domenica 28 luglio 2013

UN LETTINO DI CONTENZIONE PER L'ITALIA.

Evasione fiscale, Letta dura senza paura. di Marco Travaglio | 27 luglio 2013.
Brrr che paura: Enrico Letta minaccia lotta dura senza paura, “con forza e determinazione”, contro l’evasione fiscale: “Gli italiani che hanno portato i soldi fuori dall’Italia devono sapere che non è più come 5 o 10 anni fa: conviene anche a loro riportare i soldi in Italia e pagare il dovuto”. E questo perché “il clima è cambiato” e “non ci sono più le coperture di qualche anno fa”. Quindi gli evasori verranno inseguiti e catturati ovunque siano, “nei paradisi fiscali o in Svizzera”. Non è meraviglioso? Il clima è talmente cambiato che B., dopo aver perso le elezioni, è di nuovo al governo. Pare incredibile, ma ha lo stesso nome e lo stesso cognome di quello che nel 2001, nel 2003 e nel 2009 varò tre scudi fiscali per consentire a chi aveva portato i soldi fuori di rimpatriarli clandestinamente, anonimamente, impunemente e pressoché gratuitamente (il terzo scudo passò anche grazie alle assenze di 59 deputati Pd). Anche il presidente della Repubblica è cambiato, anche se per un’altra curiosa combinazione si chiama esattamente come quello che promulgò il terzo scudo e, quando un cittadino lo fermò per la strada e gli domandò il perché di quella firma vergognosa, lo redarguì severamente. C’è poi un’ultima, prodigiosa coincidenza: un certo S. B. fra quattro giorni comparirà al processo Mediaset in Cassazione dopo la condanna in primo e secondo grado a 4 anni per frode fiscale. I giudici d’appello hanno sottolineato il suo indefesso impegno antievasione: “Con una strategia originata in anni in cui Silvio Berlusconi era incontestabilmente il gestore diretto di tutte le attività, il gruppo Fininvest, e più precisamente il suo fondatore e dominus, con l’aiuto dell’avvocato Mills ha costituito una galassia di società estere, alcune delle quali occulte, che occulte dovevano restare, tanto da corrompere la Guardia di Finanza che rischiava di scoprirle. Anche perché parte di tali fondi era utilizzata per scopi illeciti: dal finanziamento occulto di uomini politici alla corruzione di inquirenti, dalla corresponsione di somme a testi reticenti alla elusione della normativa italiana (specie della legge Mammì che dettava limiti al possesso di reti tv)”. In quel sistema, “interponendo fra le major statunitensi e il gruppo Fininvest-Mediaset una serie di società estere che operavano adeguati ricarichi nella compravendita dei diritti” tv, furono “creati costi fittizi destinati a diminuire gli utili del gruppo e quindi le imposte da versare all’erario”. E dire che quei diritti “Mediaset avrebbe potuto averli al costo a cui le majors li vendevano”: invece B. mise in mezzo una miriade di intermediari “vicini, anche personalmente, al proprietario della società, Berlusconi”. Risultato: i diritti tv “pervenivano a Mediaset con un differenziale di prezzo altissimo e del tutto ingiustificato, in una operatività proseguita per anni, sempre a opera degli stessi uomini che sempre avevano mantenuto la fiducia del proprietario”. Niente attenuanti generiche per B., colpevole di “un sistema di società e conti esteri portato avanti per molti anni, proseguito nonostante i ruoli pubblici assunti, e condotto in posizione di assoluto vertice”. La condanna riguarda 7,3 milioni di euro, ma solo perché il grosso delle accuse s’è prescritto grazie a leggi fatte dallo stesso imputato (falso in bilancio e Cirielli): il totale delle “maggiorazioni di costo” è di “368 milioni di dollari”. Quando il Letta nipote ha ammonito “gli italiani che han portato i soldi fuori dall’Italia”, a B. devono essere fischiate le orecchie. Qualcuno ha addirittura temuto un duro attacco del premier al principale di suo zio. Ma è stato un attimo: poi Fassina ha spiegato che “esiste un’evasione di sopravvivenza”, dettata da “ragioni profonde e strutturali che spingono molti soggetti a comportamenti di cui farebbero volentieri a meno”. Ecco, risolto il problema: B. evadeva per sopravvivere. E Fassina spara cazzate per lo stesso motivo. Che s’ha da fa’, pe’ campa’. Il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2013

sabato 27 luglio 2013

ETICA PIDDINA.

«Lavoro gratis per il Maxxi».La retromarcia di Melandri.
ROMA - «Totalmente gratuitamente». Per chiudere le polemiche sul suo trasloco dal seggio di deputata alla poltrona di presidente del Maxxi, Giovanna Melandri buttò sul tavolo due avverbi marmorei: ci andava «totalmente gratuitamente». Mercoledì ha convocato il cda: «Ordine del giorno: compenso del presidente». Cesello finale a una precisazione: la promessa valeva un anno. E va a scadere come uno yogurt. Sgomberiamo subito il terreno: è giusto che chi guida un grande museo lo faccia gratis? Dipende. Se fosse una presidenza puramente onorifica, concessa a un miliardario noto per il mecenatismo o a un vecchio genio della pittura perché ci mettano il nome e vadano a qualche inaugurazione con cocktail, ovviamente sì. Se si tratta di un professionista famoso e magari strappato alla concorrenza perché venga a lavorare una dozzina di ore al giorno con l'obiettivo di far di quel museo una straordinaria vetrina nel pianeta, allora no, non deve lavorare gratis. Deve essere pagato e pagato bene. Questo tipo di professionisti, però, proprio come i grandi chirurghi e i grandi fisici nucleari e i grandi architetti, si vanno a cercare sul mercato. Possibilmente (e già qui l'Italia è zoppa) il mercato internazionale. Non si scelgono, quei professionisti, tra amici, colleghi, compagni di partito o amabili frequentatori delle terrazze romane. Ed è su questo punto che la nomina di Giovanna Melandri, l'anno scorso, sollevò un putiferio. Perché la deputata del Pd, che sedeva in Parlamento da 5 legislature, era appunto una parlamentare in carica con un netto profilo politico. Era indecoroso averlo? Per niente. Un grande direttore potrebbe essere destrorso o sinistrorso senza essere intaccato nella sua statura. Ma se facesse il senatore, la sua nomina alla guida di una grande istituzione statale, bianco, rosso o verde che fosse, sarebbe comunque inopportuna. E fu lì che in Parlamento la destra scatenò l'inferno. Francesco Giro accusò la collega di essersi fatta «riciclare dopo la mancata ricandidatura per la regola vigente Pd di non presentare chi abbia superato il limite dei 15 anni in Parlamento». Maurizio Gasparri parlò di «selvaggia lottizzazione». Fabrizio Cicchitto disse che la nomina era «incredibile». Stefano de Lillo sbottò: «Ora aspettiamoci Massimo D'Alema per il Teatro alla Scala». Lei, Giovanna Melandri, parlò di «maccartismo». Ma mentre l'udc Gian Luca Galletti ribadiva che si trattava di una cosa così inopportuna che «non dovremmo neanche spiegarne le ragioni», le perplessità dilagarono a sinistra. E se la dipietrista Giulia Rodano contestava «l'errore compiuto dal ministro nell'opacità del metodo scelto», Matteo Renzi sbuffò: «Facciamoci del male! Com'è possibile dopo il Parlamento avere subito lo scivolo del Maxxi?». Nichi Vendola storse la bocca: «La sua nomina è stilisticamente complicata da digerire». E Stefano Fassina chiuse il cerchio: «Giovanna è una figura di primissima qualità, ma mi pare inopportuno transitare dalla poltrona di deputata a quella di un istituzione come il Maxxi, che non è di responsabilità politica». Fu in questo contesto che la parlamentare pd spiegò che non solo si sarebbe dimessa da deputata «anche se la legge non prevede nessuna incompatibilità» ma sarebbe andata a svolgere quel ruolo gratuitamente, per amore dell'arte e dell'Italia. E il ministro Lorenzo Ornaghi, che l'aveva scelta, emise un comunicato: era proprio «il decreto numero 78 del 2010 ad imporre che presidente e componenti di cda delle fondazioni culturali non debbano percepire alcun compenso». Dopo di che lei stessa sostenne di essere stata «scelta da un tecnico come tecnica» e dettò un comunicato che ironizzava sulle «illazioni»: al massimo avrebbe preso «30 euro come gettone di presenza per le sedute del cda». Insomma: «È tutto molto chiaro, la mia indennità al Maxxi è zero. Mi auguro che la nota del Mibac chiuda definitivamente il caso misterioso». Non bastasse, il giorno dopo spiegò a Maria Latella a SkyTg24 (vedi YouTube) che secondo lei quella legge sulla gratuità era sbagliata ma pazienza: «So benissimo che la proposta di Ornaghi mi è arrivata in questo contesto e come ho detto più volte ho accettato "pro bono", cioè gratuitamente. La mia indennità è: zero». Quindi, ricordando di sentirsi «un po' la mamma del Maxxi», insistette: «Non c'è il passaggio da una poltrona a una poltrona perché come ho detto vado a svolgere questo incarico gratuitamente». Anzi, come dicevamo, «totalmente gratuitamente». Uffa, le polemiche! Già sei mesi dopo, però, usciva un'altra Ansa. Con una versione postuma di cui non c'è traccia negli archivi: «Giovanna Melandri manterrà la promessa di "regalare un anno di lavoro per il rilancio del Maxxi": a sottolinearlo è la stessa presidente della Fondazione Maxxi, in una nota in cui spiega che la trasformazione del Museo nazionale delle arti del XXI secolo in ente di ricerca è stata avviata dal precedente cda». Conseguenza: lo stipendio ora era possibile. «Lo prenderò da settembre-ottobre», ha spiegato a Panorama , «nell'ottobre 2012, quando ho accettato l'incarico, sapevo che il Maxxi era una fondazione e che in base alla legge Tremonti avrei prestato la mia opera gratuitamente. Legge sbagliatissima, me lo si lasci dire, perché la cultura ha bisogno di grandi manager, e questi vanno pagati. Sapevo anche che era in corso una procedura, avviata dai precedenti amministratori e conclusa ad aprile, per il riconoscimento del Maxxi come ente di ricerca. Ho detto all'allora ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi: "Comunque vada, per un anno regalo il mio tempo prezioso". Ho sbagliato: dovevo dire che non appena avrei potuto prendere uno stipendio me lo sarei preso, eccome. Scherzo, ovviamente. Ma sarà uno stipendio sobrio, pari a quello di altri dirigenti». Di qui l'ordine del giorno. Congratulazioni. Sarebbe bello, ora, se la post-deputata e neo-manager dedicasse un po' del suo tempo prezioso alla lettera pubblica di un gruppetto di ricercatori che chiede i motivi, se il Maxxi è «un ente di ricerca», della sorpresa di fine giugno: «la Biblioteca chiusa, l'accesso agli archivi bloccato e nessuna assicurazione sui tempi e sulle modalità della riapertura. Per l'accesso alla biblioteca abbiamo pagato una tessera annuale e proprio nel periodo degli esami e di preparazione delle tesi di laurea e di dottorato il servizio pubblico è sospeso. Se un Museo pubblico, che vive con soldi dello Stato, è un ente di ricerca perché sospende proprio queste attività? Che ente di ricerca è?». 27 luglio 2013 | 11:51

mercoledì 24 luglio 2013

ALSO SPRACHT RE GIORGIO.

