giovedì 27 dicembre 2012

L'agenda Monti malvista dai guru liberisti.

1- E PERFINO GOLDMAN SACHS ORA CRITICA MONTI. Fabrizio Goria per www.linkiesta.it
L'Agenda Monti rischia di essere un fallimento per l'Italia. E a dirlo, implicitamente, è Goldman Sachs. Pochi giorni prima della pubblicazione del memorandum dell'ultimo presidente del Consiglio, Mario Monti, la banca americana ha duramente criticato l'operato dell'ex commissario Ue. «Il governo Monti ha fallito la realizzazione della sua promessa iniziale», dice Goldman Sachs. Diverse riforme sono finite nel dimenticatoio, mentre quelle più importanti per la rivitalizzazione dell'economia, come le liberalizzazioni, non sono ancora del tutto ultimate. E se non ci è riuscito alla guida di un governo tecnico, quando il rendimento dei bond italiani era ai massimi dall'introduzione dell'euro, provare a farcela tramite un'agenda programmatica sarà ancora più difficile. Un pizzico di Matteo Renzi, di Fermare il Declino, di Pietro Ichino e, infine, dei famosi 39 punti della Commissione Ue dell'autunno 2011. L'Agenda Monti è una miscela di ricette economiche, sociali e politiche. Un mix che però sa di deja vu. In molti casi, come nel capitolo relativo alla riduzione del debito, oltre i 2.000 miliardi di euro, si tratta di ricette che si ripresentano da anni, senza successo. Lo stesso dicasi per le liberalizzazioni, o per il ritorno a una crescita sostenibile, anche utilizzando la leva della riforma fiscale, vera e propria chimera degli ultimi trent'anni di storia italiana, o una fantomatica facilitazione all'introduzione di «nuove forme di finanziamento per migliorare l'accesso al credito e promuovere misure che facilitino la crescita dimensionale delle nostre imprese». Ancora, nessun riferimento all'abbraccio mortale fra banche, fondazioni e politica, uno dei mali italiani degli ultimi vent'anni. L'obiettivo primario fissato nell'Agenda Monti è quello di abbattere il debito pubblico. Nello specifico, gli estensori del memorandum ritengono che «con un debito pubblico che supera il 120% del Pil non si può seriamente pensare che la crescita si faccia creando altri debiti». Un concetto chiaro, che è in linea con quanto sta succedendo nell'economia globale dalla primavera del 2007, ovvero quando scoppiò lo bolla immobiliare americana. L'attuale modello di sviluppo dell'Occidente, basato sull'indebitamento per il sostentamento dell'espansione economica, non è più sostenibile. L'austerity, o meglio il ritracciamento del livello di spesa dato il vincolo di bilancio esistente, deve continuare. È sullo spread, ovvero il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato italiani con scadenza decennale e i corrispettivi tedeschi di pari entità, che l'agenda inizia a traballare. Si spiega infatti che il finanziamento del debito pubblico costa all'Italia 75 miliardi di euro in interessi annuali, il 5% del Pil. In realtà, l'ultimo aggiornamento al Documento di economia e finanza (Def), relativo al 2012, fornisce cifre ben differenti. Il capitolo inerente alla spesa per interessi passivi vede una costante tendenza al rialzo. Se nel 2011 sono stati spesi 78,021 miliardi di euro, nel 2012 la previsione di spesa, quasi definitiva, è di oltre 86 miliardi. E le stime per i prossimi anni sono ben poco ottimistiche. Nel Def gli economisti del Tesoro hanno calcolato che dal 2011 al 2015 l'Italia registrerà un incremento di 27,373 miliardi di euro degli oneri di spesa per interessi passivi. In altre parole, nel 2015 l'Italia pagherà 105,394 miliardi di euro per questa voce. C'è anche la possibilità che questi oneri calino, se il rendimento dei bond italiani alle aste primarie, ovvero quelle dirette dal Tesoro, continua con il trend positivo vistosi da settembre a oggi. L'obbligo, in ogni caso, è quello di continuare a produrre un saldo primario, cioè spendere meno di quanto si incassa anno per anno. In questo caso, sarà positiva l'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, che vincola i prossimi governi dal punto di vista formale al rispetto del Fiscal compact, il nuovo patto fiscale europeo. Il target nel lungo periodo è quello della riduzione, a partire dal 2015, del debito pubblico, con il ritmo di un ventesimo all'anno, fino a toccare quota 60% del Pil. Secondo la banca americana Goldman Sachs, il mix di stagnazione economica, scarsa produttività e immobilismo nelle riforme, complice un quadro politico incerto e frammentato, rischia di durare per i prossimi cinque anni. Così si renderebbe ancora più difficile il