venerdì 31 dicembre 2010

sabato 25 dicembre 2010

Auguri contadini

Auguri per un 2011 senza il nano-tiranno





TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)

venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale da Beppe Grillo





A natale puoi

"Il Natale è la festa più triste dell'anno. Chi è solo si sente più solo, chi è povero diventa uno straccione. Parenti che mai ti sogneresti di incontrare, di qualcuno di loro ti eri persino scordato l'esistenza, si presentano alla tua porta. Persone che incroci solo in due occasioni, il 25 dicembre e ai funerali, ti sorridono e ti baciano ripetutamente. Perché? Le case si trasformano in discariche dopo l'apertura dei regali la cui confezione costa più del contenuto. E' sempre presente una zia o una nonna trasformata in addetto alla nettezza domestica con più sacchi della spazzatura, uno per la plastica, uno per il vetro, uno per la carta e i cartoni. Siamo tutti più buoni. I mendicanti, presenti ormai in forze nelle città, si distinguono a fatica dal comune passante. Ieri ho dato 20 centesimi a un impiegato di banca che frugava nel cestino e si è pure risentito. La bellezza del Natale è che copre tutto, come la neve, come Berlusconi. Ti dimentichi di essere precario, disoccupato, cassintegrato e Marchionne ti sembra uno dei tre Re Magi con la mirra svizzera. Il Made in China è travolgente, è il trionfo del "Merry China Christmas", ogni oggetto sotto l'albero viene dal Lontano Oriente, ma prodotto però da aziende italiane. Esportiamo capitali per importare giocattoli. E' la globalizzazione del Bambin Gesù. Immensi pini vengono innalzati nella piazza del Duomo di Milano e nella Città del Vaticano, tagliati alle radici, immolati, addobbati con festoni e lucine per feste ecosostenibili. Però Natale è sempre Natale e a qualcuno più che ad altri voglio fare quest'anno i miei auguri: ai papà. Ai padri che hanno paura di non farcela a dare una vita dignitosa ai loro bimbi, che vedono con gli occhi incollati alla vetrina di un negozio di giocattoli e si sentono delle nullità perché non possono permettersi un regalo. Ai papà soli, perché separati, il cui Natale è contenuto in una telefonata: "Ciao papà! Ora devo andare...". A quelli che non si arrenderanno mai per i figli e accetteranno qualunque attività, qualunque umiliazione per loro. Quanti sono questi eroi moderni che lavorano sottopagati, che accettano lavori a rischio e qualche volta muoiono per portare a casa uno stipendio? Che abbassano la testa e rinunciano a ogni orgoglio? Loro sono i veri Babbi Natale anche se il sacco è qualche volta vuoto. La luce che hanno negli occhi quando ti guardano, e penso anche a mio padre, è un regalo che non troverai più quando la perderai." Buon Natale da Beppe Grillo

Il talento è benaugurale: auguri a tutti!

LA PRIMA ALLEANZA E’ CON LA REALTA’

di Nichi Vendola

I senatori di questa ormai scarnificata maggioranza hanno fretta, tanto da incorrere in qualche goffo e grottesco incidente parlamentare. Vogliono approvare la controriforma dell’università subito, senza rischiare ripensamenti, senza dovere fare ancora i conti con le prime vittime della loro riforma, gli studenti.
Vogliono calare il prima possibile l’ultima saracinesca su quei ragazzi, per potersi gustare il cenone avendoli chiusi in una cantina buia e senza più nemmeno una finestrella aperta sul futuro. Evocano il terrorismo perché hanno terrore di una generazione che rappresenta il corto-circuito della propria feroce politica. Sono l’icona, ritoccata dal chirurgo plastico, di un potere che uccide il futuro. Evocano atmosfere classiche, il bel tempo andato dove l’Ordine costituito non conosceva le perturbazioni della piazza: i figli della lupa e la Gelmini ci accompagnano sulle vette della sapienza e della modernità.
Gli arresti preventivi non devono stupire più di tanto. Hanno già preventivamente arrestato questa generazione: chiusa nella gabbia del grande fratello e della grande precarietà. Ricordo sommessamente che “la meglio gioventù” non è quella di chi si subordina al cattivo buonsenso, ma quella che si ribella, che contesta le gerarchie sociali, che scruta orizzonti inediti, che intende auto-educarsi alla cooperazione e non auto-castrarsi nella rete vischiosa della competizione totale. Vogliono apparati formativi che addestrino all’obbedienza e alla parcellizazione del lavoro, che educhino alla paura e alla flessibilità, che ci abituino ad essere funzioni del mercato piuttosto che attori della società. Appunto, vogliono che la società scivoli nella forma del mercato, fino a che il cittadino non si identifica interamente nella dimensione del cliente.
Anche l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. ha fretta. E’ impaziente di stringere intorno al collo dei lavoratori italiani il cappio che completerà la loro trasformazione in merce seriale, privati anche solo della memoria di quelli che un tempo erano i loro diritti. Si tratta di un finale di partita drammatico. L’alibi della crisi e della globalizzazione per capovolgere il secolo che ha fatto del lavoro la pietra angolare dell’architettura democratica. Il lavoro smette di essere un fatto sociale, un misuratore di civiltà, una dimensione collettiva e regredisce a condizione individuale, quasi biologica: in un corpo a corpo sempre più violento e pre-moderno tra la solitudine del singolo lavoratore/lavoratrice e l’impresa a rete transnazionale.
Il governo e l’azienda, Tremonti e Marchionne, marciano allo stesso passo veloce. Hanno in mente un progetto di società comune e omogeneo. Con un gusto orwelliano del paradosso sinistro, definiscono l’edificazione di un nuovo paradigma neo-servile come condizione esistenziale permanente di “libertà”. Ci dicono che la libertà sarebbe inibita dalla democrazia. Anche perché l’unica libertà che hanno in mente allude all’esercizio dell’onnipotenza del maschile: potremmo dire che si tratta di una libertà di stupro della forza produttiva e di quella riproduttiva. La violenza contro i corpi sociali e contro i corpi individuali è consustanziale alla modernizzazione dei tecnocrati e dei custodi della grande frode fiscale dominante.
Il berlusconismo, inteso come un sistema complesso di cultura e di politica, merita una lotta capace di intelligenza e di fiato lungo: le contumelie contro il premier rischiano di deviare l’attenzione dagli ingredienti di un ciclo storico che ha segnato l’intero Paese e tutta la politica, anche la nostra. Liberarsi di Berlusconi per tenersi il berlusconismo non è una grande vittoria. Molto aldilà delle malefatte di un singolo leader e imprenditore, c’è un’intera epopea di idee e di mutamenti da radiografare, c’è davvero “l’autobiografia di una nazione” con cui fare i conti. Dovremmo saperci muovere all’altezza di questa sfida, senza perderci nei composti fumosi del “piccolo chimico” parlamentare, senza baloccarci ulteriormente con un pallottoliere i cui conti astratti non corrispondo mai a quelli reali. Dobbiamo restituire alla parola “libertà” il suo significato profondo, che oggi è prima di tutto libertà dalle tre P della destra: paura, precarietà, povertà. Qui c’è la traccia di un programma di alternativa, con questa spinta ideale può rinascere la sinistra e insieme può vincere l’Italia migliore.
Finisce il 2010 così, con vere scene di caccia ai diritti sociali e ai diritti di libertà: prede prelibate di un’attività venatoria che appare indispensabile per contenere l’eruzione del debito pubblico e per rovesciare il Novecento. Così la questione sociale torna ad avere un nome antico, come ci racconta nei suoi bellissimi e dolorosi saggi Marco Revelli: povertà. In un’Europa che ha imboccato la strada del proprio suicidio: fuoriuscire dal welfare, ridurre la complessità sociale a capitolo di ordine pubblico, affidare alle polizie la gestione della repressione dei poveri e della vigilanza sulle libertà esuberanti. La povertà dilagante in una Italia che Berlusconi narra come Paese di benestanti, laddove un esiguo 10% di popolazione è padrone della metà della ricchezza nazionale. La povertà estrema di quella metà esatta delle famiglie italiane che devono sopravvivere con solo il 10% della ricchezza complessiva. Ma anche la povertà dei sogni, soffocati dall’angustia di quelle gabbie in cui il governo sta rinchiudendo il futuro, la povertà di un lavoro immiserito perché spogliato della sua dignità e irriso dai modelli culturali e comportamentali dominanti.
Hanno ragione quei dirigenti del Pd che insistono sulla necessità delle alleanze, ma hanno torto quando le cercano negli abracadabra di Palazzo, nelle intenzioni tattiche che sulla carta dovrebbero regalarci un voto in più dei rivali, e che poi si rivelano sempre sbagliare o fallimentari: perché la realtà, la società italiana, il mondo in cui viviamo non si fa ridurre a una astratta somma algebrica. Se per noi la politica non diventa un’idea forte di Paese, e non si declina come speranza popolare e passione giovanile, continueremo a dare risposte sbagliate. Perché non avremo saputo ascoltare le domande di chi ci chiede di non aver paura. Di chi su una gru o su una terrazza cerca disperatamente un orizzonte nuovo. Di chi prova a riconnettere, sul terreno della politica, le parole ferite: lavoro, sapere, libertà, perché la politica torni ad essere il vocabolario del cambiamento e non il chiacchiericcio di un ceto separato.
Nichi Vendola

Pubblicato su il manifesto

mercoledì 15 dicembre 2010

Una grande Barbara Spinelli



Il profeta delle illusioni

di BARBARA SPINELLI

C'E' CHI DIRA' che l'iniziativa di sfiduciare Berlusconi era votata a fallire: non solo formalmente ma nella sostanza. Perché non esisteva una maggioranza alternativa, perché né Fini né Casini hanno avuto la prudenza di perseguire un obiettivo limpido, e hanno tremato davanti a una parola: ribaltone. Parola che solo per la propaganda berlusconiana è un peccato che grida vendetta al cospetto della Costituzione. Hanno interiorizzato l'accusa di tradimento, e non se la sono sentita di dar vita, guardando lontano, a un'alleanza parlamentare diversa. Hanno ignorato l'articolo 67 della Costituzione, che pure parla chiaro: a partire dal momento in cui è eletto, ogni deputato è libero da vincoli di mandato e rappresenta l'insieme degli italiani. Non manca chi già celebra i funerali per Fini, convinto che la sua scommessa sia naufragata e che al dissidente non resti che rincantucciarsi e pentirsi.

Per chi vede le cose in questo modo Berlusconi ha certo vinto, anche se per 3 voti alla Camera e spettacolarmente indebolito. Il Premier ha avuto acume, nel comprendere che la sfiducia era una distruzione mal cucita, un tumulto più che una rivoluzione, simile al tumulto scoppiato ieri nelle strade di Roma. Neppure lontanamente gli oppositori si sono avvicinati alla sfiducia costruttiva della Costituzione tedesca, che impone a chi abbatte il Premier di presentarne subito un altro.

