domenica 30 ottobre 2011

La festa dei morti vista dal grande Ando Gilardi


Ando Gilardi.


E' vero, è la Festa dei Morti: La Morte è una cosa seria, anche Foscolo si arrovellò per un pezzo sull’opportunità di conforto e sepoltura, ma per i vivi come la mettiamo?Andrà pur esorcizzata con maggiore impegno, con qualche immagine dissacrante, con qualche bella battuta intrisa di cattiveria! In questi momenti, non viene che da rimpiangere la genialità di certi personaggi che riuscirono a trapassare lasciando ai posteri delle graffianti ultime (o penultime) parole o degli irriverenti epitaffi capaci, pur senza raggiungere le vette poetiche di Edgard Lee Masters, di sollevarci il morale anche di fronte all’ultima soglia.

Qui giace l’Aretin poeta tosco/Che disse mal d’ognun fuorché di Dio
/Scusandosi col dir “non lo conosco”. (Pietro Aretino)

Ve l’avevo detto che ero malato. (Spike Milligan)

Se al mio funerale vedo qualcuno con il muso lungo, non gli parlerò mai piu’. (Stan Laurel)

Qui riposa Indro Montanelli, genio compreso, spiegava agli altri ciò che egli stesso non capiva. (Indro Montanelli)

Invano tentò, con passo malfermo, di evitare la tomba che lo attendeva. Ma inciampò e cadde. (Francesco Cossiga)

Otto giorni di febbre! Avrei avuto il tempo di scrivere ancora un libro. (Honoré de Balzac)

Muoio grazie all’aiuto di troppi medici. (Alessandro Magno)

Si prega l’angelo trombettiere di suonare forte: il defunto è duro di orecchie. (George Bernanos)

Cari visitatori, scusatemi se non mi alzo. (Groucho Marx)

© riproduzione riservata
Autore: stefania lucarelli Postato il : 26-10-2011

Siamo alluvionati su tutti i fronti



Quante alluvioni servono per difendere il territorio?

di Fabio Marcelli, giurista ed ambientalista, da Il Fatto Quotidiano

Nell’epoca contemporanea non è più consentito addebitare alla fatalità, al destino cinico e baro o alla furia della divinità indispettita le calamità naturali, a meno di non voler imitare il buon Roberto Mattei, vicepresidente del Cnr che attribuì al risentimento divino il terremoto in Giappone.

I disastri recentemente avvenuti in Toscana e Liguria portano in effetti per intero il marchio della responsabilità politica e a duplice titolo: in quanto risultato del cambiamento climatico che produce, fra l’altro, precipitazioni di intensità eccezionale, e in quanto risultato del dissesto del territorio italiano, colpito da una cementificazione indiscriminata e vittima dell’incuria dei vari governi che si sono succeduti, in particolare dalla Liberazione ad oggi.

Il primo fattore è ovviamente di tipo globale, anche se il governo italiano ne è responsabile per la parte che gli compete. Sono passati oramai quasi vent’anni dalla Conferenza di Rio sull’ambiente e lo sviluppo (Unced), che approvò, oltre alla Dichiarazione di carattere generale e all’Agenda 21, documento programmatico estremamente articolato, una convenzione relativa proprio al clima, insieme a quella relativa alla diversità biologica e alla dichiarazione sulle foreste.

Passi avanti significativi, tuttavia, non sono stati fatti. Continua incontrastata l’emissione di gas ad effetto sera, in buona parte per diretta responsabilità della principale potenza mondiale, gli Stati Uniti d’America, che rifiutano di firmare il Protocollo di Kyoto, anche ora con Obama, che pure qualche impegno al riguardo se l’era mi pare preso.

Il secondo fattore è di ordine più squisitamente italico. Il nostro è un Paese con forti criticità geologiche, dove la cementificazione indiscriminata e l’abbandono dell’agricoltura e di altre forme di riassetto del territorio, hanno lasciato via libera al dissesto idrogeologico.

Una politica criminale che l’attuale classe dirigente continua irresponsabilmente a promuovere mentre si annunciano nuovi condoni. Né si può dire che la responsabilità sia tutta e solo della destra. Gli amministratori del centrosinistra sono stati, infatti, più di una volta in prima fila nella svendita del territorio e nel saccheggio delle sue risorse a beneficio della speculazione immobiliare. In alcuni casi ci sono vere e proprie politiche bipartisan a sostegno di quest’ultima, come dimostrato da Paolo Berdini con riferimento a Roma, saccheggiata ieri da Veltroni e oggi da Alemanno.