"Considero il frequente e facile ricorso a elezioni politiche anticipate come una delle più dannose patologie italiane". Queste le parole con cui si chiude la lettera che Giorgio Napolitano scrive al Corriere della Sera, "in risposta alle domande rivoltemi da Fausto Bertinotti. O meglio alla domanda essenziale riguardo quel che il presidente della Repubblica 'non può', Ed è in effetti molto quel che egli non può". Da parte del Quirinale, scrive Napolitano, non c'è "nessun 'congelamento' ovvero 'impedimento'" alla ''libera dialettica democratica. Il Parlamento è libero, in ogni momento, di votare la sfiducia al governo Letta. Ma il presidente ha il dovere di mettere in guardia il Paese e le forze politiche - aggiunge - rispetto ai rischi e contraccolpi assai gravi, in primo luogo sotto il profilo economico e sociale, che un'ulteriore destabilizzazione e incertezza del quadro politico-istituzionale comporterebbe per l'Italia". 24 LUG 10:58, da dagospia: ABBIAMO TRADOTTO LA RISPOSTA DI BELLANAPOLI ALL’INUTILE BERTINOTTI, CHE LO AVEVA ACCUSATO DI AVER “CONGELATO” E “IMPEDITO” LA “LIBERA DIALETTICA DEMOCRATICA” SALVANDO IL GOVERNINO DI LETTAENRICO SULLO SCADALO KAZAKO: “ITALIANI! IN QUALITÀ DI SOVRANO SOSTENUTO DALLE MIGLIORI DEMOCRAZIE FINANZIARIE DEL PIANETA, HO TUTTO IL POTERE DI RICORDARE A VOI E ALLA GENTAGLIA CHE ELEGGETE DA QUARANT’ANNI CHE SE FATE CADERE LETTA ENRICO NESSUNO CI PRESTERÀ PIÙ SOLDI, LE BANCHE STRANIERE SE NE ANDRANNO E VOI PIOMBERETE NELLA POVERTA'.

lunedì 22 luglio 2013

IN MEMORIA DI RATZ.

2005- 22 LUGLIO 2013, ORE 11. Non è stata facile la vita del povero Ratz, che Angelo ha adottato da una famiglia che non lo voleva più a tre anni circa di vita.La madre di quella famiglia infatti, dopo un tumore al seno, era stata abbandonata dal generoso marito (a cui le mogli piacciono evidentemente finchè son sane) e non aveva più potuto occuparsene.Anche Ratz ha conosciuto quindi la pochezza umana: un cane rifiutato dalla famiglia che lo ha preso da cucciolo conserva sempre il sospetto di non essere amato e non è mai perfettamente a suo agio nella nuova famiglia, per quanto lo si accolga con amore.Con noi però ha imparato a fare il bagno nel laghetto, a nuotare per quanto impacciato dal fisico massiccio e un po' di paura,a correre con la sua compagna ipercinetica Ira,con la quale si è persino accoppiato qualche volta, (seppure con qualche difficoltà perchè lei è una vera Erinni) ed è stato persino vicino a diventare padre.Ha vissuto libero in un grande giardino, trovato una nuova famiglia ed una compagna un po' mattacchiona, Ira, che sicuramente non lo ha fatto annoiare dal 2008 ad oggi.In inverno dormivano insieme nella stessa cuccia, proprio come due affettuosi fidanzati.Insieme sono spesso scappati fino a raggiungere cascine anche lontane, sempre tornati o ritrovati perchè erano una coppia inconfondibile nel vicinato.Poi all'improvviso Ratz, sei mesi fa circa, ha dato segni multipli di vetustà ed ha cominciato a deperire visibilmente. Fino a questa mattina ha comunque fatto una corsetta al risveglio e girava un po' stonato intorno a noi, ma stamane poi si è accasciato e la sua ora è giunta, assistito da Angelo, tranquillo a casa sua. May you rest in peace, povero boxerone.

domenica 21 luglio 2013

Il caso Ablyazov e lo Stato burlesque.

di Antonio Padellaro | 21 luglio 2013. Un ministro degli Interni “inconsapevole” che fa la figura del fesso col botto mentre al Viminale, nella stanza accanto, i suoi funzionari prendono ordini dai kazaki, addirittura esilarante quando in Parlamento si lancia in una strampalata autodifesa intessuta di “apro le virgolette nelle virgolette” da teatro dell’assurdo. Un ministro degli Esteri tenuta rigorosamente all’oscuro di tutto (perfino delle notizie Ansa), insolentita dall’ambasciatore kazako che convoca invano (“sono in ferie”). Ma che improvvisamente ritrova la parola onde farci sapere che Alma Shalabayeva, consegnata dalle autorità italiane con la figlia di sei anni direttamente nelle grinfie del peggior nemico “sta bene e ringrazia l’Italia” (nessuna riconoscenza, invece, da parte del cognato per il cazzotto preso in faccia durante la perquisizione di Casal Palocco). Un presidente del Consiglio aggrappato tremebondo alla giacchetta di Napolitano, costretto a esibirsi nello sperticato elogio del fesso col botto per salvare la poltrona. Un presidente della Repubblica tonitruante e che si crede un monarca assoluto, perfino innominabile secondo il presidente del Senato nelle vesti di gran ciambellano di corte. Un Partito democratico (“Pd, partito defunto”, twittano i militanti in rivolta) i cui maggiorenti definiscono il ministro di polizia o un inetto o un bugiardo e subito dopo gli votano la fiducia. Un vertice della Procura di Roma con due parti in commedia: prima vieta il rimpatrio delle due donne, poi lo concede pressato sulla base di un fax, quindi lamenta, accidenti, la beffa subita. Il tutto coronato da un’allegra brigata di prefetti, sottoprefetti e dignitari senza dignità, “a disposizione” degli arroganti emissari di Astana, usati e buttati via come stracci e che in sovrappiù devono masticare la versione ufficiale e menzognera che segna la fine delle loro carriere. Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2013

FO COMMENTA L'INDEGNO RAPIMENTO KAZAKO.

L'IMPORTANTE E' DORMIRE TRANQUILLI. Dario Fo, dal blog di Beppe Grillo.
"La storia di Alua, una bambina di sei anni che con la madre Alma Shalabayeva è stata letteralmente sequestrata, come da noi sono usi fare i criminali della ‘ndrangheta, per poi caricarla su un aereo pagato dallo stato del Kazakistan, ha scosso fortemente una quantità immensa di uomini e donne del nostro paese. Ognuno, a cominciare dai personaggi di potere e responsabilità politica, ha pronunciato parole di indignazione profonda e si è detto spesso sgomento sia per la brutalità con cui l’ambasciatore di una nazione straniera è arrivato ad indurre la nostra polizia a compiere un blitz da cattura di boss mafiosi sia per le menzogne e i “non sapevo”, “non mi immaginavo”, “nessuno mi ha avvertito” con cui il responsabile del Ministero degli Interni e i suoi collaboratori si sono tratti d’impaccio, così dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, una sfacciataggine davvero poco onorevole. A questo punto, come in tutte le farse che si rispettano, almeno da noi, eccoci al momento del redde rationem, cioè alla resa dei conti. Chi è il responsabile maggiore? Dove si è mancato? Chi ha dato false informazioni dell’avvenuto? Chi ha truccato i dialoghi e gli avvenimenti? Chi si è lasciato corrompere? E qui ancora, dobbiamo ammettere, noi italiani siamo i maestri del mondo. In tutti i paesi civili l’espressione italica del: “Io non c’ero e se c’ero dormivo” è un escamotage del tutto sconosciuto. Da noi, a ‘sto punto, c’è la danza degli stracci che volano, e chi li lancia in aria, guarda caso, sono proprio loro, i veri colpevoli in abito da sera con cravatta. Volano capi di gabinetto, poliziotti di secondo peso, assistenti, segretari maschi e femmine, di ruolo decorativo. Se guardate bene è una ecatombe di povere figure di contorno che danzano nel vuoto, e nel momento in cui vengono defenestrate nemmeno respirano, non balbettano nemmeno: “Ma che c’entro io?”. A questo punto ogni persona civile che incontri nella giornata chiede attonita: “Come è possibile che una nazione di poco conto, storicamente parlando, possa agire con tale smaccata protervia su un paese che invece una memoria ineguagliabile, specie nel suo passato, la possiede e come? E allora ecco che appaiono i sapienti che fin nel profondo conoscono le ragioni della spudorata imposizione. Quando ci dicono: “Fai questo”, “Abbassa la testa”, “Mettiti a nostro servizio”, “Datti da fare subito e in fretta” dietro c’è sempre un grande ricatto che, guarda caso, è immancabilmente o quasi sempre lo stesso: petrolio, gas solido o liquido a volontà, materie prime. Ed ecco che subito l’Italia dei grandi musicisti, dei pittori celeberrimi, dei grandi scrittori e poeti, degli ingegneri e degli architetti più famosi nel mondo, per non parlare della gente di spettacolo, finisce dentro la discarica dell’oblio e dell’inutilità dell’arte e della cultura. È il giro d’affari che conta, è il pericolo di un contraccolpo economico che ci butterebbe indietro di un secolo. Quindi silenzio, abbassa la testa, coglione, e ubbidisci, se no niente commesse, niente forniture, niente giro d’affari, niente mazzette e faccendieri che volano alto dove osano soltanto le aquile, pardon, le banche quotate. Quindi cerchiamo di stare nella realtà, non alziamo né i toni né il linguaggio. Eh no, per dio, l’unica cosa che ci rimane ancora disponibile, non so per quanto (dipende da noi) è il diritto alla parola e perfino ai gesti, mimici s’intende, solo quelli. Dobbiamo parlare, in ogni occasione e con chicchessia, non con l’intento di far quattro chiacchiere ma con quello di informare, di aprire l’attenzione a chi è facile a spegnersi e soprattutto a ripetere i luoghi comuni imparati dai servizi televisivi e dalla gran quantità di quotidiani di regime. Mio dio, che ho detto! Regime! Mi è sfuggito? No, sono convinto di quello che dico. Lo so che dispiaccio tanto alle persone tranquille, serene, che non vogliono farsi trascinare nella indignazione quotidiana, che vogliono mangiare tranquilli e digerire senza il rutto dell’angoscia e della colpa. Mi dispiace, ma è dovere di ogni persona civile, in certi momenti, levare la voce e svegliare le coscienze, intorpidite dalla solita tiritera dei mass media e dei buoni maestri della banalità. Il maggior timore per quanto riguarda questa vicenda ignobile di una bambina sconvolta dal sentirsi catturata, trasportata senza ragione fuori dal proprio luogo di vita insieme alla madre per un semplice ricatto di bassa politica, è che, come succede spesso nel nostro paese, si giunga al lassismo totale e collettivo, un fenomeno a cui siamo facilmente soggetti e che, dopo una vampata di indignazione abbastanza imponente, vede l’interesse da parte della popolazione scemare fino ad estinguersi totalmente. Bisogna che impariamo, tutti insieme a prendere le nostre responsabilità, che non possono limitarsi al poter dichiarare con orgoglio: “Sono pulito”, “Non faccio che il mio dovere”, “Pago le tasse”, “Aiuto i diseredati”, “Lotto contro il licenziamento e l’ingiustizia dello sfruttamento”. Non basta. La cosa più dura e noiosa è quella di tener accesa la luce, quella che gli antichi chiamavano la lampada dell’intendimento. A costo di apparire ossessivi, rompiscatole e velleitari. Come diceva Rousseau, intelligenza poco ascoltata: “Sfuggire al tormentone dell’uomo che si impegna dinnanzi ad ogni iniquità è un dovere per la tua serena gestione della vita. Evitalo, vivrai senza angosce e senza senso di colpa. Certo, vivrai una vita mediocre, ma importante è non aver grane”. Dario Fo

giovedì 18 luglio 2013

Re Giorgio e il Lettino obbligatorio.

