domenica 31 marzo 2013

Inevitabilmente, Napolitano salvanano.

Nuovo governo, i saggi dell’inciucio e la salvezza di Berlusconi di Paolo Flores d'Arcais,da Il Fatto Quotidiano 30 marzo 2013. E’ difficile dire se i nomi proposti da Napolitano per le due “commissioni” costituiscano una indecenza o una esplicita provocazione contro milioni e milioni di cittadini che chiedono che si volti pagina. Si tratta infatti di “commissioni” per l’inciucio più spudorato, non per la soluzione dei problemi del paese. La commissione “istituzionale” vede il sen. Mario Mauro (cioè Monti), il sen. Gaetano Quagliariello (cioè Berlusconi) e il prof. Luciano Violante (che non rappresenta neppure il Pd, ma solo l’ala più becera del Pd). Secondo Napolitano il M5S non fa parte del Parlamento? Una epurazione del genere è al limite del golpismo. Quanto all’unico “intellettuale” o “tecnico”, l’ultima esternazione del professor Onida è avvenuta su Radio Popolare, rilanciata prontamente ed entusiasticamente dal Giornale (di Berlusconi) per sostenere che Berlusconi è perfettamente eleggibile (ma pensa un po’). Avevo sostenuto che Napolitano stava disputando a Cossiga il titolo di peggior Presidente della Repubblica, ma è ormai palese che lo ha definitivamente superato. Spero che una grande ventata di democratica indignazione sia già cominciata a soffiare tra i cittadini italiani che hanno ancora a cuore la Costituzione e i suoi valori di giustizia e libertà. Sia chiaro, Grillo e Casaleggio hanno fatto malissimo a non proporre loro un nome per la Presidenza del Consiglio, limitandosi a ripetere che “deve dare il governo a noi” (se non fate un nome per il Presidente del Consiglio nessuno può dare al M5S nessun incarico), ma è ormai lapalissiano che Napolitano vuole semplicemente salvare Berlusconi, malgrado in Parlamento vi sia per la prima volta una maggioranza potenziale che potrebbe decretarne l’ineleggibilità, liberando il paese dai miasmi di un quasi ventennio di illegalità, rendendo possibile una inedita soluzione governativa e consentendo all’Italia di tornare ad essere credibile in Europa. I saggi visti da Travaglio. C’è Onida, corazziere ad honorem per gli immani sforzi compiuti per difendere le interferenze del Quirinale nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia e per negare l’ineleggibilità di B., dunque molto saggio. C’è Giovannini, il presidente Istat che fu incaricato di studiare i costi della politica, ma alla fine si arrese stremato, dunque molto saggio. C’è Pitruzzella, già associato allo studio Schifani, dunque garante dell’Antitrust e molto saggio. C’è Rossi, il solito banchiere uscito dai caveau di Bankitalia, dunque molto saggio. C’è Violante, quello che si vantava con B. di non avergli toccato le tv e il conflitto d’interessi, dunque molto saggio. C’è Mauro, già Pdl, ora montiano, ma sempre Cl, dunque molto saggio. C’è Quagliariello, che strepitò in aula contro gli “assassini” di Eluana, dunque molto saggio. C’è Bubbico, già indagato e prosciolto per la buona politica in Lucania, dunque molto saggio. C’è il leghista Giorgetti, che intascò una mazzetta da Fiorani, poi con comodo la restituì, dunque molto saggio. Se questi sono saggi, i fessi dove sono?

sabato 30 marzo 2013

Jannacci, la sua Milano che sotto la nebbia sa ridere.

ALBERTO INFELISE, da La Stampa. Che poi te lo sai che può succedere, che non stava bene, che ci aveva anche lù i suoi anni. Ma poi quando muore Jannacci pensi che era meglio che no, non doveva morire e che lo schifo è che adesso non lo sentirai più cantare. Poche balle: ha insegnato, lui con Gaber e con Cochi e con Renato a sorridere quando tutti erano grigi e col muso che non si sa perché ce lo avevano quel muso. Lui che anche la Vincenzina che c’è solo la fabbrica alla fine un sorriso te lo strappava pensando che alla fine il problema è quel quel Rivera lì... Dice il sindaco Pisapia che Jannacci è nella storia di Milano, e tu pensi che è vero perché l’Enzo l’ha raccontata, l’ha fatta, l’ha vissuta la storia di Milano. Di una Milano che forse non c’è più ma che vorrebbe esserci e forse alla fine c’è ancora perché vive nella testa di chi Milano la ama. Perché era quella Milano che ancora non sapeva che era da bere, ma c’erano i bar e quelle storie che si raccontavano nei bar che non è che ci credevi ma le riraccontavi come se fossero state vere, che erano troppo belle. E chi se ne frega se all’Armando non è andata proprio così: tanto era solo un pretesto per riderci sopra all’Armando, anche se l’era venuto giù. Perché se uno scrive «si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale» basta leggerlo e lo capisci che è un genio, uno che pensa così veloce e così più avanti che le parole non ce la fanno a stargli dietro e ne capisci una su tre ma capisci il concetto, che è quello che conta. Con Beppe Viola aveva scritto cose bellissime e indimenticabili, cose che ti facevano venire voglia di essere migliore e sognare di essere come loro, anche se era impossibile. Ma è stato bello sognarlo. Enzo Jannacci se ne è andato. Porta con sé una Milano che non esiste più, che era piena di umanità e non faceva distinzioni tra sciur e puaret, tra borghesi e operai, tra immigrati e milanesi. Il suo mondo al tempo stesso dolente e festoso, mai rassegnato, è un affresco ormai perduto, sostituito da una città di cemento e lamiere, da sguardi sfuggenti di persone chiuse nei giubbotti imbottiti, da una comunità di estranei. Jannacci era un grande poeta. Ha trasformato il milanese in una lingua universale e i milanesi delle periferie in eroi moderni. Milan, senza Enzo, non sarà più on gran Milan. "Ti , te sé no perchè ti vett minga in gir/che per faa la spesa per mi;/ perchè i ghe voeur mess'ura, e a 'rivà/ giò in piazza del Domm i ghe veuren dù tramm.../ ma mi, quand'ènn vott ur, torni a cà de bottega;/ nascondi la cartèla cunt denter li mee strasc,/ me l'lasci la giacchetta come te me dis ti,/ camini per Milann: me par de vèss un sciur!/ Ti, te sé no: i gh'e tanto otomobil/ de tucc i culùr, de tucc i grandesc'/ lìè pien de lus, che el par d'ess a Natal,/ e sura, il ciel pien de bigliett de milla.../Che bel ch'el ga de vèss/ èss sciuri, cunt la radio/ noeuva e, nell'armadio,/ la torta per i fieu/ che vegn'in cà de scola.../e tocca dargli i vizi:/ "...per ti, un'altra vestina!/ A ti, te cumpri i scarp! .../Ti, te sé no... ma quest chi l'è on parlà de stupid:/ l'è bùn dumaa de tirà ciucch!/ Ti, te sé no... ma quand mi te caressi/ la tua bèla faccetta piscinètta, me par/ me par de vèss un sciur..." Beppe Grillo

lunedì 25 marzo 2013

Valsusa, vox dei. L'analisi di Marco Revelli.