rientro dell'Italia dentro i parametri del Fiscal compact, ovvero il deficit pubblico non oltre il 3% del Pil e il debito pubblico entro il 60% del Pil. Ridurre il debito per combattere la crisi. E per farlo, Monti ha deciso di continuare sulla via dettata dal ministro delle Finanze Vittorio Grilli: la valorizzazione e la dismissione del patrimonio pubblico. In luglio, Grilli aveva parlato di un maxi piano quinquennale di dismissioni per ridurre il debito di «15-20 miliardi di euro l'anno, pari all'1% del Pil». Il tutto con l'obiettivo di riportare il rapporto debito/Pil intorno quota 105% in un lustro, anche grazie alle altre misure di consolidamento fiscale. Eppure, come spiegato in luglio dal Fondo monetario internazionale (Fmi) nel corso della sua Debt sustainability analysis (Dsa) c'è il 95% delle possibilità che il debito italiano, nell'arco dei prossimi cinque anni, rimanga fra il 120% e il 130% del Pil. Più facile, invece, continuare ad allungare la scadenza del debito. Meno vincoli nel breve termine, quindi più respiro. E, allo stesso tempo, continuare nel processo di controllo della spesa pubblica, a cominciare dagli enti centrali. Sul fronte fiscale, la ricetta di Monti vede un riequilibrio dei carichi fiscali. Facile a dirsi, difficile a farsi. L'obiettivo finale è quello di una riduzione del peso fiscale, tanto per le famiglie quanto per le imprese. Il tutto «anche trasferendo il carico corrispondente su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio». In altre parole, patrimoniale e aumenti delle imposte su sigarette, alcolici e, forse, beni di lusso. Pertanto, spiega l'Agenda Monti, occorrono «meccanismi di misurazione della ricchezza oggettivi e tali da non causare fughe di capitali». Ed è proprio qui che sorgono i problemi. I blitz della Guardia di Finanza nelle località di villeggiatura, sia montane sia marittime sia lacustri, sono state più operazioni di facciata che altro. La verità, in questo caso, è che i capitali sono già all'estero. Nello scorso novembre la banca anglo-asiatica Hsbc ha calcolato che il 78% dei grandi patrimoni italiani (o High-net-worth individual, Hnwi, cioè sopra il milione di dollari) è allocato all'estero. Soldi che non torneranno mai in Italia perché non ne hanno la convenienza. E all'idea di una patrimoniale, quei pochi soggetti che hanno ancora ricchezza dentro i confini italiani inizieranno a pensare come proteggersi. Cosa fare quindi? Le vie possono essere diverse. Da un accordo fra Italia e i singoli paradisi fiscali all'introduzione di uno scudo fiscale con diverse agevolazioni per i dichiaranti, passando per la misura più drastica, l'acquisto dei file degli evasori, come avvenuto in diversi Paesi nel mondo. Del resto, l'esempio più concreto di cosa significa introdurre una patrimoniale lo si è visto in Francia dopo la vittoria di François Hollande nella lotta per l'Eliseo. La fuga di Gérard Depardieu è emblematica, ma secondo la banca transalpina Société Générale sono addirittura «migliaia» i cittadini francesi che stanno cercando di cambiare nazionalità. Infine, il capitolo più spinoso, quello sul welfare. L'Agenda Monti ribadisce che «lo Stato sociale è il cuore del modello sociale europeo e della sua sintesi tra efficienza ed equità, mercato e solidarietà». Il problema è che, come ha ricordato anche il presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi, l'attuale modello di welfare europeo è da ripensare. L'attuale livello di spesa, sanitaria e previdenziale, sarà presto insostenibile. Ecco quindi che l'Agenda Monti lascia intendere che ci dovranno essere ulteriori sacrifici per i cittadini. Sono stati troppi i tentativi, anche nel recente passato, di una razionalizzazione della spesa sanitaria, unita a una gestione manageriale degli enti basata sulla trasparenza. Tentativi tutti falliti o quasi per via di un sistema clientelare, una piovra che ha colpito anche i modelli più virtuosi. Le ambizioni dell'Agenda Monti sono elevate. Forse troppo. Crescita stagnante, debito pubblico elevato e riforme in bilico: è questo lo scenario in cui si troverà a governare il prossimo presidente del Consiglio. E se vorrà incrementare la fiducia verso gli operatori finanziari internazionali e gli investimenti diretti esteri, capitolo in cui come ricorda Monti siamo uno dei fanalini di coda dell'Ue, dovrà non solo adottare il memorandum dell'ex commissario europeo, ma anche quello del Fmi. Un obiettivo ancora più complicato. 2- SULLA CRESCITA SOLO PRINCIPI SENZA PROPOSTE Luigi Zingales per "Il Sole 24 Ore".
