domenica 29 gennaio 2012

Basta che le Coop fatturino




Il PD, una fusione a freddo inesistente politicamente, si è ritirato nella trincea dei suoi innumerevoli satelliti economici -cooperativi e non- abbandonando le classi popolari al becerume della Lega, al populismo dei rimberluschiti, alle vecchie logiche mafiose del separatismo siciliano ed alla gestione del territorio delle mafie tutte, anche al nord (pecunia non olet,vero Penati?).Dimostrando che la politica non esiste ed i politici son tutti la stessa munnezza, lavorano per il qualunquismo, il populismo, la rivolta incolta del sottoproletariato,la dittatira del liberisti più furbi di loro, si chiamino essi Merkel,Thatcher,Tony Blair o Mario Monti. La protesta non gestita monta, perchè le condizioni di vita collassano e l'Italia perde ogni speranza . Stan lavorando perchè il laido Caimano torni come salvatore della patria dai feroci banchieri, che sono senza anima anche quando piangono a comando e lavorano per la distruzione globale di qualsiasi istanza sociale.

L’amnesia del Pd in aiuto del comandante B.

di Pino Corrias

Come ai tempi dell’astuta campagna elettorale di Veltroni, nessun esponente del Partito democratico pronuncia mai il nome e il cognome di Silvio Berlusconi, come principale artefice del danno che ci assedia. L’altra sera Enrico Letta (da Santoro) parlava come uno smemorato, mai una volta che abbia detto chiaro chi e come ha incagliato l’Italia, perfezionando il naufragio, fino all’ammutinamento dell’Europa, di Napolitano, e dello spread.

A differenza di Schettino – appeso al cappio del pubblico ludibrio - il comandante Silvio gode ancora di libera circolazione sul pontile dei soccorsi. Nessuno che gli chieda conto (cento volte al giorno) della sciagura a cui ci ha condotto. Con le riforme mai fatte. Con le bugie. Con la minorenne di Casoria e quella di Mubarak. Con le pagliacciate in pubblico, le cricche al telefono, le macerie de L’Aquila e di Bertolaso, le bestemmie e gli sgravi fiscali alla Chiesa, la Finanziaria varata in 9 minuti, l’assalto ai magistrati, alle frequenze, agli incassi pubblicitari.

Possibile che Bersani e soci non sappiano che sta proprio in quel vuoto di memoria la sopravvivenza di Silvio e della sua scialuppa che potrebbe ricondurlo a bordo dei nostri incubi?

Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2012

sabato 28 gennaio 2012

L'insostenibile impossibilità di intraprendere in Italia


Libidine iperliberista

di Fabio Scacciavillani, da Il Fatto Quotidiano

A volte sono preda di impulsi irrefrenabili tipici del bieco profittatore, vampate inebrianti da capitalista sfrenato. Non è colpa mia. Succede quando leggo quegli articoli e quei commenti sull’Italia dove da 30 o 40 anni si pratica il neoliberismo, anzi l’iperliberismo selvaggio. Al pensiero di questo nirvana del laissez-faire i miei spiriti animali si scatenano. Normalmente un barlume di lucidità sopravvive e mi catapulto ai corsi per “Iperliberisti Anonimi” dove, tra i poster di Che Guevara e i discorsi di Vendola ai congressi della Fgci, riacquisto l’equilibro declamando odi a Ceausescu in rumeno arcaico.

Un giorno ferale però collassai. Mi venne voglia di aprire una fabbrica, uno di quei luoghi esotici dove quelli che salgono sulle gru agognerebbero lavorare. Mi misi in contatto con la rete clandestina di NoisefromAmerika e incontrai un nemico del popolo in carne ed ossa, Marco Esposito. Lui mi spiegò come dare sfogo ai miei impulsi peggiori. La storia completa potete leggerla qui.

Scoprii che nell’Eden dell’iperliberismo tutto si ottiene con impressionante semplicità per gli sfruttatori. Soprattuto se hai un’idea innovativa puoi farti beffe di lacci e lacciuoli. Per il brevetto è una passeggiata in tre semplici mosse:

a) incaricare una società specializzata per vedere se esistono brevetti simili (è compito della Camera di Commercio, ma se ne infischiano, mica possono piegarsi ai diktat degli iperliberisti e fare qualcosa di utile);

b) compilare il Mod. O e i fogli aggiuntivi;

c) inserire i disegni, la descrizione e spiegare l’innovazione a un parterre di burocrati.

L’Ufficio Brevetti consiglia di rivolgersi a un consulente, che prende fra i 5.000 e i 10.000 € per fare il lavoro dell’Ufficio Brevetti (anzi te lo suggeriscono loro stessi un “consulente fidato”, altrimenti il brevetto te lo scordi). Se tutto va bene con appena 18 mesi e un salasso indebito di 10.000 € sei a posto. Ora puoi chiedere i soldi al nonno (la banca iperliberista ti ride in faccia), che essendo baby pensionato da 30 anni ha potuto lavorare in nero e accumulare un gruzzoletto.

Poi ristrutturi un capannone e foraggi un notaio (appena 2.500 € per avere la fotocopia di un vecchio statuto e un atto costitutivo con i nomi cambiati). Quindi affidi la ristrutturazione a un’azienda edile, che si dovrà attenere a qualche piccola regola (ovviamente iperliberista):

- organigramma aziendale con relative mansioni ed eventuali deleghe;

- valutazione dei rischi ex art.4 c.2 D.Lgs 626/94 – art 17-28 D.Lgs 81/08 – autocertificazione art. 29 c.5 D.Lgs 81/08;

- valutazione del rischio rumore art. 190 D.Lgs 81/08 – vibrazioni art. 102 D.Lgs 81/08;

- valutazione del rischio chimico art. 223 D.Lgs 81/08;

- valutazione del rischio cancerogeno art 236 D.Lgs 81/08;

- valutazione del rischio biologico art. 271 D.Lgs 81/08;

- piano Operativo di Sicurezza art. 96 lett. g D.Lgs 81/08;

- Piano di Sicurezza e Coordinamento art. 100 D.Lgs 81/08;

- Pimus (Piano di uso, montaggio e smontaggio dei ponteggi) art. 134 all. XXIII D.Lgs 81/08;

- notifica preliminare art. 99 D.Lgs 81/08;

- nomina di:

i) Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione ai sensi art. 17 lett. b D.Lgs 81/08;

ii) Addetti all’emergenza, al pronto soccorso, alla prevenzione incendi art. 18 e 1 lett. B D.Lgs 81/08;

iii) Medico Competente art. 18 c.l lett. a D.Lgs 81/08;

iv) Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza art. 47 c.2 D.Lgs 81/08;

- Certificato Prevenzione Incendi;

- denuncia di installazione dispositivi di messa a terra e scariche atmosferiche ai sensi del D.P.R. 462/01;

- autorizzazione in deroga art. 65 D.Lgs 81/0;

- comunicazione degli infortuni (Inail – Ipsema) art. t 8 c. 1 lett. r;

Una deregulation talmente sfacciata non si era mai vista. Tutti questi provvedimenti sono ignominiosamente iperliberisti al punto che le fabbriche ormai spuntano con intensità prorompente, soprattutto al Sud. Finita la ristrutturazione (interna, per evitare la licenza edilizia, altrimenti senza ungere le ruote non apri nemmeno una cuccia per cani) inizi la produzione. Se hai bisogno di 14 operai, un impiegato amministrativo e una segretaria, si applicano tutte le norme dell’iperliberista Statuto dei Lavoratori, e comunque ti puoi deliziare con l’ultraliberista D.L. N° 81/08 sulla sicurezza; poi, se sei fortunato, dopo aver formato a tue spese gli operai, puoi anche aprire, a meno che l’Asl non bocci il tuo piano sulla sicurezza, a suo insindicabile giudizio, secondo i dettami dell’iperliberismo.

Fra stipendi, contributi, fitti, energia, ammortamenti, spese di avviamento, primo periodo e costituzione delle scorte di magazzino i primi due anni sei in perdita. A quel punto arriva la Guardia di Finanza ed è l’apoteosi dell’iperliberismo. Formalmente è tutto a posto, non hai chiesto il rimborso Iva sui macchinari e ti sei giocato l’esborso finanziario sui contributi, ma… hai chiuso in perdita, perché hai speso molto per la ristrutturazione e ti sei attribuito un compenso lordo di € 2.500,00 al mese.

La spesa non è sembrata congrua quindi arriva una bella multa, così ti passa la voglia di chiudere in perdita, perché è il sub-Comandante iperliberista Befera che in Italia decide se e quanto un imprenditore deve guadagnare. Non esistono parametri per decidere la congruità. L’Agenzia delle Entrate, che deve ottemperare ai target di recupero dell’evasione stabiliti (in segreto) a Roma, ti redarguisce iperliberisticamente: “Ma quale perdita, tu hai fatto utili perchè gli ammortamenti anticipati non te li voglio riconoscere, e poi secondo me tu dovresti prendere 1.500,00 € mensili, quindi hai detratto € 12.000,00 illegalmete. Ma visto che siamo in uno stato iperliberista dammi 100.000 € per farla finita altrimenti ti blocco il conto in banca e ti segnalo alla Centrale dei Rischi, così fallisci. Comunque se ti opponi paghi il 30% di quanto ho accertato (secondo il mio imprescrutabile criterio) in contanti senza fiatare e senza nemmeno vedere un giudice con il cannocchiale. Poi se hai ragione – vedremo fra 20 anni – dopo aver pagato una fortuna al commercialista (mica è un caso che Tremonti e Befera vadano d’amore e d’accordo) – non ti restituisco niente”.

Per disintossicarmi dalla libidine iperliberista questa volta mi sono trasferito in un paese comunista, il Vietnam, dove ho assunto tanti compagni operai e produco bellissime gru e ponteggi da esportare in Italia, complete di cuccette e bagni.

Svaligiare una banca è più morale che fondarla. B. Brecht.