A ciò si aggiunga la disinvoltura con cui il capo del governo ha infranto l'etica pubblica, esasperando lo sporco spettacolo del mercato dei voti. Il mese in più concesso da Napolitano, lui l'ha usato ricorrendo a compravendite che prefigurano reati, mentre le opposizioni l'hanno sprecato senza neanche denunciare i reati (se si esclude Di Pietro). Eugenio Scalfari ha dovuto spiegare con laconica precisione, domenica, quel che dovrebbe esser ovvio e non lo è: non è la stessa cosa cambiar campo per convinzione o opportunismo, e cambiarlo perché ti assicurano stipendi fasulli, mutui pagati, poltrone.

Ma forse le cose non stanno così, e la vittoria del Cavaliere è in larga misura apparente. Non solo ha una maggioranza esile, ma è ora alle prese con due partiti di destra (Udc e Fli) che ufficialmente militano nell'opposizione. Il colpo finale è mancato ma la crisi continua, come un torrente che ogni tanto s'insabbia ma non cessa di scorrere. Quel che c'è, dietro l'apparenza, è la difficile ma visibile caduta del berlusconismo: caduta gestita da uomini che nel '94 lo magnificarono, lo legittimarono. È un Termidoro, attuato come nella Francia rivoluzionaria quando furono i vecchi amici di Robespierre a preparare il parricidio. Non solo le rivoluzioni terminano spesso così ma anche i regimi autoritari: in Italia, la fine di Mussolini fu decretata prima da Dino Grandi, gerarca fascista, poi dal maresciallo Badoglio, che il 25 luglio 1943 fu incaricato dal re di formare un governo tecnico pur essendo stato membro del partito fascista, responsabile dell'uso di gas nella guerra d'Etiopia, firmatario del Manifesto della Razza nel '38.

Un'uscita dal berlusconismo organizzata dal centro-destra non è necessariamente una maledizione, e comunque non è il tracollo di Fini. Domenica il presidente della Camera ha detto a Lucia Annunziata che dopo il voto di fiducia passerà all'opposizione: se le parole non sono vento, la sua battaglia non è finita. Sta per cominciare, per lui e per chiunque a destra voglia emanciparsi dall'anomalia di un boss televisivo divenuto boss politico, ancor oggi sospettato di oscuri investimenti in paradisi fiscali delle Antille. Il successo non è garantito e se si andrà alle elezioni, Berlusconi può perfino arrestare il proprio declino e candidarsi al Colle.

Non è garantita neppure la condotta del Vaticano, che ha pesato non poco in questi giorni, facendo capire che la sua preferenza va a un patto Berlusconi-Casini che isoli Fini, ritenuto troppo laico. A Berlusconi, che manipola i timori della Chiesa e promette addirittura di creare un Partito popolare italiano, Casini ha risposto seccamente, alla Camera: "La Chiesa si serve per convinzione, non per usi strumentali".

Resta che il futuro di una destra civile, laica o confessionale, si sta preparando ora.

È il motivo per cui non è malsano che la battaglia avvenga in un primo tempo dentro la destra. Sono evitati anni di inciuci, che rischiano di logorare la sinistra e non ricostruirebbero l'Italia, la legalità, le istituzioni. Il Pd sarebbe polverizzato, se la successione di Berlusconi fosse finta. Un governo stile Comitato di liberazione nazionale (Cln) sarebbe stato l'ideale, ma tutti avrebbero dovuto interiorizzarlo e l'interiorizzazione non c'è stata. Anche tra il '43 e il '44 fu lento il cammino che dai due governi Badoglio condusse prima al riconoscimento del Cln, poi al governo Bonomi, poi nel '46 all'elezione dell'assemblea che avrebbe scritto la Costituzione.

Oggi non abbiamo alle spalle una guerra perduta, e questo complica le cose. Abbiamo di fronte una guerra d'altro genere - il rischio di uno Stato in bancarotta - e ne capiremo i pericoli solo se ci cadrà addosso. L'impreparazione del governo a un crollo economico e a pesanti misure di rigore diverrebbe palese. Anche la natura dei due regimi è diversa: esplicitamente dittatoriale quello di Mussolini, più insidiosamente autoritario quello di Berlusconi. Il suo potere d'insidia non è diminuito, soprattutto quando nuota nel mare delle campagne elettorali o quando mina le istituzioni. Subito dopo la fiducia, ieri, ha anticipato un giudizio di Napolitano ("Il Quirinale vuole un governo solido") come se al Colle ci fosse già lui e non chi parla per conto proprio.

L'opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale. Anche se incerte, le due destre d'opposizione sanno che senza la sinistra non saranno in grado di compiere svolte cruciali. Un Termidoro fatto a destra è un vantaggio in ogni circostanza. Se il governo dovesse estendersi a Casini e Fini e riporterà l'equilibrio istituzionale che essi chiedono, la sinistra potrà dire di aver partecipato, con la sua pressione, alla restaurazione della legalità repubblicana. Il giorno del voto, potrà ricordare di aver agito non per ottenere poltrone, ma nell'interesse del Paese. Se la destra antiberlusconiana non si emanciperà, se inghiottirà nuove leggi ad personam, la sinistra potrà dire di aver avuto, sin dall'inizio, ragione. Con la sua costanza, avrà contribuito alla fine al berlusconismo. Potrà influenzare anche la natura, più o meno laica, della destra futura. Potrà prendere le nuove destre d'opposizione alla lettera ed esigere riforme della Rai, pluralismo dell'informazione, autonomia della magistratura, lotta all'evasione fiscale, leggi definitive sul conflitto d'interessi. Per questo il duello parlamentare di questi giorni è stato tutt'altro che ridicolo o provinciale.

I partiti di oggi non hanno la tenacia dei padri costituenti: proprio perché il passaggio è meno epocale, i compiti sono più ardui. Ma non sono diversi, se si pensa allo stato di rovina delle istituzioni. L'unico pericolo è cadere nello scoramento. È farsi ammaliare ancora una volta dal pernicioso pensiero positivo di Berlusconi. Quando le civiltà si cullano in simili illusioni ottimistiche la loro fine è prossima. Lo sapeva Machiavelli, quando scriveva che con i tiranni occorre scegliere: bisogna "o vezzeggiarli o spegnerli; perché si vendicano delle leggieri offese, ma delle gravi non possono". Lo sapeva Isaia, quando diceva dei figli bugiardi che si cullano nell'ozio: "Sono pronti a dire ai veggenti: 'Non abbiate visionì e ai profeti: 'Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni'".

Il profeta d'illusioni ha vinto solo un turno, nella storia che stiamo vivendo.

martedì 14 dicembre 2010

Il graffio di Beppe Grillo



Berlusconi ha vinto, Berlusconi ha perso.


1867,398 miliardi di euro è il nuovo record del debito pubblico. In ottobre ci siamo divorati 23 miliardi, a settembre il debito era di 1844 miliardi. Nello stesso giorno del record che ci trascina verso l'abisso economico, il 14 dicembre 2010, alla Camera dei deputati Berlusconi ha vinto per 314 a 311.
Si è svolto nella sala di velluti rossi un confronto osceno di compari che sentono l'odore della rivoluzione nelle strade e cercano di salvarsi con un doppio carpiato come Fini, rinnegando 15 anni di inciuci come Bersani e Casini. Nell'aula ridotta a un palcoscenico di mestieranti con battute da avanspettacolo e applausi improvvisi che scacciavano la paura del futuro (come quelli alla bara portata a braccia quando esce dalla chiesa) ci sarebbe voluta la follia di un Lombroso per interpretare volti, smorfie, ghigni, gesti. Per illustrare una nuova antropologia: quella della merda. In un Parlamento di venduti non è possibile parlare di voti comprati, come non è possibile trovare vergini in un lupanare. La recita dei deputati ha avuto ancora una volta la sua rappresentazione. Attori con stipendi stellari, macchine blu, finanziamenti (furti) elettorali da un miliardo di euro bocciati da un referendum, giornalisti al loro servizio pagati con una mancia di 329 milioni mentre il Paese va a picco. Guardateli, non vi fanno schifo?
La Camera dall'alto sembrava questa mattina un ritrovo di vecchi compari, Berlusconi che accarezza il collo di Casini, il Bocchino tradito, il Fini paralizzato da una votazione che lo manda in pensione dopo 40 anni di carriera politica in cui non ha visto nulla, sentito nulla, detto nulla prima di uscire dal sarcofago, la "vajassa" di Fassino. Le labbra della Mussolini e quelle della Carfagna, gli occhiali da sole di Frattini. Le donne incinte, tra cui l'avvocatessa del prescritto per mafia Andreotti in carrozzella. La corte dei miracoli aveva più dignità, un circo ha più serietà, un bordello più dignità.
Nel 2011 la crisi economica spazzerà via questa umanità ridente che si è appropriata dello Stato e dei media. Straccioni sociali che hanno avuto nella politica l'unica via per il successo, per sentirsi importanti, indispensabili, "onorevoli". Io non salvo nessuno e auguro a tutti di ritirarsi per tempo, prima che lo faccia la Storia che è, come si sa, imprevedibile e feroce.


Beppe Grillo

Fiducia per 3 voti

lunedì 6 dicembre 2010

Visibilità e potere

Il coniglio invisibile

di Beppe Grillo

La visibilità è una droga, un virus che ti fonde il cervello e ti trasforma in un politico, in un maiale che ripete lo stesso "oink" sorridente alle telecamere, in una velina, in un qualunque cialtrone che venderebbe sua nonna a un mercante di organi usati per un'apparizione televisiva, un titolo di giornale, un'intervista. Pochi ragazzi vorrebbero diventare l'uomo invisibile, molti vorrebbero essere Corona. La visibilità ti rende pazzo, folle, è simile all'eroina, provoca dipendenza e credi veramente di essere IMPORTANTE per le quattro minchiate che dici (sempre le stesse), per una fotografia, per il tuo ultimo articolo in cui parli di un articolo scritto da un altro. La visibilità rende tutti novelli Napoleone con il cappello in testa e la mano sul petto. L'Italia è un manicomio a cielo aperto, un grande cortile mediatico dove, tra i platani, i napoleoni passeggiano impettiti e sospettosi uno dell'altro: "Avrà forse più popolarità di me?". Chi non è mai stato esposto ai raggi gamma della visibilità può rimanere folgorato, un po' come dopo la prima scopata, e non riprendersi più. Il suo ego cresce allora con il crescere della visibilità ed è spacciato. Può assurgere (virtualmente) al rango di grande statista, eccelso giornalista, opinion leader e di esserne convinto. Diventa altezzoso, distante, in altri termini, un perfetto minchione inconsapevole.
Il potere e la visibilità non sono compatibili. Non lo sono mai stati. Cuccia e Gelli hanno fatto quello che hanno voluto del nostro Paese in silenzio, indifferenti e lontani dalle luci della ribalta. Berlusconi l'uomo più visibile della Storia italiana è sempre dipeso da terzi, lui è il burattino e Dell'Utri il primo puparo. La visibilità è anche questo: la trasformazione di una persona normale in un fantoccio manovrato da altri che non sa di esserlo perché, se lo sapesse, cesserebbe di esistere. Il totem della visibilità è reso possibile da un popolo di guardoni. Senza di loro chi potrebbe ambire alla visibilità? Chi guarderebbe gli esibizionisti del nulla? I guardoni a loro volta vogliono un quarto d'ora di celebrità e la storia va avanti così all'infinito.
Cosa siamo? Un Paese di cartone che vive di visibilità con cui sostituisce e surroga la realtà che preferisce evitare? Un Grande Fratello Nazionale? In Italia per rendere schiavo qualcuno è sufficiente promettergli visibilità e togliergliela per trasformarlo nel tuo peggior nemico. "Chi d'altrui si veste presto si spoglia", ma chi è vestito di niente come fa a spogliarsi?