Napolitano il kazako(immagini da dagospia) di Fabio Marcelli | 18 luglio 2013, da Il Fatto Quotidiano. “Dopo di noi il diluvio”. Il presidente Napolitano ha evocato danni irreparabili alla reputazione internazionale dell’Italia, specie nei confronti delle relazioni internazionali e dei mercati finanziari, qualora venisse meno, per effetto dello scandalo Ablyazov, il governo Letta. Si sa del resto che di tale governo Napolitano è stato a suo tempo il principale e più convinto sponsor e se c’è una dote la cui mancanza non si può, entro certi limiti, rimproverare al presidente, questa è la coerenza. Bisogna però temere che sia proprio questo bisogno di coerenza ad obnubilare le capacità intellettive di persona che, nonostante l’età avanzata, resta invidiabile per intelligenza ed acume. Se c’è un episodio, infatti, che ha contribuito a danneggiare in modo gravissimo la reputazione internazionale del nostro Paese come Paese rispettoso del diritto, questo è proprio la consegna della moglie del dissidente Ablyazov e della figlioletta al dittatore kazako. Napolitano riconosce certo la gravità di tale avvenimento. Ma, per carità, più che di patria, di governo, aggiunge, al pari di altri notabili piddini, che i ministri non ne sapevano nulla. Ora, non è possibile sostenere con serietà e buona fede che Alfano non fosse informato dell’operazione. In tal senso va anche, dopo qualche iniziale titubanza forse dettata da un malinteso senso del dovere istituzionale, la testimonianza del capo di gabinetto di Alfano Procaccini. Ma anche nell’improbabile ipotesi che Alfano non avesse saputo, non sarebbe minore la gravità delle sue responsabilità ai sensi di quella precisa disposizione costituzionale che è l’art. 95, secondo comma: “I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. E tale responsabilità, politica se non penale, ha le sue radici nei riconosciuti e forti legami fra Nazarbayev e il capo del partito di cui Alfano è segretario, nonché suo diretto referente, Silvio Berlusconi. Questa è del resto la naturale e logica conseguenza dell’esistenza di un governo dove il compagno di merende di Nazarbaev continua a farla da padrone, utilizzandolo come schermo personale per la propria incolumità giudiziaria e la salvaguardia dei propri numerosi interessi. Senza peraltro scartare la possibilità di altri interessi di grossi gruppi nazionali, come Eni e Finmeccanica, tutti fortemente vogliosi di buoni rapporti con il Kazakistan. Alfano, quindi, se ne deve andare al più presto. E se la sua dipartita provocherà il crollo del governo Letta tanto meglio. In tutto il mondo, a partire dall’Unione europea, l’evento ha suscitato commenti adeguati alla sua gravità e conseguenze pesantissime sull’immagine del nostro Paese. Né agli osservatori internazionali, che non ragionano a quanto pare come ragionava D’Alema, prima di cambiare idea, sono sfuggite le evidenti responsabilità del governo Letta nell’accaduto. Bisogna dubitare anche del fatto che, come asserito da Napolitano, i mercati finanziari ne soffrirebbero molto. Sarebbe interessante peraltro conoscere le fonti del presidente al riguardo, dato che tali mercati sono, di primo acchito, entità fortemente impersonali e di natura estremamente sfuggente. Se si tratta, come è plausibile, di gruppi di interesse preoccupati, per proprie ragioni, delle performance del sistema Italia, non v’è motivo di pensare che il governo Letta costituisca, alla luce del’esperienza compiuta in questi mesi, un fattore positivo a tale riguardo. E, ad ogni modo, l’Italia è ancora, quantomeno formalmente, una democrazia e non già una mercatocrazia, uno Stato di diritto e non già un luogo di arbitrio, anche se c’è chi si sta dando alacremente da fare per smantellare la Costituzione repubblicana, proprio sotto l’egida del governo Letta, del resto. Secondo un’inquietante testimonianza raccolta dal Financial Times (non propriamente l’organo dell’anticapitalismo mondiale) uno dei poliziotti che hanno partecipato all’irruzione in casa Ablyazov, dopo aver insultato Alma Shalabayeva, chiamandola “puttana russa“, ha urlato: “io sono la mafia” (vedi articolo pubblicato su Internazionale di venerdì scorso). Speriamo che non sia vero. Personalmente continuo a nutrire, nonostante tutto, un certo rispetto nei confronti del presidente Napolitano, sia per la carica che ricopre, sia per la sua storia politica e personale. Non posso quindi che restare profondamente amareggiato dal fatto che, per continuare a stare al fianco di Letta e soci fino alla fine, egli rischi in questa vicenda, come in altre, tutto il suo rimanente prestigio e credito personale. Non vorrei, insomma, che re Giorgio finisca per essere ricordato, nei libri di storia, come Napolitano il kazako per aver avvallato il comportamento del governo in questa vergognosa vicenda.

mercoledì 17 luglio 2013

9.5 milioni di poveri mentre si comprano gli F35.

ISTAT, «LA POVERTÀ IN ITALIA»
In Italia 9,5 milioni di poveri: record ;dal 2005, povera una famiglia su cinque. Le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012. Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui in Italia sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. IL MEZZOGIORNO - Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti nel nostro Paese (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011. I minori in povertà assoluta al Sud sono 1 milione e 58 mila (703mila nel 2011, l’incidenza è salita dal 7% al 10,3%) e gli anziani 728 mila (707mila, l’incidenza è pari a 5,8% per entrambi gli anni). LE FAMIGLIE Le famiglie in povertà assoluta sono il 6,8% delle famiglie italiane. Dal 2011 al 2012 l’incidenza aumenta tra le famiglie con tre (dal 4,7% al 6,6%) , quattro (dal 5,2% all’8,3%) e cinque o più componenti (dal 12,3% al 17,2%); tra le famiglie composte da coppie con tre e più figli, quelle in povertà assoluta passano dal 10,4% al 16,2%. Se si tratta di tre figli minori, dal 10,9% si raggiunge il 17,1%. Aumenti della povertà assoluta vengono registrati anche nelle famiglie di monogenitori (dal 5,8% al 9,1%) e in quelle con membri aggregati (dal 10,4% al 13,3 %). 17 luglio 2013 | 11:35

martedì 16 luglio 2013

Cronaca di una eutanasia.