Ai tempi della Conferenza di Rio, avevo affermato, in un articolo che venne pubblicato da varie riviste, la necessità di fare affidamento sulla società civile e sulle sue mobilitazioni per dare una risposta veramente efficace alle acute e fondamentali problematiche ambientali.

A quasi vent’anni di distanza i fatti mi danno ragione. Specie in Italia, a fronte di una classe politica di incapaci, incompetenti e in alcuni casi purtroppo anche di corrotti, solo la società civile, la cittadinanza organizzata può difendere il territorio, come dimostrato da recenti episodi piccoli e grandi, dalla Tav alle lotte contro i parcheggi interrati previsti a Roma, dove si abbattono gli alberi per fare spazio al cemento, a esclusivo beneficio della speculazione immobiliare dietro la quale ci sono spesso forze oscure.

Occorre quindi dare vita a una rete di Comitati per la difesa del territorio, per dire basta alla cementificazione, alla speculazione immobiliare e al connubio affari-politica che la sostiene, con legami diretti e indiretti con il capitalismo finanziario, di cui la bolla immobiliare è come si è visto un aspetto foriero di guasti sociali ed ambientali, e con mafie di vario genere. Il patrimonio edilizio già esistente, che va riqualificato ed utilizzato in modo sociale è già più che sufficiente per tutti i bisogni validi ed effettivi.

Di fronte a una classe politica che non è visibilmente all’altezza della situazione la parola passi ai cittadini organizzati. Altrimenti non ci resterà che organizzare qualche messa in compagnia del buon Mattei e magari fare una danza propiziatoria con tanto di sacrificio rituale. In attesa della prossima frana e del prossimo disastro…

sabato 29 ottobre 2011

L' apocalisse prossima ventura di Busi




APOCALISSE FAI DA TE
Aldo Busi per Dagospia


La sento nell'aria che respiro, in quello che mangio e che bevo, attraversa come una beffarda onda sonora la gente che vedo e con cui ho a che fare, riecheggia nei dolori nuovi non ancora indagati che ci opprimono ma che ci sfuggono e con cui comunichiamo con sempre minore difficoltà a non passare direttamente alle mani e alle armi, anche contro di sé, è una vocina sempre più insistente che sibila, "Moltiplicatevi e andatevene, andatevene tutti fuori dalle palle una volta per sempre", e per "tutti fuori dalle palle" non credo intenda lo stesso significato metaforico che gli davamo noi fino all'altro ieri.

Bene, da ieri voi umani siete ufficialmente sette miliardi. Se si tiene conto che non potete non condividere le percentuali della composizione delle sogliole, 60% di acqua, 30% di mercurio, 5% di coloranti e 5% di cocaina, non siete un toccasana nemmeno come concime in divenire.


Il sistema terracqueo, che ha di sé una coscienza di gran lunga più sviluppata della vostra, si è da decenni predisposto a darci battaglia - sì, me compreso, perché non tiene in alcun conto la mia ecologica e spermatica differenza - per difendere almeno se stesso e promuovere, indirettamente, l'egemonia finale dei topi sugli umani, e ora sta per sferrare il colpo di grazia: una volta era necessario un intero uccello del malaugurio per prevedere catastrofi, pestilenze, guerre, cannibalismo, pulizie etniche, modificazione irreversibile del genoma umano e conseguenti malattie ereditarie presto mortali su aree sempre più vaste della Terra, adesso basta una sola penna appena appena sensata.

Aldo Busi

Per me Renzi è vecchio e pirla



Nichi Vendola: «Renzi sei il vecchio»

«Una persona molto interessante, molto simpatica, con una cultura politica essenzialmente di destra»




«Renzi, sei il vecchio».


Lo ha detto a Radio 24 il leader di Sel Nichi Vendola intervenendo sull'evento organizzato da Matteo Renzi alla ex stazione Leopolda di Firenze. «Considero Renzi una persona molto interessante, molto simpatica, con una cultura politica essenzialmente di destra. Lo considero incapace di porre il tema della fuoriuscita dal disastro che il liberismo, in un trentennio, ha compiuto nel mondo intero e quindi mi sento molto antagonista delle ragioni di Renzi», ha aggiunto. Vendola ha confessato invece una diversa simpatia: «E invece sento una sensibilità comune a quella di Pierluigi Bersani nella ricerca di quella giustizia sociale che deve essere il cuore di una politica di alternativa. Considero la querelle generazionale inappropriata, una maschera che nasconde le cose. Renzi è molto più giovane di me e di Bersani ma è molto più vecchio culturalmente e politicamente di me e di Bersani. Renzi è vecchio quanto è vecchia la rivoluzione liberista nel mondo».