Vox populi. di MARCO REVELLI, da il manifesto. 25.03.2013 La prima volta da maggioritari. La Valle registra il nuovo status senza fare una piega, con invidiabile aplomb, mettendo in campo la moltitudine variegata e compatta di sempre. Un fiume ininterrotto di gente che riempie tutti gli otto chilometri che separano Susa da Bussoleno, la stessa impressionante folla dello scorso anno, quando se ne contarono cinquantamila. Forse di più. Ma, appunto, stesse espressioni rilassate e determinate di prima. Stessa sensazione piacevole di appartenenza. Stessa composizione multigenerazionale, con madri e figlie, nonni e nipoti, nuclei famigliari magari divisi su altro ma uniti da questo. Non la forma segmentata e gergale della mobilitazione politica, ma quella inclusiva e popolare di un'espressione di territorio. Al comizio finale, il primo intervento non è stato di un leader politico, e neppure di un amministratore (che pure sono numerosi), ma del padre di Nicolas, uno dei bambini feriti dall'esplosione di un residuato bellico. E ha parlato dell'amicizia. Eppure lo scenario è cambiato. Politicamente. I valsusini non sono più l'isola ribelle di irriducibili, chiusi nella loro valle. Mondo alla rovescia, ridotto dentro il confine della Chiusa di San Michele. Ora la loro causa è uno dei primi punti del programma del partito di maggioranza relativa. La prova vivente della rivoluzione copernicana in corso, quasi che la loro rivoluzione locale si fosse rivelata, di colpo, stato d'animo generale. Per avere però la misura di questa svolta, è al mattino che bisogna guardare. La discontinuità radicale prodotta dal voto di febbraio sta tutta nell'immagine di Luca Abbà, che entra nel cantiere fortificato di Chiomonte scortato dalla stessa polizia che due anni or sono l'aveva inseguito su quel maledetto traliccio. E con lui entrano Lele di Askatasuna, Alberto Perino e gli altri, fino a ieri indicati come «pericoli pubblici», oggi «consulenti delle istituzioni», chiamati ufficialmente «assistenti» dei 68 deputati e senatori venuti a ispezionare il «sito strategico». Mentre Stefano Esposito, l'esponente pd pasdaran del Tav, che fino a ieri aveva monopolizzato la rappresentanza istituzionale, appare improvvisamente periferico, quasi il residuo di un cantiere avviato su un binario morto. Ci si sarebbe potuti aspettare che, in queste circostanze, la politica divorasse il proprio popolo. Che il corteo traboccasse di bandiere cinque stelle (del partito che in valle ha stravinto le elezioni). Che fosse aperto dalla schiera di nuovi eletti. E invece niente. Il serpentone era preceduto da un delizioso trenino carico di bambini. E non trovavi una sola bandiera a cinque stelle nemmeno a cercarla col lanternino, a dimostrazione di una notevole intelligenza politica dei cosiddetti «grillini». I quali hanno evidentemente capito che un popolo, anzi una «popolazione» (al femminile), non lo si rappresenta mettendoci sopra il cappello, né marchiandolo con i propri simboli, ma lo si ascolta in silenzio. E che è molto meglio confondersi tra di esso anziché distinguersene con l'ostentazione di un'identità estranea, al contrario degli estremi residui delle formazioni vetero-comuniste, fastidiosamente chiusi nelle loro bandiere come in una corazza medievale, testimonianza di una testarda volontà di non capire. Certo è che visto di qui, da questo «margine», lo tsunami che ha terremotato la politica italiana lo si capisce molto meglio, scaturito non da un palco da comizio, o dalla testa di un leader, e nemmeno dalla «rete», ma da una pressione tellurica di gente che non ne può più di espropriatori, monopolizzatori (interessati) della scelta e dei beni collettivi, decisori dall'alto. Un solo slogan attraversava trasversalmente il corteo, vero comun denominatore tra generazioni, professioni, sensibilità, religioni...: «Giù le mani dalla val Susa» e, scritto sugli striscioni: «Difendiamo il nostro futuro». Sono evidentemente milioni gli elettori che vogliono che si tengano giù le mani dai «beni comuni» (a cominciare dall'habitat) e dal loro futuro. E tanto basta per spiegare un successo.

martedì 12 marzo 2013

Decodificare il risultato elettorale.