1. UN ITALIANO VA IN SVIZZERA A MORIRE DI SUICIDIO ASSISTITO E SCEGLIE DI PORTARSI DIETRO UN TESTIMONE CHE POI RACCONTI, IN PAROLE E IMMAGINI, QUELLO CHE HA VISTO - 2. UNA STORIA MOLTO, MOLTO SIMILE A QUELLA DEL GIUDICE PIETRO D’AMICO, MORTO TRE MESI FA NELLA STESSA CITTÀ (BASILEA), DAVANTI ALLO STESSO MEDICO (ERIKA PREISIG) - 3. ‘’PENSI CHE MI FACCIA PIACERE ANDARMENE, EH? PENSI CHE NON PREFERIREI CONTINUARE A GODERMI LA VITA? QUANDO SEI NELLE MIE CONDIZIONI UN MOMENTO PER ANDARTENE LO DEVI SCEGLIERE, E DEVE ESSERE PRIMA DI RINCOGLIONIRTI DEL TUTTO’’ - 4. “VANITY FAIR” EVITA DI DIVULGARNE IL NOME E MOSTRARNE IL VOLTO MA SAPPIAMO CHE QUESTA È L’AGGHIACCIANTE STORIA DELLE ULTIME ORE DEL MAGISTRATO CALABRESE.(da dagospia)
Sergio Ramazzotti per "Vanity Fair", in edicola domani. Un italiano va in Svizzera a morire di suicidio assistito e sceglie di portarsi dietro un testimone che poi racconti, in parole e immagini, quello che ha visto. Questa è la cronaca delle sue ultime ore di vita. Una storia vera che, dietro sua precisa richiesta, evita di mostrarne il volto e di divulgarne il nome. Ma che ha molti punti in comune con la vicenda, in questi giorni al centro delle cronache, del magistrato calabrese morto nella stessa città, davanti allo stesso medico, tre mesi fa. Entra in uno dei tanti bar di fronte alla Stazione Centrale, a Milano. Il suo treno parte fra mezz'ora, ha tempo per un espresso. Lo ordina lungo e non lo zucchera. Lo beve in tre sorsi, lascia una moneta di fianco al piattino, saluta ed esce. Prima di seguirlo faccio in tempo a notare il colore e la forma della schiuma che si è rappresa sulle pareti interne della tazzina, ed è un'immagine che non scorderò più, perché l'uomo che ha appena bevuto da quella tazzina cesserà di vivere fra esattamente ventidue ore. Io lo so, lo sa anche lui, ed è per questo che, passando davanti al bar, mi ha detto: «Sergio, andiamo a prendere un ultimo caffè come si deve, ché in Svizzera li fanno 'na chiavica». Quarantotto ore prima, ha telefonato da un paesino del Sud e preso il suo appuntamento con la morte a Basilea, per le otto e trenta del mattino di un giorno di primavera. La sentenza, mi dice, in realtà gli è stata comunicata da tempo, con la diagnosi di una malattia neurodegenerativa devastante, che nel giro di qualche anno lo ridurrà a un vegetale e infine lo ucciderà. Nel 2010 è andato la prima volta in Svizzera per avviare la pratica di suicidio, illegale in Italia, e ha scoperto che anche lì darsi la morte non è semplice: serve il nulla osta di due medici diversi, che la deontologia obbliga a cercare di dissuaderti. Nei due anni successivi, è stato respinto tre volte. Intanto la malattia ha continuato il suo corso, e da tempo lui teme di superare quello che gli assistenti al suicidio definiscono il «punto di non ritorno», oltre il quale il tuo degrado psicofisico non ti consente più di aprire la valvola della flebo con la sostanza letale (la legge vieta che sia il medico a farlo al tuo posto, si tratterebbe di eutanasia). È il paradosso del suicidio assistito: devi avere ancora vita a sufficienza perché ti sia concesso di togliertela. Ma è un uomo tenace, uno che si è fatto strada dal nulla, ha preso due lauree e al culmine della carriera è arrivato a disporre dei destini di centinaia di suoi simili: all'inizio di quest'anno è tornato alla carica, si è sottoposto a nuove visite, si è fatto preparare l'ennesima perizia, l'ha spedita in Svizzera, ha ricevuto un sms. Me lo mostra sul display del suo cellulare. Mittente: Erika Preisig, +41.79 eccetera. Il testo è in italiano: «Puo venire morire giovedi proximo». Preisig è un medico e un'assistente al suicidio. Tre giorni la settimana è impegnata in ambulatorio a Basilea, quindi a chi vuole morire dà appuntamento il lunedì o il giovedì, i suoi giorni liberi. Lui la conosce bene: da tre anni le scrive lettere che esordiscono tutte con la stessa frase: «Dolce sorella mia». Quando ha riattaccato, dopo averla chiamata per accordarsi sul luogo e sull'ora in cui lascerà questo mondo, erano da poco passate le undici di mattino di un venerdì: sapeva di avere, al netto degli imprevisti, centoquarantuno ore e trenta minuti di vita. Quando lo vedo, il lunedì mattina, gliene sono rimaste poco più di sessantotto: arriva in macchina nella via dove mi ha chiesto di aspettarlo, lontano dal centro per non rischiare di incontrare i conoscenti, la moglie, i figli a cui ha raccontato che sarà a Napoli per l'ennesimo consulto con uno specialista. «Se sapessero cosa sto andando a fare mi incatenerebbero a casa», dice con un sorriso amaro. Litighiamo subito, perché vorrebbe che guidassi la macchina fino a Napoli, ma io mi oppongo, non voglio avere una parte attiva nel suo viaggio verso Basilea. «Solo fino a Napoli e poi prendiamo il Frecciarossa, che ti costa?», insiste. Rispondo che può costarmi ¬l'anima, oltre a qualche anno di galera. «Sergio, quanto sei stronzo, nemmeno a un uomo che sta per morire puoi fare un favore», dice, ma ci aggiunge una carezza sulla guancia. «Ma sì, hai ragione, lo stronzo sono io: monta e jammucinne, va'». Guida con una lentezza esasperante, doversi concentrare sulla strada lo stanca parecchio. Sono duecento chilometri fino a Napoli, milletrecento fino a Basilea, sessantasette ore e tre quarti di vita. Mi ha voluto accanto a sé perché rimanesse una testimonianza della sua scelta, delle ragioni che l'hanno spinto a compierla, di come sia costretto - trascrivo le sue parole - a «umiliarsi un uomo, viaggiando lontano da casa come una specie di clandestino, per poter esercitare fino alle estreme conseguenze il proprio sacrosanto diritto al libero arbitrio, che nel nostro Paese ci viene negato». E sono qui, un perfetto estraneo nell'abitacolo della macchina dove dovrebbero essere i suoi familiari, a chiedermi se sia stato lui ad abbandonarli o se invece, come sostiene, non sia il contrario. «I familiari non capiscono le tue sofferenze», dice in tono rabbioso, «non capiscono che quando sei condannato la vita può diventare un peso insopportabile, che ogni volta che vedi sorgere il sole e sai che ti aspetta un altro giorno da vivere è come se ti caricassero sulle spalle un altro macigno e ti spingessero a camminare a frustate. No, non lo capiscono, o forse non vogliono. Tutto quello che vogliono è che tu continui a esistere, per la loro consolazione, per il loro puro egoismo, per rimandare il più possibile il momento in cui dovranno avere a che fare con la tua morte. Però poi cercano di evitarti, trovano ogni scusa per lasciarti da solo, perché la tua malattia li mette a disagio». Nei suoi occhi c'è un'amarezza infinita, e un risentimento che in parte è rivolto a me, perché crede che anch'io sia di quelli che non capiscono. Lo crede da quando ci siamo fermati in un bar lungo la strada per comprare dei panini che abbiamo mangiato in macchina, mentre continuava a guidare. Erano panini appetitosi, di pane casereccio e prosciutto e formaggio locale. Mangiava con gusto, e ho osservato che non sembrava uno pronto a morire, e la cosa l'ha mandato su tutte le furie. «E secondo te che cazzo dovrei fare, digiunare, così crepo con la fame?», ha urlato. «Pensi che mi faccia piacere andarmene, eh? Pensi che non preferirei continuare a godermi la vita? Il fatto è che quando sei nelle mie condizioni un momento per andartene lo devi scegliere, e deve essere prima di rincoglionirti del tutto, prima di non essere più capace di aprire quella cazzo di valvola, capito? Prima, quando ancora hai appetito e voglia di berti un vino fresco e farti una scopata, perché dopo è troppo tardi. Quindi non rompermi mai più i coglioni con questa storia». Così è calato il silenzio, che mi è parso durare un'eternità ed era intollerabile perché ormai le ore erano sessantaquattro scarse, fino a quando non mi ha appoggiato una mano sulla spalla e, come se fra noi non fosse successo nulla, ha detto: «Sergio, che hai, perché non parli più?». Con il Vesuvio all'orizzonte, ha avuto la tremenda prontezza di citare l'adagio vedi Napoli e poi muori, e ha aggiunto: «Non posso biasimarli, sai». «Chi non puoi biasimare?», ho chiesto. «I miei. Quelli come loro. Tutti quelli che mi vorrebbero vivo. Non possiamo sopportare la vista di una persona se sappiamo con precisione l'ora in cui morirà. Riusciamo ad affrontare la morte solo quando ci coglie alla sprovvista. È uno dei pochi casi in cui la certezza spaventa più dell'ignoto. Tu, per esempio, la sopporti la mia presenza?». Rispondo di sì. Entrambi sappiamo che sto mentendo. Sul frecciarossa per Roma, e su quello che il giorno dopo ci porta a Milano, parla in continuazione, come se avesse orrore del silenzio, come se una vita senza conversazione fosse una vita sprecata. Discute in modo brillante di tutto, di filosofia, di musica, di storia e di fisica delle particelle subatomiche. L'unico argomento che liquida in due frasi lapidarie è la fede: «Una gran fregatura», dice, lui che è cresciuto in una famiglia rigidamente cattolica. «Non posso più accettare l'idea di un Dio che permetta tanta sofferenza». A Roma, dove abbiamo fatto una sosta perché non se la sentiva di proseguire, ha voluto entrare in Santa Maria Maggiore. Si è messo a sedere sul plinto di una colonna ed è stato per un po' con lo sguardo fisso verso l'abside. Ho pensato che stesse pregando, ma quando mi sono avvicinato ha detto: «Andiamocene a mangiare qualcosa, che è meglio». Tace solo quando l'emicrania prende il sopravvento, e allora chiede a me di parlare. «Raccontami delle storie», dice. «Di che genere?», rispondo. «Del genere che non annoia: 'sto viaggio è lungo assai», e mi sorprendo a rivelargli cose inconfessabili che non ho mai raccontato a nessuno. Alcune lo fanno ridere, e penso che un uomo non ride mentre va incontro alla propria morte. O forse è solo una convenzione a cui siamo stati educati. A tratti mi perdo nei pensieri, in silenzio fisso la campagna che scorre troppo veloce oltre il finestrino, faccio il calcolo delle ore che restano. Allora lui mi scuote una spalla e mi dice: «Fatti coraggio, non è niente». È ossessionato dalla possibilità che la famiglia intuisca le sue intenzioni e metta la polizia sulle sue tracce. Ha tolto la batteria dal cellulare, nelle stazioni si guarda in giro alla ricerca delle telecamere, paga tutto in contanti. In albergo a Milano, mentre estrae dalla borsa a tracolla sei banconote da cinquanta nuove di zecca per pagare la camera, l'uomo alla reception guarda con sospetto e fastidio i suoi capelli sporchi, l'impermeabile sgualcito, il volto deformato dalla stanchezza del viaggio, la camminata sofferente sostenuta dalla stampella - tutte cose che stonano con l'arredamento di design - e l'unico bagaglio, troppo piccolo anche per una sola notte. È la stessa cosa che mi chiedo anch'io dall'altro ieri: che cosa mette in valigia un uomo che va a morire? Che cosa c'è nelle sue tasche, e perché mi incuriosisce più di quello che c'è nella sua testa? Lo scopro quando lo accompagno in camera e lui svuota il contenuto della borsa per disporre tutto con ordine maniacale sulla scrivania. C'è poco più di niente. Due grosse buste indirizzate ai familiari. Una cartelletta azzurra gonfia di perizie mediche. Un portafoglio con i contanti. Le chiavi della macchina che spedirà alla famiglia con lo scontrino di un parcheggio di Napoli. Un sacchetto di plastica con un'arancia e una confezione di biscotti. Niente biancheria, niente vestiti di ricambio, nessun accessorio da bagno: per contenerli ci vorrebbe almeno una borsa quarantotto ore, e a lui non ne restano che trentacinque. Sul treno per Zurigo, dopo l'ultimo caffè davanti alla Centrale, non parla più. Da quando abbiamo passato il confine e le guardie di frontiera svizzere e i finanzieri italiani sono scesi, fissa il cielo oltre le vette, come se stesse studiando la rotta. «Leggi un po'», mi dice, «fa' qualcosa per distrarti, lasciami guardare queste belle montagne». Penso, sul momento, che sia il suo modo di prepararsi ad abbandonare la terra, di recidere uno a uno i fili che lo legano al mondo, a cominciare dalla conversazione e dal rapporto con gli altri esseri viventi. Scoprirò, poi, che non è così: lui è semplicemente angosciato dalla prospettiva di non riuscire a superare l'ultimo ostacolo che lo separa dalla morte, il consulto con il medico di Zurigo che dovrà firmare il secondo nulla osta, il giorno precedente il suicidio. Arriviamo all'ambulatorio verso le cinque del pomeriggio, in ritardo di mezz'ora. Teme di non trovare più il dottore, che invece è lì ad aspettarlo e lo accoglie con una stretta di mano, parlando in un italiano dal forte accento tedesco. Il colloquio dura tre quarti d'ora. Il medico è un uomo tarchiato con una folta barba candida, indossa una camicia da montagna che - penso in modo del tutto incongruente - mi ricorda il nonno di Heidi, fa domande a raffica. Quando finalmente dice: «Per me tutto a posto, può morire tomani», lui - un uomo che per tutta la vita ha guidato le sorti di altri uomini - cade in ginocchio, gli afferra la mano, la bacia, dice: «Grazie, dottore, che Dio la benedica». Ora è sollevato, quasi allegro. Ha ripreso a parlare e alla stazione di Zurigo, mentre aspettiamo il treno per Basilea, vuole comprare un sandwich con würstel di vitello. Lo mangiamo in piedi sulla banchina: sarà la sua ultima cena. Alla reception dell'albergo di Basilea il personale è più cortese che a Milano. Quando ha prenotato, lui ha pagato anche per la notte precedente, e la donna in tailleur nero gli dice che potrà farsi rimborsare i soldi dalla sua agenzia di viaggio. Le risponde con un mezzo sorriso: «Signorina, non ha importanza». La dottoressa Preisig lo raggiunge nella sua stanza un'ora dopo. Si abbracciano con un'intensità struggente. Preisig gli fa firmare gli incartamenti, all'improvviso lui è agitato, insofferente: «Erika, non possiamo farlo stasera?». Lei, paziente, spiega che è impossibile: la morte ha bisogno dell'apparato burocratico, che la notte non lavora. «E se stanotte dovesse succederti qualcosa? Se domattina tu non potessi venire?». Fanno quasi tutti così, mi spiegherà poi la dottoressa: giunti a questo punto non hanno paura della morte, ma di non poter morire. Le chiede di accompagnarlo a fare una passeggiata: «Voglio vedere il centro storico, non ci sono mai stato». Camminano sottobraccio, lentamente, nei vicoli deserti. Fa freddo, e lui non ha altri vestiti che quelli con cui è uscito di casa tre giorni prima, vestiti da primavera del Sud, adatti a un luogo soleggiato, immensamente lontano. Dopo un po' è stanco, vuole tornare in albergo. Quando Preisig sale in macchina, le dice: «Stai attenta, guida piano». L'ultima cosa che fa prima di ritirarsi in camera è chiedere alla ragazza in tailleur di prenotargli un taxi per il mattino: «Mi raccomando, alle otto e venti precise: ho un appuntamento importante». Il monolocale al piano terra dove Preisig accompagna al suicidio è in un quartiere residenziale poco lontano dal centro. Un secolo fa ospitava una sinagoga. Lei lo ha fatto ristrutturare cercando di renderlo il più accogliente possibile, ma il risultato è che sembra la stanza di un residence per ex mariti cacciati di casa: c'è un letto singolo, una poltrona, un angolo cottura a vista, un assortimento di cd, un tavolino da salotto con un vassoio di cioccolatini, nessuna finestra, la gelida presenza dello stelo di alluminio per appendere la flebo. Arriviamo qualche minuto prima delle otto e trenta. Entra, saluta, dà un'occhiata rapida alla stanza, guarda l'orologio, chiede se è tutto a posto con un tono distaccato, quasi militare. Anche Erika cerca di sembrare fredda e padrona di sé («È quello che le persone si aspettano, a questo punto»), ma è evidente che le costa fatica. Lui estrae dalla borsa le lettere per i familiari, chiede che vengano spedite dopo la sua morte insieme all'urna con le ceneri, si sfila le scarpe, si siede sulla poltrona. «Erika, angelo mio», dice, stavolta con dolcezza, «vieni, non perdiamo tempo». Alle otto e quarantacinque, Preisig gli infila l'ago nella vena, e mette in comunicazione il suo corpo con la sacca di soluzione fisiologica nella quale ha già disciolto una dose letale di Pentobarbital di sodio. Da adesso, la sola cosa che lo separa dalla morte è un pezzetto di plastica arancione del valore di pochi centesimi, la valvola che dovrà aprire. Erika gliela porge, lui la prende delicatamente, come se fosse una farfalla viva. Nei suoi occhi c'è una gratitudine incalcolabile. «Funzionerà, vero? Non soffrirò?», dice. «No, non soffrirai. Dormirai un sonno profondo». «Grazie, angelo mio, che Dio te ne renda merito». Poi ha un ripensamento. «Sergio», dice, «portami la borsa». Gliela metto in grembo, rovista tra le carte e l'arancia ancora intatta e ne estrae un piccolo crocifisso. Lo stringe nell'altra mano, mi guarda e scrolla le spalle come per dirmi: che ci vuoi fare? Poi tutto accade velocemente. Ruedi, il fratello di Erika, accende la telecamera: il video servirà a dimostrare che in questa stanza un uomo si è tolto la vita di sua volontà. La polizia lo dovrà visionare, ma verrà chiamata solo a decesso avvenuto: per paradosso, se fosse presente dovrebbe impedire il suicidio. Erika rivolge le tre domande di rito: nome, data di nascita, sei cosciente di quello che accadrà quando aprirai la valvola. Alla terza, la risposta è: «Finalmente sarò libero». Tocca a lui aprire la valvola, alle nove e sei minuti. Nello stesso momento comincia a recitare l'Ave Maria. Erika, in ginocchio, gli accarezza la mano e sussurra il suo nome come un mantra. Quando si arriva a «prega per noi peccatori», la voce è un nastro al rallentatore. Non pronuncerà mai l'amen finale. Il suo cuore si ferma alle nove e dieci. Mentre aspettiamo la polizia, che arriverà tra poco insieme al procuratore capo e al medico legale, guardo il corpo di quest'uomo che ho conosciuto in modo così superficiale eppure così intimo, un uomo forte e disperato, che alcuni chiamerebbero un eroe e altri un codardo. Sul suo volto vedo la pace. Mentre il personale dei servizi funebri lo porta via, mi sembra di sentire la sua voce che mi dice: «Sergio, non rompermi i coglioni».