Bertold Brecht

Massimo Fini




Denaro, sterco del nulla

di Massimo Fini, da Il Fatto Quotidiano

Nella società attuale l’impresa è centrale. Perché qualsiasi cosa produca, sciocchezze o mine antiuomo come l’Oto Melara o qualcosa di utile, dà lavoro e quindi stipendi o salari che permettono il meccanismo produzione-consumo-produzione (ma oggi sarebbe più esatto dire: consumo-produzione-consumo) su cui si regge tutto il sistema. Ecco perché in questa fase di crisi non solo il governo Monti, ma tutte le lead occidentali cercano di sostenere in ogni modo l’impresa a costo di passare per il massacro di chi ci lavora.

L’impresa dipende però dai crediti delle banche per i suoi investimenti. E qui c’è già una stortura. Il mercante medievale, che è l’antesignano dell’imprenditore moderno, investiva denaro proprio, non chiedeva prestiti. E questa buona creanza si è mantenuta a lungo, anche dopo la Rivoluzione industriale, se è vero che nel 1970 Angelo Rizzoli senior sul letto di morte raccomandava al figlio e ai nipoti “non fate mai debiti con le banche” (i discendenti non lo ascoltarono e si è visto com’è andata a finire). Ma, per la verità, il vecchio Rizzoli era ormai un uomo fuori dai tempi.

Se le imprese dipendono dalle banche noi dipendiamo dalle imprese. Siamo tutti, o quasi, come scrive Nietzsche, degli “schiavi salariati” che è un concetto più omnicomprensivo del marxiano proletariato che riguarda gli operai di fabbrica. Non siamo più padroni di noi stessi mentre l’uomo medievale, almeno economicamente, lo era. Perché, contadino o artigiano che fosse, viveva sul suo e del suo. Anche i famigerati “servi della gleba”, detti più correttamente servi casati, è vero che non potevano lasciare i terreni del feudatario, ma non potevano neanche esserne cacciati. La disoccupazione non esisteva. Il lavoro non era un problema. La sussistenza di ciascuno era assicurata dalle servitù comunitarie, cioè a disposizione di tutti, che gravavano sulla proprietà e sul possesso (servitù di legnatico, di acquatico, di seconda erba, eccetera).

Era il regime dei “campi aperti” (open fields) che teneva in un delicato ma straordinario equilibrio il mondo rurale. Per un secolo e mezzo le case regnanti inglesi dei Tudor e degli Stuart si opposero ai grandi proprietari terrieri che volevano recintare i campi (enclosure) perché ne avrebbero tratto maggior profitto, capendo benissimo che questo avrebbe buttato milioni di contadini alla fame. Col parlamentarismo di Cromwell, preludio della democrazia, fu invece introdotta l’enclosure (quei parlamenti erano zeppi di proprietari terrieri, di banchieri, di mercanti e di altri furfanti similari).

Tutti questi processi sono stati enfatizzati dalla trasformazione del denaro, nella sostanza e nella forma. Da utile intermediario nello scambio per evitare le triangolazioni del baratto (c’è un bel geroglifico egizio che mostra, come in un fumetto, un tale che per procurarsi una focaccia deve fare tre passaggi) diventa a sua volta merce. All’inizio è oro o argento o bronzo. Non che l’oro rappresenti davvero una ricchezza, è una convenzione come un’altra (i neri africani e i polinesiani gli preferivano le conchiglie cauri) ma ha almeno una consistenza materiale. Poi diventa banconota, poi segno su carta, infine impulso elettronico e quindi totalmente astratto. Per questo enormi masse di tale denaro virtuale possono spostarsi in pochi attimi da una parte all’altra del mondo. Se dovesse spostare dobloni d’oro la speculazione non esisterebbe.

Infine per scendere dalla luna sulla terra non si capisce perché fra tante misure inutili non si vieta almeno, in Borsa, la compravendita allo scoperto dove uno vende azioni che non ha o le compra con denaro che non possiede, lucrando sulla differenza. E con ciò gonfiando ulteriormente la quantità di denaro virtuale e facendone una massa d’urto che puntando su un obiettivo lo determina, anche per il trascinamento psicologico che comporta, e può così strangolare paesi e intere aree geografiche.

LA VAL DI SUSA NON SI ARRESTA!







In 10mila alla marcia dei No Tav."La valle di Susa non si arresta"

Il leader Perino: "Il 25 febbraio grande manifestazione in valle con l'Italia che dice 'no'". In piazza Castello i manifestanti rovesciano carriole di macerie del cantiere di Chiomonte. Fumogeni e momenti di tensione davanti alla Regione, poi il corteo prosegue in via Po. Nelle notte petardo degli anarchici contro il carcere.
di MARIACHIARA GIACOSA

E' partito il corteo "No Tav" a Torino. I manifestanti - 10 mila secondo gli organizzatori, in 1.500 per la Questura - contrari alla Torino-Lione stanno sfilando in centro per protestare contro gli arresti di giovedì nell'ambito dell'inchiesta sugli scontri avvenuti a luglio al cantiere di Chiomonte. La manifestazione procede nonostante le condizioni meteo avverse. Su Torino piove da mezzogiorno e a tratti cadono fiocchi di neve. Nel tardo pomeriggio la precipitazione dovrebbe farsi più intensa.
Il corteo è stato anticipato da una manifestazione che alcune centinaia di persone hanno tenuto la scorsa notte davanti al carcere delle Vallette, lanciando alcuni petardi contro la casa circondariale e danneggiandone il sistema antiscavalcamento. I manifestanti - si è saputo dalla Digos - appartenevano ad alcuni Centri sociali di Torino e a gruppi dell'area anarco-antagonista e protestavano contro gli arresti.

FOTO I volti del corteo - VIDEO Il corteo dall'alto

LA DIRETTA

17.10. Gli organizzatori hanno dichiarato concluso il corteo No Tav, in piazza Vittorio. La maggioranza
dei manifestanti ha già abbandonato la manifestazione, ma alcuni rimangono al centro della piazza.

16.41. Gli organizzatori annunciano: "Siamo in 10 mila". Il corteo è arrivato in piazza Vittorio, un po' di gente è andata via per la neve e il freddo.

16.40. Lo slogan "Muri puliti popolo muto" è ora urlato anche dai megafoni sui camioncini nel corteo. Via Po è tapezzata di scritte sui muri.

16.29. Moltissime Scritte sui muri anche sotto i portici di via Po. "Muri puliti, popolo muto" è uno degli slogan in risposta a distanza all'invito di Perino a non imbrattare i muri. Via i militari dalle nostre vite" solidarieta' agli arrestati no tav"

16.20. Dai megafoni gli organizzatori hanno invitato chi stava contestando davanti alla Regione a rientrare nel corteo. La parte che era rimasta indietro è così tornata a far parte del "serpentone" che ora sta sfilando in via Po, con destinazione piazza Vittorio.

16.16. Ancora tensione davanti alla sede della Regione, dove prosegue l'accensione di fumogeni da parte di alcuni manifestanti.

16.11. Il corteo sta sfilando verso via Po ma un gruppo consistente si è radunato sotto le finestre della Regione Piemonte, presidiate dalle forze dell'ordine in assetto antisommossa. Alcuni fumogeni rossi sono stati accesi dai manifestanti davanti all'ingresso della Regione.

16.10. Sono state rovesciate davanti alla sede della Regione le carriole con le macerie del cantiere. Vernice e uova sono state invece lanciate contro le serrande abbassate della ex sede della stampa di via Roma.

16.07. "Le manifestazioni No Tav si fanno senza imbrattare i muri" ha detto al megafono Alberto Perino riferendosi alle scritte che alcuni manifestanti hanno fatto in via Roma contro il Governo, la polizia e i giornalisti.

15.56. Il coreto è arrivato in piazza Castello, davanti alla sede della Regione. La piazza è presidiata da un numero notevole di rappresentanti delle forze ordine. I manifestanti urlano "Giù le mani dalla Valsusa". L'intenzione dei contestatori è di spargere le macerie direttamente in piazza

15.54. In corteo anche il presidente della comunità montana Sandro Plano (Pd), il sindaco di Venaus Nilo Durbiano (Verdi) e il vicesindaco di San Didero Giorgio Vair (Liste civiche Valsusa).

15.50. Il corteo sta attraversando piazza San Carlo. La polizia presidia l'ingresso della banca Intesa San Paolo.

15.45. In corteo anche i partiti. Il capogruppo di Sel, Michele Curto, sinistra critica, movimento 5 stelle, comunisti italiani e rifondazione comunista.

15.40. "Il tempo dell'attesa e' finito. Blocchiamo tutto" è lo striscione dietro cui sfila un blocco di anarchici vestiti in nero. All'angolo con via arcivescovado sono comparse delle scritte sui muri "Più valle meno Monti"

15.37. Un gruppo di ragazzi è arrivato da Milano e sfila dietro lo striscione "dalla Valsusa a Milano paura non ne abbiamo".

15.22. Al corteo c'è anche la Fiom. Presenti sia il segretario torinese Federico Bellono che il dirigente nazionale Giorgio Cremaschi.

15.20."Nonostante la pioggia siamo tantissimi in questa città che finge di non sapere. Mancano i soldi per la sanità, per le scuole, per i servizi sociali e buttano via 22 miliardi nell'alta velocità: un'opera inutile.
Il procuratore anti-mafia si è schierato dalla parte dei mafiosi incarcerando gente come noi". Ha detto Maria Matteo, anarchica del Fai torinese.

15.15. La testa del corteo sta entrando in via Roma. Molti manifestanti sono ancora davanti alla stazione.
In testa ci sono i comitati della Valsusa, in coda i centri sociali, dietro lo striscione "Liberi tutti, fuori i compagni dalle galere".

15.13. In corteo anche alcune donne con il viso dipinto da morbillo e i fazzolettoni legati intorno al viso. Al collo un cartello "Siamo valsusine contagiose".