venerdì 3 dicembre 2010

lunedì 22 novembre 2010

Non siamo giapponesi

Giappone:Ministro si dimette per aver scherzato sul suo incarico
Tokyo, 22 nov. (Ap) -


Il ministro della Giustizia giapponese Minoru Yanagida si è dimesso per aver scherzato sulla facilità del suo incarico di governo. Il 14 novembre scorso, Yanagida aveva dichiarato che come ministro di giustizia doveva solo ricordare due frasi per rispondere alle domande dei parlamentari: "Non commento su casi specifici" e "Stiamo affrontando la questione in modo appropriato, in base alla legge e ai fatti". La gaffe ha scatenato la dura reazione dei parlamentari, che hanno subito chiesto le sue dimissioni. "E' colpa mia, ho rilasciato queste dichiarazioni imprudenti e scherzose, e me ne rammarico profondamente", ha detto Yanagida nella conferenza stampa in cui ha annunciato le sue dimissioni. Il ministro ha fatto sapere di aver deciso di lasciare l'incarico dopo aver incontrato il premier Naoto Kan, preoccupato per il delicato passaggio parlamentare del pacchetto di stimoli economici varato dal governo, da 61 miliardi di dollari. L'opposizione aveva infatti minacciato di boicottare i lavori. L'addio di Yanagida rischia di erodere ulteriormente il consenso al governo guidato da Kan, già sotto accusa per la sua presunta debolezza nelle recenti controversie diplomatiche con Cina e Russia.

domenica 21 novembre 2010

sabato 20 novembre 2010

Mafia S.p.A.: parla il giudice Imposimato




Lo Stato è "Cosa nostra"

pubblicato da Ferdinando Imposimato su www.lavocedellevoci.it

Molti anni fa una giornalista americana, Judith Harris, del Reader's Digest, mi chiese quale fosse la differenza tra Brigate rosse e mafia. Senza pensarci due volte risposi: le Br sono contro lo Stato, la mafia e' con lo Stato. E spiegai che la capacita' della mafia e' di intessere legami stretti con le istituzioni - politica, magistratura, servizi segreti - a tutti i livelli. Con le buone o le cattive maniere. Chi resiste, come Boris Giuliano, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, viene eliminato, senza pieta'. Collante tra mafia e Stato e' da sempre la massoneria. Questo sistema di legami, che risale alla strage di Portella delle Ginestre, non si e' mai interrotto nel corso degli anni, anzi si e' rafforzato ed e' diventato piu' sofisticato. Ma molti hanno fatto finta che non esistesse. Complice la stampa manovrata da potenti lobbies economiche.

Da qualche tempo e' affiorato, nelle indagini sulle stragi mafiose del 1992, il tema della possibile trattativa avviata da Cosa Nostra tra lo stato e la mafia dopo la strage di Capaci, per indurre le istituzioni ad accettare le richieste mafiose: questo sarebbe il movente della uccisione di Borsellino. Non ho dubbi che le cose siano andate proprio in questo modo. Ma per capire quello che si e' verificato ai primi anni 90, occorre uno sguardo verso il passato. Partendo dall'assassinio di Aldo Moro e da cio' che lo precedette e lo segui'.

Con la riforma del 1977, che istitui' il Sismi ed il Sisde, i primi atti del presidente del consiglio Giulio Andreotti e del ministro dell'interno Francesco Cossiga furono la nomina ai vertici dei servizi segreti di Giuseppe Santovito e Giulio Grassini, due generali affiliati alla P2 di Licio Gelli: che gia' allora era legato a Toto' Riina, il capo di Cosa Nostra. Furono diversi mafiosi a rivelare questo collegamento tra Gelli e Riina.

I servizi segreti di quel tempo non persero tempo: strinsero patti scellerati con Pippo Calo' e la banda della Magliana, contro la quale, senza rendermene conto, fin dal 1975 avevo cominciato ad indagare, assieme al pm Vittorio Occorsio: con lui trattavo alcuni processi per sequestri di persona, tra cui quelli di Amedeo Ortolani, figlio di Umberto, uno dei capi della P2, di Gianni Bulgari e di Angelina Ziaco; sequestri che vedevano coinvolti esponenti della Magliana, della P2 e del terrorismo nero. Tra gli affiliati alla loggia di Gelli c'era un noto avvocato penalista, riciclatore del denaro dei sequestri, che poi venne stranamente assolto dopo che Occorsio aveva dato parere contrario alla sua scarcerazione. Di quella banda facevano parte uomini come Danilo Abbruciati, legati alla mafia ed ai servizi segreti. Occorsio, che aveva scoperto l'intreccio tra la strage di Piazza Fontana, l'eversione nera e la massoneria, venne assassinato l'11 luglio 1976. Per l'attentato fu condannato Pier Luigi Concutelli, che risulto' iscritto alla loggia Camea di Palermo, perquisita da Falcone.

La mia condanna a morte fu pronunciata, probabilmente dalla stessa associazione massonica, subito dopo che fui incaricato di istruire il caso Moro, in cui apparvero uomini della mafia guidati da Calo', i capi dei servizi manovrati dalla banda della Magliana e politici amici di Gelli. A raccontarlo al giudice Otello Lupacchini fu il mafioso Antonio Mancini; costui disse che verso la fine del 1979 o i primi del 1980, avendo fruito di una licenza dalla Casa di lavoro di Soriano del Cimino, non vi aveva fatto rientro; in occasione di un incontro conviviale in un ristorante di Trastevere, l'Antica Pesa o Checco il carrettiere, cui aveva partecipato assieme ad Abbruciati, a Edoardo Toscano, ai fratelli Pellegrinetti, a Maurizio Andreucci e a Claudio Vannicola, mentre si discuteva del controllo del territorio del Tufello per il traffico di stupefacenti, si parlo' <>. <>. Proseguiva Mancini: <>.

In seguito, durante le indagini su Andreotti per l'omicidio di Mino Pecorelli, il procuratore della Repubblica di Perugia accerto' che alla riunione, nel corso della quale si parlo' dell'attentato alla mia persona, avevano partecipato due uomini dei servizi segreti militari italiani di cui Mancini fece i nomi: essi furono incriminati e rinviati a giudizio per favoreggiamento. In seguito i due mi avvicinarono dicendomi che loro <> e che <>. Ovviamente non fui in grado di stabilire chi fossero i due agenti dei servizi. Restava il fatto che c'era stato un summit tra agenti segreti e mafiosi per decidere di eliminare, per ordine della massoneria, un giudice che istruiva due processi "scottanti": quello sulla banda della Magliana e il processo per la strage di via Fani, il sequestro e l'assassinio di Moro. Ne' io potevo occuparmi di una vicenda che mi riguardava in prima persona come obiettivo da colpire.

Ma nessuno - tranne Falcone, che seppe, mi sembra da Antonino Giuffre', che Riina aveva avallato l'assassinio di mio fratello - si preoccupo' di stabilire chi dei servizi avesse partecipato al summit in cui era stato annunciato l'imminente assassinio del giudice che in quel momento si stava occupando del caso Moro. Processo in cui, trenta anni dopo, venne alla luce il ruolo determinante della massoneria, della mafia e della politica.

In quel periodo non mi occupavo solo di sequestri di persona, ma anche del falso sequestro di Michele Sindona, altro uomo della P2, e dell'assassinio di Vittorio Bachelet, dei giudici Girolamo Tartaglione e Riccardo Palma e, naturalmente, del caso Moro; ed avrei accertato, dopo anni, che della gestione del sequestro Moro si erano occupati, nei 55 giorni della prigionia, i vertici dei servizi segreti affiliati alla P2 e legati alla banda della Magliana. Ma tutto questo all'epoca non lo sapevo: la scoperta delle liste di Gelli avvenne nella primavera del 1981. Cio' che e' certo e' che il capo del Sismi, Santovito, piduista, era nelle mani di uomini della Magliana, articolazione della mafia a Roma. E dunque il racconto di Mancini era vero in tutto e per tutto. Qualcuno voleva evitare che la mia istruttoria su Moro e quella sulla banda della Magliana mi portassero a scoprire il complotto politico-massonico che, con la strumentalizzazione di sanguinari ed ottusi brigatisti, aveva decretato l'assassinio di Moro per fini che nulla avevano a che vedere con la linea della fermezza.

Il disegno di costringermi a lasciare il processo sulla Magliana e quello sulla strage di via Fani riusci', ma non secondo il piano dei congiurati. La mia uccisione non ebbe luogo per le precauzioni che riuscii a mettere in atto, ma nel 1983, nel pieno delle indagini su Moro, venne ucciso mio fratello Franco da uomini della mafia manovrati da Calo': gli stessi che avevano eseguito la vergognosa messinscena del 18 aprile 1978, ossia la morte di Moro nel lago della Duchessa. Era evidente come il Sismi, che si era servito del mafioso Antonio Chichiarelli per preparare il falso comunicato, erano tutt'uno con la mafia, della quale si servivano per compiere operazioni sporche di ogni genere, compresa quella del lago della Duchessa, che provoco' una reazione violenta delle Br contro Moro, divenuto "pericoloso".

A distanza di 30 anni dal processo Moro e di 26 anni dall'assassinio di mio fratello Franco - assassinio che mi costrinse a lasciare la magistratura e tutte le mie inchieste - ho avuto la possibilita' di scoprire quali fossero le ragioni del progetto criminale contro di me: impedirmi di conoscere il complotto contro Moro. Non era una trattativa tra Stato e mafia, ma un vero e proprio accordo tra servizi, mafia e massoneria, che, con la benedizione dei politici, sanci' prima la eliminazione di Moro e poi la mia esecuzione: la quale falli', ma si ritorse contro mio fratello Franco, il quale prima di morire, mi chiese di non abbandonare le indagini. Il risultato fu che dopo quel barbaro assassinio fui costretto ad abbandonare tutte le inchieste sulla mafia e sui legami tra mafia, massoneria e stragismo. E nel 1986 dovetti rifugiarmi alle Nazioni Unite.

Durante le indagini che io conducevo a Roma sul falso sequestro Sindona, Falcone a Palermo per associazione mafiosa, e Turone e Colombo a Milano per l'omicidio di Giorgio Ambrosoli, venne fuori a Castiglion Fibocchi, nella villa di Gelli, l'elenco degli iscritti alla P2. Enorme fu la sorpresa degli inquirenti: comprendeva i capi dei servizi segreti italiani e del Cesis, l'organismo che coordinava i servizi, e di quelli che facevano parte del Comitato di crisi del Viminale. Quel comitato che era stato istituito da Cossiga con l'avallo di Andreotti. Dopo la scoperta, venne decisa dal ministro Virginio Rognoni l'epurazione degli uomini di Gelli dai servizi e dal ministero dell'interno; ma di fatto non fu cosi'. La Loggia del Venerabile mantenne il controllo sui servizi segreti, come ebbe modo di accertare la Commissione parlamentare sulla P2; e le deviazioni continuarono, con la complicita' dei vari governi che si susseguirono. La corruzione dei politici di governo, le intercettazioni abusive su avversari politici, giornalisti e magistrati, i ricatti fondati su notizie personali sono stati una costante della vita dei servizi (la vicenda Pollari-Pompa docet) senza che mai i responsabili abbiano pagato per le loro colpe.