Noterelle sulle elezioni politiche. di ALESSANDRO ARIENZO, da Uninomade. Il risultato delle elezioni del 25 e 26 febbraio non è un passaggio epocale ma una “catastrofe” politica. Non uno tsunami, di quelli che spazzano via caste o classi dirigenti invecchiate e digerite, ma un repentino e radicale passaggio di stato di cui ci parlano la fisica e la termodinamica. Uno scarto, quindi, che porta a un nuovo punto di sintesi fenomeni profondi, strutturali e di lungo periodo. Interpretare la discontinuità segnata da queste elezioni, in particolare dal successo del “Movimento 5 Stelle”, con espressioni quali “populismo”, anti-europeismo, oppure “disaffezione”, “ingovernabilità”, “antipolitica” può servire a vendere qualche articolo, può tacitare inquietudini col ricorso a facili slogan, può servire a ricondurre quanto accade alle scaramucce della diplomazia politica. Ma non dice nulla di sensato su quanto accaduto. Allo stesso modo, ha poco senso ridurre l’esplosione del M5s al mero successo “cesaristico e mediatico” di Beppe Grillo oppure al voto di protesta, effimero ed evanescente, di un paese stanco e prono alle sirene delle rivoluzioni facili del 2.0. Siamo invece ai limiti dell’idiozia quando si allude ad una sorta di indottrinamento di massa operato dalla “Scientology/Casaleggio”. In fin dei conti, è proprio leggere gli esiti elettorali a partire dal risultato del M5s che è fuorviante. Questo risultato, per quanto importante e indicativo, è parte di sommovimenti più ampi che investono l’intero arco politico parlamentare ed extraparlamentare e che sono di portata più ampia e complessa dell’imporsi del movimento 5 stelle come primo partito alla Camera. Un risultato elettirale, peraltro, che potrebbe anche rivelarsi effimero e di breve durata. Se guardiamo invece all’insieme dei risultati, mi pare che sia il convergere di indici diversi a restituire il senso di quanto accaduto: il crollo del consenso per Pdl-Lega e PD; la quasi scomparsa dei partiti di una sinistra più o meno radicale da Sel al Rifondazione; la parallela quasi scomparsa del cattolicesimo politico; le dimensioni modeste in cui restano i partiti della destra sociale e fascista; l’inconsistenza del ruolo politico svolto dal mondo sindacale e confindustriale nelle dinamiche elettorali. Riflettere sull’insieme di questi indici, piuttosto che “pesare” il successo del M5s, ci permette di porre in questione innanzitutto la tenuta della rappresentanza politica dentro e fuori il sistema dei partiti e le procedure del governo rappresentativo. E quindi sul processo di crisi della forma novecentesca del partito politico, in Italia, sulla messa in discussione del valore delle principali separazioni (cleavages) che le erano tipiche: lavoro – capitale; laici – cattolici; destra – sinistra. Mi pare evidente che l’orizzonte non è quello di “prendere parte”, se con prendere parte si intende l’essere pro o contro i grillini, celebrare Renzi o il caimano, il tristo mietitore europeo o anche compiangere la buona volontà del fallito smacchiatore piacentino o del barbudo magistrato siciliano. L’urgenza è invece dotarci di elementi tematici per rispondere alle domande, quella sì urgenti e angoscianti, del “che fare” e del “fare cosa per andare dove?” e “con chi”. Si tratta, allora, di cogliere quanto emerge dalle vicende elettorali; cogliere nel pallottoliere delle urne gli indici di tensioni profonde che devono essere interpretate perché nel dato elettorale emergono questioni di ben più ampio respiro. Il dato elettorale. In primo luogo, il risultato conferma il lento e progressivo ritrarsi dal momento elettorale degli italiani. In questa tornata elettorale ha votato il 75,20 percento degli aventi diritto a fronte dell’80,50 per cento delle precedenti elezioni. La percentuale, forse, più bassa nella storia repubblicana e che prosegue un trend costante e ininterrotto. Un quadro quale Pd, Pdl e Lega, da soli, perdono oltre 11 milioni di elettori rispetto alla precedente tornata elettorale. Un tracollo insomma, ed a dispetto di qualche incauta affermazione di vittoria – soprattutto a destra – il segnale di uno svuotamento profondo del bacino elettorale di tutti i partiti fatta eccezione del M5s. Tuttavia, per bene intendere questo dato, è necessario ricordare che l’Italia resta uno tra i paesi democratici nei quali è più alta la percentuale dei votanti in rapporto agli aventi diritto. Sostenere, quindi, che queste elezioni sancirebbero la definitiva crisi della rappresentanza politica in Italia è fuorviante, se con questa affermazione si descrive la rappresentanza come mera partecipazione – quindi consenso – al momento elettorale. Da questo punto di vista, invece, l’Italia resta anomala nel quadro delle democrazie liberali per aver conservato un tasso di astensione inferiori al 25%. Fatte salve la disaffezione, la disillusione, il disinteresse, lo scetticismo verso la capacità della classe dirigente che ha allontanato ormai un quarto dei cittadini italiani dal voto, la crisi della rappresentanza non è in questi numeri. Piuttosto, ci sarebbe da indagare i processi di lungo periodo che portano il dato tendenziale dei non votanti in l’Italia – fino ad oggi eccezione – nella norma (nella fisiologia) dell’astensionismo elettorale che segna tutte le principali democrazie liberali. Una condizione sistemica che non può essere sbrigativamente ridotta alla disaffezione dei cittadini e non può neppure essere esclusivamente ricondotta alla scarsità o ai limiti dell’offerta in un mercato politico sempre più rigido. Quale rappresentanza è in crisi? Se non è nei numeri, la cosiddetta crisi della rappresentanza è allora nel dato che le procedure e i percorsi del governo rappresentativo e le dinamiche del sistema dei partiti sembrano essere sempre meno in grado di esprimere – nel passaggio elettorale e nelle relazioni di scambio che lo precedono e lo seguono – gli interessi e le articolazioni vive della società italiana. Intanto per ragioni strettamente procedurali: la spinta ad una governabilità ricercata per mezzo di un sistema elettorale forzatamente maggioritario e bipolare si scontra con le divisioni storiche ed irriducibili della società e della politica italiane che reagiscono ad un processo di mera riduzione aritmetica. Tagliando le ali più estreme del panorama politico si schiaccia al centro l’offerta politica rendendola, però, sempre più insignificante e quindi permettendo distribuzioni elettorali sempre più fluttuanti ed evanescenti. In tal senso, l’imposizione di governabilità attraverso il filtro del sistema elettorale, piuttosto che semplificare il quadro politico diviene moltiplicatore di processi centrifughi e caotici. Peraltro, l’insieme di bipolarismo (seppure, certo, all’italiana), principio maggioritario e liste bloccate ha dato vita ad un perfetto strumento di “inaridimento” del ceto politico. Un ceto che si clona rompe quelle funzioni di legittimazione e costruzione del consenso che gli permettono di reggere nel lungo periodo, destinandosi, da solo, all’evaporazione. Da questo punto di vista, l’opzione di votare Grillo per dare un contributo all’ingovernabilità – la posizione espressa col suo consueto acume da Bifo – è insensata: sia perché, l’ingovernabilità non è la vittoria dell’ingovernabile – il caos e le emergenze sono le modalità di funzionamento del capitalismo finanziarizzato come ci ricorda Girolamo di Michele – sia perché lo strumento dell’ingovernabilità politica non è il voto al M5S (vero è che di caos ne ha portato) ma si è rivelato essere il bipolarismo stesso che ha scavato nel solco della separazione tra sistema politico e corpo sociale. Sia chiaro, la restaurazione di un sistema proporzionale renderebbe forse un pochino più ricca l’“offerta politica” ma lascerebbe inevasa la questione di fondo: in definitiva ciò che rende effettivamente plurale l’offerta politica sono le opzioni politiche, non le liste, i corpi e gli interessi sociali concreti che li muovono, non i pacchetti di voti. In secondo luogo, è il complesso del sistema dei partiti che, indipendentemente dall’architettura elettorale, non è più in grado di mediare interessi, bisogni, traiettorie ideali che provengono dai singoli e dai gruppi. Il tracollo di riferimenti ideali forti, l’assenza di “visioni” e percorsi “identitari” sempre più sostituiti da processi identificativi (ossia leaderistici) creano un vuoto crescente di proposta e di sintesi politica. E il crescente individualismo di una società che si arrocca su nuclei familistici, corporativi e piccoli interessi si adatta ad un “mercato politico” che assume sempre più le forme dell’intrattenimento: da Berlusconi a Grillo la continuità dello showbiz politico appare evidente. La crisi della rappresentanza è allora poco significativa nei numeri perché è tutta dentro i processi di accentuazione elitistica delle democrazie liberali “post-ideologiche”. Il sistema democratico-liberale, svaporato il conflitto con l’ipotesi comunista, ricerca un crescente astensionismo che è funzionale alla cessione volontaria da parte dei singoli di potere politico. Quell’eccesso di autorizzazione politica che proprio i percorsi della governabilità hanno costruito a partire dalla spinta della Trilaterale del 1977. Assunti i limiti strutturali della rappresentanza politica e delle procedure del governo rappresentativo, il punto di partenza della nostra azione non può che essere un più generale vuoto di “rappresentazione politica” che coinvolge anche i movimenti. Quella incapacità di portare ad espressione organizzata – seppure multiforme, acentrica, disseminata, conflittuale – le insorgenze e le fratture che attraversano, ed hanno storicamente sempre attraversato, la società italiana. Il nostro dramma non è allora “rappresentare il comune”, ossia riportare il comune nei moduli della rappresentanza politica, ma darne una rappresentazione politica: dare una rappresentazione politica alle insorgenze, alla ricerca di forme di vita singolari e collettive, alla ricerca di istituzioni per l’autogoverno capaci di mettere a valore collettivo la potenza e la libertà del lavoro vivo e della cooperazione. Grillo e i movimenti. Infatti, in questo contesto la ricchezza delle vite e dei percorsi singolari e collettivi sfugge alla rappresentanza, si sottrae ad essa. Quando questa ricchezza emerge, lo fa in maniera tanto effervescente quanto evanescente nelle forme delle occupazioni diffuse, dell’impegno politico-sociale e dell’attivismo militante. Nella gran parte dei casi non riesce ad andare oltre l’immediatezza dell’evento, oltre una presenza che si dà nel conflitto, ma che non riesce ad andare oltre questo. Pur riuscendo però a spostare carsicamente i confini della politica – significativo è l’imporsi del tema del reddito di cittadinanza nell’attuale agenda, ma un segnale si era avuto col referendum sull’acqua pubblica – questa ricchezza fatica a trovare forme organizzate di composizione politica, di durata consapevole, di progettazione di un’alternativa. Da questo punto di vista è forse vero quanto affermato da WuMing, Grillo cresce sulle macerie dei movimenti, in particolare sulle macerie (e sulle miserie) dei movimenti studenteschi, dei precari, dei disoccupati. Incapaci di offrire, come, almeno in apparenza, ha fatto il M5s, uno spazio “inclusivo”, una prospettiva (remota nell’attuazione ma presente nella rappresentazione) di “governo” e non resistenziale, una speranza di successo. E tuttavia, quale sia il verso di questo spazio inclusivo composto da Grillo resta una questione problematica aperta e in buona sostanza destinata a rimanere indecisa. I grillini sono di destra o di sinistra?. Certamente il M5s non è di sinistra, e certamente non è “anti-politica”. Il M5s ha semmai mostrato l’istanza di un ritorno all’organizzazione e all’azione politica che l’Italia non vedeva dai primi anni della Lega, da quell’attivismo che la portò a radicarsi in un territorio – circoscritto al Nord Italia – con pratiche che sembravano quasi essere mutuate dalla storia del vecchio partito comunista. La questione della composizione sociale del M5s è forse poco rilevante, perché destinata a rimanere indeterminata. Infatti, questo movimento mi pare raccolga più che gli interessi, le spinte ideali di un mondo composito fatto di ceto medio, di ceto medio proletarizzato, di proletariato e precariato diffuso, così come di piccoli imprenditori e professionisti. Il M5s non è un movimento “di classe”, posto che si riesca oggi a demarcare le linee di confine tra le classi fuori da poco utili opposizioni binarie, ed è chiaramente inter-classita nella sua composizione. Il nucleo militante è quindi