lunedì 5 novembre 2012

ROCKPOLITICS.

1- IL ROCK CANTA CON BARACK Piero Scaglione Negri per "La Stampa" A febbraio aveva detto: starò ai margini della contesa, «gli artisti sono come i canarini nella miniera, più lontani sono dal luogo del potere meglio è». A ottobre, ha fatto uscire un comunicato per spiegare il suo impegno a fianco di Barack Obama: «Giustizia, uguaglianza e libertà vera non sono una marea inarrestabile. Sono una lenta marcia, che avanza un centimetro alla volta, un giorno dopo l'altro. Credo che il Presidente questi giorni li senta intimamente, dentro di sé, e che abbia la forza necessaria per viverli con noi e guidare il Paese in quella direzione». Ci sono voluti otto mesi perché Bruce Springsteen trasformasse il suo distacco critico in un'adesione militante: se prima diceva «la campagna elettorale non è il mio mestiere», domani, con il rapper Jay-Z, chiuderà la campagna elettorale di Obama a Columbus, Ohio, per poi spostarsi a Des Moines, Iowa, a sostenere l'ultimo incontro pubblico di Michelle Obama prima del voto. A febbraio, Springsteen, che in 40 anni di attività si è guadagnato sul campo il ruolo di guida, più morale che estetica, del pop americano, aveva condiviso con noi un'analisi dettagliata dei quattro anni di presidenza: «Obama ha tenuto in vita Detroit, ha fatto passare la legge sulla sanità pubblica, anche se avevo sperato che i cittadini non fossero in balia delle compagnie di assicurazione. Ha ucciso Osama bin Laden, ha portato un po' di buon senso ai livelli massimi di governo. Però si è dimostrato più vicino alle corporation di come immaginavo e purtroppo nella sua amministrazione la classe media e lavoratrice ha avuto poca voce in capitolo. Avrei voluto assistere alla creazione di posti di lavoro prima di quanto è avvenuto e mi sarebbe piaciuto vedere fermare, o mitigare, i pignoramenti delle case di chi non poteva pagare i mutui. Sto ancora con il Presidente, ma ho alcune riserve: Guantanamo avrebbe già dovuto essere chiusa. D'altra parte, però, siamo fuori dall'Iraq, e presto lo saremo dall'Afghanistan». Luci e ombre, insomma, e una certa palpabile disillusione. Molto comune tra i suoi colleghi: «Ho votato Obama e lo rivoterò, perché credo sia giusto concedergli altri quattro anni. Però ha commesso il grave errore di appiattirsi sull'agenda del suo predecessore. Quella ambientale è l'emergenza più grave che abbiamo di fronte, non il terrorismo» (Patti Smith); «Gli Stati Uniti sono un Paese profondamente razzista, e la novità di un leader nero non potrà mai essere sottovalutata: se solo non fosse un tale burocrate» (John Lydon, ex Sex Pistols, inglese che da anni vive in California); «La campagna elettorale non mi appassiona: se c'è una cosa che i quattro anni di Obama hanno dimostrato è che oggi è la finanza, non la politica, a guidare il Paese» (Laurie Anderson).
Tutto un prendere le distanze, un rimarcare dubbi. E la scelta conseguente, per dirla alla Springsteen, di starsene ai margini, anche perché Obama continuava a rimanere in testa nei sondaggi e da Presidente in carica aveva perso il fascino dell'outsider. «Ai musicisti è normale che il presidente Obama interessi meno del candidato Obama», ha detto Jay-Z, rapper e imprenditore nero di enorme successo. Il quale però poi è stato protagonista di uno spot elettorale molto astuto, in cui il Presidente, parlando di lui, lanciava se stesso: «Jay-Z non era un privilegiato, ma è arrivato dove è arrivato perché ha lavorato duramente, ha imparato dai propri errori e non si è mai arreso. È ciò questo Paese promette, e io ho l'obbligo di tenere viva questa promessa». L'esempio di Springsteen e di Jay-Z ha aperto le porte all'arrivo, a fianco di Obama, di musicisti di ogni estrazione: tra i più attivi, l'ex ragazza del coro Katy Perry, divetta pop che ieri ha aperto il comizio di Obama a Milwaukee, Wisconsin, come ha fatto la scorsa settimana a Las Vegas indossando un divertente abitino che rappresentava una scheda elettorale. E come lei fa Dave Matthews, popolarissimo negli States (ieri a Bristow, Virginia, con Clinton e Obama) e hanno fatto, con modalità diverse, The National, Chris Cornell, Marc Anthony, Madonna, Stevie Wonder, Fiona Apple, Alicia Keys, John Legend, Jennifer