Oggi e' riesplosa sulla stampa, per pochi giorni, la storia legata alla morte di Borsellino, subito silenziata dai mass media. La magistratura di Caltanissetta ha riaperto un vecchio processo che collega la sua tragica morte a moventi inconfessabili legati a menti raffinate delle stesse istituzioni. L'ipotesi investigativa prospetta la possibilita' che Borsellino sia rimasto schiacciato nell'ingranaggio micidiale messo in moto da Cosa Nostra e da una parte dello Stato in sintonia con la mafia, allo scopo di trattare la fine della violenta stagione stragista in cambio di concessioni ai mafiosi responsabili di crimini efferati come la strage di Capaci. Si trattava di una vergogna, un'offesa alla memoria di Falcone ed ai cinque poliziotti coraggiosi morti per proteggerlo. Salvatore Borsellino dice che le prove di questa ricostruzione erano nell'agenda rossa sparita del fratello Paolo, il quale, informato di questa infame proposta, probabilmente ha reagito con sdegno e rabbia: sapeva che lo Stato voleva scendere a patti con gli assassini. Di qui la decisione di accelerare la sua fine.

Ricordo che in quel tragico luglio del 1992, poco prima della strage di via D'Amelio, ero alla Camera dei deputati dove le forze contigue alla mafia erano ancora prevalenti e rifiutavano di approvare la norma voluta da Falcone, da me e da molti altri magistrati antimafia: la legge sui pentiti e il 41 bis. Nonostante la morte di Falcone, non c'era la maggioranza. Fu necessaria la morte di Borsellino per il suo varo. E oggi la si vuole abrogare.

L'aspetto piu' inquietante riguarda il ruolo di un ufficio situato a Palermo nei locali del Castello Utveggio, riconducibile ad attivita' sotto copertura del Sisde, entrato nelle indagini per la stage di via D'Amelio dopo la rivelazione della sua esistenza avvenuta durante il processo di Caltanissetta ad opera di Gioacchino Genchi. Al numero di quell'ufficio dei servizi giunse la telefonata partita dal cellulare di Gaetano Scotto, uno degli esecutori materiali della strage di via D'Amelio. Mi pare ce ne sia abbastanza per ritenere certo il coinvolgimento di apparati dello Stato.

Mafia S.p.A.: il nano con le spalle al muro



Il premier sotto ricatto

di GIUSEPPE D'AVANZO, da Repubblica 20/11/2010

Inaspettatamente in un solo giorno, anzi in poche ore, emergono dal passato e dal presente le relazioni pericolose di Silvio Berlusconi con le mafie. La liaison allontana da lui anche la fedele e fidata Mara Carfagna. Annuncia altri sismi per il suo governo. Apre nuove crepe nella già compromessa affidabilità del capo del governo. Le cose, a quanto pare, vanno così.

Infuriati per la nomina a commissario per i rifiuti di Stefano Caldoro, governatore della Campania, decisa dal Consiglio dei ministri, due politici indagati per mafia Nicola Cosentino e Mario Landolfi si presentano a Palazzo Grazioli. Affrontano Silvio Berlusconi a brutto muso minacciandolo di non votare la fiducia se non avesse annullato il decreto legge che, assegnando alla Campania 150 milioni di euro, consente al governatore anche l'adozione di "misure che prevedono poteri sostitutivi" nei confronti degli enti inadempienti. Il capo di governo che, entro il 14 dicembre, ha bisogno di voti in Parlamento come dell'aria che respira li rassicura. Promette una rapida retromarcia. La notizia si diffonde e il ministro Mara Carfagna - molto si è data da fare per quel decreto legge che sottrae l'emergenza all'opacità dei potentati locali - annuncia che, dopo la fiducia, lascerà il governo e il partito del presidente.

Così dunque stanno le cose. La ricattabilità del premier è di assoluta evidenza. La sua debolezza politica - e ormai di leadership - lo espone a ogni pressione, alle più imbarazzanti coercizioni, a umilianti

inchini dinanzi a personaggi non solo discussi, ma decisamente pericolosi.

È imbarazzante l'imposizione che il capo del governo subisce da Nicola Cosentino, 51 anni, da Casal di Principe, salvato dall'arresto per mafia solo dal voto della maggioranza. L'uomo ha il controllo pieno di quattro delle cinque Province campane (Napoli, Caserta, Salerno, Avellino). Sono queste istituzioni che amministrano i flussi della spazzatura e governano le società di gestione che hanno sostituito i consorzi infiltrati da ogni genere di illegalità, malaffare, prepotenza criminale (il consorzio di Caserta è costato fino all'aprile scorso, 6,5 milioni di euro al mese). Tutta la parabola politica di Cosentino si può spiegare e raccontare dentro l'emergenza rifiuti. Quelle crisi - indotte e cicliche - hanno convogliato in quella disgraziata regione un fiume di denaro (dal 2001 al 2009 tre miliardi e 546 milioni di euro) e proprio nei consorzi - e oggi nelle società di gestione - la politica ha incontrato il potere mafioso e ha messo a punto la distribuzione di benefici, rendite, utili, organizzando un "sistema della catastrofe" che, da quella rovina, ha spremuto influenza, consenso e ricchezza. A farla da padrone la camorra, a cominciare dalla camorra dei Casalesi. Hanno guadagnato e guadagnano sull'affitto delle aree destinate a discarica e dei terreni dove vengono stoccate le ecoballe. Lucrano sul noleggio dei mezzi e soprattutto nei trasporti.

Nicola Cosentino rappresenta il punto di equilibrio - oscuro e ambiguissimo - di questo "sistema" che oggi appare sfidato, dentro il Popolo della Libertà, dall'asse Caldoro-Carfagna e, dentro la maggioranza, da Futuro e Libertà, in Campania diretto da Italo Bocchino. Il decreto legge che assegna al governatore poteri commissariali può essere considerato il successo di questo schieramento. Il passo indietro di Berlusconi ripristina ora le gerarchie di un "sistema" che ha in Cosentino il leader e nel potere intimidatorio della camorra la sua forza. Si sapeva che l'uomo di Casale di Principe ha sempre avuto un'arma da puntare alla tempia del governo. In qualsiasi momento poteva far saltare gli equilibri che hanno permesso a Berlusconi di rivendicare le capacità tecnocratiche di eliminare i rifiuti dalla Campania con un miracolo che ha liquidato quella disgrazia con una magia. L'illusionismo manipolatorio aveva in Cosentino il suo garante. Un garante di cui oggi Berlusconi non può liberarsi. Per due motivi: Cosentino gli farebbe mancare i suoi voti il 14 dicembre e, peggio, nella prossima e vicina campagna elettorale seppellirebbe l'immagine del Cavaliere sotto l'immondizia e i miasmi.

Come non può fare oggi a meno di Cosentino, il Cavaliere non ha potuto liberarsi in passato di quel Marcello Dell'Utri che, si legge nelle motivazioni della Corte d'Appello che lo ha condannato a sette anni di reclusione, fu "mediatore" e "specifico canale di collegamento" tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Dell'Utri, scrivono i giudici, è l'uomo che ha consentito ai mafiosi delle "famiglie" di Palermo di "agganciare" "una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico".

È questa allora la scena che abbiamo sotto gli occhi. Un capo del governo che, nella sua avventura imprenditoriale, è stato accompagnato - per lo meno fino al 1992 - dalla presenza degli uomini di Cosa Nostra e, oggi, per proteggere la maggioranza che sostiene il governo deve chinare il capo dinanzi alle pretese del politico considerato dalla magistratura il più compromesso con gli interessi dei Casalesi. È uno stato di dipendenza, di oscurità, di minorità politica che nessun arresto di latitante, confisca di bene miliardario, statistica e classifica di successi dello Stato potrà ribaltare. Le vittorie dello Stato contro le mafie non riescono a diventare il riscatto personale di Berlusconi - e della sua storia - da quei poteri criminali con cui egli si è intrattenuto negli anni della sua impresa economica e ancora oggi si deve tener vicino per sopravvivere nel suo crepuscolo politico.

Mafia S.p.A.: intervista a Saviano



Sì, la 'ndrangheta corteggia la lega. e investe in lombardia. ma c'è un fenomeno più inquietante di cui dovrebbe occupardi Maroni: le mafie puntano su un'italia divisa. Così Roberto Saviano risponde al ministro (...quello con la carta bollata sempre pronta in mano...)

La 'ndrangheta al Nord?


di Gianluca De Feo - l'Espresso

Certo, cerca di interloquire con la Lega, ma le inchieste mostrano come in tutte le Regioni si stia manifestando un fenomeno molto più inquietante. Quello sì che dovrebbe indignare il ministro dell'Interno: le mafie scommettono sul federalismo". Roberto Saviano non è per niente pentito del monologo di "Vieni via con me" che ha segnato il record di ascolti, anzi a sorprenderlo è la veemenza della reazione di Roberto Maroni: "Quello che ho detto è documentato. L'incontro tra il consigliere regionale leghista e gli uomini delle cosche è negli atti dei pm Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone. E ricordo al ministro che l'unico direttore di una Asl arrestato per 'ndrangheta è quello di Pavia, dove comune, provincia e regione sono amministrati anche dal suo partito: stiamo parlando di una Asl che gestisce strutture di eccellenza e fa girare 700 milioni di euro l'anno. E ricordo che l'ultimo sindaco arrestato in un procedimento per collusioni con le cosche calabresi è quello di Borgarello: un paese alle porte di Pavia, non una cittadina della Locride.

Il ministro Maroni sostiene che l'incontro tra il consigliere leghista e le persone poi arrestate per 'ndrangheta non ha nessuna rilevanza penale. E nel centrodestra c'è chi ritiene che accostare la Lega alle cosche su questa base equivalga a usare gli stessi metodi della macchina del fango che lei ha denunciato
.

La mia frase era chiara, chiunque può riascoltarla: "La 'ndrangheta al Nord, come al Sud, cerca il potere della politica e al Nord interloquisce con la Lega". Non si tratta di illazioni, ma di elementi concreti che emergono dalle indagini e che devono essere sottoposti all'attenzione dell'opinione pubblica: in Lombardia la Lega è forza di governo e oggi gli uomini delle cosche calabresi, attivi nella regione da decenni, puntano a investire i loro capitali nei cantieri dell'Expo 2015. È un'analisi della Superprocura Antimafia, lungamente discussa nella commissione parlamentare proprio perché per entrare negli appalti loro hanno bisogno della politica e soprattutto della politica che controlla la spesa sul territorio. Per questo tutta la criminalità organizzata guarda con favore a una riforma federalista del Paese: vogliono centri di costo alla loro portata.