espressione di un’intelligenza diffusa e di un cognitariato “giovanile” (cioè di 20-40 enni) che non è molto diverso da quello che sostiene, ad esempio, la rete dei militanti di partiti come Sel o Rifondazione. Semmai, esso si caratterizza nell’essere più indistinto nelle prospettive politiche – e per questo più inclusivo – e per l’esaltazione di uno spazio politico “procedurale” e comunicativo (la democrazia di internet come prassi della deliberazione pubblica mediatizzata). Più interessante mi pare il dato che il M5s contesti in maniera esplicita e radica la “logica degli esperti politici”, degli amministratori o dei politici di professione, in sostanza quel principio di distinzione tra governanti e governati che segna la storia del governo rappresentativo moderno e tutto sommato della stessa sinistra. Ad una rete di militanti ampia, forse non molto più larga di quella di altri partiti, si affianca invece un’area politica di riferimento indistinta che abbraccia la pensionata, il dipendente pubblico, l’insegnante di scuola ed il lavoratore precario, lo studente, il piccolo imprenditore o il commerciante. Un’area accomunata dalla percezione del proprio crescente “impoverimento” – prevalentemente letto come prodotto di ipertassazione e vampirismo bancario/finanziario – ed una “nuova questione” morale come aspirazione a una nuova etica pubblica. Anche quest’ultima appare, comunque, una spinta ambivalente, che oscilla tra cattura legalitaria e consapevole gioco del conflitto politico su un piano tradizionalmente poco “di sinistra” ma decisivo in Italia, quello della “corruzione”. In effetti, la microfisica della corruzione che segna questo paese è da sempre funzione e strumento dell’accumulazione finanziaria, di consolidamento delle rendite, e strumento di disciplina politica e imposizione di consenso. Tra gli errori della “sinistra radicale”, aver compreso forse troppo tardi quanto importante fosse questo piano. Infine, il riferirsi ad un popolo come se fosse un cumulo di richieste inevase (come nella proposta teorica di Ernesto Laclau) è forse la sola accezione nella quale è possibile descrivere come “populista” questo movimento. Al di fuori di questa accezione ristretta, mutuata da una certa filosofia politica, quella di populismo rimane una categoria buona solo per la polemica, ed inadatta a distinguere le qualità specifiche di un qualche movimento politico. Il M5s e Grillo non hanno a riferimento un popolo inteso in maniera identitaria, nazionale e territoriale. Questo movimento si muove, piuttosto, dentro la precarizzazione diffusa (si veda il volume di Grillo sugli “schiavi moderni”) e dentro l’individualismo competitivo – di qui la retorica del merito e della meritocrazia – che al centro pone il cittadino – diciamo pure il singolo – ma è anche capace di esprimere tensioni solidaristiche, ambientaliste e altermondialiste, comunitariste e mutualiste raccolte (strumentalmente?, personalmente non credo) dall’incontro coi movimenti, le reti informali dei network, il privato sociale. Berlusconismo e anti-berlusconismo. Grillo ha quindi riempito con intelligenza, in questa fase, un vuoto di senso e di orizzonte politico dopo un quasi ventennio in cui la conflittualità ritualizzata al berlusconismo ha garantito la stabilizzazione conservativa del paese. Lo scontro berlusconiani-antiberlusconiani ha offerto dal ‘94 una sostanziale governabilità in maniera non troppo dissimile da quanto la vecchia democrazia cristiana era stata in grado di fare, a dispetto dell’apparente succedersi vorticoso dei governi. Del resto, la conservazione funziona tanto quanto è in grado di esprimersi in maniera dinamica ed elastica, e lo spazio Berlusconi era funzionale – una volta ricondotta al dominio carismatico del leader la stessa Lega – ad una divisione di compiti tra il campo dei riformatori di centro-destra e dei riformisti di centro-sinistra. É probabile che questa dinamica sia definitivamente tramontata e che lo stesso Berlusconi sia ormai ad un passo dalla dipartita politica: ad ipotecare la sua durata – tuttavia – non sono gli esiti delle elezioni tanto disastrosi nei numeri quanto vicini ad una vittoria elettorale. E neppure la fittissima trama degli interessi, degli scambi occulti, delle tessiture identitarie che ancora ne regge il consenso e i pacchetti di voti; ma la zoè, il corpo ormai plastico del Caimano, che è ormai un corpo invecchiato, tirato al limite della sua epidermide. Il mondo cattolico e la nuova pastorale. Le trasformazioni culturali della società italiana, la tenuta degli interessi di corpo che è maggioritaria nel paese, le rigidità di un sistema politico forzatamente bipolare, sono tutti fattori che rendono anche conto di uno dei più importanti – e meno discussi – risultati delle recenti elezioni: l’inconsistenza di un cattolicesimo politico mai come questa volta apparentemente polverizzato e disperso. Una polverizzazione che non è semplicemente il portato dell’assenza di un “partito cattolico” dovuto a un certo sistema elettorale e all’inedita alleanza Fini, Casini, Monti. Le ragioni sono di più lungo corso, e sono connesse a una capacità di presa diretta e di disseminazione del mondo cattolico che non guarda più tanto al vertice politico – assunta la sua relativa irrilevanza e la crisi della rappresentanza politica – per consolidare le proprie prese di posizione. Ma torna a lavorare “per strada”, pastoralmente, per rispondere a quella che è forse la principale sfida del presente per il mondo cattolico e clericale: la sfida del “relativismo”. Una sfida che necessità certamente il presidio dei vertici politici – meglio controllati stando dentro tutti gli schieramenti – ma che impegna piuttosto le canoniche, gli oratori, il privato sociale, l’assistenza, lo stesso intrattenimento televisivo con le sue fiction pretesche per costruire consenso e fidelizzazione. E che ha visto in Monti il tentativo – fallito – di tenere insieme gli interessi della grande finanza con la moderazione cattolica delle ricadute sociali delle politiche neo-liberali. Il governo Monti è stato anche e forse soprattutto questo: la sperimentazione fallita (e come poteva essere altrimenti) di un neoliberismo dal volto “cristiano”, di una certa idea moderata di una generica “economia sociale di mercato” intesa come rigore di spesa, centralizzazione amministrativa, spinte alla liberalizzazione del mercato del lavoro e del welfare. Le “nuove” vecchie destre. Ebbene sì, non sfondano neppure le destre sociali e radicali. Le tensioni xenofobe, razziste, omofobe e fasciste nel nostro paese in questi decenni sono state fatte proprie dall’arco politico istituzionale in particolare della Lega e del Pdl, nonché da aree clericali del Pd. Pertanto, sciolte in un più generale astio verso un malgoverno che ha surclassato la paura del diverso con altri temi: la meritocrazia, il fannullonismo, la casta. La presa dei partitini di destra resta quindi minoritaria, forse nei limiti della fisiologia della vita politica italiana. Tuttavia, la via greca e il rischio “della destra che avanza” non e’ scongiurato: il M5s ha accolto aree prossime alla destra razzista e fascista, e la cosiddetta destra radicale resta fortemente presente nelle aree metropolitane. L’attuale condizione di blocco politico e la crescente crisi economico-sociale può sempre precipitare “a destra” riportando la questione sicuritativa e nazionalista al centro delle preoccupazioni degli italiani. E la sinistra? L’altro vero elemento catastrofico in questo passaggio elettorale è che il “lavoro”, comunque esso lo si intenda, non è in grado di darsi una forma politica. La scomparsa (definitiva?) della sinistra di classe in Italia – sia nelle sue forme partitiche che in quelle sindacali – si affianca al parallelo tracollo della stessa sinistra lavorista e social-democratica. In questa fase non solo l’arco politico che dal Pd arriva alla lista Ingroia, ma l’intero arco sindacale dai confederali alle organizzazioni sindacali di base hanno mostrato la loro sostanziale assenza nel processo politico che ha preceduto le elezioni. Mi pare drammaticamente evidente che “il nuovo”, se il nuovo emerge, non e’ qui. E se è vero che il corpo vivo del M5s esprime la forza e l’irriducibilità del lavoro vivo, come ha scritto Benedetto Vecchi sul Manifesto, è pure vero che esso non si riconosce come tale; richiamandosi piuttosto al protagonismo della “parte dei senza parte” tradita dai partiti, al democra/civismo orizzontale dei cittadini in armi contro la casta. Il M5s è certamente parte del conflitto tra capitale e lavoro, e ne coglie “a pelle” la capacità distruttiva nella percezione della proletarizzazione, ma ne ignora – talvolta ne nega – invece la portata costitutiva e potenzialmente costituente. L’ austerity non è sconfitta: è più forte che mai. La sconfitta di Monti segna in sostanza l’inconsistenza dell’opzione politica neoliberale nel nostro paese, e non un qualche preteso anti-europeismo populista grillino o berlusconiano. É vero, all’accrescersi dell’austerity – delle sue ricadute negative – cresce il fronte delle opposizioni a queste politiche. Il risultato elettorale italiano è anche parte di questa generale ma indistinta opposizione alle logiche che hanno orientato fin qui la classe dirigente europea. Nelle loro note sul sito del collettivo uninomade, Andrea Fumagalli e Cristina Morini chiariscono bene il senso di quanto accaduto: “la conferma dell’impossibilità di una governance tutta politico-istituzionale della crisi. La crisi europea aveva da tempo evidenziato tale incapacità e impossibilità, già all’indomani dello scoppio della crisi greca nel lontano 2010. Ciò che si confonde è la crisi della governance politica con quella della governance economico-finanziaria”. Lo abbiamo detto altrove, la nuova governance commissaria è immune alle sofferenze della politica, le sfrutta se può. E il plauso – a quanto pare – di Jim O’Neill della Goldman Sachs alla rivoluzione Grillina trova in questo passaggio il suo senso: non importa quale forma politica, non interessa quale programma mettono in campo, il M5s è novità e rottura. E la nuova governance economico-finanziaria vive del management della crisi. Questo è il vero rischio del presente: nel vuoto politico-istituzionale che potrebbe aprirsi posso darsi ragioni e opportunità per un nuovo e più radicale commissariamento dell’Italia. Che Napolitano fosse in Germania durante le elezioni non è il segnale di una disattenzione o del vassallaggio del presidente della repubblica all’aquila imperiale, ma è il segnale del rischio dell’azzeramento della politica italiana. Di qui due esiti possibili. Una nuova democrazia dell’emergenza che sostenga ipotesi di governi di larghe intese: il rapporto dei servizi segreti al parlamento sul pericolo terrorista e sulle possibili tensioni sociali si affianca, allora, alla retorica della responsabilità e dei governi “di salute pubblica”. O una presa ancora più diretta della rete dei poteri europei come messa a tutela, commissariamento, della politica italiana attraverso le maglie delle diplomazie finanziarie europee e di governi tecnici. In un contesto, peraltro, nel quale l’austerity è sia il frutto di orientamenti ideali dell’élite politico-economica europea, sia il prodotto del conflitto tra le aree produttive del continente che vede al centro le scelte – e le indecisioni o gli intessi di stato – della politica economica tedesca. Benedetto Vecchi ha espresso con chiarezza che la “cartina di tornasole” del posizionamento politico del M5s è sulla capacità di governare e modificare i rapporti di forza tra capitale e lavoro vivo. In realtà questa è la cartina di tornasole anche delle nostre scelte. Si possono nutrire enormi dubbi che questa nuova stagione politica si collochi espressamente dalla parte del lavoro vivo piuttosto che del capitale, certamente è necessario cogliere la sfida senza che le prospettive future nascano dalle ipoteche teoriche e organizzative del passato. La questione politica decisiva non può allora essere quella di incrociare tatticamente, o anche sulla base di una qualche visione strategica, il M5s per farne la punta avanzata del lavoro vivo in armi. É invece plausibile che anche questo fenomeno, digerita la novità e ricomposta la frattura che esso ha segnato, divenga parte della più tradizionale conservazione politica italiana anche se in forme nuove e rinnovate. La questione politica di fondo resta quella del contrato tra rappresentanza e rappresentazione politica del lavoro vivo e delle nuove singolarità che lo compongono nel passaggio, questo sì epocale, che vede chiudersi il novecento anche in Italia.