15.08. "Gli arresti sono una gravissima provocazione e sono un'operazione chirurgica per sostenere le loro teorie. Hanno scelto con cura le persone. Ma si sono sbagliati. Noi già dopo il 3 luglio avevamo detto siamo tutti black bloc. Non esisono buoni e cattivi. Il movimento è unito. Il 25 febbraio ci sarà una grande manifestazione in val Susa con tutte le realtà che si oppongono in Italia". Questo il primo commento del leader del movimento, Alberto Perino.

15.00. E' partito il corteo. In prima fila sei carriole con all'interno terra, recinzioni e tronchi di legno. "Sono le macerie del non cantiere" sostengono i manifestanti che urlano "liberta'" nei megafoni

14.56. Bloccato il transito di auto e pullman su corso Vittorio davanti a Porta Nuova. Dove si stanno radunando i manifestanti.

14.53. Partono i primi slogan. "La valle di Susa non si arresta" e anche "No Tav no mafia" urlano i manifestanti dentro Porta Nuova.

14.50. In piazza anche il leader dei No Tav Alberto Perino. Almeno cinquecento attivisti sono arrivati ora al binario 14 con il treno da Bardonecchia e stanno raggiungendo gli altri sotto i portici davanti alla stazione.

14.45. Alcune decine di ragazzi sono scesi dal treno in arrivo da Asti dietro lo striscione "Samu libero", con riferimento al giovane Samuele Gullino, uno dei 23 arrestati nelle operazioni di giovedì mattina.

14.30. Si stanno radunando sotto i portici davanti alla stazione di Porta Nuova a Torino i No Tav che manifestano contro il blitz di arresti di giovedì mattina. Molti di loro sono arrivati in treno dalla Valle di Susa e hanno srotolato gli striscioni non appena scesi sui binari. Alle 14.10 è arrivato un treno da Milano con a bordo un centinaio di manifestanti. Altri treni pieni sono in arrivo da Susa e da Bardonecchia. Molti attivisti si fermano al banchetto dei lavoratori della Wagon lits che stanno raccogliendo le firme contro la soppressione dei treni notte. Presente anche una delegazione della confederazione unitaria di base. Oltre alle bandiere con il treno crociato sventolano quelle dei Comunisti italiani e di Rifondazione comunista. La marcia partirà dalla stazione e attraverso via Roma raggiungera' piazza Castello. Durante il corteo è previsto un "volantinaggio" di materiali del cantiere della Maddalena a Chiomonte: pezzi di recinzioni, reti e macerie.

Capitalismo, ora X





Il capitalismo è sopravvissuto al comunismo. Bene, ora si divora da solo.

Charles Bukowski

giovedì 26 gennaio 2012

Germania euroscettica


il giornalista svizzero Alfonso Tuor (che tempo fa conduceva una trasmissione sulla finanza vista anche nel nord Italia):

Ticinonews - In Germania si discute l'uscita dall'euro

In Germania il dibattito sull’uscita dall’euro è ormai diventato di dominio pubblico. La prospettiva di ricreare il marco tedesco non è vista come una iattura da molti industriali tedeschi. Citiamo in proposito alcune dichiarazione pubbliche rilasciate negli ultimi giorni.
Anton F. Börner, presidente dell’Associazione tedesca degli esportatori, ha dichiarato al giornale Handelsblatt: “Il fatto che approfittiamo dell’euro non vuol dire che dobbiamo accettare qualsiasi compromesso per salvare la moneta unica europea. Infatti, noi abbiamo bisogno di un mercato comune, non di una valuta”. L’ex Presidente della Confidustria tedesca ha da parte sua proposto che si abbandoni l’euro come è oggi, per creare un euro del Nord, di cui facciano parte solo i Paesi che l’austerità l’hanno già acquisita nel proprio Dna,cioè Germania, Olanda, Austria e Finlandia. Sulla questione è pure intervenuto Wolfgang Reitzle, amministratore delegato del Gruppo Linde (gas industriali) il quale ha dichiarato al settimanale Der Spiegel: “Se non si riesce ad imporre la disciplina ai Paesi della periferia, la Germania dovrebbe abbandonare l’euro. Questo non dovrebbe essere un tabù. Avremo un aumento della disoccupazione all’inizio, ma poi diventeremo ancora più competitivi e in grando di affrontare i nostri concorrenti asiatici. Per correttezza è corretto citare anche le dichiarazione di segno opposto. Il Chief Financial Officer di BMW, Friedrich Eichner, ha dichiarato che “un ritorno al marco tedesco sarebbe catastrofico”. Il CEO di Deutsche Post, Frank Appel, ha detto: “Qualsiasi sarà il costo necessario per salvare l’euro, sarà comunque inferiore a quello che l’euro ha dato e continuerà a dare alla Germania e all’Europa”.
Questo spaccato della discussione in corso in Germania conferma che oramai la sopravvivenza dell’euro è diventato un argomento di dibattito politico e che la prospettiva di un’uscita della Germania dall’euro è ormai all’ordine del giorno e non è più solo un’eventualità lontana di cui si discute solo in questo blog. Da queste prese di posizione si può dedurre che non vi è ancora un consenso negli ambienti economici tedeschi sulla strada da seguire. Ma bisogna fare attenzione. Alle prese di posizione di questi esponenti del mondo dell’industria, bisogna aggiungere la chiara linea adottata dalla Bundesbank, la prestigiosa banca centrale tedesca che ha una grandissima influenza sia sulle decisioni del Governo sia sull’opinione pubblica germanica. Ebbene, la Bundesbank, con le dimissioni di Axel Weber e di Jürgen Stark, dal Comitato direttivo della Banca centrale europea ha chiaramente espresso non solo dubbi sul futuro dell’euro, ma anche una pesante critico sull’opera di sostegno alla moneta unica europea prestata dalla Bce.
Altrettanto sta facendo il nuovo rappresentante tedesco nel Direttivo della Bce. Quest’ultimo ha infatti dichiarato che il testo del “Patto fiscale” in discussione non soddisfa le richieste della Germania. In particolare – ha aggiunto – è inaccettabile la possibilità di non rispettare i criteri sul debito pubblico in caso di difficoltà economiche. Puntualmente il Governo tedesco ha fatto proprie queste critiche e nel corso dell’Eurogruppo di lunedì scorso ha vincolato il decollo del Fondo di Stabilità Europeo (ESM), dotato di 500 miliardi di euro, alla correzione del testo attualmente in consultazione. Insomma, Berlino non cede di una virgola e chiede in cambio di nuovi esborsi impegni che i Paesi deboli europei non sono assolutamente in grado di assumersi. Quindi, sostenere – come hanno fatto molti giornali italiani – che Berlino ha accettato l’asnticipo a luglio del varo dell’ESM e che avrebbe accettato pure di mantenere in vita il Fondo Salva-Stati è una forzatura che non risponde alla realtà dei fatti. Anzi, la Germania continua ad alzare l’asticella che molti Paesi, tra i quali l’Italia, non potranno riuscire a saltare.

La grancassa della propaganda, soprattutto di origine italiana, non può nascondere il dato di fatto che la posizione finanziaria dell’Italia è sempre più precaria e sempre più vicina all’insolvenza. In proposito, basti ricordare che lo Stato italiano vuole saldare le sue fatture con migliaia di imprese italiane pagando con i BOT, ma questo stratagemma dimostra solo che Roma ha difficoltà a raccogliere liquidità sui mercati. Infatti i BOT emessi per pagare le aziende italiane faranno lievitare sia il deficit pubblico sia il debito pubblico italiano. Per risolvere questo problema, è stata avanzata l’idea di vendere alla Cassaepositi e Prestiti di proprietà del Ministero del Tesoro i pacchetti azionari di alcune società detenuti dallo Stato, come Eni, Sace, Enel, ecc. Si tratta, come tutti capiscono, di un’operazione che farebbe rizzare i caprelli anche ai maghi della nuova ingegneria finanziaria di Wall Street. Ma le cose già funzionano da tempo in questo modo. Infatti alcune banche italiane emettono obbligazioni garantite dallo Stato che poi danno alla Banca centrale europea come pegno per ottenere liquidità. Siamo al gioco delle tre carte, che non può durare a lungo, anche se questa liquidità viene usata per comprare tuitroli di Stato con il risultato di ridurre rendimenti e spread.
Ma c’è di più. Molti strati popolari italiani stanno insorgendo contro la stangate del Governo Monti e le liberalizzazioni recentemente annunciate. A ciò bisogna aggiungere i morsi sempre più lancinanti della recessione. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che quest’anno l’economia italiana si contrarrà del 2,2% e l’anno prossimo dello 0,6%. Insomma, il rischio Grecia è sempre più concreto. Resta dunque valida la previsione dell’uscita della Germania dall’euro.

Rossanda analizza l'impasse europeo: è di luglio, ma validissimo oggi.


La rotta d'Europa

Rossana Rossanda - 19 luglio 2011

Questo è il testo che ha dato origine al forum: che Europa vogliamo? Ci sta bene quella attuale? O ne vogliamo una diversa? E se sì, come deve essere?
Qualche anno fa Romano Prodi si è felicitato di aver fatto l’unità dell’Europa cominciando dalla moneta. Se avessimo cominciato dalla politica – è stato il suo argomento – non ci saremmo arrivati mai data la storica rissosità dei singoli stati. Mi domando se lo ripeterebbe oggi.

E’ vero che la moneta unica, l’euro, c’è ed è diventata la seconda moneta internazionale del mondo, ma lui medesimo, che aveva a lungo diretto la Commissione, Jacques Delors, che l’aveva preceduto - nonché Felipe Gonzales, presidente all’epoca del governo spagnolo ed altri minori responsabili di quegli anni - hanno scritto sabato su “Le Monde” un preoccupato testo sul suo destino. Quattro paesi dell’Unione, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia sono indebitati fino agli occhi e sono entrati in una zona di turbolenza pericolosa per tutto il continente. Soprattutto i padri dell’euro riconoscono che “certe misure” che si sarebbero dovute prendere a suo tempo, “come un coordinamento delle politiche economiche”, non sono state prese e “si stanno elaborando oggi “ e “nel dolore”. Di furia, perché siamo alle strette. Se ho capito bene, si tratta di alleggerire il debito greco con l’emissione di Eurobonds che se ne assumono una parte a lunga scadenza (e senza specularci sopra come hanno fatto le banche tedesche e francesi) e poi andare a un programma economico di tutti i paesi europei che cessi di lasciare ciascuno a cavarsela da sé. E non getti sui cittadini greci tutto il “dolore” e il peso del rientro del debito e della ricostruzione di una economia. Paghino una parte del conto “i grossi investitori istituzionali”, cioè le banche estere hanno investito a rischio, e il rischio è il loro mestiere.