Alle mafie piace il federalismo?

Piace un certa idea di federalismo, quella che potrebbe consegnargli gran parte del Sud. In passato Cosa nostra l'ha cavalcata per contrastare la prospettiva di un potere centrale troppo forte: meglio la secessione dell'isola che dovere fare i conti con uno Stato deciso a cancellare la mafia. E la stessa istanza è stata riproposta dall'ala dura dei corleonesi negli anni delle stragi, quando di fronte al crollo della prima Repubblica Gianfranco Miglio, il "padre nobile" della Lega, benediceva la nascita al Sud di tanti partitini autonomisti intrisi di massoneria e amici degli amici: sono fatti acclarati, non illazioni. Oggi la prospettiva è semplice: la mentalità delle mafie è essenzialmente predatoria, puntano a divorare le risorse ed è molto più facile farlo nelle capitali regionali che non a Roma: possono fare pesare il loro controllo del territorio, la loro violenza, i loro voti e i loro soldi. Per questo con il livello di infiltrazione che c'è nelle regioni del meridione, il federalismo potrebbe finire con l'essere un regalo e far diventare Campania, Calabria e Sicilia davvero "cose nostre", un nome che non è stato scelto a caso. Perché oggi la forza delle mafie non è più nella capacità di usare la violenza ma nella disponibilità quasi illimitata di capitali, affidati a facce pulite e capaci di condizionare la politica soprattutto a livello locale.

E questi capitali sembrano muoversi verso Nord. Una rotta indicata da oltre venti anni con gli investimenti in aziende venete, lombarde e piemontesi e la penetrazione nei cantieri di tutte le grandi opere: quelle di ieri e quelle di domani, come svelato nell'inchiesta de "L'espresso" citata durante la trasmissione. Non è un caso se il più importante pentito di 'ndrangheta operava a Milano, alternando attività manageriali a omicidi.

Quelli che vanno ad incontrare il consigliere leghista non indossano coppola e lupara: sono un imprenditore e un manager pubblico, che al telefono parlano come killer ed evocano "di far saltare con le bombe quelli che non vogliono capire" e si vantano "di essere primitivi, come in Calabria". Ma sono persone che sanno muoversi negli uffici del Pirellone.

Oggi le indagini sulla capacità dei clan di infiltrare le amministrazioni regionali del Sud mostrano situazioni raccapriccianti. Lei ha raccontato come i casalesi avessero interlocutori nella maggioranza di Bassolino. In Calabria è stato assassinato il vicepresidente Francesco Fortugno e come mandante del delitto è stato arrestato un altro consigliere regionale di centrosinistra. In Sicilia il governatore Totò Cuffaro si è dovuto dimettere per i processi di mafia e il suo successore Raffaele Lombardo, leader di un movimento autonomista che ricalca alcune delle istanze di Umberto Bossi, è sotto inchiesta. Questo dimostra che il Sud non è maturo per il federalismo?

Il federalismo, a partire da quello fiscale, potrebbe anche dimostrarsi un'occasione, un punto di partenza per una rinascita del Sud. Ma a due condizioni, e cito l'analisi del magistrato Raffaele Cantone: creare controlli rigorosi sulle uscite di denaro pubblico e fare una selezione sulla classe dirigente politica e burocratica. Le istituzioni regionali dovrebbero rispondere in prima persona del denaro, che oggi invece alimenta consorterie, sprechi e arricchisce le nuove mafie, che - come evidenziano le indagini condotte in Calabria, in Sicilia ma anche quelle sulle infiltrazioni dei clan a Milano - stanno spostando il cuore del loro business dai cantieri alla sanità. Oggi però il quadro generale è desolante: si amplificano le retate e i sequestri di beni, presentandoli come la panacea contro la criminalità organizzata mentre non c'è nessuna strategia per contrastare il dilagare di questa nuova imprenditoria mafiosa, che investe i suoi capitali soprattutto al Nord. Credo che questa dovrebbe essere la preoccupazione di Maroni, leader di un partito che fa del progetto federalista la sua ragione d'essere: creare un sistema di controlli che prevenga questa minaccia, emersa con chiarezza nelle inchieste dei magistrati e nelle analisi delle forze dell'ordine che rispondono al suo dicastero.

Lei però proprio nella prima puntata di "Vieni via con me" impugnando il tricolore nazionale ha duramente criticato le "balle che racconta la Lega quando chiama il suo centro di ricerche Carlo Cattaneo".

Quanto è lontano il federalismo di Cattaneo dagli slogan di Pontida? Cattaneo sognava un federalismo solidale, un federalismo che unisse l'Italia: non voleva una secessione che abbandonasse il Sud al suo destino. La sua visione e quella degli altri pensatori federalisti risorgimentali voleva fare delle diversità italiane una ricchezza: renderle cerniera tra Mediterraneo e Mitteleuropa. Come si fa a credere che spaccare il Paese serva a renderlo più forte? Un'ideologia del genere per me è miope e insostenibile, perché farà sì che a decidere il nostro futuro saranno altri. E se la Padania rischia di tornare ad essere la periferia di altre potenze, come lo erano il NordOvest sabaudo nei confronti della Francia e il Lombardo-Veneto dominato dall'Austria, invece il Mezzogiorno potrebbe precipitare nel baratro di un'economia in mano ai capitali di mafie che si trasformerebbero in potere legale. Un incubo, la tomba di un sogno di emancipazione e di giustizia nato centocinquanta anni fa con l'Unità d'Italia.

E a quel punto, per restare nel tema della trasmissione che lei ha creato assieme a Fabio Fazio, l'unica scelta sarebbe andarsene via?

Io non mi arrendo. Il risultato di pubblico di "Vieni via con me" mi ha stupito e convinto di quanto sia importante continuare su questa strada. La gente vuole sapere, è avida di informazione, domanda verità ma non trova risposte dalla televisione e si abbandona nella sfiducia che è l'elemento di cui si compone la palude in cui il Paese rischia di affondare: fango, solo fango, niente altro che fango.

(di Gianluca De Feo - l'Espresso)

giovedì 18 novembre 2010

Il papello

Update sulla finanza


"Grazie Zio Sam,hai salvato gli Usa"

Warren Buffett è uno dei finanzieri di maggior successo degli Usa, un vero guru del settore, simpatizzante di Obama. E' tempo di capire che è il momento della Cina come nuovo leader mondiale. Spero solo la smettano di mangiarsi i cani e di scuoiarli vivi.

Lettera aperta di Buffett al governo

di GLAUCO MAGGI, da La Stampa

NEW YORK - Caro zio Sam, grazie di cuore di aver salvato l’America. E, in particolare, grazie all’ex presidente George Bush. Firmato, il tuo nipote Warren Buffett. In una opinione apparsa sul New York Times di ieri, il finanziere più ricco e famoso degli Stati Uniti ha voluto rendere omaggio al governo di Washington, che intervenne provvidenzialmente due anni fa nel momento del panico. Buffett ha ricostruito le vicende dell’autunno 2008: «Fannie Mae e Freddie Mac, i pilastri che sostengono il nostro sistema di mutui, furono commissariate. Molte tra le nostre maggiori banche commerciali erano vacillanti. Uno dei giganti di Wall Street era fallito, altri tre erano sulla stessa strada e Aig, la più famosa assicurazione al mondo, era sulla soglia della morte».

C’era solo una forza che potesse contrastare la crisi, «e questa forza eri tu, zio Sam», scrive Buffett. «Sì, spesso sei stato impacciato, anche inetto... ma quando gli imprenditori e la gente in tutto il mondo correvano in cerca di liquidità, tu eri la sola controparte con le risorse in grado di prendere posizione. Quando la crisi esplose, sentivo che avresti capito il ruolo che dovevi giocare... ma tu non sei famoso per essere spedito... e io temevo che il muro delle sorprese ti avrebbe disorientato....».

La sfida era enorme e in molti pensavano che non eri all’altezza, continua Buffett. «Bene, zio Sam, ce l’hai fatta. Ci sarà chi malignerà su specifiche decisioni... ma tutto sommato le tue azioni furono efficaci in modo rimarchevole. Io avevo una postazione piuttosto buona mentre gli eventi si succedevano, e vorrei dare un riconoscimento ad alcuni nostri soldati. Nei giorni più cupi, Ben Bernanke (Fed), Hank Paulson (ministro del Tesoro), Tim Geithner (capo della Fed di New York), Sheila Bair (capo del fondo di garanzia delle banche Fdic), afferrarono la gravità della situazione e agirono con coraggio e prontezza». Poi l’affondo inatteso, il tributo a George Bush: «Sebbene non l’abbia mai votato gli do grande credito per aver fatto da leader, mentre il Congresso si metteva in posa e bisticciava».

Se Buffett, informale consigliere e simpatizzante di Obama, ha stupito per il riconoscimento a Bush, non meno sorprendente è stata l’uscita di un altro grosso calibro della finanza globale, George Soros. Celebre profugo dal mondo comunista, sostenitore per anni dei movimenti di liberazione nei paesi dell’Est Europa, e finanziatore delle campagne dei Democratici in America, compresa quella per Obama presidente, Soros ha tessuto ieri le lodi della Cina e sminuito gli Stati Uniti e il loro governo. «E’ veramente notevole il rapido cambio di potere e influenza dagli Usa alla Cina», ha detto paragonando la caduta dell’America a quella della Gran Bretagna dopo la seconda guerra mondiale. «Oggi la Cina non ha solo una economia più vigorosa, ma in verità un governo che funziona meglio di quello degli Stati Uniti. La Cina è cresciuta molto rapidamente badando ai propri interessi, e ora deve accettare la responsabilità per l’ordine nel mondo e anche per gli interessi degli altri popoli».

Lombroso ci aiuta nella decodifica

mercoledì 17 novembre 2010

La lucidità di Barbara Spinelli

L'italia del sottosuolo

di BARBARA SPINELLI, da Repubblica 17/11/2010


Sono settimane ormai che l'annuncio è nell'aria: il governo Berlusconi sta finendo, anzi è già finito. Il suo regno, la sua epoca, sono morti. È sempre lì sul palcoscenico, come nelle opere liriche dove le regine ci mettono un sacco di tempo a fare quel che cantano, ma il sipario dovrà pur cadere. Anche i giornali stranieri assistono al funerale, nei modi con cui da sempre osservano l'Italia: il feeling, scrive l'Economist, la sensazione, è che la commedia sia finita. Burlesquoni è un brutto scherzo di ieri.

In realtà c'è poco da ridere, e il ventennio che abbiamo alle spalle è infinitamente più serio. Non siamo all'epilogo dei Pagliacci, e non basta un feeling per spodestare chi è sul trono non grazie a sentimenti ma a una macchina di guerra ben oleata. Per uscire dalla storia lunga che abbiamo vissuto - non 16 anni, ma un quarto di secolo che ha visto poteri nati antipolitici assumere poi il comando - bisogna, di questo potere, averne capito la forza, la stoffa, gli ingredienti. Non è un clown che si congeda, né l'antropologia dell'uomo solitario aiuta a capire. I misteri di un'opera sono nell'opera, non nell'autore, Proust lo sapeva: "Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella società, nei nostri vizi". Sicché è l'opera che va guardata in faccia, per liberarsene senza rompersi ancora una volta le ossa.
Chi vagheggia governi tecnici o elezioni subito, a sinistra, parla di regime ma ne sottovaluta le risorse, la penetrazione dei cervelli.