E l'agenda Monti si fece carne. Con qualche ora di anticipo sul Santo Natale, la buona novella centrista è apparsa sul Web: 24 pagine di linee programmatiche, divise in quattro capitoli: Europa, Crescita, Welfare, e un interessante "Cambiare mentalità e comportamenti." A grandi linee le proposte sono assolutamente condivisibili e in alcuni casi, come quello della scuola, addirittura rivoluzionarie per l'Italia. Ma l'agenda è priva di numeri e di dettagli. Più che un programma economico di rilancio, è un manifesto politico, che rigetta le posizioni delle estreme (Berlusconi e Vendola), per ritagliarsi un grande spazio al centro. L'agenda comincia non sorprendentemente con l'Europa. Al di là di dichiarazioni di principio ( "L'Italia deve battersi per un'Europa più comunitaria e meno intergovernativa, più unita e non a più velocità, più democratica e meno distante dai cittadini") non ci sono ne' nuove idee, ne' proposte concrete su come realizzare questi obiettivi. C'e' solo una dichiarazione di metodo: dall'Europa non si ottiene sbattendo i pugni sul tavolo, ma convincendo gli altri delle nostre ragioni. Un' affermazione profondamente giusta, ma anche una rivendicazione dello stile Monti in contrapposizione a quello Berlusconi. La parte più deludente è quella sulla crescita: non per i principi enunciati (altamente condivisibili), ma per l'assenza di proposte concrete. Si apre con una importante dichiarazione anti Fassina e Vendola: «Non si può seriamente pensare che la crescita si faccia creando altri debiti». Ma l'enfasi è sul pareggio di bilancio, non sul taglio delle spese e delle imposte. Si dice che la spesa pubblica va riqualificata, non necessariamente ridotta. E la riduzione delle imposte viene ritenuta «possibile», non necessaria e neppure probabile. C'è anche un accenno alla possibilità di una patrimoniale, come metodo per redistribuire (non ridurre) il carico fiscale. Non sembra un programma di riforme per un rilancio dell'economia, ma un programma per la protezione dei diritti acquisiti e di chi vive di spesa pubblica. Per non urtare la sensibilità dei boiardi di stato si parla addirittura di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico, non di "privatizzazioni" delle imprese pubbliche e di quelle municipali. Più audace e chiaro è invece il piano sull'istruzione, che vuole premiare il merito tra gli insegnanti e riconosce il valore delle valutazioni nazionali tipo Invalsi da usare per incentivare docenti e dirigenti scolastici. Una proposta sacrosanta, ma molto osteggiata dai sindacati, perfino quelli americani. Interessante è l'enfasi sulle liberalizzazioni, viste come «parte integrante di una politica economica che ha messo al centro l'interesse dei cittadini-consumatori piuttosto che quello delle singole categorie economiche o dei produttori». Purtroppo mancano le proposte concrete. Sul capitolo del welfare non ci sono novità. Spicca solo la giusta enfasi su misure per favorire il lavoro femminile e sulla meritocrazia nella pubblica amministrazione. Fa un po' sorridere l'uso della nuova dirigenza Rai come esempio della riduzione «dei condizionamenti della politica nelle carriere amministrative e professionali». Forse che la Tarantola è stata scelta per la sua competenza nel settore? Il capitolo più nuovo e importante è quello intitolato «cambiare mentalità e comportamenti». Qui l'agenda Monti esce dal tracciato dell'economia neoclassica tradizionale ed abbraccia l'importanza delle istituzioni, della cultura, e dell'etica. Monti propone una regolamentazione seria dell'attività di lobby, una trasparenza dei finanziamenti ai partiti politici, una tolleranza zero per l'evasione fiscale e la corruzione, una seria legge sul conflitto di interesse, ed una reintroduzione del falso in bilancio. Si rivendica anche l'importanza della trasparenza della pubblica amministrazione, proponendo anche per l'Italia un "Freedom of Information Act", ovvero un diritto