lunedì 11 marzo 2013

Bagnai bacchetta la Grillonomics.

La “Grillonomics”. Analisi del programma economico del MoVimento 5 Stelle di Alberto Bagnai, da Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2013 Beppe Grillo ha sostenuto che l’Italia è sull’orlo della bancarotta. Questa verrebbe raggiunta fra sei mesi o un anno, quando la spesa per interessi, arrivando a 100 miliardi di euro, ci costringerebbe a non pagare più le pensioni. A quel punto, in assenza di una rinegoziazione del debito, l’Italia “vorrebbe uscire dall’euro”. La musica è la solita: “I costi della casta corrotta hanno fatto lievitare il debito pubblico cattivo, costringendoci a lasciare l’euro” (che quindi, par di capire, sarebbe cosa buona). Vediamo il senso e il non senso della Grillonomics. L’idea che la crisi sia stata causata dal debito pubblico è fasulla e in linea con l’approccio del precedente governo, che usava questa idea per giustificare l'austerità. La Commissione europea però ci dice che il debito pubblico in Italia è sempre stato sostenibile, sia a breve che a lungo termine, e quindi che le pensioni non sono a rischio (Rapporto sulla sostenibilità fiscale, settembre 2012). Prima della crisi in tutti i Paesi, incluso il nostro, il debito pubblico stava diminuendo in rapporto al Pil, ma aumentava quello dei privati. L’austerità montiano-grillina equivale allo zelo del chirurgo che amputa la gamba sana, trascurando la cancrena dei mercati finanziari privati (in Italia ben rappresentata da Mps). Nella follia montiana c’era metodo: raggranellare 40 miliardi di euro da dare a spagnoli e greci perché li restituissero ai loro creditori tedeschi. Il “salvataggio” di Monti ha salvato la Germania, affossando via Imu gli italiani. Se Grillo parte dalla stessa diagnosi, c’è da temere che arrivi alla stessa terapia. Inoltre non c’è nulla che indichi in 100 miliardi di interessi l’orlo del baratro finanziario. Secondo gli ultimi scenari del Fmi, lo Stato italiano arriverà in effetti a pagare questa cifra, ma nel 2017, cioè fra 57 (non sei) mesi. A quella data 100 miliardi corrisponderanno a meno del 6% del Pil, un carico sostenibile, pari a quanto lo Stato pagava nel 2000. Insomma: pare Grillo abbia rapidamente appreso l’arte di terrorizzare gli elettori con cifre “simboliche” ma prive di significato economico. La Grillonomics offre anche intuizioni corrette. La più importante è che uno sganciamento dell’Italia dalla moneta unica avrebbe l’effetto collaterale di alleviare l’onere del debito. Il motivo lo ha ricordato Bank of America: “I Paesi periferici fronteggiano tassi elevati perché l’assenza di politica monetaria indipendente rafforza la percezione del rischio di default”. Un governo italiano che tornasse “liquido” nella propria valuta nazionale farebbe molto meno paura ai mercati. Qualcosa di simile accadde nel 1992, quando lo sganciamento dal cambio fisso determinò una rapida discesa degli interessi sul debito. Il nesso svalutazione-inflazione-alti tassi non ha riscontro nelle esperienze europee passate e recenti. Pare di capire che la politica del Movimento verrà decisa democraticamente, utilizzando la “piattaforma”, uno spazio web dove “ognuno veramente conterà uno”, come ha ribadito Grillo. Possiamo solo sperare, per il bene del paese, che gli “uno” che la pensano come Grillo sulle cause della crisi siano in minoranza nel Movimento. L’Italia ha bisogno soprattutto di buon senso: austerità, dilettantismo e demagogia hanno già fatto troppi danni. (7 marzo 2013)

mercoledì 6 marzo 2013

ADIOS CHAVEZ. MAY YOU REST IN PEACE.