Parole prudenti, ma sufficienti, penso, a non trovare l’accordo dei paesi che si riuniranno giovedì 21 a Bruxelles - per cui la Germania sarebbe stata incline a prendere più tempo. Un suo illustre economista sostiene, una pagina più in là, che bisogna invece mettere la Grecia temporaneamente fuori dall’euro a spicciarsela con le sue dracme, una loro energica svalutazione e senza l’aiuto degli Eurobonds. E’ la linea liberista. Che si incrocia, in tutt’altra prospettiva, con quella di Amartya Sen, di alcuni economisti e sociologi francesi come Jacques Sapir e Emmanuel Todd e di politici di sinistra come Mélenchon e una parte dell’amletico Partito socialista, e dell’estrema destra di Marine Le Pen - via dall’euro e per sempre.

Non so - non trovando traccia delle procedure di abbandono dell’euro nelle varie bozze di trattati - se sia fattibile né ho capito in che cosa migliorerebbe le condizioni della Grecia un ripescaggio della dracma; la poderosa svalutazione si accompagnerebbe, certo, a una maggiore possibilità di esportare i suoi prodotti (ammesso che ne abbia di appetibili oltre il turismo) ma anche a un aumento, di proporzioni pari, del debito con le banche tedesche. O sbaglio?

Sta di fatto che alla vigilia del ventesimo compleanno della moneta europea, il giudizio su che fare è una cacofonia. Non a caso l’appello di cui sopra chiama prima di tutto ad avere “una visione chiara” e condivisa dello stato dell’Europa. Sarebbe stato utile arrivarci prima e non con il coltello alla gola. Oltre alla Grecia infatti, Portogallo, Spagna e Italia hanno accumulato un indebitamento pubblico mostruoso e vacillano sotto l’occhio spietato e non disinteressato delle agenzie di rating. Per il patto di stabilità non si dovrebbe superare il 60 per cento del Pil mentre noi, per esempio, siamo al 120. Ma la nostra economia appare in stato ben migliore di quella greca e, cosa che conta, il nostro indebitamento è soprattutto all’interno, non ci sono banche tedesche che ci ringhiano addosso.

Per cui anche se Moody ci abbassa la pagella, la Commissione si limita a ordinarci cure da cavallo, tipo la manovra votata a velocità supersonica qualche giorno fa, per “rientrare”. La cui filosofia è uguale per tutti: tagli alla spesa pubblica (scuole ospedali e amministrazioni locali in testa), vendita di tutto il vendibile (perché la Grecia non cederebbe il Partenone a Las Vegas?), privatizzare il privatizzabile, cancellazione dello stesso concetto di “bene pubblico”. Il governo greco, naturalmente di unità nazionale come tutti quelli delle catastrofi, è andato già a un taglio del 10 per cento dei salari e delle pensioni, e la collera e le manifestazini della gente vengono dalla disperazione. E già per l’euro è un sisma.

Forse non è inutile ricordare che fra pochi giorni, il 2 agosto, gli Stati Uniti si troveranno, mutatis i molti mutandis, nella situazione greca di non poter pagare i salari né onorare le proprie fatture, perché il debito pubblico ha superato il tetto imposto dalla legge. Senonché a innalzare quel tetto basta un accordo fra i democratici e i repubblicani, che finora lo hanno negato. Nessuno stato europeo può invece spostare da solo il patto di stabilità. Più che consolarsi sulle vaghe analogie sarà meglio chiedersi se questi indebitamenti dell’ex ricco occidente non abbiano qualche radice comune.

Mi rivolgo a chi ne sa più di me, cioè agli amici economisti e ai padri e ai padrini (di battesimo, in senso cattolico) della Ue, nella speranza che rispondano ad alcune altre domande che a una cittadina di media cultura si presentano ormai impietosamente. Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?

La prima domanda è come mai i padri dell’euro si erano convinti che un’unificazione della moneta sarebbe stata di per sé unificatrice di un’area vasta di paesi dalla struttura economica così diversa per qualità e robustezza. Tanto convinti da non avere previsto misure di recupero per chi non riuscisse a stare nel patto di stabilità. Non è forse che consideravano impensabile che la mano invisibile del mercato non riuscisse ad allineare a medio termine le economie di questi paesi? Per cui bastava affidarsi a una politica monetaria e attentamente deflazionista - linea che la Bce ha fedelmente seguito - per garantirne il successo? L’euro e la Ue sono nati in quella fede nel liberismo, che von Hajek aveva ripreso, proprio prima della guerra, contro la politica rooseveltiana seguita al 1929 e le proposte di Beveridge e di Keynes di trarre da quella crisi la consapevolezza del pericolo che rappresenta una frattura economica e sociale profonda, trovarsi di fronte una destra populista come quella che negli anni ’30 si sviluppò, oltre il fascismo, nel Terzo Reich di Hitler, nella Grecia di Metaxas e nella Spagna di Franco? Non era necessario evitarla andando a un vero compromesso fra le parti sociali, costringendo i governi a (mi sia premesso il gioco di parole) costringere il capitale a cedere una parte meno iniqua del profitto alla monodopera, in modo da: a) garantirsi una certa pace sociale (c’era ancora di fronte l’Urss che aveva fatto arretrare i tedeschi a Stalingrado); b) garantire un potere d’acquisto di massa per una produzione di massa (fordista)? Le costituzioni e le politche dei governi europei del secondo dopoguerra andarono, più o meno, tutte in questa direzione.

Dalla quale la Ue svoltava decisamente.Tre anni prima era caduto il Muro di Berlino, e i partiti di sinistra e i sindacati avrebbero seguito, più o meno convinti, la strada. I conti della scelta liberista ci sono oggi davanti agli occhi.

Al di là degli effettivi successi in campo giuridico in tema di diritti umani, non è forse vero che, malgrado le enfatiche dichiarazioni, i vari trattati, quello di Nizza incluso, registrano un arretramento dei diritti sociali rispetto ai Trenta Gloriosi? Probabilmente si riteneva che costassero troppo: nessuno è stato eloquente su questo punto come il New Labour di Tony Blair. Sta di fatto che, dichiarando nobilmente la piena libertà di circolazione delle persone, delle imprese e dei capitali, messi sullo stesso piano, la Ue dava libero corso alla finanza, alle delocalizzazioni e assestava ai lavoratori una botta epocale.

Cittadini, imprese e capitali non sono infatti soggetti della stessa natura, e non hanno la tessa libertà di movimento. Altra cosa è spostarsi in Lituania per il salariato di una impresa lombarda ed altra per la sua impresa andarvi in cerca di dipendenti da pagare di meno. E ancora altra lo spostarsi virtuale di un quotato in borsa da Milano a Tokio. Ma non stiamo a fare filosofia. Con la Ue cessava infatti ogni controllo sul movimento dei capitali in entrata e in uscita, non solo da parte di ogni singolo stato ma del continente; e siccome in Europa i lavoratori avevano raggiunto collettivamente un salario più alto e una normativa migliore che nel resto del mondo, i capitali scoprivano presto che potevano ottenere dalle operazioni finanziarie un profitto assai più ingente di quello che si poteva ottenere dagli investimenti nella produzione, materiale o immateriale che fosse. La finanza ha preso un ritmo di crescita senza precedenti, le sue figure si sono moltiplicate inanellandosi su se stesse fino a perdere ogni base effettiva, abbiamo scoperto parole suggestive, come i fondi sovrani, i trader, gli asset, i futures, e capito meglio a che e a chi servisse un paradiso fiscale, la Ue liberista apriva insomma il varco a manipolazioni non illegali ma mai conosciute prima, le stesse che gonfiandosi hanno formato la grandiosa bolla finanziaria scoppiata nel 2008. Nella quale gli stati sono dovuti intervenire con i soldi pubblici per evitare il crollo delle banche (una, la Lehman Brothers, è colata a picco) e dei relativi e ignari depositari. Coloro che erano stati consigliati di comperare una casa dall’allegria finanziaria delle banche stesse si sono trovati per strada. Un trader più esperto dei suoi superiori ha fatto perdere cinquecento milioni di euro alla antica Sociéte Générale, per amore della mirabolante professione, senza mettersi in tasca un quattrino. Alcuni imbroglioni hanno fatto miliardi, uno di loro, Madoff, s’è fatto pescare. Il G20 e il G21, riuniti in fretta, hanno innalzato lamenti, denunciato la finanza, inneggiato all’intervento dello Stato, denigrato fino un mese prima, deprecato l’esistenza dei paradisi fiscali e si sono fin giurati di ridare “moralità” al capitale. Ma tutto è tornato come prima, neppure l’obbiettivo più semplice, chiudere con i paradisi fiscali, è stato realizzato. L’investimento nella finanza resta golosissimo.

Sulla stessa linea, i capitali che restavano nella produzione scoprivano che avrebbero realizzato ben altri profitti se avessero spostato le loro imprese fuori dall’Europa occidentale, dove imperversano ancora, sebbene assai allentati, i “lacci e lacciuoli” e la “rigidità” del lavoro. Così succede, per offrire qualche esempio, che un gruppetto bresciano si sia acquistato in Francia una vecchia e gloriosa marca di piccoli elettrodomestici per portarla in Tunisia (prima della rivolta). Che un miliardario indiano si sia acquistato le residue acciaierie d’Europa per chiuderle, restando solo sul mercato con l’azienda paterna. I governi non si pemettono più di intervenire sulle parti sociali, correndo dietro ai capitali e mettendogli il sale sulla coda con agevolazioni e detassazioni. Chi non sa che una impresa paga meno tasse di quanto debba pagare un salariaro? Se poi è una multinazionale del petrolio, come la Total, che è insediata in diversi paesi, può succedere che in Francia non paghi nulla.