Parla Bauman, il più grande sociologo vivente


Bauman: "Berlusconi? Un incidente Gli italiani sapranno andare avanti"

Zygmunt Bauma, sociologo e filosofo polacco, è nato nel 1925

Gli indignati? Senza programmi"

FLAVIO ALIVERNINI, da La Stampa

Zygmunt Bauman è a Roma, al Salone dell'Editoria Sociale per una lectio magistralis, introdotta da Guliano Battiston, sul tema "Etica e Responsabilità pubblica". L'abbiamo incontrato ieri a pochi passi dal centro due ore dopo il suo arrivo e l'occasione è sembrata propizia per proporgli una riflessione sulla nostra maniera di intendere morale e politica.

Il tema dell'etica nella responsabilità pubblica tocca da vicino noi italiani. Che idea si è fatto del nostro primo ministro?
Berlusconi è un fenomeno unico che non si è manifestato in nessun altra cultura politica democratica. E' molto astuto e riesce sempre a manipolare gli alleati nonostante le differenze che esistono fra di loro: ha le capacità che servono a mantenere il potere. Che poi abbia anche la qualità necessaria a guidare un meraviglioso paese come Italia con le sue grandiose tradizioni di indipendenza e autonomia, questa è un'altra questione. Ne parlo con tante persone ma nessuno mi da una buona spiegazione: forse è un momento di mancanza di attenzione, dove non si guarda alla vera essenza delle cose. Sono convinto, però, che tra poco gli italiani guarderanno indietro e si domanderanno: come è possibile che sia successo tutto questo? Berlusconi è un incidente: tutti i paesi hanno qualche dispiacere dalla storia.

Ma se Sarkozy e la Merkel ridono di noi si prendono gioco dell'Europa intera, non crede?
De Gasperi è stato uno dei pionieri dell'Europa e l'Italia è stata coinvolta nella formulazione dell'idea fin dall'inizio ma adesso tutto il Vecchio Continente è in crisi. Una crisi legata agli eventi di un mondo globale: anche se fosse stata più unita economicamente non avrebbe potuto causarla da sola.

L'asse franco-tedesco sta andando nella giusta direzione per risolverla?
La Germania e la Francia hanno avuto il placet dagli altri paesi dell'Ue per la loro strategia ma il piano è quello di ricapitalizzare le banche: significa tornare indietro al punto di partenza. E' un tentativo di gestire la crisi senza rimuovere le vere cause di essa. Penso che nei prossimi anni i cambiamenti saranno profondi: il sistema economico non è stato capace di autoregolarsi.

In Italia il dibattito politico si sta concentrando su una norma del governo che permetterebbe licenziamenti più facili. Sono i lavoratori a pagare il prezzo più alto per la crisi?
E' risaputo che i guadagni tendono a privatizzarsi e le perdite si redistribuiscono. Si pensava che lo sviluppo della classe operaia fosse inarrestabile ma così non è stato: basta vedere cosa sta accadendo alla Fiat e alla Pirelli. Gli operai stanno scomparendo, non avremo più proletari ma precari. E i sentimenti che li guideranno saranno la paura e la perdita di autostima.

Nel mondo infiammano le proteste. Crede che la "rivolta degli indignati" possa canalizzare questi sentimenti negativi?
Non è un movimento rivoluzionario. Non ci si può aspettare una rivoluzione da chi non ha un programma e una visione alternativa di società.

Dove sfocerà la loro protesta?
Questo non lo so, ma siamo in un campo minato: circondati da materiale esplosivo nascosto ma che sicuramente da qualche parte, in qualche momento, esploderà. Non si può dire dove e quando. La gente scende in piazza in tutti i paesi ma l'obiettivo delle proteste sono diverse ovunque, non c'è unità. Solo rabbia e rancore. Questa è una nuova forza politica: provare di poter distruggere ciò che non piace. Proprio ciò che è successo a Mubarak, Gheddafi e Ben Ali. Ma lo stesso impeto può concentrarsi nella costruzione di qualcosa? Questo è il problema.