Un regime fondato sull'antipolitica - o meglio sulla sostituzione della politica con poteri estranei o ostili alla politica, anche malavitosi - può esser superato solo da chi è stato detronizzato. Nessun tecnico potrà resuscitare le istituzioni offese. Può farlo solo la politica, e solo se essa si dà del tempo prima del voto. Capire il regime vuol dire liberare quello che esso ha calpestato, e quindi non solo mutare la legge elettorale. Non è quest'ultima a rendere anomala l'Italia: se così fosse, basterebbe un gesto breve, secco. Quel che l'ha resa anomala è l'ascesa irresistibile di un uomo che fa politica come magnate mediatico. Berlusconi ha conquistato e retto il potere non malgrado il conflitto d'interessi, ma grazie ad esso. Il conflitto non è sabbia ma olio del suo ingranaggio, droga del suo carisma. La porcata più vera, anche se tabuizzata, è qui. La privatizzazione della politica e dei suoi simboli (non si governa più a Palazzo Chigi ma nel privato di Palazzo Grazioli) è divenuta la caratteristica dell'Italia.

Proviamo allora a esaminare i passati decenni, oltre l'avventura iniziata nel '94. L'avventura è il risultato di un'opera vasta, finanziata torbidamente e cominciata con l'idea di una nuova pòlis, un'altra civiltà. Un progetto - è Confalonieri a dirlo - che "ha contribuito a cambiare il clima grigio e penitenziale degli anni '70, ed è stato un elemento di liberazione. Ha portato più America e più consumi, più allegria e meno bigottismo". Più America, consumi, allegria: la civiltà-modello per l'Italia divenne Milano2, una gated community abitata da consumatori ansiosi di proteggersi dal brutto mondo esterno, di sentirsi più liberi che cittadini. E al suo centro una televisione a circuito chiuso, che intrattenendo distrae, occulta, manipola: nel '74 si chiama Milano-2, diverrà l'impero Mediaset. Quando andrà al potere, il Cavaliere controllerà tutte le reti: le personali e le pubbliche.
Tutto questo non è senza conseguenze: cadendo, il Premier non lascia dietro di sé una società sbriciolata. Il paese in briciole è stato da principio sua forza, sua linfa. Non si tratta di profittare di subitanei sbriciolamenti, ma di far capire agli italiani che su questo sfaldamento Berlusconi ha edificato la sua politica. Che su questo ha costruito: sul maciullamento delle menti, non sull'individualismo. Su un'Italia che somiglia all'Uomo del sottosuolo di Dostojevski: un'Italia che rifiuta di vedere la realtà; che "segue i propri capricci prendendoli per interessi"; che giudica intollerabile che 2+2 faccia 4. Un'Italia che "vive un freddo e disperato stato di mezza disperazione e mezza fede, contenta di rintanarsi nel sottosuolo". Un'Italia arrabbiata contro chiunque vorrebbe illuminarla (la stampa, o Marchionne, o i magistrati) così come l'America arrabbiata del Tea Party il cui ossessivo bersaglio è la stampa indipendente.

Correggendo solo la legge elettorale si banalizza la patologia. Altre misure s'impongono, che permettano agli italiani di comprendere quanto sono stati intossicati. Esse riguardano il controllo di Berlusconi sull'informazione e il conflitto d'interessi. La profonda diffidenza verso una società bene informata (per Kant è l'essenza dei Lumi) caratterizza il suo regime. "Non leggete i giornali!" - "Non guardate certi programmi Tv!": ripete. Gli italiani devono restare nel sottosuolo, eternamente incattiviti. Altro che allegria. È sulla loro parte oscura, triste, che scommette. Qualsiasi governo che non si proponga di portar luce, di riequilibrare il mercato dell'informazione, fallirà.

Per questo è importante un governo di alleanza costituzionale che raggiusti le istituzioni prima del voto, e un ruolo prioritario è riservato non solo a Fini ma alle opposizioni. Fini farà cadere il Premier ma l'intransigenza sul conflitto d'interessi spetta alla sinistra, nonostante gli ostacoli esistenti nel suo stesso seno. Del regime, infatti, il Pd non è incolpevole. Fu lui a consolidarlo con un patto preciso: la conquista di suoi spazi nella Rai, in cambio del potere mediatico del Cavaliere. Tutti hanno rovinato la tv, pur sapendo che il 69,3 per cento degli italiani decide come votare guardandola (dati Censis).

A partire dal momento in cui fu data a Berlusconi l'assicurazione che l'impero non sarebbe stato toccato, si è rinunciato a considerare anomali la sua ascesa, il conflitto d'interessi. E i responsabili sono tanti, a sinistra, cominciando da D'Alema quando assicurò, visitando Mediaset nel '96: "Non ci sarà nessun Day After, avremo la serenità per trovare intese. Mediaset è un patrimonio di tutta l'Italia". La verità l'ha detta Luciano Violante, il giorno che si discusse la legge Frattini sul conflitto d'interessi alla Camera, il 28-2-02: "L'on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena - non adesso, nel '94 quando ci fu il cambio di governo - che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l'on. Letta... Voi ci avete accusato nonostante non avessimo fatto la legge sul conflitto d'interessi e dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni... Durante i governi di centrosinistra il fatturato Mediaset è aumentato di 25 volte!". Il programma dell'Ulivo promise di eliminare conflitto e duopolio tv, nel '96. Non successe nulla. Nel luglio '96, la legge Maccanico ignorò la sentenza della Consulta (Fininvest deve scendere da tre a due tv). Lo stesso dicasi per l'indipendenza Rai. È il centrosinistra che blocca, nell'ultimo governo Prodi, i piani che la sganciano dal potere partitico. A luglio Bersani ha presentato un disegno di legge che chiede alla politica di "fare un passo indietro". Non è detto che nel Pd tutti lo sostengano. Una BBC italiana è invisa a tanti.

Se davvero si vuol uscire dall'anomalia, è all'idea di Sylos Labini che urge tornare: all'ineleggibilità di chi è titolare di una concessione pubblica, secondo la legge del 30 marzo '57. D'altronde non fu Sylos a dire che l'ineleggibilità è la sola soluzione. Il primo fu Confalonieri, il 25-6-2000 in un'intervista a Curzio Maltese sulla Repubblica. Sostiene Confalonieri che l'Italia, non essendo l'Inghilterra della Magna Charta, non può permettersi di applicare le proprie leggi. Forse perché il paese è sprezzato molto. Forse perché c'è chi lo ritiene incapace di uscire dal sottosuolo, dopo una generazione.

lunedì 15 novembre 2010

Il punto sul genere, un interessante compendio

Quando la costante reinvenzione diventa pratica politica che parte dall'esperienza

12/11/2010 11:55

Fonte: www.womenews.net

Se è vero che l’entrata massiccia delle donne nel Mercato del lavoro ha segnato una linea di demarcazione nelle discussioni del movimento femminista, il lavoro collettivo, curato dalla Libera Università delle donne, ben rappresenta i tentativi che lo stesso femminismo ha portato avanti nello sforzo di evidenziare elementi, caratteristiche e modificazioni che la sfera della cosiddetta produttività retribuita si è trovata a vivere negli ultimi dieci anni.

Come lo stesso titolo introduce, la risposta femminista ai cambiamenti imposti da un’ economia globalizzata non ha saputo intravedere i rischi e le insalutari conseguenze della pratica emancipazionista.
“L’emancipazione malata” osserva l’universo Lavoro da più punti di vista e, attraverso angolazioni diverse, in cui si intrecciano temi forti della discussione femminista, degli ultimi venti anni con i cambiamenti legislativi che, dalla fine degli anni ’90, sono stati apportati alla sfera organizzativa e normativa del lavoro.

La visione di Melandri rispetto allo spazio pubblico come luogo di lotta negli anni 70, introduce uno spunto di riflessione sull’attuale speculazione che viene fatta con i corpi delle donne, e sul “ruolo ancellare” che le donne si trovano ad interpretare nei contesti di lavoro precario-ruolo che non sembra mai riguardare, nell’analisi di Melandri, gli uomini.
Una parcellizzazione delle proprie competenze in cui quelle cosiddette “trasversali” rappresentano uno dei valori aggiunti e maggiormente richiesti nella attuale società post-capitalistica.

La donna, sempre nel contributo di Melandri, è investita di capacità ultra terrene che la portano a gestire una “femminile onnipotenza” per occupare spazi il cui accesso è codificato da un maschile che detta le regole e che norma le entrate alle alte sfere del potere.

Anche Campari, nel suo contributo, affronta il tema delle competenze trasversali delle donne e lo fa attraverso un’ ampia rassegna di ciò che è stato definito, negli anni del boom delle politiche di conciliazione fra uomini e donne (fine anni ’90 inizi 2000), il diversity managment, ovvero la capacità delle aziende di “sfruttare” le competenze di cura della donna a favore della propria produttività.

I casi di studio che Campari ci riporta, invitano a riflettere sugli errori compiuti e sulle scelte fatte. Offrono, inoltre, uno spaccato del valore storico e politico delle lotte sindacali e di come le scelte fatte all’interno delle fabbriche, da donne e da uomini, rappresentino una delle conseguenze della attuale precarizzazione femminile del lavoro.

Le conclusioni di Campari mostrano uno scenario di “economia canaglia” in cui, nel disegno del potere capitalista, il dividi et impera ha portato i suoi frutti e di cui a questo punto, a nostro avviso, sia uomini che donne pagano le conseguenze.

Cristina Morini fa luce su tutte quelle linee di ombra che delimitano gli spazi affettivi, relazionali e professionali dei precari della conoscenza, soffermandosi su quei diritti negati che sono alla base delle dinamiche del lavoro oggi: straordinari pretesi e non retribuiti, impiego di conoscenze e di competenze non riconosciute e alto investimento emotivo.
Lo scenario tracciato da Morini evidenzia l’individualismo esasperante in cui i giovani, e non solo, si trovano a lavorare, in cui la consapevolezza della propria condizione diventa un requisito essenziale per agire un cambiamento e per rivendicare il diritto alla condivisione.

L’attenta analisi di Cirillo sul fenomeno della “femminilizzazione” del lavoro e dei cambiamenti che la sfera dei servizi di cura ha apportato al mercato del lavoro con l’introduzione del concetto di Welfare, introduce il tema dei nuovi ruoli stereotipati che l’economia globalizzata produce.

I tanti quesiti che Cirillo pone ai lettori e alle lettrici aprono dubbi e perplessità sulle responsabilità delle donne che, in tali ambiti di lavoro -terzo settore e servizi– occupano posizioni di potere a discapito di altre donne, le quali, ingabbiate nel ruolo di cura, rappresentano una nuova femminilizzazione del lavoro fino ad ora ben poco considerata.