Infine, il capitale ha avuto più intelligenza delle sinistre nel puntare sul trasferimento del lavoro in tecnologia. Poteva essere un enorme risparmio di fatica e un enorme aumento della produttività della manodopera, ma è solo servito a ridurla. Può sorprendere che in tutta Europa i disoccupati superino oggi i cento milioni? Che il 21 per cento dei giovani non trovi lavoro? I governi pensano poi a demolire, per facilitare le imprese, le difese restanti del salario e della normativa nel lavoro dipendente. L’invenzione del precariato è stata geniale. Certo resta ancora da fare per raggiungere l’inesistenza di diritti e contratti collettivi dell’Egitto e della Cina, ma si direbbe che l’obiettivo sia quello.
Come si faccia a tener alte le entrate e modificare la crescita e in direzione compatibile con un impoverimento diretto e indiretto, attraverso i tagli nel welfare della grande maggioranza delle nostre societa è per me un mistero. Come si possa stupirsi che gli operai, occupati o disoccupati, scombussolati dalle scelte dei partiti di sinistra e dei sindacati, non amino questa Europa? E crescano dovunque in voti le destre?

Vorrei essere smentita. E che mi si dimostrasse che l’Europa non c’entra, che non può, e non solo non ha voluto, far altro.

CON LA VALSUSA: NO TAV!


DAVOS: idee molte, ma confuse


nella foto: Stiglitz e Roubini



A DAVOS SI SCIA SULLA CRISI - AL FORUM DEI POTERI FOTTUTI IN SVIZZERA, COLORO CHE HANNO MESSO IL MONDO IN GINOCCHIO CON LA “FINANZA CREATIVA”, SI ATTEGGIANO A CASSANDRE - DAGLI ECONOMISTI DEL FMI AL CAPO DI PIMCO, DAL NOBEL STIGLITZ AL MILIARDARIO SOROS, TUTTI D’ACCORDO CHE IL 2012 SARÀ MEDIAMENTE MERDOSO - E ROUBINI, CHE FA LA CASSANDRA COME PROFESSIONE, ORMAI NON FA PIÙ NOTIZIA, ED È STATO RELEGATO A CONFERENZE MINORI…
titolo da dagospia

1 - IN CALO L'AUDIENCE DI ROUBINI, PESSIMISTA DI RUOLO
Federico Fubini per il "Corriere della Sera"


Ieri verso mezzogiorno Nouriel Roubini, professore di economia alla New York University, ha preso il suo smartphone e ha fotografato la folla. I banchieri, i grandi industriali, i capitani degli hedge fund si accalcavano alle tavole del buffet della giornata di apertura del World Economic Forum a Davos. Roubini ha affisso la foto su Twitter, con un commento: «Non solo nutrimento per il pensiero qui a Davos».

In quel gesto c'è molto del suo personaggio. Roubini si mischia alla folla di Davos, eppure sottilmente la deride. Fa parte del club, è amico dei banchieri, è una star per i grandi media globali, ma allo stesso tempo si sente fuori. Partecipa alle conferenze delle grande case finanziarie - la sua tariffa di base è di 25 mila dollari - però si fa vedere fra gli indignati di Occupy Wall Street a Zuccotti Park.

Non sono contraddizioni insostenibili nella società di Davos, per definizione disposta a discutere. Eppure, a differenza degli ultimi anni, quest'anno a Roubini il «World Economic Forum» ha offerto un palcoscenico più piccolo. Ieri è intervenuto a un incontro a porte chiuse un po' oscuro, all'ora di pranzo. E nei prossimi giorni lo faranno parlare in contemporanea al presidente della Banca centrale europea Mario Draghi (ma in un'altra sala) e sull'arte di fare previsioni, non sulle sue previsioni vere e proprie.

Per la prima volta da tempo l'organizzazione non lo ha invitato sul palco nei grandi dibattiti di apertura, per i quali sono stati preferiti economisti più ortodossi come Raghuram Rajan e Kenneth Rogoff. Rajan e Rogoff sono entrambi ex capoeconomisti del Fondo Monetario Internazionale; Roubini invece non potrebbe mai diventarlo, esattamente per il motivo che ha fatto di lui il primo economista al mondo con uno status da rockstar: è cronicamente pessimista. Iniziò a esserlo quando non era di moda, e lui era solo un docente poco citato, affrontando la derisione nel 2005 e nel 2006 quando annunciò in anticipo il crac in arrivo della finanza immobiliare americana. Poi non ha più abbandonato la formula che lo ha reso famoso.


A novembre, prima che gli spread italiani crollassero di quasi 200 punti-base, Roubini aveva già scritto che l'Italia avrebbe dovuto organizzare il proprio default. Berry Eichengreen, di Berkeley, l'ha (indirettamente) accusato di calcare i toni solo per promuovere se stesso. In ogni caso prevedere sempre il peggio era una tecnica efficace, che faceva sentire più intelligenti i padroni di Wall Street assembrati in sala a Davos ad applaudire. Fino a quando, anche loro, hanno iniziato a chiedere un intrattenimento diverso.


2 - LA GRANDE SFILATA DELLE CASSANDRE IN GARA SULLE PREVISIONI AL RIBASSO

Giuliana Ferraino per il "Corriere della Sera"

Anni di crisi, tempo di Cassandre. Politici, economisti, manager, analisti sembrano fare a gara nel prevedere terribili sciagure sul futuro dell'euro e del progetto europeo. Con ripercussioni inevitabili sul resto dell'economia globale. Nella mitologia greca Cassandra, figlia di Priamo, re di Troia, e di Ecuba, aveva ricevuto dal dio Apollo, che si era invaghito di lei, il dono della profezia. Ma poi, quando non mantiene la promessa di sposarlo, Apollo decide che nessuno le crederà più.


Oggi è una Cassandra chi vede cupo, preannuncia guai o minaccia disastri, indipendentemente dal fatto che poi le previsioni si avverino.
«Cassandra Lagarde», intitolava ieri il Wall Street Journal in un editoriale. Nel mirino del giornale Usa il monito lanciato da Berlino dal numero uno del Fondo monetario internazionale. Senza azioni radicali, il mondo andrà incontro alla prospettiva di un'altra Grande Depressione, aveva messo in guardia Lagarde lunedì.

E il giorno dopo il Fmi ha ribassato tutte le stime sulla crescita dell'economia globale per il 2012, e chiesto all'Europa di rafforzare il fondo salva Stati. «Il pessimismo è nell'aria di montagna», titolava ieri il Financial Times. È l'aria di Davos, visto che un sondaggio tra alcuni economisti che partecipano al World Economic Forum rileva quanto siano sfiduciati sul futuro, nonostante l'umore sui mercati finanziari sia migliorato nel 2012 e i dati economici abbiano superato le attese.


Carmen Reinhart, senior fellow al Peterson Institute for International Economics, prevede un «seria stretta economica o un altro anno di alta disoccupazione, debole crescita e ripresa ritardata in generale tutte le economie avanzate». Il Nobel per l'economia Joseph Stigliz mette in guardia contro il rischio di «un nuovo crunch», peggiorato dalla «debolezza di risposte politiche appropriate». Kenneth Rogoff dell'Università di Harvard si chiede se finalmente l'eurozona si sveglierà e realizzerà che almeno due o tre Paesi periferici necessitano di enormi svalutazioni e possibilmente di «un sabbatico dall'euro».

La Cassandra del giorno? Ieri a Davos il miliardario George Soros è arrivato a dire che la Grecia sarà espulsa dall'euro entro quest'anno. Non è una posizione isolata. Atene è il bersaglio preferito dei catastrofisti del nostro tempo. Il tedesco Hans Werner Sinn, direttore generale dell'Istituto di ricerca economica Ifo, ha sentenziato più volte che «il rischio di spaccatura è concreto». A suo modo di vedere la fine dell'eurozona non è questione di «se» ma solo di «quando». E per lui la Grecia dovrebbe uscire immediatamente.

Mohamed El-Erian, ex economista del Fmi e ceo di Pimco, il maggiore gestore di bond del mondo, di solito centra le sue previsioni. L'ultima volta, in estate, all'indomani del downgrade del debito sovrano americano da parte di Standard & Poor's aveva pronosticato che la Francia sarebbe stata il prossimo Paese a perdere la tripla A.

E' successo un paio di settimane fa. Ed El-Erian sostiene ormai da quasi due anni che Atene deve abbandonare, almeno temporaneamente, la moneta comune per salvarsi e salvare l'eurozona. Che dire delle agenzie di rating? Da S&P a Moody's a Fitch, i loro ammonimenti sono profezie che si auto-avverano immancabilmente. Perfino i politici, una volta i primi a promettere un futuro più roseo, di questi tempi sono iscritti ai club dei tenebrosi. Quest'anno, presagiscono, sarà pieno di insidie.


La cancelliera tedesca Angela Merkel nel suo discorso di fine anno ha predetto che «il 2012 sarà più difficile per l'eurozona del 2011», ma rifiuta di rafforzare il fondo salva Stati. Per il presidente francese Nicolas Sarkozy è «l'anno di tutti i rischi». E il premier italiano Mario Monti ha varato un decreto per salvare l'Italia e un altro per farla crescere, avvertendo che senza riforme strutturali c'è il baratro. Un problema europeo?

Forse, ma anche l'economia che corre più forte ha le sue Cassandre. Come James Chanos, fondatore del fondo Kynikos Associates, che scommette da tempo sul crollo dell'economia cinese a causa dello scoppio della bolla immobiliare. Perfino il premier indiano Manmohan Singh ha avvertito che gli indiani non devono credere che la crescita sostenuta sia garantita. A proposito, Cassandra aveva previsto la distruzione di Troia, ma nessuno le ha creduto.

Nuove Marie Antoniette

mercoledì 25 gennaio 2012

martedì 24 gennaio 2012

Non ci vorrebbe proprio la terza guerra mondiale...