Vede un punto di forza nella struttura sociale italiana?
La forza dell'Italia sta nelle relazioni familiari. In Gran Bretagna, per esempio, è facile sentirsi abbandonati e soli mentre in Italia c'è un sistema di relazioni familiari più esteso. Questo significa che se un membro della famiglia ha successo può condividerlo con tutti gli altri e se ha problemi può aspettarsi l'aiuto di tutti gli altri: una specie di ammortizzatore. Sfortunatamente non è così nell'Europa del Nord dove le cadute sono più dure

Inchiniamoci ad Einstein



Albert Einstein, dall'America profetizzò 65 anni fa lo scenario odierno, dicendo:


"Le moderne democrazie, che mascherano regimi tirannici, utilizzano i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di disinformazione e di stravolgimento delle coscienze degli uomini." "Nelle condizioni attuali, i capitalisti privati controllano inevitabilmente in modo diretto o indiretto, le principali fonti di in...formazioni (stampa radio) (all'epoca non c'era la TV nda). Per cui è estremamente difficile, e nella maggior parte dei casi impossibile, che il singolo cittadino possa arrivare a conclusioni oggettive e avvalersi in modo intelligente dei propri diritti politici".

venerdì 28 ottobre 2011

Bifo vola alto





Inefficacia delle forme di lotta in assenza di solidarietà

pubblicata da Franco Berardi il giorno giovedì 27 ottobre 2011 alle ore 22.45

Il movimento di protesta si è diffuso durante l’anno 2011, e ha cercato di opporsi all’attacco finanziario contro la società. Ma le dimostrazioni pacifiche non sono riuscite a cambiare il programma di azione della Banca centrale europea, dato che i parlamenti nazionali sono ostaggi delle regole di Maastricht, degli automatismi finanziari che funzionano come costituzione materiale dell’Unione. La dimostrazione pacifica è efficace nel contesto della democrazia, ma la democrazia è finita dal momento che automatismi tecno finanziari hanno preso il posto della decisione politica. Se occorreva una prova definitiva del carattere illusorio di ogni discorso sull’alternativa democratica, l’esperienza di governo di Barack Obama ce l’ha fornita. Nessun potere democratico può nulla, nessuna alternativa è possibile nella sfera dell’azione democratica, dal momento che le decisioni sono già prese, incorporate nei dispositivi di connessione informatica, finanziaria e psichica.

La violenza è esplosa allora in alcuni momenti. Le quattro notti di rabbia delle periferie inglesi, le rivolte violente di Roma e Atene, hanno mostrato la possibilità che la protesta sociale diventi aggressiva. Ma anche la violenza è incapace di cambiare il corso delle cose. Bruciare una banca è totalmente inutile, dato che il potere finanziario non è negli edifici fisici bancari, ma nella connessione astratta tra numeri, algoritmi e informazioni. Perciò se vogliamo trovare forme di azione che siano capaci di affrontare la forma attuale del potere dobbiamo partire dalla coscienza che il lavoro cognitivo è la principale forza produttiva capace di creare gli automatismi tecno linguistici che rendono possibile la speculazione finanziaria. Seguendo l’esempio di Wikileaks dobbiamo organizzare un processo di lungo periodo di smantellamento e riscrittura degli automatismi tecno linguistici che creano le condizioni della schiavitù.

La soggettività sociale sembra debole e frammentaria, di fronte all’assalto finanziario. Trenta anni di precarizzazione del lavoro e di competizione hanno distrutto il tessuto stesso della solidarietà sociale e reso fragile la capacità psichica di condividere il tempo, le cose e il respiro. La virtualizzazione della comunicazione sociale ha eroso l’empatia tra corpi umani. Il problema della solidarietà è sempre stato cruciale in ogni processo di lotta e di cambiamento sociale. L’autonomia si fonda sulla capacità di condividere la vita quotidiana e di riconoscere che quel che è buono per me è buono per te, e quel che è cattivo per me è cattivo per te. La solidarietà è difficile da costruire ora, che il lavoro è stato trasformato in una distesa di celle temporali ricombinante, e di conseguenza il processo di soggettivazione è divenuto frammentario, an-empatico e debole. La solidarietà non ha nulla a che vedere con un sentimento altruista di sacrificio. In termini materialisti la solidarietà non è una faccenda che riguarda te, ma una faccenda che riguarda me. Allo stesso modo l’amore non è altruismo, ma piacere di condividere il respiro e lo spazio dell’altro. L’amore è capacità di godere di me stesso grazie alla tua presenza, ai tuoi occhi.