"Oggi gli Stati Uniti hanno perso un amico che non sapevano di avere. E i poveri di tutto il mondo hanno perso un campione". Cosi' Sean Penn, amico personale di Hugo Chavez, ha voluto commemorare la morte del presidente venezuelano. "Ho perso un amico. La rivoluzione del Venezuela continuera' sotto la guida del vice presidente Maduro", ha detto ancora l'attore. Il regista Oliver Stone, un altro amico di lunga data: "Piango un grande eroe, odiato dai poteri forti." Rocco Cotroneo per il "Corriere della Sera". Nei primi quattro anni di potere Chávez, il caudillo che sfidò gli Stati Uniti, non indossa camicie rosse, né si definisce socialista. Dichiara la sua stima per Fidel Castro, attacca gli Usa, punta sull'integrazione latinoamericana. Quando spuntò per la prima volta tra le notizie come il tenente colonnello dei parà che aveva vinto le elezioni presidenziali in Venezuela, era il dicembre del 1998, Hugo Chávez Frias suscitò immediato interesse. Era il primo animale politico «diverso» che emergeva in Sudamerica dopo la fine delle dittature e un decennio di consolidamento della democrazia. Rompeva una serie di leader tutti simili, fedeli in economia alle ricette liberiste e in politica all'amicizia con gli Stati Uniti, di bella presenza e distanti a parole dal recente passato. Chávez era qualcos'altro, già dalle presentazioni. Sei anni prima, nel 1992, appena 38enne, aveva tentato di abbattere con un colpo di Stato il presidente Carlos Andrés Pérez. Fuori dal Venezuela la notizia era passata quasi inosservata. Venne bollato come un golpe folcloristico, fuori dal tempo, tanto che lo stesso ideatore non venne eccessivamente punito: due anni di galera e poi la libertà. Alle presidenziali del 1998, più che il suo ritorno da competitor democratico, all'inizio fece scalpore la candidatura della bionda ex miss Universo, Irene Sáez. Per il Venezuela la prima vittoria elettorale di Chávez fu comunque traumatica. Rompeva il consociativismo tra due partiti corrotti (Ad e Copei) che si spartivano il potere da decenni in un Paese seduto su un mare di petrolio. Il Venezuela aveva conosciuto una certa ricchezza negli anni 60 e 70, dopo aver attratto nel dopoguerra centinaia di migliaia di emigranti italiani, ma stava ormai scivolando verso i peggiori cliché latinoamericani: corruzione, povertà e diseguaglianze sociali, politica piegata agli interessi dei poteri economici. Chávez ha una buona oratoria e la faccia meticcia dei venezuelani poveri, che mai si era vista ai piani alti della politica; eppure alla prima uscita, più che il voto dei diseredati, attrae soprattutto quello di una borghesia urbana e progressista che non ne può più del sistema corrotto. Non si definisce legato ad alcuna ideologia, e il richiamo al mito di Simón Bolivár, il libertador, l'eroe nazionale, è considerato innocuo e bipartisan. Tutto è intitolato a Bolivar, in Venezuela. Ma sono sufficienti pochi mesi per capire che l'obiettivo di Chávez non è unire il suo Paese, ma rivoltarne il sistema politico, distruggere il passato e governare in nome del solo popolo, contro l'oligarchia e la borghesia. Lemma principale la divisione tra i suoi (i rivoluzionari, i nuovi, i puliti) e gli altri (presto ribattezzati gli squallidi). Si mette subito al lavoro per cambiare la Costituzione, forzando quella in vigore per piegare il Congresso. Sottopone l'elettorato a una raffica di votazioni, vincendo sempre. Ma smentisce, dal primo all'ultimo giorno della sua parabola, chi si aspetta nel passo successivo la fine della democrazia rappresentativa. Che Chávez non cancellerà mai, pur mettendo in campo tutto l'armamentario dell'autoritarismo populista, assoggettando a poco a poco il legislativo, il sistema mediatico e quello giudiziario, confondendo alla fine lo Stato con il suo partito. Sullo sfondo le forze armate, dalle quali proviene: guardiane della Revolución «bonita», come ama chiamare la sua creatura politica. Usa la tv come mai nessuno aveva osato: in diretta riesce a parlare fino a cinque o sei ore senza fermarsi, canta, recita poesie, nomina ministri o li caccia in malo modo. È uno show unico al mondo. Nei primi quattro anni di potere Chávez non indossa camicie rosse, né si definisce socialista. Dichiara la sua ammirazione per Fidel Castro e attacca gli Usa, punta sull'integrazione latinoamericana contro l'imperialismo yankee, ma non ne fa una questione ideologica. È un caudillo classico, più peronista che marxista. Ma solo fino al 2002-2003, quando l'offensiva dei suoi avversari per eliminare l'anomalia Hugo fallirà, finendo per rafforzarlo. Nell'aprile del 2002, viene allontanato dal potere per due giorni in un goffo tentativo di golpe. Nei mesi successivi, dopo che Chávez annuncia di voler prendere il pieno controllo del colosso petrolifero statale Pdvsa, gli scatta contro la serrata dell'economia. Due mesi di paralisi, con sindacati e imprenditori uniti, fanno precipitare il Pil ma non il governo chavista, che resiste e poi reagisce con epurazioni di massa dall'azienda. Con i soldi del petrolio, sul quale ha ormai il controllo completo, Chávez lancia le missioni sociali. Crea un nuovo sistema sanitario per i poveri, e poiché sostiene che i medici venezuelani non vogliono andare a lavorare nelle favelas, ne fa arrivare 30.000 da Cuba, pagandoli a caro prezzo al governo castrista; annuncia la fine dell'analfabetismo; apre un sistema di distribuzione a prezzi calmierati di beni di primo consumo; sovvenziona tutto, dai frigoriferi ai regali di Natale per i bambini. Chávez resiste ad un'altra spallata nel 2004, un referendum per revocarne il mandato, e radicalizza la sua rivoluzione, attraverso la nazionalizzazione di tutti i settori strategici dell'economia e colpendo con espropri molti proprietari terrieri e imprenditori non allineati. Revoca la concessione ad un network tv ostile. La sua personale guerra con il presidente colombiano Alvaro Uribe porta i due Paesi sull'orlo di una guerra. Gli Usa, amministrazione Bush figlio, accusano il Venezuela di appoggiare la guerriglia colombiana e il narcotraffico. Chávez risponde con uno storico discorso all'Onu: «Sento odore di zolfo su questo podio, è appena passato Bush, il demonio!». Dal re di Spagna Juan Carlos si becca un plateale «Perché non stai zitto?», durante un vertice, mentre accusa alcuni dei leader presenti di essere servi degli Stati Uniti. L'ammirazione per Cuba diventa un ponte aereo di aiuti e petrolio, che poi si estende ad altri Paesi: Bolivia, Ecuador, Nicaragua. La stessa Argentina dei Kirchner diventa un Paese amico, e viene soccorsa quando non riesce a piazzare bond. Il brasiliano Lula ne è distante per stile e princìpi, ma lo difenderà sempre. La legittimità di Chávez prosegue attraverso il voto. Viene rieletto - dopo aver ottenuto il diritto a presentarsi tutte le volte che vuole - nel 2006 e 2012. Diventa un idolo per milioni di venezuelani, ai quali non offre una vita granché migliore ma che la sua retorica fa sentire cittadini e soggetti politici. In economia, il cosiddetto «socialismo del XXI secolo» riduce la povertà, ma crea un sistema paternalistico e squilibrato. Gli investimenti esteri fuggono dal Venezuela degli espropri. Il controllo sui prezzi fa crollare la produzione agricola, e costringe il governo a importare di tutto. L'inflazione resta sempre a due cifre, il cambio nero arricchisce la finanza, la corruzione esplode. Ma Chávez è fortunato, perché per un decennio il prezzo del barile resterà a livelli che gli permettono di espandere la spesa sociale senza pensare agli equilibri di bilancio. La malattia lo coglie impreparato nel 2011. Chávez conduce una vita sregolata, non si controlla, vive di eccessi, è un accentratore compulsivo. È costretto ad ammettere di avere un tumore solo quando non può più fermare le indiscrezioni, ma senza mai offrire dettagli. Ha il mito e la paranoia della segretezza, come il suo maestro Fidel Castro, e da lui vola per curarsi quando il parere di molti glielo sconsiglia: ha un tumore molto aggressivo e raro, e andrebbe trattato in ospedali più attrezzati e da medici più esperti. Affronta l'ultima campagna elettorale fingendo di essere completamente guarito, in realtà gonfio di farmaci per tenersi in piedi, e vince di nuovo. Ma la menzogna, la peggiore della sua vita, stavolta non dura nemmeno il tempo di insediarsi per la quarta volta alla presidenza.

martedì 5 marzo 2013

Grandi economisti al fianco di Grillo.