Cina, durissimo monito della Cina agli Usa e ai suoi alleati, nel caso in cui l’Iran verra’ attaccato da Washington

Fonte: il 24 gennaio 2012 alle 17:06 da balrock@finanzaonline

Stà circolando in rete la notizia che la Cina sia pronta a dichiarare guerra agli USA se decidessero di attaccare l’ Iran:





Durissimo monito della Cina agli Usa e ai suoi alleati: nel caso in cui l’Iran verra’ attaccato da Washington e qualunque altro paese, Pechino entrera’ subito in azione scegliendo l’opzione militare a favore di Teheran.L’ha detto il presidente cinese Hu Jintao citato da ‘European Union Times‘, organo del Pentagono. A confermare la notizia e’ stato per primo il premier russo, Vladimir Putin, che ha menzionato le parole del capo di stato di Pechino secondo cui l’unica via per fermare l’aggressione occidentale all’Iran e’ quella militare; la Cina adottera’ misure di rappresaglia contro ogni azione ostile alla Repubblica islamica. Le forze marine della Cina sono attualmente in stato di massima allerta dietro l’ordine dello stesso Hu Jintao, il quale secondo Fars News, in un incontro con i capi dell’esercito del suo paese ha promesso di sostenere l’Iran ad ogni costo correndo persino il rischio di entrare nella terza guerra mondiale.



La notizia proverrebbe dall’ agenzia iraniana Fars News, la quale è stata ripresa subito dal sito NoCensura.

Vi diamo Marchionne: ci date Buffet, please?



Il Warren Buffett che non ti aspetti. O forse sì?

da: Il Fatto Quotidiano

Leggo (con ritardo) un lunghissimo articolo su Time Magazine dedicato al miliardario Warren Buffett. Terzo uomo più ricco del mondo, azionista – tra l’altro — di Ibm, Coca Cola, AmericanExpress e Procter&Gamble.

Viene raccontata la sua storia, ma sono anche ampiamente descritte le sue idee e le sue proposte.

Dice alcune cose intriganti. Del tipo credere nella fortuna, che per lui ha coinciso essere nato negli Usa, maschio e prima del 1930. Ma dice anche che le persone non ti seguiranno se sentono di vivere in una plutocrazia. Ovvero, bisogna essere credibili quando si chiedono sacrifici alla gente. (Uhm. Mi sovviene la composizione della compagine di Monti. Specialmente leggendo della legge Salini e dell’uscita di Martone).

L’elogio della ricchezza di Warren Buffet è fondamentalmente diverso dal concetto di ricchezza e della sua esaltazione fenomenologica, come succede in Italia. Anche perché Buffett diventa molto critico rispetto ai nuovi ricchi, agli speculatori finanziari e ai Ceo dai guadagni stratosferici, basati sugli investimenti finanziari e non su quelli struttural-produttivi. (Faccio ancora una volta l’amaro paragone con l’Italia e in particolare sul sistema produttivo.)

Dice anche che vorrebbe più scuole pubbliche, così le famiglie ricche non investirebbero in quelle private (lui ha frequentato una scuola pubblica). (Però, è un’idea!)

Dice anche che il capitalismo ha sì smosso il potenziale umano come mai nella Storia prima, ma che diventare ricco non significa essere migliore o più meritevole di un medico, di un insegnante o di un soldato. Attività pubbliche e di pubblico servizio (come la sanità) non sono adatte a un sistema di mercato, ma sono utilità fondamentali, da finanziare con l’aumento delle tasse ai più facoltosi, specie in tempi di crisi nera.

Certo, negli Usa la guerra contro l’aumento delle tasse è più aspra che da noi (che abbiamo l’evasione fiscale, invece, da combattere, prima ancora che tassare i soliti noti) e i Repubblicani sono agguerritissimi, ma Buffett – 81 anni – è ancora più drastico dei suoi sofisti detrattori: “Le prossime generazioni non saranno più fortunate della mia e il problema della disuguaglianza è destinato a peggiorare.” L’immobilità sociale è il vero guaio, non la demonizzazione tout court della ricchezza, ci spiega. Animale con grande fiuto per affari ed investimenti, tifa per Obama, lascerà il suo patrimonio in beneficenza e ha sempre vissuto modestamente. Pare che anche John Elkan sia andato da lui per consigli.

Insomma, Warren Buffett sembra un personaggio perfetto. O magari è solo la sua canuta e saggia età a farlo ragionare in questi termini. Pare che abbia trovato la quadra tra la ricchezza e il benessere sociale, attraverso la redistribuzione del reddito. Noi, invece, lontani anni luce da Buffett ed il suo illuminismo, ci facciamo le lotte incrociate, provando a bloccare un Paese, sol perché a nessuno viene in mente di adottare un’idea semplice come quella della redistribuzione economica per una maggiore equità sociale e per avviare uno slancio di crescita e magari di entusiasmo. (Mi sfugge ancora il nesso fondamentale ‘liberalizzazioni minori’ = ‘salvataggio di un Paese’. Chiedo venia.)

Poi, arriva un miliardario americano (il terzo più ricco al mondo!) e ti scrive un programma di sinistra (sul Time è scritto ‘radical’, che sta per ‘person with extreme political views’, ovvero ‘estremista’) sul settimanale più diffuso e soporifero del pianeta!

Un mio amico di Facebook ha commentato (dopo che avevo postato un pensiero sulla ‘sorpresa’ Buffett): “L’erba del vicino…”. Mi sono chiesta se sia davvero solo una questione di sfumature di verde.

di Marika Borrelli

lunedì 23 gennaio 2012

TITANIC ITALIA



Italia terra di conquista: 108 acquisizioni.Nel 2011, per un totale di 18 miliardi.

da: Il Fatto Quotidiano

Nell'anno appena concluso le aziende italiane in crisi per debiti o liquidità sono state oggetto prediletto dell'interesse dei grandi gruppi esteri. A cominciare da quelli francesi e cinesi, sostenuti - soprattutto i secondi - dal grande capitale di Stato. Il controvalore delle operazioni è cresciuto dell'80% rispetto al 2010 e vale oggi quasi la metà della finanziaria del governo. E il 2012 non si annuncia migliore
L’ultima in ordine di tempo è la Ferretti group, passata alla società cinese Shandong Heavy Industry Group – Weichai. Solo il tempo di festeggiare il Capodanno (occidentale) del 2012 e il Dragone ha messo il sigillo su un gioiello dell’industria italiana, maggior produttore mondiale di yacht di lusso. Ferretti era incappata nei guai per l’eccesso di debiti accumulati in successivi passaggi di mano di fondi di private equity, e i cinesi hanno vinto la partita grazie all’accollo dell’indebitamento con un esborso complessivo di 374 milioni di euro – di cui 178 milioni in investimenti e 196 milioni per il finanziamento del debito del gruppo – per il 75% della società italiana. Il compratore è una società statale, dotata quindi di fondi pressoché illimitati, ma assolutamente estranea al mondo degli yacht. Non è un problema, l’importante è accaparrarsi le tecnologie e il “saper fare” artigianale degli italiani, farli propri e svilupparli successivamente in madre patria, dove i milionari sono molti e gli yacht di lusso un giocattolo sempre più ambito.

Compratori attenti, i cinesi. Venditori distratti del loro patrimonio manifatturiero gli italiani. La nostra manifattura è la seconda in Europa per importanza, dietro solo a quella tedesca e a prezzi di realizzo causa crisi e (apparente) disinteresse degli imprenditori italiano. I dati elaborati dalla società di consulenza Kpmg non lasciano dubbi. Nel 2011 le imprese straniere hanno fatto man bassa delle aziende italiane. Sono in tutto 108 acquisizioni tra grandi e piccole, per un controvalore totale di 18 miliardi di euro. Per fare un paragone, stiamo parlando della metà della manovra finanziaria lorda con cui il governo Monti ha messo in sicurezza i conti statali a fine 2011. Tanti, tanti soldi per un periodo di crisi, contando che sono scomparsi i cosiddetti “megadeal” tipici dei periodi di espansione economica, grandi acquisizioni con numeri talvolta superiori al Prodotto interno lordo di interi stati africani o centroamericani. Nel 2010 le operazioni “estero su Italia” come si chiamano nel gergo della finanza, erano state 83, con una crescita quindi del 30 per cento e addirittura del 76 per cento se si considerano i controvalori investiti, che nel 2010 sono stati 10 miliardi. Vale la pena di notare che le imprese italiane si accontentano di affari minori. Le operazioni “Italia su Italia” e “Italia su estero” sono state rispettivamente 157 e 64, ma la somma del loro controvalore totale è pari a 10 miliardi di euro. L’80 per cento meno degli stranieri.

Imperialismo alla francese

Napoleone Bonaparte aveva avuto buon occhio per i capolavori dell’arte italiana. Una volta varcate le Alpi era stato attentissimo nel selezionare quadri e sculture di assoluto valore artistico per impreziosire i propri musei. Due secoli abbondanti dopo, mutatis mutandis, la Francia repubblicana è tornata in forze sul territorio italiano a fare incetta di altri “gioielli” della nostra epoca. Nessun uso della forza, solo strategia e soldi. I cugini transalpini sono stati gli assoluti protagonisti sul mercato delle acquisizioni nel 2011, confermando l’attenzione per il tessuto economico italiano dove nel periodo 2007-2011 sono i secondi assoluti per deal dietro solo alla superpotenza americana. Cinque delle 10 maggiori acquisizioni di gruppi italiani portano infatti il marchio dei bleus, a cominciare dalla maison del gioiello Bulgari finita a marzo al colosso mondiale del lusso Lvmh di Bernard Arnault per 4,15 miliardi di euro circa. La famiglia Bulgari è entrata nel cda francese ma nessun gruppo del lusso italiano ha rilanciato.

