLICA A vent'anni, Jean-Luc Mélenchon scelse come pseudonimo "Santerre". I militanti trotskisti, e lui si era appena iscritto all'Oci (Organizzazione comunista internazionale), dovevano averne unoe lui prese il nome di Antoine Joseph Santerre, un ricco birraio del faubourg Saint-Antoine che il 14 luglio 1789 partecipò alla presa della Bastiglia; e che quattro anni dopo, il 21 gennaio 1793, nella veste di capo della guardia nazionale, accompagnò Luigi XVI alla ghigliottina. A sessant'anni lo stesso Mélenchon, capo del Fronte di Sinistra ( Front de Gauche) e candidato alla presidenza della Quinta Repubblica, si definisce «l'urlo e il furore», e ancora «il tumulto e il fracasso». Nonostante siano passati alcuni decenni, il personaggio continua a identificarsi in immagini forti. E non si limita ad evocarle. Le anima. Le rende viventi. Le interpreta nei lunghi, appassionati e spesso provocatori soliloqui che pronuncia, appunto con furore e fracasso, nei comizi: sulla piazza della Bastiglia a Parigi, sulla piazza del Capitol a Tolosa, sulla piazza del Prado a Marsiglia, dove raccoglie folle pari a quelle di Hollande e Sarkozy, i due principali candidati. A volte più folte. Senz'altro più entusiaste. Esaltate. All'età in cui un uomo, politico o non politico, ha di solito imparato a dosare i giudizi, e in generale le parole, il più che maturo "Santerre" lascia esplodere la collera. Una collera rimasta imbrigliata a lungo, dopo l'inconcludente esperienza trotskista, negli stretti abiti socialisti, indossati si direbbe con rassegnazione, come militante, ministro, senatore ed eurodeputato. Spretatosi, Mélenchon ha creato nel 2008 la sua fronda, la sua eresia: il Parti de Gauche, ispirato dal Die Linke tedesco di Oskar Lafontaine, uscito dalla Spd come Mélenchon dal Partito socialista. E adesso infine si sfoga, dicono gli psicologi specializzati in leader politici. Ha un temperamento che si incendia facile. E' nato in Marocco, a Tangeri, e ha ascendenze siciliane e spagnole. Si sfoga sul serio. Si pensi a come parla dei giornalisti della sinistra liberale, quelli del Nouvel Observateur: dice che «devono essere rimandati come i topi nella fogna a colpi di ramazza». E il direttore del settimanale, Laurent Joffrin, risponde ricordando che Mélenchon persevera in una lunga tradizione: i comunisti dicevano di Sartre che era «una iena dattilografa». Il capo del Front de Gauche ha riacceso la polemica tra le due sinistre, quella riformista e quella estrema, radicale. L'ha riesumata nel momento politico più propizio per attirare l'attenzione, definendo il candidato François Hollande un leader di sinistra inutile, come può esserlo un socialdemocratico. La campagna presidenziale è la principale consultazione nella Quinta Repubblica. Durante la gara per il primo turno (22 aprile), gli attuali dieci candidati alla massima carica dello Stato offrono agli elettori l'occasione di sbizzarrirsi, di scegliere liberamente, per le idee o la simpatia, il loro campione; la vera decisione sarà presa più tardi, dopo una pausa di due settimane, al ballottaggio (6 maggio), quando in campo saranno rimasti soltanto due dei dieci candidati iniziali. Stando alle quotidiane indagini d'opinione, Mélenchon non può arrivare al finale. Il pronosticato 15% non basta. Ma il suo attuale successo si riverbererà sulle elezioni di giugno, quelle legislative, che seguiranno le presidenziali. Di solito le legislative premiano il capo dello Stato appena insediato. Ma nel caso quest'ultimo ottenesse una maggioranza risicata, destinata a lasciare metà del paese insoddisfatto, e con la voglia di negare al neoeletto l'appoggio del Parlamento, ci potrebbero essere delle sorprese. Il presidente, senza il sostegno dell'Assemblea nazionale, la camera bassa, potrebbe essere subito dimezzato nei suoi poteri. Questa improbabile ipotesi va prospettata per sottolineare che la gara per il primo scrutinio può comunque lasciare delle tracce, oltre ad offrire la possibilità di apparire sulla ribalta nazionale. Mélenchon