E se Cirillo con la sua visione di un “futuro dal ventre antico” pone l’accento sulla debolezza del potere delle donne di dare risposta alla nuova economia globalizzata, Melchiori offre una disegno di ampio respiro sulla situazione attuale delle donne e sui risvolti che, a livello internazionale, gli appuntamenti quale il Forum delle donne di Pechino o la conferenza internazionale sull’ambiente a Rio, hanno avuto nelle pratiche e politiche del decennio successivo.
La sua puntuale e critica lettura favoriscono la comprensione di dinamiche e scelte politiche che sembrano essere distanti dal quotidiano, ma che invece dominano l’oggi dell’economia globalizzata. Se organismi come la Banca Mondiale producono documenti e rapporti che sembrano essere stati scritti da vere e proprie teoriche del femminismo, risulta difficile contrastare meccanismi che ingabbiano le donne a ruoli diretti dalla regia dei poteri forti.

Il breve intervento di Calderazzi sulla rete come pratica delle donne, offre un’utile rassegna dei network che si sono creati, in America Latina e non solo, all’indomani di alcuni appuntamenti transnazionali in ambito economico e sociale.

Secondo Ornella Bolzani, l’instabilità professionale vissuta dalle donne deriva, almeno in parte, da una loro condizione esistenziale precaria maturata e sedimentata nel tempo all’ombra dei potenti stereotipi di genere che ne plasmano l’identità. La sfera lavorativa femminile è intrinsecamente marginale, secondo l’autrice, definita in opposizione e sempre per difetto rispetto al ruolo principale di madre/moglie.

Questa lettura, che descrive le donne come capaci di superare procedimenti pubblici di allocazione professionale, ma allo stesso tempo impossibilitate ad ostacolare le dinamiche patriarcali del fare carriera, offre una visione secondo noi limitata delle tante sfumature e caratteristiche dell’essere donna oggi nel mondo del lavoro- della molteplicità delle differenze che costellano l’esistenza degli individui.
E nonostante Bolzani introduca i temi del conflitto (spazio pubblico/sfera privata, ruolo professionale/famigliare) e degli spazi di (mancata) resistenza da esso aperti, ci sembra non riesca a sottrarre la sua analisi al pensiero binario e a portare a termine il racconto di quel che accaduto “nonostante le aspettative e le promesse del femminismo”.

La conclusione sul tema del corpo delle donne quale strumento di accesso o di pura merce di scambio, risulta quindi privo di prospettiva storica: per cui si perdono i possibili collegamenti con le dinamiche che lo slogan “’io sono mia” degli anni ’70 potrebbe aver generato nel corso degli ultimi 40 anni.

Nell’intervista a Paola Tabet fatta da Mathieu Trachman, questa molteplicità di intersezioni è invece centrale. Il corpo delle donne e dello “scambio sessuo-economico” tra donne e uomini, spiega l’autrice, non riguarda soltanto il sex work, i rapporti di prostituzione, ma si riferisce ad un insieme di relazioni che vanno dal matrimonio alla mercificazione più evidente del corpo della donna. E’in questo continuum di infiniti piani relazionali diversi che la sessualità femminile – la sua negazione, compravendita, repressione, liberazione- diventa il luogo in cui sperimentare azioni e reazioni di resistenze, individuali e collettive.

Il tema dello spazio privato/pubblico ritorna nell’articolo di Liliana Moro, che si sofferma sulla complicità delle donne nell’accettare il ruolo di dispensatrici di cura, vissuto ancora come capacità personale, surplus di valore che esse investono e producono- come, non ultimo, fondamento di una identità femminile.

E’ invece necessario, secondo Moro, ridefinire il “prendersi cura di”, sottraendo il suo significato profondo all’esclusività femminile/materna e restituendolo come “valore culturale collettivo”. E’ infatti la relazione il centro di questo spazio allargato, non la maternità, né tanto meno la donna: la relazione come semplicemente costitutiva della vita, in opposizione all’isolamento, che è la sua negazione.

“Non di sola madre”, appunto. Il tema del conflitto torna nella riflessione di Buonapace sul lato oscuro della maternità- sulla relazione di potere che essa sempre crea e riproduce. E’ la poetica del materno, indaga l’autrice, che copre e omette, con la complicità delle donne, il conflitto, la contraddittorietà dei sentimenti, le dinamiche di potere insiti nella relazione materna e nel lavoro di cura.

Ed è nel rapporto con le proprie madri che si tramanda la costruzione sociale e culturale della cura vissuta come valore intrinseco delle donne, possibilità di costruzione identitaria. Laddove Buonapace riesce a rendere chiaramente la sua posizione rispetto alla necessità di opporsi ad un destino femminile predefinito, che ne limita e imbavaglia infiniti altri possibili, manca invece, a nostro avviso, di approfondire il discorso del materno nella relazione complessa e ancora non risolta fra donne di diverse generazioni. Stare nella zona d’ombra di questa relazione diventa essenziale per noi donne nate a cavallo degli anni ’70, che nel tentativo di dialogare con le madri del femminismo a fatica riusciamo a condividere gli spazi, le modalità e le parole di cui le nostre esistenze sono fatte.

Manuela Cartosio disvela quella che lei definisce la “rimozione della badante”, il non-detto del lavoro di cura, la “presenza invisibile” e per questo inquietante, che Buonapace attribuisce al materno. Il ruolo della badante diventa funzionale ad un sistema economico, sociale e culturale che ancora non affronta, ma rimuove, i nodi cruciali del lavoro, dell’uguaglianza, del riconoscimento e della distribuzione dei ruoli sociali. Il silenzio delle donne italiane sulle condizioni di vita delle badanti e sul rapporto che si crea con loro dice tante cose, secondo Cartosio.
Dice innanzitutto molto sul rapporto che le donne hanno con il potere, e sulle modalità con cui il dominio viene gestito dalle donne: rimosso, travestito d’altro, imbellettato di alibi e luoghi comuni- mai (o mal)-nominato. L’altro nodo irrisolto che ci sembra centrale nell’analisi di Cartosio è quello privato e pubblico dell’emancipazione femminile.

Da un lato, il lavoro di cura viene semplicemente trasferito alla badante in nome di un bisogno di liberazione da parte delle donne autoctone, più istruite, impiegate fuori dalla famiglia, emancipate, che , acriticamente, fanno scivolare al loro posto altre donne- ma scivolare in basso, in una posizione ancora più segregata, vulnerabile, ricattabile: lo spazio privato spesso diventa clandestino.

Dall’altro, questa istanza di emancipazione resta incompiuta: le donne italiane impiegano più badanti della media EU, ci dicono le statistiche ufficiali, ma fanno meno figli e occupano meno posizioni di lavoro retribuito al di fuori della famiglia. Hanno occupazioni precarie, il doppio rispetto agli uomini.
Ci sembra molto interessante, infine, il modo in cui Cartosio riesce ad aprire il conflitto tra il silenzio che riempie il dibattito politico delle donne sulle badanti, da un lato, e sul precariato dall’altro, laddove invece si fa un gran parlare di “eccellenze”- in un mondo in cui, sempre di più, chi manda avanti le cose, nel quotidiano, lo fa sulla propria pelle, rinunciando anche solo alla prospettiva di garanzie sindacali minime- di più, di un qualsiasi tipo di riconoscimento formale.

Ne “ Il corpo e il lavoro ” vengono raccolti gli interventi di Judith Revel e Cristina Morini, insieme a quelli dei/delle partecipanti al seminario che porta lo stesso titolo.

Il testo raccoglie alcuni dei nodi concettuali trattati nel lavoro collettivo della Libera università delle donne e ci aiuta ad individuare alcuni dei temi cardine dei femminismi, passati e presenti. Il tema della femminilizzazione del lavoro e della precarietà sempre più diffusa che colloca al centro la tensione fra potenzialità naturali e altrettanti diritti e opportunità.
Laddove, da un lato, si trovano le nostre esistenze sempre più precarie, flessibili e colme di insicurezze e dall’altro invece prendono forma i molti tentativi di normalizzarle, oggettivarle, fissarle in affermazioni esasperate di noi stesse nella sfera professionale come in quella privata.

Torna il tema del corpo, in tutta la sua evidenza e centralità: il nostro corpo, inteso come progetto immanente, materiale di vita, è immerso in questa precarietà, ne viene condizionato, stravolto, modificato.

Torna, infine, il tema del potere nelle relazioni in cui siamo tutti/e immersi. Noi siamo il prodotto delle relazioni di potere, ribadisce Revel, ma è al loro interno che ci sono spazi di libertà: la lotta, la resistenza continua, è “uno spostamento in avanti, uno scavare i rapporti e un riacquistare determinazione, autonomia. E questo accade “reinventando se stessi”, dove la costante reinvenzione diventa pratica politica che parte dall’esperienza: dove ciò che ci accade, continuamente ci trasforma.

Ancora sui mariti assassini,la banalità del male



Ammazzare la moglie con sessanta coltellate e farla franca
15/11/2010 16:10


Fonte: www.femminismo-a-sud.noblogs.org

La cassazione lo condanna a dieci anni di ospedale psichiatrico giudiziario per incapacià di intendere e di volere.

Il Corriere pubblica di una sua ipotetica assoluzione. Forse al Corriere sfugge che se una persona viene assolta non è costretta a restare rinchiusa in un ospedale psichiatrico giudiziario per dieci anni. Ma se davvero un assassino è stato assolto allora si apre un capitolo nuovo della giurisprudenza italiana. Anzi vecchio. Risale al tempo in cui dopo l’abrogazione del delitto d’onore quasi tutti gli assassini di donne venivano assolti con la stessa formula “incapacità di intendere e volere” per un tacito accordo tra tribunali e assassini, dove la psichiatria, come accade spesso tutt’ora, andava in soccorso ai carnefici per imprimere invece un controllo sociale sulle persone più deboli, donne in primo luogo.

Volendo dunque propendere per la buona fede del titolista diciamo che il messaggio che così viene dato è che se sei “depresso”, ipotesi avanzata come attenuante dalla stampa in qualunque occasione, e accoltelli tua moglie sessanta volte puoi farla franca. Te la cavi con poco. Giusto un contentino da dare alla società per dire che degli assassini la giustizia in qualche modo si prende “cura”.

E la deriva della pietà per l’assassino malato è una cosa costruita sapientemente a partire dai processi mediatici. Spesso e volentieri si dice che sia stata lei a fare impazzire lui e dunque ad essersi in qualche modo meritata la morte.

In realtà troppi di questi uomini ammazzano le donne che vogliono andare altrove, non vogliono più restare con loro, vogliono fare scelte autonome, vogliono lasciarli. E se il femminicidio viene interpretato come conseguenza di una patologia clinica allora si può anche dire che di questa particolare patologia soffrono in troppi: si chiamano misogini, maschilisti, patriarchi, padri padroni e sono culturalmente e socialmente legittimati ad essere quello che sono. Quindi possiamo dire che si tratta di una patologia sociale o di un modello culturale costruito dagli uomini che nelle aule di giustizia si sono creati una scappatoia giuridica per ottenere una punizione minima?