Appena il tempo di digerire la perdita di questo importante marchio nostrano ed è stata la volta di Parmalat, secondo gruppo agroalimentare italiano finito ai francesi di Lactalis per 3,7 miliardi di euro. Uno smacco in piena regola per un’azienda che veniva da una fase di ristrutturazione finanziaria complicata post crac Tanzi. La beffa è ancora maggiore se si pensa che il gruppo di Collecchio era un piccolo forziere con 1,4 miliardi di euro di liquidità derivante dalle azioni revocatorie e risarcitorie contro le banche. Non solo: come ogni azienda agroalimentare è anche il terminale di una filiera spesso complessa che ha origine nel mondo agricolo, settore fragile. Anche in questo caso nessuna resistenza degna di nota. L’ex ministro Giulio Tremonti, spaventato dal possibile contraccolpo sull’opinione pubblica aveva annunciato norme antiscalata sul modello proprio di quelle francesi, ma poi partorì poco o niente e l’acquisizione andò in porto con il benestare di IntesaSanpaolo (ex azionista forte di Parmalat) guidata dell’attuale ministro Passera. Così come è andato in porto l’acquisto di Edison da parte della società statale transalpina Edf, che a fine anno ha messo le mani sul secondo player commerciale di luce e gas in Italia. L’intervento di Passera, in versione ministro, ha lasciato in mani italiane la controllata Edipower, attiva nella generazione. Il lato grottesco dell’operazione è che gas ed energia elettrica privatizzati e aperti al mercato sono finiti a una società statale, con gli utili che ingrasseranno l’Eliseo.

Sempre nel lusso sono passati a società francese la società abruzzese Brioni, quella degli smoking di James Bond e di tantissime celebrità mondiali, acquisita dalla Pinault Printemps Redoute (Ppr) interessata alla forza lavoro zeppo di sarti di alto profilo artigianale dello stabilimento di Penne, e Moncler, dov’è entrata con il 45 per cento la finanziaria Eurazeo. Italiani bravi a creare marchi e aziende, incapaci di creare anche nei settori tradizionali del made in Italy campioni di livello internazionale. E tra gli ultimi colpi di mercato anche il vino, con la casa vinicola Gancia finita all’imprenditore tartaro Roustam Tariko, attivo nella vodka e banchiere. Prima di lui la Ruffino era finita agli americani di Constellation Brands. Insomma, siamo i primi o secondi produttori di vino al mondo e non abbiamo un’azienda di livello internazionale. Continuano i paradossi.

E nel 2012? Le prede aumentano

Che la razzia delle imprese italiane stia diventando un problema sembra se ne siano accorti anche nel governo che potrebbe studiare una nuova norma antiscalate per difendere le società italiane da attacchi esterni e diminuirne così la contendibilità. Non è chiaro ancora cosa ne verrà fuori, ma quelle che sono ben visibili sono le prede. A cominciare dal disastrato sistema bancario italiano, alla ricerca disperata di liquidità e con valori di borsa bassissimi in questo momento. Basti pensare che che a fine mese, con la chiusura dell’aumento di capitale Unicredit, si capirà qual è il nuovo azionariato e potrebbero esserci sorprese asiatiche o mediorientali, sotto forma di fondi sovrani. Il solo sistema cinese ha pronti per l’Europa 300 miliardi di euro da investire, e attende di allocarli al meglio.

Altre prede possibili sono Alitalia, dov’è presente AirFrance Klm come azionista che potrebbe voler crescere di peso nelle more di un risanamento dei “capitani coraggiosi” che però è messo sempre più a rischio dai conti della stessa società francese; i treni di Ansaldo Breda messi ufficiosamente in vendita da Finmeccanica e con la francese Alsom possibile interessata insieme ai canadesi di Bombardier; la maison Valentino cui sarebbero interessati gli spagnoli di Puig. Un caso a parte potrebbero essere le Assicurazioni Generali, gioiello della finanza italiana che Mediobanca, dove il francese Bollore è ancora salito leggermente di quota, non avrebbe la forza di difendere da un attacco portato in grande stile.

Potrebbero tornare i progetti di privatizzazione delle aziende energetiche Eni ed Enel? E’ un’ipotesi molto remota, ma nessuno in questo momento si azzarda a negare nulla. Di certo, dicono da Kpmg, “uno dei pericoli delle vendite a gruppi esteri che spesso viene sottovalutato è che il pian piano i centri gestionali si spostano dalla società acquista alla casa madre, inaridendo quel che è il tessuto professionale interno. Nel lungo periodo è una perdita di professionalità che intacca la possibilità di sviluppo e crescita futura”. Come dire: prima inglobati e poi svuotati.







Azienda big dei pelati italiani acquistata dai giapponesi.

DA REPUBBLICA

Ar Alimentari, primo produttore di pomodori pelati nel nostro paese è finito nella galassia anglo-nipponica Princes controllata dal gigante Mitsubishi. La lunga lista delle imprese acquistate da capitali stranieri.


ROMA - ll Made in Italy perde altri pezzi con l'ennesimo colpo di big stranieri sui colossi dell'alimentare italiano. Dopo Gancia, Parmalat, Perugina e Bertolli, ora a passare di mano è Ar Alimentari, primo produttore italiano di pomodoro pelati finito nella galassia anglo-nipponica Princes controllata dal gigante Mitsubishi. A rivelarlo è il presidente di Coldiretti, Sergio Marini, secondo cui con l'operazione Princes si sarebbe aggiudicata il 51% di Ar.

L'azienda italiana, nata nei primi anni '60, e' specializzata nella produzione di conserve ed ha un fatturato di circa 300 milioni di euro con stabilimenti in Campania ed in Puglia a Borgo Incoronata, a due passi da Foggia: solo il 20% delle vendite del gruppo sono realizzate in Italia mentre il giro d'affari all'estero spazia fra il 30% per l'Inghilterra, il 20% per la Germania, il 10% per l'Africa, l'8% per la Francia, con una percentuale minore per la Grecia, gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, l'Austria e il Sud America.

La blasonata Princes fondata nel lontano 1880 da Simpson & Roberts, è controllata dalla Mitsubishi Corporation dal 1989 ed ha realizzato da allora ben 22 acquisizioni e fusioni classificandosi tra le società europee con maggiore rapidità di crescita. In realtà, Ar Alimentari già nel 2001 aveva stretto legami con Princes dando vita alla società "Napolina Ltd". "I pomodori pelati sono il simbolo dell'Italia a tavola ma in un solo anno - sottolinea Marini - sono stati ceduti all'estero tre pezzi importanti del Made in Italy alimentare che sta diventando una appetibile terra di conquista per gli stranieri. Un processo favorito dalla crisi di fronte al quale occorre accelerare nella costruzione di una filiera agricola tutta italiana che veda direttamente protagonisti gli agricoltori per garantire quel legame con il territorio che - conclude Marini - ha consentito ai grandi marchi di raggiungere traguardi prestigiosi".

Si allunga sempre di più l'elenco dei marchi dell'italian food finiti in mano estera: il 2011 si è appena chiuso con il passaggio della storica casa piemontese dei Gancia all'oligarca russo della vodka Roustam Tariko che ne ha rilevato una quota del 70%. Ma a segnare il debutto 2011 dello shopping straniero era stato l'affondo dei francesi di Lactalis sulla Parmalat.

Andando ancora a ritroso, si ritrovano altre operazioni choc come quella di Buitoni, altra storica azienda familiare oggi di proprietàdella multinazionale Nestlè cui fu ceduta dopo varie vicissitudini nel 1988. Nell'universo Nestlè finisce anche Perugina, per quanto la storica casa umbra abbia mantenuto sul suolo nazionale stabilimenti e produzione. Al gruppo svizzero appartiene anche un nutrito pacchetto di acque minerali nostrane insieme ai gelati l'Antica gelateria del Corso.

Alla multinazionale anglo-olandese Unilever sono invece approdati i nostri gelati Algida, mentre gli spagnoli della Deoleo hanno fatto man bassa dell'olio d'oliva italiano accaparrandosi il marchio Bertolli in aggiunta al nutrito pacchetto Carapelli, Sasso, Minerva oli.

(21 gennaio 2012)

domenica 22 gennaio 2012

Il coro mainstream di tutta la stampa italiota. Vietato dissentire.


Il liberismo invade anche i giornali progressisti

Nelle redazioni di tutti i grandi quotidiani coesistono normalmente più anime.

Quando La Repubblica era prevalentemente dalemiano-blairiana all’insegna della Terza Via neoliberista nella sua filiera più “istituzionale” (Scalari-Mafai-Pirani?), si poteva – purtuttavia – individuare una seconda linea (Bocca-Maltese-Rinaldi?) decisamente critica dell’inciucismo neocentrista di cui si stava facendo promotore “il Blair de noiantri”D’Alema.

Niente di strano: trattasi di un fisiologico e sano contesto pluralistico.

Molto più strano – invece – è assistere oggi alla colonizzazione della testata da parte di personaggi minori, tipo Alberto Bisin e Alessandro De Nicola, i quali venerdì scorso ne occupavano quasi manu militari la prima pagina con sproloqui che avrebbero deliziato Margaret Thatcher>; imponendo una linea di critica da destra del pur moderatissimo governo Monti e recependo l’impostazione che Franco Gavazzi promuove da tempo sulle pagine concorrenti del Corriere della Sera.

Tra l’altro, ottenendo con il De Nicola l’onore di quelle due pagine che in passato erano riservate a penne ben più robuste della sua, quale quella di Giuseppe D’Avanzo (e non è chiaro con quanta condivisione entusiastica da parte dello stesso direttore Ezio Mauro).

Dunque, è davvero singolare che mentre si assiste sulle corazzate del giornalismo nazionale (Repubblica e CorSera) allo sminuzzamento delle notizie giornalistiche ridotte allo spazio di un boxino, questi bravacci manzoniani del pensiero mainstream ottengano l’onore di lenzuolate in controtendenza. Segno di potenti “santi in paradiso”, che non sembrano essere neppure il padre fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, il quale su l’Espresso dell’altra settimana si domandava da dove spuntasse fuori questo De Nicola.