Per questo la solidarietà si fonda sulla prossimità territoriale dei corpi sociali, e non si può costruire solidarietà tra frammenti di tempo, e le rivolte inglesi e italiane, come l’acampada spagnola si debbono considerare come delle forme di riattivazione psico-affettiva del corpo sociale, come un tentativo di attivare una relazione vivente tra il corpo sociale e l’intelletto generale. Solo quando l’intelletto generale sarà capace di riconnettersi con il corpo sociale saremo in grado di cominciare il processo di effettiva autonomizzazione dalla presa del capitalismo finanziario.


Diritto all’insolvenza


Un nuovo concetto sta emergendo dalle nebbie della presente situazione: diritto all’insolvenza. Non pagheremo il debito.

I paesi europei sono stati obbligati a accettare il ricatto del debito, ma la gente rifiuta l’idea di dover pagare per un debito che non ha assunto.

L’antropologo David Graeber nel suo libro Debt the first 5ooo years, (Melville house, 2011), e il filosofo Maurizio Lazzarato in La fabrique de l’homme endetté (editions Amsterdam, 2011) hanno cominciato una riflessione sulla genesi culturale della nozione di debito, e sulle implicazioni psichiche del senso di colpa che quella nozione comporta. E Federico Campagna scrive nel suo saggio Recurring Dreams: The red heart of Fascism:

“L’ultima volta ci ha messo decenni per venire alla luce. Prima ci fu la guerra, poi, quando la guerra finì, ci fu il debito, e tutti i legami che vengono col debito. Era il tempo dell’industrializzazione, della modernità, e tutto accadeva su scala di massa. Impoverimento di massa, disoccupazione di massa, iperinflazione, iperpopulismo. Le nazioni cadevano sotto il peso di quello che i marxisti chiamavano contraddizioni, mentre i capitalisti si aggrappavano al bordo dei loro cilindri e tutti aspettavano che il cielo cadesse sulla terra. L’aria divenne elettrica, le piazze si riempirono, gli alberi si trasformarono in bandiere e bastoni. Era il tempo fra le due guerre e nella profondità del corpo sociale il nazismo era ancora nascosto, liquido e montante, calmo come un feto.”

“Questa volta tutto sta accadendo quasi esattamente nello stesso modo, solo un po’ out-of-sync, come succede coi sogni ricorrenti. Ancora una volta l’equilibrio del potere nel mondo sta spostandosi. Il vecchio impero sta annegando, malinconicamente e i nuovi poteri stanno affrettandosi nella corsa verso l’egemonia. Come prima le loro atletiche grida sono quelle potenti della modernità: crescita! Crescita! Crescita”.


Il peso del debito ossessiona l’immaginazione del futuro, come già accadde negli anni Venti in Germania, e l’Unione, che un tempo era una promessa di prosperità e di pace sta diventando un ricatto e una minaccia. In risposta il movimento ha lanciato lo slogan: “Non pagheremo il debito”.

Per il momento queste parole sono illusorie, perché in effetti lo stiamo già pagando: il sistema educativo è tagliato, impoverito, privatizzato, posti di lavoro cancellati, e così via.

Ma quelle parole intendono cambiare la percezione sociale del debito, e creare una coscienza della sua arbitrarietà e illegittimità morale. Il diritto all’insolvenza emerge come una nuova parola chiave e un nuovo concetto carico di implicazioni filosofiche. Il concetto di insolvenza non implica soltanto il rifiuto di pagare il debito finanziario ma in maniera sottile implica il rifiuto di sottomettere la potenza vivente delle forze sociali al dominio formale del codice economico.

Il paradosso

Rivendicare il diritto all’insolvenza implica una messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale. La forma capitalista non è solo un insieme di regole e di funzioni economiche, ma anche l’interiorizzazione di un certo numero di limitazioni, di automatismi psichici, di regole di compatibilità. Cerchiamo di pensare per un attimo che l’intera semiotizzazione finanziaria della vita europea scompaia, cerchiamo di pensare che a un tratto smettiamo di organizzare la vita quotidiana in termini di denaro e di debito. Nulla cambierebbe nella potenzialità utile e concreta della società, nei contenuti della conoscenza, nelle nostre competenze e capacità produttive.

Questo dovremmo fare: immaginare e rendere possibile la liberazione della potenzialità vivente dell’intelletto generale in termini di disincagliamento dalla Gestalt capitalistica, automatismo psichico che governa la vita quotidiana.

Insolvenza significa non riconoscere il codice economico del capitalismo come traduzione della vita reale, come semiotizzazione della potenza e della ricchezza sociale.

