mercoledì 14 novembre 2012

Invece Andreotti è sempre vivo, o imbalsamato chissà.

E’ morto un comunista. di Achille Saletti, da Il Fatto Quotidiano.
E’ morto un comunista. Conosciuto a Milano dalla generazione che ha superato i 50 anni e, tra coloro più piccoli, che hanno avuto la fortuna di leggere un libro che ne narrava le gesta. Che erano gesta collettive, partecipate realmente e non, come si suole troppo spesso promuovere adesso, rutti e vagiti telematici. Allora, parliamo dei primi anni 70, la partecipazione era altra cosa. Era fisica e non virtuale, rappresentava l’assunzione di un rischio e lo scontro valoriale tra mondi raramente complementari. Era una contrapposizione di idee e di rapporti di forza, che non avevano ancora sperimentato quella melassa fredda e gelatinosa che ha trasformato la nostra società in un tutto indistinto e la politica in una lotta tra comari dove l’elemento distintivo è la miserabile fedina penale pulita o sporca. Il segno tangibile del disprezzo per questo mondo, lo ricordo, era la perenne stazzonatura dei suoi vestiti. Eppure lui, manager brillante in importanti società, se li mangiava, a colazione e cena, i suoi colleghi impettiti e inamidati quasi fosse sufficiente un buon taglio di vestito per emanare bellezza e intelligenza. Di intelligenza ne aveva in abbondanza, forse, talvolta, fuorviata da eccessi di ottimismo in politica e di estrema lucidità in economia mantenendo, però, inalterato il gusto estetico della provocazione. Posso testimoniare che le sue analisi economiche valevano mille volte le analisi degli accademici soloni che una informazione, povera e cialtrona, si ostina a propinarci quale verbo a cui inchinarci. Per capacità di lettura del futuro e sensibilità verso paesi che non rientrano nella logica autoreferenziale a cui siamo abituati noi occidentali. Sputo del mondo che immaginano di essere simili ad un elisir di vita e di speranza per noi e per gli altri. E’ morto un amico e, in quanto tale, so che non me ne vorrà se lo cito per nome e cognome. Se violo la sua ritrosia di uomo che non voleva apparire. Si chiamava Gianfranco Bellini e, insieme al fratello Andrea, diede vita e corpo ad una banda: la banda Bellini. Una banda comunista nella disciplina e libertaria nei sentimenti di giustizia sociale che imperverso’ nella Milano antifascista degli anni 70. Un bel libro dello scrittore Marco Philopat li descrive entrambi ma non li esaurisce. Era molto più, Gianfranco. Uno di quelli amici che dovrebbero toccare in sorte ad ognuno di noi. In questo mi sento fortunato. Per le discussioni, le divergenze, le risate e le follie che hanno attraversato parte delle nostre vite. Un saluto libertario non te lo leva nessuno. Anche se so, che mi avresti risposto di andare a quel paese. Di questo e solo di questo, volevo scrivere oggi.

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