Sul senso delle punizioni potremmo parlare a lungo ma quello che per ora serve dire è che se questo è il parametro attraverso il quale si affronta una emergenza così ampia come quella che colpisce direttamente troppe donne ogni giorno si può proprio dire che non c’è alcuna forma di giustizia interessata a prevenire la loro morte.

Viviamo tutti in un manicomio sociale che protegge i carnefici e infligge punizioni atroci sulle vittime. E tutto questo non è affatto giusto perchè le donne hanno il diritto di restare vive ed è è un diritto che a loro viene negato troppe volte.

La privatizzazione globale della formazione

Scarti di college

di Tiziana Terranova, dal Manifesto 16/11/2010



Le immagini degli studenti che irrompono nella sede del partito conservatore hanno fatto il giro del mondo. E come spesso accade la discussione si è concentrata sulla presenza di provocatori o sulla legittimità o meno di azioni dirette talvolta violente. Poco o nulla è stato detto che le proposte di riforma del sistema di finanziamento pubblico alle università inglese rischia di cancellare corsi di laurea e di impoverire l'offerta formativa. In Inghilterra, come in Italia, la cultura e la formazione devono essere funzionali allo sviluppo economico, altrimenti sono da cancellare perché superflue. E oltre Manica come in Italia, la strada scelta dai governi dei due paesi è la stessa: una progressiva privatizzazione della formazione.
La strada imboccata risolutamente dal governo conservatore e liberale inglese ha avuto però come apripista le politiche di Tony Blair e dei laburisti. Se negli anni Novanta la retorica sull'industria creativa ha sempre messo l'accento sul fatto che la cultura doveva diventare una risorsa economica, innovando profondamente i modelli di organizzazione del lavoro e proiettare l'Inghilterra nel futuro, dal 2008 in poi i laburisti hanno definito le linee di una riforma dei finanziamenti pubblici all'università che prevedeva aumenti delle tasse universitarie e una loro forte riduzione.
È attorno a questi temi che si è sviluppata l'intervista a Jussi Parikka, docente di origine finlandese e attento ricercatore sulle tendenze della «cultura digitale» e dei nuovi «social media». L'incontro è avvenuto a Londra, proprio quando la mobilitazione degli studenti stava organizzando la manifestazione che ha portato all'assalto della sede del partito conservatore.


Da alcuni anni, in Italia assistiamo a forti tagli dei finanziamenti statali alla scuola e all'università pubblica. Il risultato è una deliberata svalutazione ed impoverimento della formazione e della ricerca pubblica - con licenziamenti, blocco delle assunzioni, taglio dei corsi, classi sempre più affollate, meno ore di didattica e così via. Anche il settore della cultura più in generale (teatri, musei, musica, editoria) ha subito drastici tagli dei finanziamenti pubblici. Un fenomeno tuttavia non solo italiano, ma elemento costitutivo della ristrutturazione economico-politica che ha seguito la crisi finanziaria del 2008. Nel Regno Unito, la «politica del rigore fiscale» ha determinato una riduzione drastica, talvolta del 100 per cento, alla didattica dei corsi di laurea nelle arti, nelle scienze umane e sociali. Come ti spieghi questa riduzione massiccia dei finanziamenti pubblici alla cultura e alla formazione sociologica, artistica e umanistica, specialmente dopo anni in cui la cosiddetta «economia creativa» è stata celebrata come il motore dello sviluppo economico?


È stato uno shock, nel senso identificato da Naomi Klein come parte della dottrina del «capitalismo dei disastri». I recenti eventi che riguardano l'università inglese, ma anche altre settori del servizio pubblico, sono così terrificanti che la reazione ha smontato l'effetto sorpresa dell'annuncio da parte del governo. Va in primo luogo ricordato che la crisi del 2008 non ha aperto la strada a un'era keynesiana di investimenti pubblici, ma ad una ulteriore privatizzazione di beni pubblici fondamentali. Per quello che riguarda le università inglesi, i tagli erano già previsti dal precedente governo laburista. Prima ancora che le elezioni portassero al governo i Conservatori e i Liberali, la commissione Browne, il cui mandato è stato quello di formulare le linee politiche della riforma dei finanziamenti all'università nel Regno Unito, era stata promossa dai laburisti. Ed erano stati i laburisti, già con Peter Mandelsson, che avevano trasferito le università al «Department of Business, Innovation and Skills» e che avevano ipotizzato l'aumento delle tasse universitarie. Il nuovo governo non ha fatto altro che riprendere l'ordine del discorso laburista, annunciando prima una riduzione dei finanziamenti del 20 per cento e poi del 40 per cento. Allo stesso tempo ha stabilito che solo alcune discipline del sapere erano degne del finanziamento pubblico: quelle scientifiche, tecnologiche, l'ingegneria e la matematica, lasciando fuori più o meno tutti i corsi di laurea in discipline umanistiche, sociali e artistiche.



TONY BLAIR, L'ISPIRATORE


Nell'arco di alcuni mesi, l'«economia culturale» e le industrie creative non hanno avuto più nessun ruolo nella cosiddetta «cool britannia», creativa e postfordista. Era un modo di concepire lo sviluppo economico che ha avuto, negli anni Novanta, il suo massimo ispiratore in Tony Blair. Per alcuni, questa idea aveva protetto gli studi culturali e le arti giustificando in qualche modo la loro esistenza. I significati, le rappresentazioni, le pratiche artistiche potevano essere integrati in questo nuovo e benevolo «capitalismo creativo» inglese, nel quale la cultura - gli stili di vita, le abitudini, le arti, le creazioni digitali dalla musica all'editoria - avrebbero dovuto esserne il cuore pulsante. Invece, durante gli ultimi due anni, tutto il discorso sulle industrie creative è stato sostituito pian piano con quello dell'«economia digitale». Sembrerebbe un cambiamento apparentemente minimo dalle industrie creative a una versione più orientata verso l'informatica. Il «Digital Economy Bill» e tutte le iniziative governative successive così come la discussione pubblica si sono invece concentrati su progetti come l'infrastruttura digitale, che dovrebbero garantire la banda larga ad alta velocità. Si è cioè privilegiata la tecnologia: tecnologia nel senso di infrastruttura e di soluzioni scientifiche in grado di fornire flussi di reddito più affidabili rispetto al modello vago di creatività dell'industria dei servizi. E così, nonostante le statistiche che testimoniano l'enorme contributo delle arti e delle scienze umane alla creazione di ricchezza, la cultura è diventata l'ancella superflua e ridondante dell'economia digitale.


Il passaggio dall'economia creativa a quella digitale ha significato che solo la scienza e l'ingegneria possano essere meritevoli del sostegno pubblico in quanto produttrici di valore economico. Da ricercatore nel campo dei nuovi media, come vedi questo cambiamento? E che ne pensi della posizione di Jaron Lanier, secondo il quale i nuovi media quali Internet e in particolare il web 2.0 sarebbero responsabili della svalutazione del lavoro cognitivo?

Parto dal presupposto che le «industrie creative» producono anch'esse ricchezza. Uno sguardo veloce alle statistiche economiche del «National Archive» testimonia il fatto che questo settore è cresciuto approssimativamente del 5% tra il 1997 e il 2007, molto più di quanto non sia cresciuta l'insieme dell'economia. Allo stesso tempo settori quali il software, i videogiochi e l'editoria elettronica sono cresciuti persino del 9%!
Per continuare con le statistiche, un recente rapporto sulle università del Regno Unito fornisce dati simili: le industrie creative e quelle del software, dei videogiochi e dell'editoria elettronica producono enormi quantità di valore economico, con ricavi di 17 miliardi di sterline solo nel 2003/2004: ricavi maggiori di tutto il settore farmaceutico in questo paese. C'è inoltre da dire che per ogni milione di sterline prodotte dalle università, quello stesso rapporto dice che ci sono altri 1.52 milioni di sterline in settori collegati, e in termini di occupazione abbiamo una storia molto simile con 100 lavoratori a tempo pieno nelle università che sostengono l'esistenza di altri 100 lavoratori.
Quindi è chiaro che si tratta di qualcos'altro rispetto ad una pura razionalità economica e si è veramente tentati dal leggere tutto ciò in termini di un cambiamento importante della percezione e riorganizzazione del lavoro. Questa si chiamava ideologia, o perlomeno parte di un incanalamento meticoloso e molto sottile di desideri, la relazione con il tempo, con la produzione, la creatività e la partecipazione. La flessibilità è stata imposta come lo stato di normalità per il «lavoratore creativo», inclusi i docenti, ed è su questo modello che formiamo i nostri studenti dal primo giorno; sopporta i cambiamenti, vivi flessibilmente, e non pretendere quell'orizzonte stabile che chiamavamo futuro.



L'ETICA HACKER DEL LAVORO



I modelli di lavoro che sostenevano tanta economia creativa e Internet erano in verità basati sull'investimento psichico. Entusiasmo, volontariato, dare una mano - per molto tempo questa è stata la base del lavoro universitario. Eppure ciò che fino a ieri, negli anni Novanta, era celebrato come l'«etica hacker del lavoro» si è dimostrata un completo fallimento nel contrastare l'appropriazione privato di valore del lavoro cosiddetto creativo e della cooperazione sociale a cui accennavo.
I modelli di lavoro della cultura digitale non sono così facilmente riconducibile a una logica puramente economica. Quello che i pessimisti culturali vedono come uno sviluppo pericoloso causato da culture partecipative è parte di una più ampia ascesa di reti cooperative, di una nuova era di produttori e consumatori attivi. Caratteristiche che non possiamo liquidare come cattive, dopo che per anni abbiamo assistito a una grande concentrazione capitalista dei media.
Per anni, forti delle riflessioni di Theodore W. Adorno sull'industria culturale, abbiamo criticato la manipolazione delle coscienze da parte dei media. E tuttavia rispetto al «grande caos» delle reti telematiche e della cultura digitale non possiamo certo tornare a forme elitarie di produzione e di accesso alla cultura. Per alcuni studiosi, come forse per Jaron Lanier, criticano l'ascesa di una banale cultura di dilettanti. Ma sono propenso a credere che la critica elitaria alla cultura digitale cerchi di tornare al centro della scena pubblica forte di una cornice politica e economica neoliberale. In Gran Bretagna, ad esempio, le vecchie università d'elite si stanno trasformando in corporation globali della formazione, facendo leva sui vecchi legami coloniali dell'Inghilterra, proponendo forme neo-coloniale di offerta formativa.
Le industrie creative sono riconosciute simbolicamente importanti, ma devono essere autosufficienti, cioè devono basarsi sull'investimento (incluso l'investimento psichico di energia ed entusiasmo) piuttosto che essere sostenute da finanziamenti pubblici. La retorica pubblica dice che i corsi di laurea in scienza ed ingegneria si meritano questo sostegno, perché sono molto costosi in termini di attrezzature da laboratorio, macchinari. Allo stesso tempo, è dominante la visione in base alla quelle il sostentamento dei docenti, dei ricercatori impegnati nelle facoltà umanistiche si arrangino, mentre quelli che lavorano nelle industrie creative si autorganizzino. In fondo, gli uomini e le donne costano molto alle corporation e se lo stato riesce a trovare un modello dove fanno lo stesso lavoro per metà del prezzo, ha risolto un grande problema per quelle stesse corporation.