Governati da cazzari.

Caso Ablyazov, kazaki & cazzari. di Marco Travaglio | 16 luglio 2013. Ora ci spiegano che, sul ruolo dei ministri Alfano e Bonino nello scandalo kazako, bisogna attendere fiduciosi il rapporto del capo della Polizia appena nominato dal vicepremier e ministro Alfano a nome del governo Letta per conto del Quirinale. Come se il nuovo capo della Polizia potesse mai sbugiardare il superiore da cui dipende e mettere in crisi il governo che l’ha nominato. Suvvia, sono altre le indagini imparziali che andrebbero fatte. Ci vorrebbe una Procura indipendente dalla politica, quale purtroppo non è mai stata, almeno nei suoi vertici, quella di Roma, che in questi casi si è sempre mossa come una pròtesi del governo di turno. Quindi lasciamo stare le indagini e limitiamoci alle poche cose chiare fin da ora. Se la polizia italiana ha cinto d’assedio con 40 uomini armati fino ai denti il villino di Casal Palocco per sgominare la temibile gang formata da Alma e Aluà, moglie e figlia (6 anni) del dissidente Ablyazov, e spedirle fermo posta nelle grinfie del regime kazako, è per un solo motivo: il dittatore Nazarbayev, che ne reclamava le teste e le ha prontamente ottenute, è uno dei tanti compari d’anello di Berlusconi in giro per il mondo. Da quando Berlusconi è il padrone d’Italia, il nostro Paese viene sistematicamente prostituito ora a questo ora a quel governo straniero, in spregio alla sovranità nazionale, alla Costituzione e alle leggi ordinarie. I compari stranieri ordinano, lui esegue, il funzionario di turno obbedisce e viene promosso, così non parla. Un ingranaggio perfettamente oliato che viaggia col pilota automatico, sul modello Ruby-Questura di Milano. La filiera di comando è tutta privata. Governo e Parlamento non vengono neppure interpellati o, se qualche ministro sa qualcosa, è preventivamente autorizzato a fare il fesso per non andare in guerra, casomai venga beccato. Tanto si decide tutto fra Arcore, Villa Certosa e Palazzo Grazioli. Sia quando lui sta a Palazzo Chigi, sia quando ci mette un altro, tipo il nipote di Letta. Era già accaduto col sequestro di Abu Omar per compiacere Bush (solo che lì una Procura indipendente c’era, Milano, e Napolitano dovette coprire le tracce graziando in tutta fretta il colonnello Usa condannato e latitante). Ora, per carità, è giusto chiedere le dimissioni di Alfano e Bonino, per evitare che volino i soliti stracci e cadano le solite teste di legno: se i due ministri sapevano, devono andarsene perché complici; se non sapevano, devono andarsene a maggior ragione perché fessi. Ma è ipocrita anche prendersela solo con loro. La Bonino è uno dei personaggi politici più sopravvalutati del secolo: difende i diritti umani a distanza di migliaia di chilometri, ma in casa nostra e dei nostri alleati non ha mai mosso un dito (tipo su Abu Omar e su Guantanamo). Alfano basta guardarlo per sospettare che non sappia neppure dov’è il Kazakistan e per capire che conta ancor meno di Frattini, che già contava come il due a briscola: è l’attaccapanni di B. ed è persino possibile che i caporioni della polizia, ricevuto l’ordine dal governo dell’amico kazako, abbiano deciso di non ragguagliarlo sui dettagli del blitz. Tanto non avrebbe capito ma si sarebbe adeguato, visto che non comanda neppure a casa sua. Il conto però va presentato a chi ha nominato Alfano vicepremier e ministro dell’Interno e la Bonino ministro degli Esteri. Cioè a chi tre mesi fa decise di riportare al governo B. nascosto dietro alcuni prestanome. E poi iniziò a tartufeggiare sul Pdl buono (Alfano, Lupi e Quagliariello) e il Pdl cattivo (Santanchè, Brunetta e Nitto Palma). Il Pdl è uno solo e si chiama Berlusconi, con tutto il cucuzzaro dei Putin, Nazarbayev,Erdogan & C. Per questo l’antiberlusconismo, anche a prescindere dai processi, è un valore. Chi – dai terzisti al Pd – lo accomuna al berlusconismo e invoca la “pacificazione” dopo la “guerra dei vent’anni”, non ha alcun diritto di scandalizzarsi né di lamentarsi per gli effetti collaterali dell’inciucio. Inclusi i sequestri di donne e bambine. Avete voluto pacificarvi con lui? Adesso ciucciatevelo. Il Fatto Quotidiano, 16 Luglio 2013

domenica 14 luglio 2013

NON POSSIAMO MORIRE PER BERLINO.

Dal Blog di Beppe Grillo.
Dopo le elezioni politiche di febbraio sono stato contattato ufficialmente, con una lettera o una mail seguita da una telefonata, dagli ambasciatori dei principali Paesi. Ho riscontrato da parte loro grande curiosità e interesse per il M5S e forte preoccupazione per il futuro dell'Italia e per l'effetto domino che una crisi del nostro Paese potrebbe comportare. Solo una grande Nazione non ha chiesto un incontro ufficiale: la Germania. Sono convinto che si tratta di una distrazione. Negli incontri ho ribadito, sempre, la necessità per l'Italia di avere una maggiore sovranità per le decisioni in campo economico, militare, monetario. Non credo sfugga a nessuno che l'Italia di oggi assomigli in modo sempre più smaccato a quella del Seicento, del "Franza o Spagna purché se magna". Sostituite la Francia e la Spagna con la Germania e gli Stati Uniti e ci ritroviamo nel XXI° secolo. Il pellegrinaggio ossequioso, subito dopo il loro insediamento, dei nostri primi ministri, come Rigor Montis e Capitan Findus Letta, presso la Merkel (e persino del voglioso ebetino di Firenze, che non vanta alcuna credenziale se non quella di aver vinto alla Ruota della Fortuna) ricordano la ricerca della benedizione papale dei grandi feudatari del medio evo. In ginocchio, baciando il sacro anello. "Gott mit uns". Gli interessi economici della Germania e quelli dell'Italia non coincidono più da molto tempo, dal nostro ingresso nell'euro, che in realtà è un marco mascherato. E' necessaria una mediazione, un confronto alla pari, per uscire dall'attuale impasse, non la continua genuflessione dei nostri politici. Nell'euro, a queste condizioni, non possiamo più restare se vogliamo mantenere in piedi il nostro sistema produttivo. O si creano gli eurobond, titoli pubblici garantiti dalla BCE, per suddividere il rischio Paese su tutta l'area euro, o si ristruttura il nostro debito pubblico, in sostanza si congela il capitale investito o si rinegoziano gli interessi nel tempo. Entrambe queste ipotesi sono viste dalla Germania, che possiede una gran parte dei nostri titoli pubblici, come l'orticaria, ma tertium non datur, non vedo altre possibilità per rimanere nell'euro. Non possiamo morire per Berlino, né fare la fine della Grecia per accontentare gli interessi tedeschi e le ambizioni dei nostri politici. Primum vivere, con o senza euro.

sabato 13 luglio 2013

Chapeau. Beppe ha ragionissima.

