lunedì 22 agosto 2011

Torniamo alla terra!



Nostro pane quotidiano. È giusto tornare alla terra?

di Goffredo Fofi, da l'Unità

Negli anni di un’altra crisi del capitalismo, quelli che avvicinarono alla II Guerra mondiale, uscirono due film con uno stesso titolo: Nostro pane quotidiano. Il primo era diretto da un grande regista dimenticato, Piel Jutzi, e parlava dei disoccupati nella Repubblica di Weimar, a un pelo dall’avvento di Hitler, senza farsi nessuna illusione sul futuro. Il secondo era statunitense e pieno di entusiasmo, diretto e prodotto dal vitalistico King Vidor che era stato regista di uno degli ultimi capolavori del muto, un cupo film su La folla anonima e dolente della grande città, ed esaltava ora il ritorno alla terra di un gruppo di giovani senza lavoro, cantava la nascita di una comune agricola in chiave New Deal. In quegli stessi anni, lo stalinismo decimava i kulaki e deportava intere popolazioni in nome della collettivizzazione e il fascismo difendeva le città innalzando risibili inni a un’ideale vita contadina senza fatica e senza sfruttamento («Voglio vivere così/ col sole in fronte/ e felice canto/ beatamente» gorgheggiavano i contadini nei film del ventennio).

È la strada giusta?

Nel dopoguerra ci furono in Italia riforme agrarie decisive, però sopravanzate dall’evoluzione di un’economia che favorì l’abbandono delle campagne. Esse deperirono e si spopolarono (ho riletto di recente un bellissimo poemetto di Volponi sulle campagne del dopoguerra, L’Appennino contadino) mentre mutavano nel mondo le coltivazioni e i modi di coltivare secondo i piani e gli interessi della grande finanza e dei grandi mercati. Ai quali è imputabile oggi, per esempio, la tremenda carestia del Corno d’Africa, e saranno imputabili quelle che, altrove, certamente verranno. Eppure, negli anni, c’è sempre stata una piccola corrente contraria che ha attuato, senza cantori e senza pubblicitari al suo servizio, un «ritorno alla terra» sano e benemerito, cominciando da coloro che, secondo ideologie vagamente hippies, si trasferirono in campagna dopo il fallimento dei movimenti giovanili attorno al ’70.

Non tutti resistettero, perché lavorare la terra era molto più duro di quel che pensavano, ma molti piantarono radici e dettero vita ad aziende agricole efficienti, o anche – aderendo a nuove mode – ad astuti agriturismi. Ma il ritorno alla terra è stato ed è un fenomeno mondiale, benché limitato, un fenomeno strisciante e sotterraneo e però, fortunatamente, di dimensioni crescenti come ha documentato qualche anno fa il saggio di Silvia Pérez-Vitoria (Il ritorno dei contadini, Jaca Book) con un’utilissima prefazione storico-politica di Pier Paolo Poggio che ricordava il disprezzo per i contadini della cultura borghese e anche, purtroppo, di quella comunista – che privilegiò e idealizzò il proletariato di fabbrica vituperando o combattendo tutti gli altri – i contadini, gli artigiani, gli impiegati – come se la lotta di classe non riguardasse anche loro.

Ho pensato a tutto questo e ad altro ancora dopo l’incontro con una coppia di conoscenti che di recente ha recuperato una cascina abbandonata, e con un giovane amico che, ottimamente laureato in africanistica ma condannato all’avvilimento del precariato, mi ha detto di aver ripreso il mestiere che era stato dei suoi e di aver aperto una bottega di falegname. Non toccati dalle smanie di successo e di soldi che muovono, con esiti spesso disastrosi, milioni di giovani laureati che hanno creduto alle lusinghe pubblicitarie del luna park detto cultura, logorandosi in una sterile concorrenza interna dentro un mercato bacato e una storia nemica, questo giovane ha fatto, credo, una scelta giusta ed esemplare, che potrebbe venir ripetuta da molti altri.

Forse è proprio nella risposta individuale e di piccoli gruppi alla sfacciataggine del sistema economico attuale, che precipita tutti in una crisi di lunga durata e i cui effetti sono imprevedibili, che tanti altri giovani potrebbero individuare qualche strada di giusta sopravvivenza di fronte a un destino di disoccupazione o allo sfruttamento della sottoccupazione e alle frustrazioni che ne conseguono.
L’unico consiglio che è ancora possibile dare ai più giovani è di non fidarsi di noi adulti, per convincersene basta che guardino che razza di società abbiamo edificato o accettato.

Lottare, anzitutto, per i giusti diritti di chi non possiede e per i propri, ma anche contare sulle proprie forze, ripartire da sé in un contesto in cui nulla di buono hanno da aspettarsi dalla classe dirigente – finanziaria, economica, politica, culturale – che pretende guidarli, dai suoi inganni e dalle sue interminabili e colossali ingiustizie. E costruire reti sociali nuove, e legami di produzione-distribuzione. In un rapporto il più possibile diretto e in qualche modo di scambio. Questo in parte già avviene, perché non sono poche le reti che legano tra loro esperienze considerate sinora come economicamente marginali o folkloriche, ma occorre difendersi dalle mistificazioni di chi già trova il modo di speculare anche su questo, costruendo non delle alternative e dei contropoteri bensì dei nuovi poteri che si aggiungono ai vecchi.

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