Grillonomics, Stiglitz e Fitoussi lavorano al programma economico del M5S (Les Echos)(LaPresse) Il premio Nobel Joseph Stiglitz e il francese Jean-Paul Fitoussi "lavorano al programma economico di Beppe Grillo": i due economisti sono stati "sondati" per "consolidare la dottrina economica del M5S" e l'economista italiano Mauro Gallegati fa da coordinatore. La "Grillonomics" è alla ribalta di Les Echos: mentre i 163 parlamentari eletti si preparano al loro compito, il quotidiano economico francese nota che "tutti gli sguardi cominciano a convergere sul ‘programma economico' di Beppe Grillo, ancora limitato a una pagina e mezza sul sito del M5S". Secondo Les Echos, dell'input di premi Nobel ed economisti c'è proprio bisogno per "irrobustire" la piattaforma economica del M5S, "ancora scheletrica" sulla carta. Gallegati, docente all'università di Ancona, dice che gli daranno una mano Bruce Greenwald della Columbia University di New York e Jean-Paul Fitoussi. "Ma il vero ‘sponsor' se non ispiratore del programma economico del M5S, basato sulla decrescita e sullo sviluppo di energie proprie, è soprattutto il premio Nobel Joseph Stiglitz", di cui Greenwald è uno dei più stretti collaboratori a New York. Tre anni dopo avere partecipato al Woodstock Cinque Stelle di Grillo, che aveva riunito 30mila persone a Cesena, nel settembre 2010, l'economista americano, scrive Les Echos, "si appresta a pubblicare un articolo con Mauro Gallegati sulla ‘filosofia economica' del M5S". In realtà, il premio Nobel per l'Economia, "grande avversario" insieme a Paul Krugman della politica d'austerità europea, intrattiene un dialogo con Grillo da diversi anni, osserva Les Echos. Un suo video messaggio sulla globalizzazione è sul blog del M5S. Oltre all'introduzione di un "reddito di cittadinanza" per tutti, precari compresi, il cui costo è stimato in 20-30 miliardi di euro, il programma economico del M5S – riassume Les Echos - sostiene "la riduzione del debito pubblico attraverso forti interventi sul costo dello Stato con la lotta contro lo spreco e il ricorso a nuove tecnologie per consentire al cittadino l'accesso alle informazioni e ai servizi senza avere bisogno di intermediari". Prevede anche l'abolizione delle stock-option e delle cascate di holding per le società quotate. L'economia, secondo Le Monde, ha avuto un posto marginale nella campagna elettorale italiana. Nell'articolo a tutta pagina sui due populismi dell'Italia, lo storico Jacques de Saint Victor scrive di non riuscire a comprendere come mai il populismo della protesta sia riuscito a imporsi in un Paese che ha "un debito colossale", che avrebbe dovuto spingere gli elettori a un voto prudente. In realtà, "i principali temi della campagna non hanno riguardato, come in Francia, le questioni economiche ma le questioni etiche". "L'essere umano è fatto così: teme quello che lo minaccia, non quello che sopporta". Così, gli elettori si sono concentrati sull'onestà delle élite che ha imposto loro i sacrifici. E i temi della corruzione hanno dominato le elezioni, marginalizzando gli argomenti degli esperti, in primo luogo quelli di Mario Monti. "Eccellente tecnico", Monti - secondo Saint Victor - non ha visto che dietro il debito si è profilata una crisi politica "ben più grave". Il successo di Grillo "forse ha avuto il merito di aprire gli occhi degli esperti europei sulle politiche da usurai che corrodono, come negli anni ‘30, la democrazia parlamentare". Saint Victor dice che sarà forse "l'ultimo paradosso" di Grillo: l'ex comico potrebbe essere "colui che condurrà a rimettere in causa in Europa le politiche d'austerità". A meno che il suo rifiuto di fare politica non lo trasformi in "un nuovo angelo dell'Apocalisse". Le idee di Grillo di fare default sul debito e indire un referendum sull'euro sono quelle che più inquietano la stampa estera. Proposte "radicali", scrive sul Financial Times Gideon Rachman: Grillo "ha parlato di fermare i pagamenti sull'enorme debito nazionale e ha flirtato con l'idea che l'Italia lasci l'euro. La maggior parte dei politici tradizionali trattano queste idee come un brutto scherzo. Ma, a meno che non trovino un modo di andare avanti che appaia più attraente di altri cinque anni d'austerità, Grillo e i suoi imitatori potrebbero essere gli ultimi a ridere in Italia". Durante la campagna, il Movimento Cinque Stelle ha dato ai politici la colpa della recessione e ha sostenuto una piattaforma per "ribaltare l'austerità fiscale di Monti", ricorda oggi un lancio dell'agenzia statunitense Bloomberg. L'articolo della Bloomberg mette in evidenza che, secondo due senatori che hanno chiesto l'anonimato, il partito di Grillo "potrebbe considerare l'abbandono dell'aula del Senato per consentire di formare un governo e sbloccare l'impasse". Il M5S - spiega l'agenzia - "sta cercando di influenzare il programma del prossimo governo italiano" e chiederebbe concessioni sulle politiche da portare avanti in cambio dell'abbandono dell'aula. Quali politiche? I rappresentanti Cinque Stelle – nota la Bloomberg - hanno detto che si concentreranno su questioni come sradicare la corruzione, proteggere l'ambiente e fornire stimolo alle piccole imprese.

A Roma piaciona, il potere non perdona.

1. AVETE PAURA DI GRILLO E CASALEGGIO? TRANQUILLI, CI PENSARA’ ROMA A INGRULLIRLI! - 2. LA CITTÀ DI ANDREOTTI, CHE NON HA MAI SCAMBIATO LA CRONACA SPICCIOLA CON LA STORIA MILLENARIA, È DA SEMPRE IL PIÙ GRANDE OSTACOLO DA SUPERARE PER UN POLITICO - 3. UN COSMOPOLITA COME AGNELLI HA SEMPRE AVUTO PAURA DEI TENTACOLI CAPITOLINI - 4. IL SULTANO DI HARCORE A ROMA E’ STATO MACIULLATO DALLE API REGINA TARANTINATE E DALLE ONOREVOLI DEPUTATE AI SOLLAZZI NOTTURBINI DI PALAZZO GRAZIOLI - 5. I LEGHISTI ARRIVATI PIENI DI BUONE INTENZIONI, SONO FINITI SUBITO A MAGNA’ LA TRIPPA - 6. RIGOR MONTIS, ARRIVATO COL LODEN, È FINITO COL CANE IN BRACCIO E UNA BIRRA IN MANO - 6. ENRICO VANZINA: “ROMA NON PERDONA. TI AVVINGHIA, TI INEBRIA E TI ABBANDONA NEGLI SCAFFALI DELLA SUA STORIA MILLENARIA. SUCCEDERÀ ANCHE AI GRILLINI? TEMO DI SÌ” - Enrico Vanzina per "Il Messaggero". Alcuni miei amici giornalisti di sinistra sostengono che la forza di Roma sta nel la sua capacità di tritare e digerire il Nuovo con stupefacente (e forse saggia) indolenza. Alla guida del manipolo c'è il mitico Fernando Proietti, il quale ripete da decenni che a Roma «meno si fa, meglio si fa». Con lui, filosofeggiano Paolo Franchi, Duccio Trombadori e Barbara Palombelli. Dedico questo pezzo a loro. Roma, lunedì scorso. Da due ore sono stati chiusi i seggi elettorali. In un bar del quartiere Prati, ci sono tre sfaccendati che chiacchierano amenamente di calcio. Malgrado la febbre elettorale che infiamma il paese, i tre romani, naturalmente, parlano dello sceicco giordano, lo «sceicco in bianco», quello con il figlio carabiniere e la moglie impiegata comunale, quello che vive in due camere e cucina a Perugia e ha offerto 50 milioni di euro per comprarsi una quota della Roma. Una storia esilarante che nemmeno io avrei potuto inventare quando scrissi «Febbre da Cavallo». E infatti i tre sghignazzano, se la ridono. Ma ecco che nel televisore acceso sopra la cassa annunciano che è pronta la nuova proiezione aggiornata sui risultati elettorali. I tre smettono di sghignazzare e ascoltano in silenzio. Viene comunicato il testa a testa tra Bersani e Berlusconi, il boom di Grillo e la deludente performance di Monti. Tutte cose importantissime dalle quali dipenderà il futuro prossimo del nostro paese. Finito l'annuncio, i tre restano un attimo pensierosi, poi uno fa: «Ma della mia Lazietta ne vogliamo parla'? Stasera all'Olimpico arriva il Pescara! Se vinciamo riparte il sogno...». Questa è Roma. In tutta la sua sciagurata, cinica e grandiosa follia. Di quanto Roma sia feroce, ne ho avuto conferma poche ore dopo, quando il Professor Mario Monti si è presentato in sala stampa a commentare i risultati. Come era diverso dal Monti che avevo visto arrivare a Roma un annetto fa, loden milanese, lessico essenziale, faccia da nordista pragmatico, calvinisticamente serio. Adesso, un anno dopo, sembrava un signore sfiancato, molto meno sicuro di se, quasi spaurito. Come mai? Roma ha tritato anche lui. Lo ha normalizzato. Lo ha reso simile ai tanti politici che abbiamo visto sfilare in Parlamento nel corso degli anni. Prima di lui, la stessa cosa è successa ai leghisti: sono venuti a Roma per fare la rivoluzione federale e sono finiti in trattoria a magna' la trippa. Normalizzati anche loro. Perché Roma non perdona. Ti avvinghia, ti inebria e ti abbandona negli scaffali della sua storia millenaria. Succederà anche ai grillini? Temo di sì. Quel signore di Genova, per quanto intelligentissimo, ha poche probabilità di sfuggire al venticello millenario, il vero tsunami, che soffia nella capitale e che ha la forza di spazzare via tutto. Dicevo, i miei amici giornalisti che hanno captato questa peculiarità di Roma sono tutti di sinistra. I partiti di sinistra, però, sembrano ancora non percepire questa loro acuta analisi della realtà. Per conquistare l'Italia bisogna fare i conti con la sua perfida capitale. Lo avevano capito Andreotti e anche Ennio Flaiano. Facendosene, scetticamente, una ragione.