Ineleggibile o incompatibile? Essere o non essere?
dal blog di Beppe Grillo. Ineleggibile o incompatibile? Salvare ancora Berlusconi o dopo vent'anni di inciuci dimostrare di essere qualcosa di più di un ectoplasma politico? Questo è il problema per il pdmenoelle. Se sia più nobile d'animo sopportare gli oltraggi dell'opinione pubblica, i sassi e i dardi della propria sepolta coscienza, o buttar fuori dal Parlamento un evasore ineleggibile. Tale dilemma non esiste.Tra "Essere e non essere" il pdmenoelle ha sempre scelto, in nome di comuni interessi, di "Non essere". Di fronte alla improvvisa perdita del suo azionista di riferimento per ineleggibilità, il pdmenoelle non ha avuto esitazioni: ha certificato la propria "non esistenza", sulla quale pochi in realtà avevano dei dubbi. I parlamentari pdmenoellini Luigi Zanda e Massimo Mucchetti hanno presentato un disegno di legge per modificare la legge 361 del 1957 sulla ineleggibilità per i casi di conflitto di interesse sostituendola con il principio di incompatibilità. Berlusconi avrà quindi un anno per scegliere fra le sue aziende o la politica. Nel frattempo potrà rimanere tranquillamente in Parlamento invece di esserne cacciato. Senatore tra i senatori. Il provvedimento di urgenza che, se approvato, sarà già esecutivo il giorno dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, è stato reso necessario, improrogabile, dalla richiesta del MoVimento 5 Stelle di dichiarare ineleggibile Berlusconi a norma di legge. Una legge mai fatta applicare dai governi del pdmenoelle dall'ingresso in Parlamento di Berlusconi nei primi anni '90, chissà perché. Il testo di incompatibilità è sottoscritto, oltre che da Mucchetti e Zanda, da un battaglione di 23 salvaberluschini, senatori nominati del pdmenoelle: Fedeli, Martini, Chiti, Gotor, Mirabelli, Migliavacca, Tomaselli, Tonini, Tocci, Guerrieri, Del Barba, Collina, Di Giorgi, Corsini, Zanoni, Lo Moro, Tronti, Pizzetti, Mauro Marino, Dirindin, Fattorini, Pagliari, Rita Ghedini. Per gli amici del giaguaro, quelli che dovevano smacchiarlo, le leggi che lo riguardano non si applicano e, se si è costretti a farlo, si cambiano.

giovedì 11 luglio 2013

LE LARGHE INTESE DELL'INCIUCIO E DEL NAUFRAGIO.

Caso Mediaset, il presidente Napolitano e il verme della mela. di Antonio Padellaro | 11 luglio 2013. La domanda è: possibile che Giorgio Napolitano non sapesse che il governo delle larghe intese, da lui fortemente voluto e imposto, contenesse in sé, come un verme nella mela, i problemi giudiziari di Silvio Berlusconi? Escludiamo che abbia potuto minimamente fidarsi della promessa del Caimano di tenere il governo Letta al riparo dalle conseguenze dei suoi molteplici reati. Chi può credere infatti che un personaggio navigato come il capo dello Stato, magistrale artefice della propria rielezione al Quirinale, abbia potuto dare retta all’uomo più bugiardo del pianeta? Resta la seconda risposta: che cioè Napolitano, purché si desse vita a quel mostro politico che è la maggioranza Pd-Pdl, non ha badato a spese, non prevedendo forse un prezzo così salato. Dopo aver tradito il mandato elettorale con gli elettori (“Mai con Berlusconi”), ora il Pd è costretto a vergognarsi di se stesso. Aver votato quell’indegna sospensione dei lavori parlamentari non solo equivale a una sottomissione ai voleri del Pdl, ma acquista un valore simbolico incancellabile nel momento in cui quella pausa istituzionale diventa omaggio penitenziale al miliardario plurinquisito, oltreché pressione inaudita sulla Corte di Cassazione. Il fatto è che il gruppo dirigente democratico, a furia di compromessi con la propria storia, ha perso completamente identità e orientamento, tanto che oggi, per dire, tra uno Speranza e un Alfano non si nota nessuna differenza. Ma forse era proprio questo che si voleva. Il verme nella mela sta producendo un altro inevitabile effetto. I guai penali dell’affettuoso protettore di Ruby Rubacuori, da ossessione privata dell’imputato e problema esclusivo del Pdl, grazie alle improvvide intese allargate si è trasformato in un gigantesco affare di governo e di Stato. Addirittura una bomba termonucleare sul futuro dell’Italia, come vanno preconizzando i terrorizzati giornaloni. Poiché, se la Cassazione dovesse confermare la condanna di Berlusconi con le annesse pene accessorie, costui risulterebbe interdetto dai pubblici uffici. Compresi quelli che non esercita come senatore della Repubblica, visto che è risultato assente dall’aula nel 99,7 per cento delle sedute. Un’onta che, secondo i profeti di sventura, comporterebbe con la crisi di governo una serie di catastrofi a catena, comprese la peste bubbonica e le cavallette. Un trucco da imbroglioni che ha l’unico scopo di far ricadere sui giudici della sezione feriale della Cassazione una responsabilità enorme. Insomma, visto che il governo non decide un fico secco e che l’economia va di male in peggio, retrocessa dalle agenzie di rating, che fosse questo il vero scopo delle larghe intese, salvare il Cavaliere? il Fatto Quotidiano, 11 Luglio 2013

mercoledì 10 luglio 2013

Il punto su Grillo e l'indecenza definitiva del PD.

Le parole di Grillo, la pavidità (arrogante) del Pd. di Andrea Scanzi | 10 luglio 2013,da Il Fatto Quotidiano.
Ho ascoltato con attenzione la conferenza stampa di Beppe Grillo dopo l’incontro con Napolitano. Qualche considerazione. 1) L’ho trovato incazzato, ma lucido. Efficace. 2) Mi fa sorridere chi lo trova troppo rabbioso. Io, in tutta onestà, ho paura di chi in questa situazione riesce a essere – o si vanta di essere – troppo calmo. La gente (politici e no) che non sa indignarsi è pericolosissima. Nonché maggioritaria in Italia. 3) Quando Grillo attacca (facendo distinguo) Pd, berlusconiani che lo votano ancora perché “vogliono galleggiare” e il sistema di informazione italiano, è a sua volta inattaccabile. 4) Se il centrosinistra italiano avesse combattuto Berlusconi come ha fatto e fa il M5S, il centrodestra sarebbe stato definitivamente sconfitto da almeno quindici anni. Altro che Boccia, Fioroni e Gentiloni. 5) Il giochino del “Non avete fatto il governo col Pd” fa acqua da tutte le parti. Non siate ulteriormente ridicoli cari piddini oltranzisti, su. Chi voleva, sapeva già com’è andata. Bastava sentire la Sereni da Vespa o Bersani a Cremona. E basta vedere oggi cosa ha fatto in Parlamento il Pd (uno dei punti più bassi della sua storia bassissima). Fa poi sorridere come i video in cui Grillo diceva “Bersani, restituisci i rimborsi e vota l’ineleggibilità di Berlusconi e Rodotà al Quirinale: faremo un percorso insieme”, siano stati rimossi dal passato. Sembra che nei primi tre mesi di legislatura l’unica cosa fatta dal M5S sia stato lo streaming in cui la Lombardi ha fatto la splendida (vabbè) con Bersani. Quel governo del cambiamento non c’è stato perché i primi a non volerlo erano proprio dentro il Pd. Su cosa avrebbero convenuto i parlamentari 5 Stelle M5S e quei gerarchi(ni) piddini che oggi hanno interrotto i lavori in solidarietà a Berlusconi per gli “attacchi” della Costituzione? Su nulla. 6) Grillo, quando parla di Italia, può farlo perché la visita in lungo e in largo. Tocca con mano i territori. E’ sin troppo concreto (e magmatico nella narrazione: dice 34 concetti e 78 cifre in una frase). Gli altri, del paese, troppo spesso non sanno nulla. Non vivendolo. 7) Oggi, con una sola conferenza stampa, Grillo ha riconquistato la scena, guadagnato credibilità e fugato alcune perplessità. Non frequentare la tivù (italiana) è comprensibile e per lui coerente, ma politicamente masochistico. Un italiano su tre, o quasi, non naviga. A Grillo non basta la politica sul territorio: se facesse tivù, anche solo ogni tanto, sbancherebbe. E toglierebbe molte armi agli avversari, che anche oggi manipoleranno le sue dichiarazioni con titoli furbini e che in sua assenza hanno buon gioco a tratteggiarlo come uno Stalin pingue, che fa il bagno in Costa Smeralda e uccide i dissidenti usandoli poi come balsamo concentrato per i riccioli di Casaleggio. 8 ) Nell’ultimo mese il M5S ha fatto opposizione costruttiva efficace, dando la sensazione di un movimento che dopo due mesi di assestamento (pieni di errori) sta trovando la sua strada. Se fosse un calciatore, sarebbe un atleta che dopo mesi di panchina e sostituzioni ha trovato lo stato di forma a dicembre, prima del girone di ritorno. Il Pd è infortunato (dalla nascita), il Pdl era e resta l’arbitro (Gasparri il pallone. Bucato). 9) Se Pd e Pdl continuano a fare obbrobri e schifezze immorali come oggi, il M5S non torna al 25% abbondante ma ci va vicino. Già oggi, con questa buffonata cafona ed eversiva, Pd & Pdl gli hanno regalato centinaia di migliaia di voti. Sono proprio (arrogantemente) grulli: fanno sempre, sempre, sempre gli stessi errori. 10) Conosco non pochi pentiti di aver votato M5S. Ma non ne conosco mezzo, di quei pentiti, che oggi sceglierebbe Pd. E dubito che, così facendo, il Pd interromperà un’erosione che sembra quasi renderli felici. E probabilmente è così, perché il patto è chiaro: Berlusconi comanda, loro sopravvivono (fingendo di indignarsi due o tre volte l’anno). Buona catastrofe.

martedì 9 luglio 2013

L'EPOPEA DEL MONTIKILLER.

Monti, un flop tira l’altro.
Nel disastro che ci ammanta la soddisfazione è tanta nel veder che fine fece Monti al qual spetta una prece. Salvator! Com’è ben noto, senza un’urna, senza un voto, con democrazia ferita da chi senatore a vita volle farlo e poi premier con la convinzione che dei mal fosse panacea. “Presidente, folle idea la salvezza del Paese affidare a chi difese nella vita, fino a ieri, gli interessi dei banchieri, dei riccon, della finanza!” Il campion menò la danza arricchendo chi era ricco e vieppiù mandando a picco, coi sistemi alla Fornero, che era povero davvero. Alla fin fu così folle da lasciar perdere il Colle per sfidare gli elettori. Alleato coi peggiori, coi padroni, coi fascisti, con i vecchi democristi, Monrezemolo, Fli, Fini e Caltagiron Casini, le elezion furono un flop per quest’uomo sempre al top: dell’economia il portento si fermò al dieci per cento. Coi cul più delle poltrone scoppiò la rivoluzione, con litigi a non finire. Fini fu il primo a fuggire fra le braccia della bionda. Tutto il resto è baraonda. Montezemolo ha capito che non è un granché il partito e un domani gli assicura sol la sua Italia futura. Fra Casini e il bocconiano il litigio è quotidiano, il dc vuol la fusione, mentre il professor si oppone: “Niente nozze per adesso, prima vengono il congresso, la struttura e le adesioni. Gli Udc stian zitti e buoni, sol più tardi si vedrà”. I furbastri, in verità, han ciascuno la sua mira. Il dc Casini aspira a tornare col caimano: sa che per un deretano sempre in cerca di poltrona è una soluzione buona. Mario Monti, che ha scoperto che il futuro è molto incerto per chi non ramazza voti, vuol raccogliere i devoti da portar, tutti in corteo, a raggiungere Matteo: Renzi voti ne otterrà, perciò è meglio andare là. Nel frattempo l’ex premier, per mostrar che ancora c’è, se la prende con Enrico: “Caro Letta, sai che dico? Cambia marcia o ti lasciamo!” Ma nessuno abbocca all’amo se perfin dal Quirinale giunge un lazzo senza eguale: “Mario Monti che minaccia? Penso che non ce la faccia…”. La sua storia è tutta qui: dove andò sempre fallì. Carlo Cornaglia (9 luglio 2013)

L'AMERIKANO MARCHIONNE DALLE AUTO AL CORSERA.