che ha sognato in gioventù di essere "Santerre", un personaggio simbolico della grande rivoluzione, e che adesso si sente «l'urlo e il furore» del popolo di Francia, occupa con grande successo quella ribalta. L'oscillante 15% dei consensi virtuali attribuitigli possono essere determinanti. Possono essere positivi o negativi per la sinistra. Nonostante la polemica con i riformisti, i voti raccolti da Mélenchon al primo turno dovrebbero riversarsi al ballottaggio su François Hollande, leader della sinistra, e favorire, anzi consentire la sua vittoria su Nicolas Sarkozy. Questo il fattore positivo. Quello negativo è che l'effetto «urlo e furore» di Mélenchon possa allontanare gli indispensabili elettori centristi o gollisti più sensibili. Già adesso Nicolas Sarkozy insiste sull'estremismo di Mélenchon. Il quale potrà influire, a suo avviso, sulla politica di François Hollande, e quindi spaventare i mercati finanziari, nel caso quest'ultimo venisse eletto presidente. Sarkozy non nasconde tuttavia un debole molto personale per il candidato dell'estrema sinistra. Si dichiara sensibile, sul piano umano, al fatto che sia un ammiratore di sua moglie Carla Bruni. Mélenchon dice infatti di amare le sue canzoni. Le ascolta spesso. Lo fanno sognare, sostengono con perfidia i suoi avversari. Il successo della campagna elettorale di Mélenchon è senz'altro dovuto alla sua capacità di esaltare la folla, alle sue doti di tribuno. Ma ha contato e conta anche la dinamica propria del Front de Gauche, che ha creato una forza politica consistente, qualcosa di simile a un fronte popolare, alla sinistra del Partito socialista. La coalizione è nata nel 2009 da quel che era rimasto del Partito comunista (1,93 % alle elezioni del 2007), dal Partito di Sinistra di Mélenchon, da altre piccole formazioni e da trotskisti e verdi senza ancoraggio, in libera uscita. Su questa base, grazie alla sua abilità di tribuno, Jean-Luc Mélenchon ha «rimesso alla moda il rosso «. Il suo discorso si basa sulla crisi del sistema capitalistico. Condanna il mondialismo. Gira le spalle all'Europa. Auspica la nascita di una Sesta Repubblica in cui il popolo conti sul serio. A fondarla dovrebbe essere una « révolution citoyenne », cioé una volontà espressa da un voto democratico. I richiami alla Cuba di Fidel Castro e al Venezuela di Hugo Chavez restano nel sottofondo, e non sono tanto l'espressione di un'affiliazione ideologica quanto un pretesto per manifestare l'ostilità nei confronti degli Stati Uniti. Definito dai critici surrealista, il programma del Front de Gauche, disegna un orizzonte per ora irraggiungibile. Esige tra l'altro il salario minimo a 1.700 euro; il rimborso al 100% delle spese sanitarie; fissa il reddito massimo di un cittadino a 360 mila euro all'anno; chiede il riesame del codice del lavoro al fine di vietare la precarietà; si propone di creare uno statuto sociale per tutti i giovani al fine di garantire la loro autonomia economica. Per ritrovare un avvenire, dice Mélenchon, bisogna affrontaree sconfiggere il capitale finanziario. Il successo di Mélenchon non è dovuto a quel che promette, ma a quel che denuncia. E al modo diretto, brutale, con cui lo fa. Molti virtuali elettori socialisti accorrono ai suoi comizi per «ingelosire» e incitare François Hollande ad assumere posizioni più di sinistra. Le provocazioni di Mélenchon, il suo linguaggio spesso crudo, attirano molti « bobo» parigini (i bourgeois-bohème ), discendenti dei «gauscisti» di un tempo, delusi dalla pallida sinistra di Hollande. Seduce in Mélenchon la schietta denuncia della corruzione che regna nel mondo. E' il candidato prediletto dagli autori di romanzi polizieschi. Uno di loro, Jérome Leroy, scrive che al di là della sua abilità di tribuno, Mélenchon piace perché è il solo a denunciare, con parole che fanno male, una realtà francese trascurata da tutti. In questo senso il suo comportamento è simile a quello di un autore di noirs. Come un romanzo poliziesco lui, Mélanchon, è urlo e furore, tumulto e fracasso.