sabato 2 marzo 2013

FINALMENTE FUORI DALLE LITANIE MAINSTREAM.

"Se il Pd di Bersani e il Pdl di Berlusconi proponessero un cambiamento immediato della legge elettorale, l'abolizione dei rimborsi dei costi della campagna elettorale e al massimo due legislature per ogni deputato, noi sosterremmo naturalmente, subito un governo del genere. Ma non lo faranno mai". Lo dice Grillo al settimanale tedesco Focus. "Loro bleffano soltanto - ha aggiunto - per prendere più tempo". Il leader del M5S ha poi ribadito: "Io do ai partiti ancora sei mesi, e poi è finita qui". "Poi non potranno più pagare le pensioni e gli stipendi pubblici", ha aggiunto. Nell'intervista, di cui è stata diffusa una anticipazione, Grillo dice: "Saremo schiacciati non dall'euro ma dai nostri debiti. Se gli interessi salgono a 100 miliardi all'anno siamo morti. Non c'é alternativa". "Se compro le azioni di una società che fallisce sono sfortunato. Ho rischiato e perduto", spiega. "Se le condizioni non cambiassero l'Italia vorrebbe lasciare l'euro e tornare alla lira", si legge nell'anticipazione. 'E' il mercato delle vacche. Al M5S arrivano continue offerte di presidenza della Camera, di commissioni, di ministrì, ma 'non siamo in vendita', dice Beppe Grillo. Se il Pd 'vuol trasformare il Parlamento in un Vietnam, non staremo a guardare', aggiunge il leader del M5S che si è trasferito nella sua casa al mare in Toscana'. Nessuna trattativa né calcolo sottobanco - replica il Pd - Giochiamo a viso aperto'. Parla per la prima volta dopo il voto Renzi: 'Niente giri di parole, il centrosinistra ha perso. Non pugnalo Bersani alle spalle. La priorità é tornare in sintonia con gli italiani, non giocare al compro baratto e vendo dei seggi grillini'. 2. GOLDMAN SACHS, «ENTUSIASMO» PER IL M5S. E. Bu. Per il Corriere della Sera. Il giudizio che non ti aspetti, quello che ti sorprende. Il bacio del «nemico». Jim O'Neill, il guru di Goldman Sachs che ha coniato l'acronimo «Bric» (Brasile, Russia, India, Cina), sostiene (in un commento nello studio «Riforme non vuol dire austerity») di trovare «entusiasmante» l'esito delle Politiche. L'Italia, secondo l'economista, ha «bisogno di cambiare qualcosa di importante» e forse «il particolare fascino di massa del Movimento 5 Stelle potrebbe essere il segnale dell'inizio di qualcosa di nuovo». Insomma una promozione per Beppe Grillo a pieni voti, proprio da quella banca d'affari che il leader politico del movimento ha attaccato più volte. Anche con post dedicati, come «L'Europa di Goldman Sachs», del gennaio 2012, in cui venivano evidenziati i rapporti tra politici europei e l'istituto americano. Nell'occhio del ciclone (più volte) Mario Monti bollato come un «impiegato» (22 marzo 2012, ndr) della banca. L'ALLEANZA DEI «PIGS» - Ancor più surreale il fatto che il giudizio di Goldman Sachs arrivi nel giorno in cui viene rilanciata sul web un'intervista di Grillo alla tv greca in cui il leader invita i «Pigs» (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) ad allearsi contro le banche. «Magari faremo una associazione di solidarietà tra noi. Stiamo vicini e facciamo le stesse battaglie - sostiene lo showman -. O creeremo una alleanza tra noi Pigs perché intanto ci abbandonano: appena si saranno ripresi i soldi, le banche tedesche e francesi ci mollano». E ancora: «Se trovate uno come me in Grecia, potete iniziare a fare movimento di rete e fare meet-up, riunirvi e iniziare ad impattare nella politica le idee che avete nelle piazze». Sul blog, come editoriale de «La settimana», Grillo sceglie uno stralcio del «Manifesto per la soppressione dei partiti politici» di Simone Weil: «Il fine primo e, in ultima analisi, l'unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite. Per via di queste caratteristiche ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni». GRILLO E HITLER - E proprio su Internet sorge un nuovo caso, con un parallelo diffuso sui social network in cui si accosta un discorso di Adolf Hitler ai comizi del capo politico del movimento. Ovviamente, il confronto ha causato la reazione sdegnata dei militanti grillini, impegnati anche ieri nella discussione su un eventuale appoggio a un governo di centrosinistra. A La Zanzara il neosenatore campano Bartolomeo Pepe dichiara: «Per me Chavez è un modello, non Bersani. Molto meglio Chavez, che non vuole smacchiare il Giaguaro». E mentre sul web si dibatte, i neodeputati (in vista del vertice romano in cui verranno decisi linea e incarichi) si affacciano a Montecitorio: cinque eletti si sono presentati ieri alla porta principale del palazzo. Ma da lì non sono stati fatti entrare: per registrarsi, viene spiegato a una di loro, l'entrata da usare è quella sul retro. «È stato come in primo giorno di scuola», hanno detto ai microfoni de Il fatto quotidiano. E in serata militanti e alcuni neoeletti si sono dati appuntamento sempre a Roma in un pub in piazza dell'Esquilino per festeggiare. DON ANDREA GALLO - Venerdì ha commentato l'esito elettorale anche don Andrea Gallo: «I grillini hanno avuto consenso perché sono scesi in piazza tra la gente, sono entrati in politica dal basso - ha detto il sacerdote -. È la piazza che conta, l'agorà che conta. Si parte da lì. Per mesi Grillo ha riempito le piazze, e gli altri non capivano. Ecco la sua vittoria».