dei cittadini di conoscere i dati a disposizione della Pubblica Amministrazione. Se introdotto, questo principio potrebbe trasformare non solo la Pubblica Amministrazione, ma anche la visione che il cittadino italiano ha della stessa. In questo capitolo si rivendica giustamente la politica come un servizio ai cittadini, invece che come metodo di arricchimento personale. Ma ci si dimentica che per moralizzare la politica bisogna impoverirla: privatizzazioni e tagli di spesa sono elementi necessari. Ma soprattutto ci si dimentica che un cambiamento di mentalità e comportamenti deve cominciare con un cambiamento di uomini. Questo ricambio non è sufficiente, ma è necessario. Ed questo è il vero buco dell'agenda Monti: proposte concrete per un ricambio delle classe politica e dirigenziale. Monti pensa che la sua ambiziosa agenda possa essere implementabile con quella stessa classe politica e dirigente che ha portato al fallimento la Seconda Repubblica? Al di là delle differenze lessicali (salita in politica, invece che discesa in campo), la manovra di Monti ricorda molto quella di Berlusconi nel 1994. Anche il Berlusconi del '94 aveva una agenda liberale, agenda che aveva ricevuto il plauso dello stesso Monti. Aveva perfino gli stessi alleati: Fini e Casini. Perché Monti dovrebbe riuscire laddove Berlusconi ha fallito? Se pensiamo che la colpa del fallimento sia solo di Berlusconi, allora forse la salita in politica di Monti è destinata ad avere effetti migliori. Io invece ritengo che il fallimento di Berlusconi sia dovuto a tre motivi. Innanzitutto, la struttura padronale del suo partito, fatto di stipendiati, che non rappresentano un'idea, ma operano nell'interesse del datore di lavoro, qualunque esso sia. Secondo, conflitti di interesse insanabili, che, in un partito padronale, trasformano il partito in una gigantesca organizzazione di lobby. Terzo, il desiderio di vincere a tutti i costi, anche ai costi degli stessi principi per cui si vuole vincere, che ha spinto Berlusconi ad allearsi con cani e porci. Se Monti vuole riuscire dove Berlusconi ha fallito deve evitare gli errori commessi dal suo predecessore. Deve costruire un partito che si differenzi dall'Udc ma anche da Italia Futura, che è un partito padronale, come lo era a suo tempo Forza Italia. Deve ridimensionare il ruolo di chi è portatore di conflitti di interesse. Ma soprattutto deve imporre che i suoi candidati siano persone nuove, non membri di quella casse politica che ha fallito. Ai miei studenti di private equity insegno che nel giudicare la credibilità di un fondo di investimento non basta valutare la strategia, ma bisogna valutare la coerenza della strategia con le persone che andranno ad implementarla. La migliore strategia di investimento nel settore delle biotecnologie non è credibile se i partner del fondo non hanno conoscenza, esperienza, e una storia di successo nel settore. Lo stesso vale per le agende politiche. Non si può parlare credibilmente di trasparenza dei finanziamenti ai partiti, con chi non ha oggi la massima trasparenza sui suoi finanziamenti. Non si può parlare credibilmente di regolamentazione delle lobby e dei conflitti di interesse, con chi organizza un partito personale ed è portatore di conflitti di interesse. Non si può parlare credibilmente di etica della politica con chi ha portato in parlamento Totò Cuffaro e Saverio Romano. Pur con tutti i suoi limiti l'agenda Monti è troppo importante per essere lasciata in mano a questi Montiani, perché dopo il tradimento di Berlusconi la cosa peggiore per gli italiani non sarebbe la sconfitta dell'agenda Monti, ma un suo ulteriore tradimento. Se un'altra volta l'agenda liberale viene usata come foglia di fico per difendere gli interessi di pochi, a soffrirne non sarebbe solo l'economia del nostro Paese, ma la sua stessa democrazia. 3- TROPPO STATO IN QUELL'AGENDA . Alberto Alesina e Francesco Giavazzi per il "Corriere della Sera".