venerdì 20 aprile 2012

Bifo analizza la ferocia matematica predatoria della finanza al potere: L'ECONOMIA DELL'ASTRAZIONE PREDATORIA.



Scacco (matto)?

pubblicata da Franco Berardi su FB, il giorno domenica 15 aprile 2012 alle ore 19.22 ·

Il pensiero politico contemporaneo manca del senso del tragico, e si sforza di interpretare la realtà in base a categorie discorsive che non riescono ad agire sugli automatismi tecnici, linguistici, finanziari, e psichici che sempre più spesso conducono al suicidio: il suicidio collettivo della devastazione ambientale, e il suicidio individuale che inghiotte un numero crescente di vite umane. Occorre invece comprendere la tragedia e parlare il suo linguaggio, se si vuole entrare in sintonia con la mutazione profonda che sta attraversando la società. E se si vuole cercare, ammesso che esista, una via d’uscita dall’abisso cui il capitalismo ha destinato la storia dell’umanità.


IL MODELLO PREDATORIO DELL’ACCUMULAZIONE DI CAPITALE

Quella che attraversiamo non è una crisi: non si tratta di una sconnessione temporanea del dispositivo sociale, cui seguirà una riconnessione, una ripresa. Il crollo finanziario è l’occasione per istituire un nuovo modello di accumulazione del capitale fondato su un nuovo rapporto tra funzione monetaria e processo di accumulazione. Mentre nell’epoca del capitalismo borghese l’accumulazione di valore monetario dipendeva dalla produzione industriale di beni e servizi (secondo la formula Denaro-Merce-Denaro), la classe finanziaria ha creato un sistema di accumulazione in cui il Denaro produce Denaro senza dover passare attraverso la produzione di alcunché. Una serie di passaggi successivi della struttura tecnica della società hanno reso possibile un mutamento profondo della natura stessa del denaro.
Nell’analisi di Marx il denaro si presenta come mezzo di scambio, equivalente generale e forma del valore – ma si presenta anche come mezzo di comando sul lavoro. In questa duplice figura si manifesta anche il carattere linguistico del denaro, che è insieme equivalente generale, cioè denotazione dei beni di consumo che con il denaro si possono acquistare, ma è anche atto linguistico di tipo ingiuntivo, comando sulla disponibilità umana a obbedire a qualsiasi ordine, particolarmente all’ordine di produrre (plus)valore.
Il linguaggio e il denaro hanno questo in comune, che sono nulla e muovono tutto, come dice Robert Sordello in Money and the soul of the world, (The Pegasus Foundation, Dallas, 1983).
In seguito alla sua liberazione dalla funzione referenziale, che coincide con la finanziarizzazione, il capitale finanziario si auto-alimenta seguendo una procedura che astrae dalla produzione di beni e di servizi, grazie all’indebitamento di gran parte della popolazione.
Negli anni ’90 e negli anni zero, il capitale finanziario aumentò enormemente il suo valore grazie all’indebitamento generalizzato, come se questo potesse espandersi per sempre.
Ma è possibile un’accumulazione basata sul nulla, o meglio basata su un’apertura di credito apparentemente infinito? Naturalmente no, e alla fine, dopo il settembre del 2008 il capitale finanziario ha iniziato ad esigere la restituzione di un debito praticamente infinito. Da quel momento il capitale finanziario scopre il suo vero volto: cerchiamo di descriverlo.
Il capitalismo industriale accumulava valore attraverso la produzione di beni utili, e la borghesia industriale era classe territoriale, perché proprietaria di beni materiali, e perché legata alla comunità di produttori consumatori. E’ vero che il lavoro veniva sottoposto ad astrazione in quanto la valorizzazione si fondava sull’astratto tempo di lavoro incorporato nella merce, e non sull’utile concretezza dei suoi prodotti. Ma era pur necessario produrre qualcosa di utile perché ne potesse derivare la valorizzazione. Il capitale finanziario si fonda invece su due astrazioni ulteriori che si sono dispiegate contemporaneamente negli ultimi decenni del ventesimo secolo.
La prima è l’astrazione digitale che comporta una delocalizzazione del processo produttivo: i beni non sono più prodotti in un luogo specifico né sono destinati a una comunità territoriale. In questo modo la classe proprietaria si deterritorializza e si libera da ogni legame con la comunità concreta.
La seconda è l’astrazione finanziaria che comporta un’emancipazione del processo di valorizzazione dalla necessità di produrre qualcosa di utile. Per alcuni decenni si è alimentata la valorizzazione attraverso l’indebitamento, ma alla fine di questo processo la società è costretta a spogliarsi delle risorse prodotte nella passata epoca industriale: il territorio, le risorse materiali e intellettuali vengono progressivamente depredate, privatizzate, distrutte, per pagare un debito che nel frattempo non ha fruttato nulla di duraturo.
Mentre il capitale industriale per valorizzarsi doveva produrre plusvalore, cioè doveva aggiungere qualcosa al mondo dei beni esistenti (che fossero beni materiali o immateriali poco importa), il capitale finanziario per valorizzarsi deve togliere, distruggere, dissipare ciò che nel passato è stato prodotto, e anche ciò che continuiamo a produrre durante il giorno perché nottetempo l’astrazione finanziaria lo possa bruciare. Siamo entrati così in un’economia dell’astrazione predatoria, che continuamente distrugge il prodotto sociale, fino a denudare interi comparti della società. Quanto a lungo potrà durare un processo simile? E quali effetti di barbarie e di miseria sta producendo? Lo vediamo ormai nella miseria che dilaga nelle strade, nel crollo delle strutture civili, scuola, trasporti, sanità, nella depressione che invade la vita quotidiana delle popolazioni europee.