Gli affari di Marchionne e il disastro dell’Italia. di GIORGIO CREMASCHI .
Inaugurando per l’ennesima volta lo stabilimento Sevel in Abruzzo Sergio Marchionne ha dichiarato che quegli investimenti saranno gli ultimi in Italia, se resterà ancora in vigore la Costituzione e ancor di più se ci sarà chi la fa applicare. Il criptofascismo dell’amministratore delegato Fiat non è una novità, ma in questo caso la minaccia contiene anche una bugia perché la sua azienda e già impegnata in un nuovo investimento nel nostro paese, l’acquisto del controllo sul Corriere Della Sera. Immaginate la Ford all’assalto del New York Times, o la Peugeot che vuol controllare Le Monde, o la Volkswagen che spende per la Frankfurter Zeitung… Solo da noi questo avviene senza scandalo, e con il servilismo del governo e di chi lo sostiene. Ma perché una multinazionale dell’auto prevalentemente americana considera strategico il controllo della RCS? Così ha infatti affermato Sergio Marchionne e immagino lo stesso concetto abbia sostenuto John Elkann nel lungo colloquio telefonico con il Presidente della Repubblica. Perché la Chrysler Fiat, che già controlla La Stampa, considera strategico costruire in Italia un impero editoriale, quando anche Mirafiori va in malora per assenza di investimenti? Il regime politico informativo bipartisan che ci governa questa domanda non se la è posta né tantomeno l’ha posta, e questo la dice lunga sullo stato comatoso della nostra democrazia. Rappresentato da un Giorgio Napolitano che interviene su tutto tranne che su ciò su cui dovrebbe, nonostante le pie illusioni di Della Valle. La Fiat vuole il Corriere perché vuole partecipare in prima persona alla ristrutturazione del potere economico e politico che il governo delle larghe intese sta amministrando. Proprio perché investe sempre meno nella produzione industriale e nella ricerca, la Fiat spende più soldi per fare affari e finanza assieme e dentro il potere politico. Già negli anni 90 la famiglia Agnelli voleva abbandonare l’auto e iniziò a costruire una seconda azienda che spaziava dai telefoni alle banche al turismo. Questa operazione fallì e la Fiat fu salvata dalle banche e dai contribuenti, ma intanto anni e soldi erano stati buttati e l’azienda aveva perso un giro strategico rispetto ai concorrenti nella innovazione industriale. Il grandissimo venditore di fumo italo svizzero canadese fu capace di rilanciare gli affari della famiglia nel mondo, usando ovunque gli accordi con il potere politico. Tutto questo al prezzo di una devastante ristrutturazione in Italia, con la chiusura di tanti stabilimenti soprattutto nel Mezzogiorno e con decine di migliaia di lavoratori in cassa integrazione senza alcuna vera prospettiva di rientro al lavoro. E soprattutto senza nuovi prodotti in arrivo, per i quali non si fanno investimenti con o senza le sentenze della Corte Costituzionale. Del resto lo stesso Marchionne ha più volte detto: non è il momento. Al contrario della Volkswagen che proprio ora investe, e non sui giornali! Più la Fiat deindustrializza, più la proprietà fa affari nei salotti buoni del potere del nostro paese. Più gente perde il posto di lavoro, più potere mediatico si acquista. D’altra parte perché la Fiat dovrebbe fare qualcosa di diverso quando tutto il palazzo la sostiene? Il vescovo di Nola e la presidente della Camera sono stati accusati di estremismo dall’azienda e da Brunetta. Anche il senatore ex segretario FIOM Airaudo ha chiesto di superare gli opposti estremismi delle due parti. È il momento della pace, titola la Repubblica mentre Landini chiede all’azienda di superare il passato. Pace su che, per fare che? La Fiat continua a lasciare a casa la gente e a sfruttare per due coloro che ha la bontà di far lavorare. Dal punto di vista industriale l’azienda non ha futuro, ma gli affari per la proprietà vanno al meglio e si comprano i giornali. E Letta tace e Napolitano acconsente. Se Berlusconi è il simbolo del disastro delle classi dirigenti passate, Marchionne lo è di quelle attuali. Che non trovano nulla da dire sul fatto che un industriale automobilistico chiuda le fabbriche e compri i giornali. Vergogna. Giorgio Cremaschi (9 luglio 2013)

CERCASI UTOPIA.

Che fine ha fatto il sogno europeista? Il nichilismo tecno-capitalista ha prodotto forme di eteronomia e assoggettamento, privando gli individui di ogni idea di futuro, di autonomia e di responsabilità. Per uscire da questa "sedazione sociale" urge ritrovare le mappe dell'Utopia. di Lelio Demichelis, da sbilanciamoci.info Ventisei milioni e mezzo di disoccupati in Europa. La disoccupazione giovanile al 23,8% come media europea ma in Italia al 38,5%. Sempre n Italia, disoccupazione al 12,2%, il massimo dal 1977, mentre anche Confindustria rivede al ribasso – da meno 1,1 a meno 1,9% – le stime sul pil del 2013. Pochi dati, per fotografare una realtà drammatica. Ovvero: un impoverimento di massa in Europa imposto in nome di una pura astrazione numerica (pareggio di bilancio, parametri debito/deficit-pil), ma ugualmente ideologica, ovvero inattaccabile dai dati di realtà e dalle confutazioni della storia, anche l’ideologia neoliberista vivendo in una propria surrealtà immaginata ma poi soprattutto imposta come vera. Conseguenza di tale ideologia (o di tale religione capitalistica secondo Benjamin, contro la quale servirebbe un sano laicismo e una sana laicità): il portarsi a niente dell’Europa: di se stessa, del sogno europeista, dell’economia europea da troppo tempo in recessione; uno scendere, deliberatamente e ostinatamente lungo un piano inclinato nichilista, pesantissimo sia in termini sociali che di democrazia sostanziale (meno diritti, potere oligarchico) - rimuovendo dall’orizzonte culturale e politico il fatto che si potesse (ma si può ancora) fare diversamente e meglio se solo si rileggesse la storia della crisi del 1929 e del new deal rooseveltiano. Eppure, questa realtà drammatica e socialmente perversa sembra non riuscire a smuovere la società europea, incapace di re-agire avendo ormai interiorizzato il proprio ruolo di vittima (sacrificale) della crisi. Questa società – ma esiste ancora una società? – non produce alcuna rivoluzione (ormai cancellata dall’immaginario politico), ma neppure la rivendicazione di un riformismo radicale e quindi doverosamente opposto a quelle riforme strutturali (liberalizzazioni, privatizzazioni, soprattutto flessibilizzazione del mercato del lavoro, riduzione dei diritti sociali e quindi anche politici), invocate come un mantra dall’Europa merkeliana, draghiana e barrosiana, ma che sono in verità solo la prosecuzione del neoliberismo con altro nome e in altre forme. Servirebbe invece un riformismo radicale per creare un diverso rapporto (diverso, ma soprattutto radicalmente rovesciato) tra capitale e lavoro, tra mercato e ambiente, tra algoritmi e vita, tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo al servizio della società – come scritto in Costituzione) e politica (la tecnica regia secondo Platone che deve tornare urgentemente ad orientare in termini di senso e di scopo le altre tecniche, soprattutto l’economia – mentre da almeno tre decenni (in realtà da molto di più) l’unica tecnica regia che tutte le altre governa è proprio l’economia). Società disciplinata e annichilita No, nulla di tutto questo accade. La società è come annichilita, implosa su se stessa. Balbetta qualcosa. Cerca di sopravvivere tra lavoro precario, discount, riduzione dei consumi, ma in questo modo – perdendosi nell’oggi, incapace di re-agire e soprattutto di immaginare - non fa che assoggettarsi ancora di più alla biopolitica neoliberista e alla sua strutturale e continua espropriazione di futuro. A quel neoliberismo di oggi, fatto di austerità, impoverimento, disoccupazione, colpa e penitenza per avere vissuto al di sopra dei propri mezzi, come ieri si era adattata alla precedente fase (in verità davvero molto seduttiva, cui era quasi-impossibile resistere) del neoliberismo del godimento fatto di consumismo, vivere al di sopra dei propri mezzi, edonismo e narcisismo, irresponsabilità per il futuro. Neppure le sinistre osano il cambiamento. Il Presidente Napolitano poi lo teme sopra ogni altra cosa. Neppure il sindacato riesce nell’intento; neppure i movimenti che nascono (ma muoiono in fretta) un po’ ovunque. Questo mentre il vertice europeo del 27 e 28 giugno ha mancato un’altra occasione per pensare in grande, avendo destinato alle vittime giovani della crisi briciole di euro (appena 8), mentre per salvare le banche (la causa della crisi) sono stati spesi migliaia di miliardi. E mentre il governo Letta approva un piano per il lavoro davvero piccolo piccolo. Siamo cioè in presenza di frammenti di indignazione e di impegno: gli scioperi, le manifestazioni, le proteste di nicchia. Ma nulla di più. L’impegno si scontra contro il muro di gomma delle oligarchie. Perché dunque non si produce cambiamento, né riforma? Tre ipotesi Prima ipotesi, forse virtuosa ma minoritaria. È un solitario passare nel bosco di molti singoli, come il ribelle di Jünger, rivendicando la libertà di dire no, perché il ribelle è “deciso a opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata”. Oppure – seconda ipotesi, la più praticata e la più facile – ci si limita a cadere nella regressione populista e qualunquista (Grillo in Italia, altri in Europa), tra rassegnazione e antipolitica, tra rancore da bar e autocompiacimento da blog. In realtà vi sarebbe una terza ipotesi da considerare, questa sì politicamente virtuosa: quella di immaginare il cambiamento e poi cercare di realizzarlo partendo da una rivolta del pensiero come invocata ad esempio dall’ultimo (e intrigante) saggio di Mario Galzigna, appunto Rivolte del pensiero (Bollati Boringhieri); per uscire dalla disperanza, da quell’atmosfera collettiva fatta non solo di scoramento quanto (e peggio) di assuefazione alla sottrazione di futuro. Una sottrazione contro cui tuttavia un pensiero in rivolta - insorgente, libertario e spaesante rispetto alla realtà e sovvertitore di questa stessa realtà - “può preparare il terreno per il cambiamento”, perché solo “un pensiero costruito sulle rivolte e sugli antagonismi – anche se disseminati, eterogenei, dispersi e molecolari – può riaprire il tempo e restituirci il futuro”. Convinti, come osservava l’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro, che “è meglio sbagliare ed esplodere che prepararsi al nulla”. Al nulla, o a questo – aggiungiamo – meta-nichilismo tecno-capitalista ormai egemone e al suo sotto-nichilismo europeo. Ma praticare questo pensiero, positivo e innovativo perché radicale – che cioè rivendica una differenza dai non-pensieri omologanti e produttori di indifferenza – e riprendersi l’idea di futuro è difficile se capitalismo & apparati tecnici li hanno sottratti da tempo a individui e società. E non per un’imposizione di legge ma per la modifica – sovversiva ed etero-diretta, soft e impercettibile (quindi difficile da riconoscere: riconoscimento che è invece la necessaria premessa per poter poi contrastare la sua guerra di posizione dentro e contro la società e gli individui attuata dal tecno-capitalismo per la conquista dell’egemonia) – dei saperi di organizzazione della vita individuale e collettiva. Bisognerebbe allora e per prima cosa diventare consapevoli – con un processo illuministico di rischiaramento e insieme parresiastico – dei meccanismi che ci condizionano e ci assoggettano in modo quindi etero-diretto, delle forme di biopolitica dominanti che governano la vita intera di individui e società, dei soft power secondo Nye – soft power (”la capacità di ottenere ciò che si vuole mediante l’impostazione di un programma d’azione, la persuasione e l’attrazione positiva”), che in realtà non sono altro (basterebbe rileggere Propaganda, di Edward Bernays) che le vecchie pratiche di propaganda e di manipolazione del consenso, ma con un nuovo nome. Detto altrimenti, bisognerebbe prendere finalmente atto che è il capitalismo come sapere/potere e come biopolitica che ci ha espropriati del futuro avendo fatto con-fondere mercato e società, mercato e democrazia e soprattutto avendo addestrato a dover consumare tutto sempre più in fretta: prima le merci poi, tracimando dall’economia alla società, anche i valori, la cultura, il tempo e lo spazio, le relazioni e gli affetti umani, il senso della durata e del costruire e quindi: il futuro; mentre la rete - ultima forma tecnica in ordine di tempo divenuta forma sociale e per di più ormai globale (il richiamo è ad Anders e alla sua critica della tecnica come apparato) – ci porta a vivere nello stesso solco nichilista del capitalismo, con saperi simili e congrui fatti di brevità, istantaneità, tempo irreale, simultaneità, ma soprattutto individualizzando e isolando gli individui per poi totalizzare meglio in sé le parti prima separate, per cui dobbiamo essere soli ma connessi (e individualizzazione e totalizzazione sono l’essenza del potere moderno, non tanto politico quanto economico e tecnico). Producendo persino, per favorire questa totalizzazione mediante individualizzazione, un nuovo feticismo di massa, quello appunto del dover essere connessi. Ancora e sempre: etero-nomia Ne è uscita una nuova forma di etero-nomia e di assoggettamento, certo diversa da quelle religiose o ideologiche del passato ma anch’essa negatrice, forse più di quelle, di ogni auto-nomia individuale e sociale. Contro questa etero-nomia occorre dunque recuperare quella cosa che permetta l’auto-nomia e che si chiama immaginazione pro-gettuale e magari la vecchia utopia, possibile solo “fuori dai vincoli della ripetizione”, cercando “una nuova proliferazione di significati e di eccedenza di senso” (ancora Galzigna), per rimettere insieme gli antagonismi molecolari pure esistenti ma ancora sterili culturalmente e politicamente. Utopia il cui desiderio e la cui ricerca nascono solo se vi è la compresenza (Bauman, da ultimo) di due condizioni: la prima, l’insoddisfazione per la realtà esistente (e questa c’è); e poi, la convinzione di potercela fare a cambiare la realtà (e questa invece manca). Gli uomini in rivolta si limitano ancora a dire no, dimenticando (Camus) che un uomo in rivolta deve soprattutto dire sì e lo deve dire “fin dal suo primo muoversi”. In questa Europa è possibile solo la logica dello scontro che non deve diventare conflitto&pro-getto, l’unico meccanismo di azione sociale per il cambiamento invece capace di trasformare quegli uomini senza qualità tanto amati dal potere in uomini con molte qualità e quindi capaci finalmente di dire sì. Nulla di quello che dovrebbe accadere – il rovesciamento delle politiche neoliberiste e dei saperi/poteri tecno-capitalistici – sta dunque accadendo. E la causa – prima che nelle oligarchie, nei governi tecnici e nelle larghe intese – è nell’azione biopolitica e nelle discipline (in senso foucaultiano) dello stesso tecno-capitalismo, nel loro avere agito in profondità nella società in quanto saperi/poteri di relazione e integrazione, nell’avere infine vinto anche la lotta di classe contro il proletariato. Il dover essere sempre connessi; la velocizzazione/intensificazione del tempo e del lavoro; il lavorare come un dover collaborare con l’impresa; la cancellazione delle differenze (sinistra/destra, bene/male, giusto/ingiusto, lavoratore/imprenditore, consumatore/brand) e del dialogo, privilegiando il monologo collettivo (ancora Anders) con tutti che ripetono le stesse cose di tutti senza saper davvero immaginare in auto-nomia il nuovo e il diverso; la perdita della privacy, con la morte della soggettività; la precarizzazione del lavoro e della vita: tutte pedagogie e discipline che hanno svuotato di senso e di futuro l’individuo (isolandolo, falsamente individualizzandolo) perché fosse invece possibile una sua crescente integrazione (appunto: la totalizzazione) con l’apparato di cui deve fare parte (mercato, impresa, rete, stato), con la società sempre meno aperta e sempre più sedotta dalla chiusura comunitaria (i localismi, il comunitarismo di rete d’impresa e di brand, il comunitarismo nazionalistico), dove le metafore ‘biologiche’ (il corpo sociale) e ‘tecniche’ (l’apparato, la rete) si confondono - ed ecco le pedagogie della condivisione e del fare sciame in rete, della community, del siamo tutti sulla stessa barca, della wikinomics), imposte da un pilota automatico (se si crede nella tecnica o nel mercato o in Mario Draghi o in Giorgio Napolitano) o dall’istinto. Comunque e sempre: etero-nomia. La Grande Sedazione È stata una grande opera di sedazione sociale mediante incorporazione di ognuno nell’organizzazione tecno-capitalista. Che per funzionare al meglio deve eliminare ogni possibile resistenza e ogni possibile conflitto interno. Per questo era necessario che gli individui perdessero ogni idea di futuro e di utopia, di autonomia (nel senso di Kant) e di responsabilità (nel senso di Hans Jonas). E questo è accaduto. Urge allora ritrovare le mappe dell’Utopia (e se è vero che le utopie hanno prodotto disastri, un disastro ancora maggiore lo sta producendo la loro assenza). Ma cercandole – queste utopie e queste mappe – senza ricorrere al navigatore satellitare. E senza confidare nei motori di ricerca. (7 luglio 2013)