Lopez, Moby, Randy Newman, Foo Fighters, No Doubt, Pearl Jam, Red Hot Chili Peppers. E i repubblicani? Gli unici due nomi di un certo peso che si sono esposti per Mitt Romney sono Kid Rock e Meat Loaf, celebre trent'anni fa. Non proprio gente da prima fila. Il candidato vicepresidente Paul Ryan ha osato dire che sul suo iPod c'erano i Rage Against The Machine, e il leader del gruppo, Tom Morello, ha subito puntualizzato: «Forse, se eletto, manderà a Guantanamo tutti i finanzieri criminali che lo sostengono e li torturerà con la nostra musica 24 ore al giorno. È una possibilità. Ma non ci credo molto». E quando Romney ha citato i Killers tra quanti vorrebbe avere alla Casa Bianca in caso di vittoria, Brandon Flowers, il cantante del gruppo, mormone come lui, ci ha pensato un po' su, ha concesso che «tutti ci possono apprezzare», e poi ha precisato: «Noi comunque rimaniamo neutrali». 2- "È IL MOMENTO DI SCHIERARSI SE VINCE ROMNEY VADO VIA" - RY COODER: REPUBBLICANI COME LA GIOVENTÙ HITLERIANA Piero Scaglione Negri per "La Stampa" A 65 anni, Ry Cooder può ben dire di averne combinate di tutti i colori: ha insegnato i segreti dell'accordatura aperta a Keith Richards, che su quell'idea ha costruito la sua fortuna, ha fatto scoprire al mondo i vecchietti cubani di Buena Vista Social Club, ha cambiato il suono della chitarra elettrica con la colonna sonora di Paris, Texas, il film di Wim Wenders. Gli ultimi colori (per ora) di Ry Cooder sono quelli di sempre: bianco, rosso e blu. Perché il suo ultimo disco, Election Special, riprende in copertina i colori della bandiera Usa? Sono ancora un simbolo di libertà? «No, no, io non sventolo alcuna bandiera, non c'è nulla di più lontano da me dell'idea di patriottismo acritico. È solo un modo per essere chiari, diretti. Il disco si chiama Election Special, parla delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti d'America dell'anno 2012. Le elezioni più importanti nella storia del Paese». Perché? «Siamo al momento della verità. Se vince Mitt Romney me ne vado a vivere in Canada, e questo è solo un dettaglio: è che l'idea stessa su cui si basano gli Stati Uniti non è mai stata così in pericolo. La classe media sta crollando su se stessa, ha perso la casa, il lavoro, l'unità nazionale è in crisi, la povertà è la vera emergenza nazionale. Bene, se vincono i repubblicani, tutti questi problemi cresceranno a dismisura, e faranno esplodere il Paese». Non che lei sia entusiasta di Barack Obama, però... «Penso che sia un'ottima persona, ma nessuno, neppure il Presidente, oggi può fermare le lobby e il potere delle corporation. Certo, lui avrebbe dovuto chiudere Guantanamo e non l'ha fatto, non avrebbe dovuto proteggere Wall Street come invece ha fatto, avrebbe dovuto andarsene dall'Afghanistan e non l'ha fatto: credo che abbia molti consiglieri sciagurati, specialmente quelli militari, che l'hanno condotto su strade sbagliate e pericolose». L'anno scorso definì i repubblicani «cani rabbiosi». «Ora preferisco citare Gore Vidal, quando diceva che il Partito Repubblicano ha lo stesso modo di pensare della gioventù hitleriana. Mi manca Vidal, era l'intellettuale più acuto del Paese, non avrebbe dovuto morire proprio ora». C'è qualcun altro che sente vicino? «Howard Zinn, ma è morto pure lui. Certo, come per Vidal, ci rimangono i suoi libri, ma mi mancano i suoi interventi sull'attualità. Mi piace Chris Hedges, ma il problema oggi è che chi scrive non arriva a farsi sentire dalla gente. Le corporation, le televisioni, anche questa truffa dei social media lo impediscono. Internet, l'iPhone, Facebook sono strumenti orwelliani, servono a ipnotizzare, anestetizzare la gente». Lei invece ha scritto una serie di canzoni satiriche, una sul cane di Mitt Romney, una su Guantanamo, una sulla convention repubblicana di Tampa, una sulla solitudine del Presidente. «È il mio modo di raccontare. Sono storielle, vignette, racconti brevi. Non sono capace di scrivere chiamate alle armi, canzoni che invitano a mettersi in marcia. Racconto quello che vedo, lo faccio da cinquant'anni, non so fare altro. Martin Luther King diceva: fai qualcosa per il tuo Paese, se lo sai fare. E io so fare questo».

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