FEROCIA MATEMATICA
L’Europa è diventata un’entità ferocemente matematica. La necessità matematica dei dispositivi bancari richiede austerità: la spesa pubblica va azzerata, i servizi sociali vanno tagliati, la scuola e i servizi privatizzati, le pensioni ritardate, i diritti dei lavoratori aboliti.
L’impoverimento sistematico della vita sociale è imposta dalla logica del debito, ma il debito cos’è? Una necessità metafisica ineludibile? No: il debito è un atto di linguaggio, una promessa. La trasformazione del debito in necessità assoluta è un effetto della religione Neoliberista, che conduce il mondo contemporaneo alla barbarie.
La premessa del dogmatismo neoliberista è la riduzione della vita sociale a implicazione matematica dell’algoritmo finanziario. Quel che è bene per la finanza deve essere bene per la società e se la società non accetta questa sottomissione, la società è incompetente, e deve essere rieducata da un’autorità tecnica, rappresentata da consulenti di Goldman Sachs, come Papademos o Mario Monti, leader indiscutibili di paesi che tardano a sottomettersi all’autorità tecnica degli algoritmi, e non vogliono capire che l’interesse generale è matematico, e la vita sociale deve sottomettersi alla logica ferrea dei mercati.
Quando i rituali democratici mettono in pericolo l’esecuzione dei piani di austerità destinati a restaurare la perfezione matematica nella vita sociale, e a pagare il debito infinito che dobbiamo alle banche, allora la democrazia viene cancellata, e sostituita nottetempo da funzionari dell’assolutismo matematico. Quel che chiamano “mercati” sono la manifestazione visibile dell’intima funzionalità matematica degli algoritmi incorporati nella macchina tecno-linguistica: essi emettono sentenze che cambiano il destino del corpo vivente della società, distruggono risorse e come un’idrovora inghiottono le energie del corpo collettivo.
Le enunciazioni finanziarie pretendono di impersonare le regole dell’indessicalità. Le agenzie di rating abbassano o innalzano il valore di una banca di un’impresa o di una nazione con enunciazioni che si fingono indicatori della situazione reale di quella banca, di quell’impresa o di quella nazione, e di prevedere il futuro di quella banca, di quell’impresa o di quella nazione. In effetti emettono profezie che si auto realizzano. L’enunciazione apparentemente predittiva è in realtà un atto illocutorio, un atto di linguaggio performativo che ha efficacia in quanto la comunicazione sociale è stata sottomessa alle implicazioni tecno-linguistiche dell’economia finanziaria.