Neololiberismo: il socialismo per i ricchi.

1984. Grazie, Obama.

Siamo tutti figli delle stelle.Ciao Margherita.

Margherita Hack, la signora delle stelle. di Piergiorgio Odifreddi, da repubblica.it Margherita Hack, la Signora delle Stelle, se n’è andata a 91 anni. Era da tempo gravemente malata, ma aveva deciso di non curarsi più, lasciando alla Natura la decisione di quando richiamarla a sé. Fino all’ultimo, dunque, è rimasta coerente con la sua figura di intellettuale impegnata: da un lato, concentrata nello studio e nell’apprezzamento delle bellezze del cosmo, e dall’altro lato, incurante delle convenzioni stabilite e insofferente delle superstizioni condivise. Fin dalla giovinezza, aveva imparato a vivere sana. Era nata in una famiglia vegetariana e non aveva mai mangiato carne, facendo sua la motivazione esposta dal filosofo Peter Singer nell’ormai classico libro Liberazione animale (Mondadori, 1991):il fatto, cioè, che mangiare gli animali richiede di causar loro enormi sofferenze, dalla nascita alla morte, e rende complici di quella che la Hack chiamava una “ecatombe giornaliera”. A difensori dell’inciviltà dei McDonald’s, che provavano a sostenere con lei che un bambino necessita di carne per crescere, la Hack rispondeva che non solo lei era cresciuta benissimo, senza mai aver avuto malattie serie, ma aveva potuto praticare sport agonistici, diventando in gioventù campionessa di salto in alto e in lugno. E ancora a ottant’anni faceva giri in bicicletta di 100 chilometri e giocava a pallavolo. L’altra faccia del vegetarianesimo della Hack era il suo famoso amore per i gatti, dei quali viveva circondata in casa, e che spesso si vedevano gironzolare attorno a lei, o sederle vicino, durante le interviste registrate o gli interventi in videoconferenza. Come quello nel quale l’abbiamo vista l’ultima volta, il 9 maggio scorso a Pisa, nei Dialoghi dell’Espresso dedicati al tema Perché la ricerca è indispensabile. Questo intervento non fu che l’ultima testimonianza pubblica di una grande affabulatrice, che col passare del tempo aveva dedicato sempre più energie a raccontare, a voce e per iscritto, le meraviglie delle stelle e dell’universo. E poiché lo faceva con grande passione e altrettanta chiarezza, era ormai diventata la più famosa divulgatrice scientifica italiana, contendendo alla Levi Montalcini il primato per la popolarità. Le sue conferenze erano affollate come concerti, e sentirla raccontare le ultime scoperte astronomiche era un vero piacere per le orecchie e per la mente. D’altronde, era quello il suo vero lavoro, forse più nascosto e meno noto al pubblico. Aveva cominciato a interessarsene fin dalla sua tesi di laurea, nell’ormai lontano 1945, sulle Cefeidi. Aveva poi insegnato astronomia a Trieste, dove tuttora viveva, dirigendone per quasi venticinque anni l’Osservatorio Astronomico. Il suo valore scientifico era testimoniato dalla sua appartenenza all’Accademia Nazionale dei Lincei, di Galileiana memoria, e dalle sue collaborazioni con l’Ente Spaziale Europeo e la Nasa statunitense. Ma fin dagli anni ’70 aveva iniziato il suo impegno per la disseminazione del sapere scientifico in una società come quella italiana, succube di preti e idealisti, che rimane ancor oggi preda di un atteggiamento antiscientista e superstizioso. Fin dagli inizi aveva dunque collaborato con il Cicap, il Comitato per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale, fondato nel 1989 da Piero Angela. E la sua verve toscana le era servita spesso, per mettere alla berlina le credenze più retrograde e sciocche, spesso propagandate dai media. E non solo, visto che solo qualche settimana fa l’intero Parlamento italiano ha votato all’unanimità a favore della sperimentazione della cura medica Stamina proposta da uno psicologo di professione (sic), rendendoci ancora una volta gli zimbelli del mondo scientifico internazionale, e facendoci sbeffeggiare per ben due volte dalla rivista Nature. Oltre che contro le superstizioni antiscientifiche, la Hack combatté coraggiosamente anche contro quelle religiose e organizzate. Era presidente onoraria dell’Uaar, l’Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti, che si propone di dar voce a quel 15 per100 della popolazione italiana che non crede nelle favole mediorientali, ma che certo non riceve il 15 per 100 della visibilità sui media, e non ottiene l’8 per 1000 di finanziamento statale. A questo proposito, a Natale ho avuto il dubbio onore di condividere con lei uno dei tanti episodi di intolleranza religiosa nei confronti dei non credenti, in questo paese di bigotti. Un prete fondamentalista di Firenze mise infatti le nostre foto, insieme a quelle di Corrado Augias e Vito Mancuso, in una specie di “presepio degli orrori”, che comprendeva Hitler, Stalin e Pol Pot. L’idea era di accomunare i non credenti ai nazisti e ai comunisti, per mostrare che senza fede si finisce dritti ai campi di concentramento e ai gulag. La Hack reagì nella miglior maniera, a questa stupida provocazione: si fece una bella risata, e diede del “bischero” a quel prete. Ma comunista lei lo era per davvero, e lo rimase anche dopo la caduta del Muro di Berlino. Militò in vari partiti dell’estrema, e alle regionali del 2010 fu eletta nel Lazio con la Federazione della Sinistra, anche se alla prima seduta del consiglio si dimise per lasciare il posto al primo non eletto. Era dunque uno degli ultimi rappresentanti di quella specie ormai in via di estinzione che è l’intellettuale engagée, che pensa con la propria testa invece che con quella degli altri. Di Margherita Hack, come di Rita Levi Montalcini o di Franca Rame, ci sarebbe un gran bisogno. E ora che anche l’ultima di loro se n’è andata, toccherà a qualcun altro indicarci la via, e ricordarci che la ragione e l’onestà sono caratteristiche indispensabili per vivere degnamente in una societ‘a civile. (30 giugno 2013)