Per diminuire in modo significativo la spesa pubblica, e quindi consentire una flessione altrettanto rilevante della pressione fiscale, è necessario ridurre lo spazio che lo Stato occupa nella società, cioè spostare il confine fra attività svolte dallo Stato e dai privati. Limitarsi a razionalizzare la spesa all'interno dei confini oggi tracciati (la cosiddetta spending review) non basta. Nel 2012 il governo ha tagliato 12 miliardi di euro; altri 12 miliardi di risparmi sono previsti dalla legge di Stabilità per il 2013. Troppo poco per ridurre la pressione fiscale. Abbassare la spesa al livello della Germania (di quattro punti inferiore alla nostra) richiederebbe tagli per 65 miliardi. Per riportarla al livello degli anni Settanta (quando la nostra pressione fiscale era al 33 per cento), si dovrebbero eliminare spese per 244 miliardi. Di ridurre lo spazio che occupa lo Stato non si parla abbastanza nel programma che Mario Monti ha proposto agli italiani. Anzi, finora il governo Monti si è mosso nella direzione opposta. Ad esempio ha trasferito Snam rete gas, l'azienda che gestisce la distribuzione del gas, dall'Eni, di cui lo Stato possiede il 30%, alla Cassa depositi e prestiti, di cui possiede il 70%, cioè l'ha in sostanza nazionalizzata. Non c'è bisogno di ripercorrere la storia dell'Iri (l'Istituto per la ricostruzione industriale) per ricordarci quanto sia costato ai contribuenti l'intervento pubblico nell'economia. Basta fare i conti di Alitalia. Cinque anni fa il governo Berlusconi si rifiutò di vendere l'azienda ad Air France. Invece ne scaricò i 3,2 miliardi di debiti lordi sui contribuenti e indusse alcuni imprenditori ad acquistarla, con l'impegno «implicito» a intervenire se le cose fossero andate male. Come era facile prevedere, Alitalia oggi è sostanzialmente fallita. Il governo deve ora fare fronte al suo impegno verso i nuovi azionisti. Peraltro in un'operazione della quale a suo tempo fu regista l'attuale ministro Passera. Circolano persino ipotesi di un ingresso delle Ferrovie dello Stato, cioè una ri-nazionalizzazione. Invece bisognerebbe andare nella direzione opposta: privatizzare la Cassa depositi e prestiti, come i governi degli anni Novanta seppero fare con l'Iri. Spostare il confine fra Stato e privati, restringendo lo spazio occupato dallo Stato, richiede alcune decisioni importanti. Cominciamo dalla sanità. Con l'invecchiamento della popolazione la spesa sanitaria è diventata un bomba a orologeria per le finanze pubbliche, un problema non solo nostro ma di tanti Paesi avanzati. L'offerta di servizi sanitari in Italia è per lo più gestita dallo Stato: l'area occupata dai privati è limitata, spesso di qualità inferiore ai servizi offerti dagli ospedali pubblici, con rapporti poco trasparenti (spesso vera e propria corruzione) con l'amministrazione. Esistono tuttavia centri privati eccellenti, sia per efficienza che per qualità e trasparenza. La prima cosa che il prossimo governo potrebbe fare è convocare gli imprenditori che gestiscono queste strutture e capire come riprodurle in altre regioni. C'è poi un problema di finanziamento della spesa sanitaria. Come abbiamo ripetuto più volte, non possiamo più permetterci di fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino, e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Con ciò che risparmiano, i «ricchi» potrebbero acquistare polizze assicurative, decidendo liberamente quanto assicurarsi. È un sistema che incoraggerebbe anche il lavoro: se anziché essere tassato con un'aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le rate. Lo stesso può accadere per l'università. Oggi l'università è pubblica e funziona male. È finanziata da tutti i contribuenti, ma frequentata soprattutto dai più ricchi. È un sistema che trasferisce (con grandi sprechi) reddito dai poveri ai ricchi. Perché non far pagare le rette universitarie in modo meno regressivo? Ci spiace parlare della nostra università, ma la Bocconi non riceve sussidi pubblici, si finanzia con rette scolastiche che sono modulate in funzione del reddito, ed è uno dei pochi atenei italiani che non fa brutta figura nelle classifiche internazionali. Riprodurre questo modello altrove non è impossibile. Il programma di Monti si occupa esplicitamente di famiglia e di occupazione femminile, ma anche qui proponendo di allargare lo spazio occupato dallo Stato: «Va incoraggiata la più ampia creazione di asili nido». La soluzione non è questa, bensì, come lo stesso programma indica in un altro punto, detassare il lavoro femminile e lasciare che le famiglie decidano come meglio credono la cura dei figli. Insomma, a noi pare che il programma di Monti sia troppo Stato-centrico e non punti abbastanza al ridimensionamento dell'intervento pubblico. Con un debito al 126 per cento del reddito nazionale e una pressione fiscale tra le più alte al mondo non si può sfuggire al problema di ridisegnare i confini fra Stato e privati. Illudersi che sia sufficiente «riqualificare la spesa» con la spending review rischia di nascondere agli italiani la gravità del problema.

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