IL NAZISMO IN DUE MOSSE

La premessa religiosa dell’assolutismo finanziario si fonda su un errore fondamentale: la realtà non è matematica, e la matematica non è la legge della realtà, ma è un linguaggio la cui coerenza non ha nulla a che fare con la coerenza stratificata e molteplice della vita.
La matematica in sé non è feroce, ma viene iscritta ferocemente nell’organismo vivente della società, e questa feroce matematizzazione del corpo vivente della società prepara l’evoluzione più spaventosa che possiamo immaginare per il futuro d’Europa.
Sarebbe ridicolo descrivere i consulenti della Goldman Sachs che sono al governo dei paesi europei o la signora Cancelliera della Repubblica tedesca come dei nazisti. Non sono dei sadici torturatori e non vogliono sterminare gli ebrei. Vogliono pacificamente sottomettere la popolazione europea alla schiavitù matematica, pulita, liscia, perfetta, perché sono convinti che sia possibile che la vita si conformi a degli algoritmi e a delle equazioni.
Purtroppo sbagliano, perché credono che il corpo fisico emotivo e sociale possa funzionare secondo causalità di tipo matematico. La catena algoritmica ha una sua causalità intrinseca che è la causalità coerente di un linguaggio creato dalla mente umana nella sfera dell’astrazione tautologica auto-validante della matematica. La religione finanziaria trasferisce la coerenza della catena algoritmica nella realtà sociale del corpo collettivo. Questo errore filosofico corrisponde agli interessi economici della classe post-borghese dei predatori finanziari. Imporre la causalità matematica al divenire sociale e fisico è l’errore più pericoloso, perché provoca la nascita di una forma nuova di fascismo che ormai sta manifestandosi in molti paesi d’Europa: un numero crescente di persone esprime sentimenti razzisti e un’onda di depressione disperazione e suicidio spazza il continente.
Il Totalitarismo freddo che possiamo definire Assolutismo finanziario è la prima mossa che si sta compiendo attualmente, cui seguirà una forma calda di fascismo reattivo di massa. L’astratta violenza fredda dell’assolutismo finanziario deterritorializzato prepara la violenta riterritorializzazione del corpo reattivo della società europea: ritorno sulla scena della nazione, della razza, della religione settaria, della violenza disperata di tutti contro tutti. L’ondata di suicidi che sta crescendo in molti paesi europei è l’incubatrice dell’esplosione che si prepara.



TRAGEDIA E SCISMOGENESI

Al gioco degli scacchi si dichiara scacco matto quando secondo le regole, il re di uno dei giocatori non può compiere più alcuna mossa. Il gioco degli scacchi è un gioco finito, nel senso che se vogliamo fare quel gioco dobbiamo rispettarne le regole. Se violiamo le regole non stiamo più giocando quel gioco. L’amore, la vita, la storia non sono però giochi finiti, nel senso che non vi è alcuna regola che impedisca di violarne le regole.
Se vogliamo continuare a giocare secondo le regole della politica, possiamo esserne certi, abbiamo perso. La democrazia non esiste più, la forza politica dei lavoratori è stata distrutta dalla precarizzazione e dall’estensione infinita del mercato del lavoro, l’ignoranza prevale sulla conoscenza perché l’educazione è seppellita dalla disinformazione mediatica mentre la complessità del mondo si estende all’infinito rendendo inutili gli strumenti tradizionali del governo. E per finire, la retroazione negativa che rendeva possibile un’attenuazione degli effetti catastrofici dei processi sociali è stata sostituita da una forma di retroazione positiva come quando un termostato impazzito aumenta il fuoco della caldaia se la temperatura supera i quaranta gradi. Quando la destra vince le elezioni essa distrugge la scuola, e la distruzione della scuola permette alla destra di vincere le prossime elezioni.
Il gioco moderno della politica si è concluso. Gli automatismi hanno vinto, l’umanità ha perso: scacco matto. Non sappiamo se questo condurrà all’olocausto finale, provocato da una guerra di tutti contro tutti, o dallo scatenarsi delle potenze della natura, oppure a una prolungata fase di barbarie, comunque non possiamo più farci niente. Quello che possiamo fare, invece, è violare le regole, uscire dal gioco rinunciando a partecipare alla competizione politica, per costituire comunità secessive le quali potranno forse proliferare generando modi esistenziali e tecnici contagiosi e diffusi, se qualche spazio del pianeta sfuggirà al destino di Fukushima.
Tragica è quella forma d’immaginazione che riconosce all’umano l’impossibilità d’opporsi alla potenza superiore delle forze della natura, o del sentimento o della storia. Dobbiamo riconoscere il carattere tragico degli effetti che la dittatura finanziaria ha prodotto sul pianeta, se vogliamo iniziare a compiere l’unico gesto che potrà forse rivelarsi salvifico. Il gesto di abbandonare fisicamente e simbolicamente il territorio devastato dal capitale, per ricostituire la solidarietà sociale a partire da comunità secessive, proliferanti, scismogenetiche. La civiltà moderna è finita e una dinamica predatoria solo parzialmente identificabile in gruppi e persone sociali (la classe virtual-finanziaria) sta distruggendo la sua eredità. Non c’è più modo ormai di fermare questo processo né la violenza che esso comporta.
Lottare, agire collettivamente non potrà fermare questo processo, ma non è inutile, perché serve ad accumulare da qualche parte (in luoghi che non sono necessariamente geografici) l’energia scismogenetica che produrrà, se il mondo resterà abitabile, le condizioni per il comunismo post-apocalittico.

franco berardi - 8 aprile 2012