Anche noi ce lo domandiamo, sebbene si sappia che Alberto Bisin salta fuori dal crogiolo fondamentalistico di NoisefromAmerika (e non è soltanto un quasi omonimo del ben noto Michele Boldrin), mentre il De Nicola è animatore di quella società Adam Smith che vorrebbe stipare nella stessa gerla l’illuminismo scozzese e il fanatismo di Hayek (roba che deve far rivoltare nella tomba il venerando autore de “La ricchezza delle Nazioni”). Oltre che sistematico frequentatore dalle ospitate radiofoniche da parte di Oscar Giannino.

Forse l’enigma del “da dove saltano fuori” questi neoliberisti un tanto al chilo può essere sciolto proprio ascoltando la voce di qualche padrone. Per esempio di Rodolfo De Benedetti, che poco tempo fa manifestava tutta la propria ammirazione per quel Centro Bruno Leoni (dal nome del guardaspalle di Hayek nelle manovre antikeynesiane dei liberisti da Guerra Fredda) di cui è diventato coordinatore l’ex dalemiano iperliberista Nicola Rossi.

Naturalmente fatti loro.

Resta ancora un’ultimo dubbio: ma dove pensa di andare una testata tradizionalmente progressista come La Repubblica consegnandosi all’attivismo polemico di questi fanatici banditori di un filone ideologico, organico alle manovre della finanza ombra internazionale, smascherato nella sua pericolosità dai ricorrenti disastri che ha promosso sulle due sponde dell’Atlantico?

Alziamo finalmente la voce



Vendola all'assemblea di Sel

"Ora nuovo fronte democratico"

Il leader di Sinistra e libertà: "Al Giglio naufragata idea della modernità". "Scardinare potere del capitalismo finanziario". Difesa dell'acqua pubblica e della Fiom. Asse con De Magistris e Rita Borsellino.

di CARMINE SAVIANO, da Repubblica


Vendola all'assemblea di Sel "Ora nuovo fronte democratico" (agf)
ROMA - Una sinistra di governo. Che costruisca la propria azione politica intorno al primato della giustizia sociale. Rompere le diseguaglianze, affrontare e battere la paura nel futuro, scardinare il potere del capitalismo finanziario. Nella Sala America dell'Hotel Summit. Roma, Nichi Vendola chiama a raccolta il popolo di Sinistra Ecologia e Libertà. Per rilanciare il lavoro di un partito la cui ragione sociale e dar vita "all'Italia Migliore". Ambientalismo, lotta alla speculazione, difesa dei Beni Comuni. Denuncia senza fine del liberalismo strisciante, difesa del lavoro. Al di là della tecnica: "Non possiamo stare nel recinto deciso da quattro banchieri e da tre agenzie di rating. Non è possibile. Tutto questo è contro la democrazia".

L'intervento del Governatore della Puglia parte dalla tragedia del Giglio, il "naufragio di un'idea di modernità". Un evento che obbliga a mettere al primo posto dell'agenda politica la cura del patrimonio ambientale. Un patrimonio fatto di beni comuni, gli stessi che "vengono continuamente messi in discussione e sacrificati sull'altare dei privilegi della finanza. Nonostante i referendum, nonostante la volontà della maggioranza degli italiani". Il riferimento alle liberalizzazioni è palese. Così come il messaggio che Vendola lancia al governo Monti: "la tecnocrazia non può congelare il calore della democrazia". Anzi. La crisi economica e sociale apre spazi "al populismo, a nuove forme di politiche reazionarie". Invece, la "buona politica" è ascolto delle richieste dei cittadini.

Ed è proprio sotto l'insegna di un nuovo rapporto con i cittadini, che Vendola chiama alla costruzione di un nuovo fronte democratico. Tutti stringono mani a Luigi De Magistris, a Rita Borsellino, a Giuliano Pisapia e a tutti gli amministratori locali che nella scorsa primavera ha "dato il primo colpo al berlusconismo". Applausi a scena aperta per Maurizio Landini e alle battaglie della Fiom. Il lavoro, cardine di una politica di sinistra, centro intorno al quale costruire un nuovo patto sociale basato sull'aggressione delle "nuove forme di povertà". Tutto nella cornice degli "Stati Uniti d'Europa", l'orizzonte di ogni politica progressista. Un'Europa che sia finalmente "soggettività politica" e non solo luogo di realizzazione di politiche di austerity. Vendola non le manda a dire: Merkel e Sarkozy sono "una coppia mediocre" a cui non conviene affidare le sorti di milioni di cittadini.

Poi il Mezzogiorno, la morsa della criminalità, la necessità di restituire ai cittadini del Sud la speranza nel futuro. Poi il panorama politico italiano. Il rischio è mortale: "un berlusconismo di ritorno". Ancora più cinico e cattivo. L'unica cura è la costruzione di un nuovo centrosinistra. "Per un partito come il nostro, nato quindici mesi fa, senza parlamentari e senza quattrini, c'è una sola ambizione: innovare la politica, aprirla, farla uscire dalle stanze chiuse dei partiti". Il messaggio agli alleati naturali di Sel è chiaro: "Il Pd, l'Idv, la Federazione della Sinistra devono lavorare per mandare definitivamente in soffitta il berlusconismo". Senza sospendere la politica nella tecnica. Avendo il coraggio di dire "che quello che ci piace delle liberalizzazioni è ciò che in quel decreto non c'è". Un cambiamento sociale. Orientato secondo quell'idea di civiltà, "quel filo rosso", che "ci consente di dire che il solo possedere la tessera della Fiom non può essere causa sufficiente per essere espulsi dal proprio posto di lavoro".

E se Vendola chiude il suo intervento sulla legge elettorale - "da cambiare, anche se questo Parlamento non ha l'autorità morale per farlo" - il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris mette al centro "la costruzione dell'alternativa". Stella polare, i Beni Comuni. Poi il welfare, che "ormai è considerato un lusso". "Dobbiamo rafforzare la connessione sentimentale che abbiamo stretto con i cittadini. Siamo già maggioranza nel Paese. La nostra è una rete di resistenza nazionale che nel 2013 può portarci al governo del Paese". Interviene anche Cristina Comencini, per il Comitato Se Non Ora Quando, invitando "a considerare il fatto che il rinnovamento passa anche da una riconsiderazione del ruolo delle donne".

sabato 21 gennaio 2012


Alla faccia del comandante


di Massimo Fini, da Il Fatto Quotidiano

La cosa più rabbrividente nella tragedia della Concordia non è il naufragio col suo strascico di morti e di dispersi, ma la telefonata fra il capitano di Fregata Gregorio De Falco, a capo della Capitaneria di Livorno, e il comandante Francesco Schettino. Perché non c’è spettacolo più osceno, pornografico di un uomo, di qualsiasi uomo, ma in particolare di un comandante di nave, ‘secondo solo a Dio’ quando è in plancia, che, per paura, di colpo si smaschera, si cala le braghe e si umilia e si fa umiliare in quel modo, davanti al mondo intero.

Gli errori, l’imprudenza, la leggerezza del comandante Schettino appaiono evidenti. Ma l’errore, cioè una valutazione sbagliata, proprio perché tale va al di là della volontà di chi lo compie, anche se poi dovrà pagarne giustamente tutte le conseguenze legali. Ma non è necessariamente un’onta. Ci sono stati assi del volante che, per un eccesso di spericolatezza, hanno ucciso degli spettatori (penso, per esempio, a una Mille Miglia di tanti anni fa), ma non per questo sul loro nome è rimasta l’ombra della vergogna. La colpa veramente imperdonabile del comandante Schettino è un’altra: aver abbandonato la nave prima che tutti i passeggeri – quelli almeno per i quali si poteva fare ancora qualcosa – fossero stati tratti in salvo. Perché questa è una decisione che è dipesa solo dalla sua volontà, non da un’errata valutazione, sempre possibile. Prima della legge un codice d’onore antichissimo, ancestrale, e l’intera storia della navigazione dicono che il comandante deve essere l’ultimo ad abbandonare la nave che affonda e, se del caso, inabissarsi con essa (e, a volte, anche se non è il caso, come fece il comandante del Titanic, Edward Smith, che rifiutò di essere tratto in salvo, e che ne seguì l’inevitabile sorte – ma erano altri tempi, altra gente, altre tempre, altra classe: dopo il mayday, e non è leggenda, non è film, è storia, l’orchestra continuò a suonare e i passeggeri a ballare).

Con quell’abbandono Francesco Schettino non ha perso solo gli alamari del comandante, ha perso la faccia, ha perso la dignità, ha perso l’onore. E l’onta indelebile di quell’abbandono lo seguirà per tutta la vita. Non potrà più guardare in faccia nessuno senza avvertirne il disprezzo. Ma non mi ha convinto nemmeno l’atteggiamento del capitano De Falco. De Falco, standosene seduto in capitaneria (giustamente il comandante Amato, che ebbe Schettino come ottimo primo ufficiale, ha ricordato un vecchio detto: “I marittimi si dividono in due categorie: quelli che vanno per mare e rischiano e quelli che stanno a terra e giudicano”), maramaldeggia sadicamente su un uomo finito. De Falco, si scrive, non vuole passare da eroe. Non si fa vedere in televisione, non parla. In compenso fa parlare la moglie che dichiara all’inviato del Corriere della Sera: “Sa qual è la cosa più preoccupante? Che in Italia chi fa semplicemente il proprio dovere, come ha fatto mio marito, diventa un eroe”. Ma questa è l’apoteosi dell’autoesaltazione, espressa in termini retorici, dell’eroismo.

Perché non esiste solo una retorica della grandezza, esiste anche una retorica della modestia o piuttosto della falsa modestia. E la retorica, di cui i media italiani hanno fatto in questi giorni uso a piene mani (soprattutto la retorica dei ‘buoni sentimenti’), come avvertiva Alberto Savinio in un preveggente e prezioso libretto, “Sorte dell’Europa” del 1943, “è un male endemico nel nostro paese, è il male che inquina la nostra vita, la nostra politica, la nostra letteratura e una delle cause principali, se non addirittura la principale, delle nostre sciagure”.

Il Fatto Quotidiano, 21 Gennaio 2012