La capacità produttiva concretamente utile del corpo sociale è costretta ad accettare l’impoverimento in cambio di nulla. La forza concreta del lavoro produttivo viene sottomessa al compito improduttivo e distruttivo di rifinanziare il sistema finanziario fallimentare. Se potessimo paradossalmente cancellare ogni segno della semiotizzazione finanziaria nulla cambierebbe nel funzionamento sociale, nulla nella capacità intellettuale di concepire e realizzare. Il comunismo non ha bisogno di essere chiamato dal ventre del futuro, esso è qui, nel nostro essere, nella vita immanente dei saperi comuni. Ma la situazione è paradossale, contemporaneamente entusiasmante e disperante. Il capitalismo non è mai stato così prossimo al collasso finale, ma la solidarietà sociale non è mai stata così lontana dall’esperienza quotidiana.

Dobbiamo partire da questo paradosso per costruire un processo post-politico di disincagliamento del possibile dall’esistente.

ECCO COSA CI TOCCHERA' IL GIOVEDI' SERA




...UN PORCO AL POSTO DI SANTORO...

Addavenì Baffone




Top directors’ total earnings rise 49%


By Brian Groom, Business and Employment Editor Financial Times

Getty FTSE 100 directors saw their total earnings rise by 49 per cent in the past financial year, taking the average to just under £2.7m, according to research by Incomes Data Services, the pay monitoring group.

The increase will fuel controversy over executive pay as Vince Cable, business secretary, consults on proposals to clamp down on the “escalation” of awards, including putting employees on remuneration committees and making shareholder votes binding.



That would take City bonuses to just over a third of the £11.6bn peak seen in 2007-08. The last time a lower level of bonuses was paid was in 2002-03.

But FTSE directors’ earnings have now soared for two years, according to IDS’s data. The latest increase follows a 55 per cent rise in 2009-10 as profits bounced back from the recession.

For chief executives in the FTSE 100, the rise over the past year was 43 per cent, taking their average to £3.86m, while finance directors received 34 per cent, taking them to £2m.

IDS’s figures are averages. If median figures are used – the halfway point between the largest and smallest rise – the increase is calculated at a more modest 16 per cent.

Nonetheless, all these figures are way above the 2.3 per cent increase in average earnings across the economy in the year to April, as well as the 4.5 per cent rise in FTSE 100 shares over that period.

Steve Tatton, editor of the report, said: “Britain’s economy may be struggling to return to pre-recession levels of output, but the same cannot be said of FTSE 100 directors’ remuneration.

“At a time when employees are experiencing real wage cuts and risk losing their livelihoods, without further explanation it may be difficult for FTSE 100 companies to justify the significant increase in earnings awarded to their directors.”

The base salaries of FTSE 100 directors rose by only 3.2 per cent, but earnings were boosted by bonuses, pay-outs under long-term incentive plans and nominal gains on share options cashed in during the year.

The top earner among FTSE 350 bosses was Mick Davis, chief executive of Xstrata, the Anglo-Swiss miner, with £18.4m, followed by the top executive at Reckitt Benckiser, the consumer products group (£17.9m), Icap, the interdealer broker (£13.4m), and Tesco, the supermarket chain (£12m).

Brendan Barber, general secretary of the Trades Union Congress, said: “These bumper settlements prove that chief executive officers’ pay bears no resemblance to performance or economic reality.

“Top directors have used tough business conditions to impose real wage cuts, which have hit people’s living standards and the wider economy, but have shown no such restraint with their own pay.”

giovedì 27 ottobre 2011

L'Italia frana


Calamità morale

di Franco Arminio, dal Manifesto



Sospeso sulle argille/ di una vecchia collana,/ il paese perde le sue perle,/frana. Può essere ottobre o maggio, può essere la Liguria o la Calabria, la scena si ripete e la pioggia porta via i muri, le macchine e qualche volta anche le persone. Ogni volta si leva il lamento sull'assenza di prevenzione, poi cala il silenzio, in attesa della prossima sciagura. E invece la sciagura è sempre in corso, la frana non finisce mai, lo smottamento è perenne e quando non porta via le case, comunque apre crepe, distende altri fili nella ragnatela delle faglie. L'Italia è un paese fragilissimo che scompare mano a mano che viene costruito. Ogni volta che vedo una betoniera mi viene un dolore allo stomaco, sento che quel cemento va a coprire un altro poco di terra. Ormai siamo una penisola di cemento in mezzo al mare. La terra in certe zone sembra avere le ore contate. E l'acqua batte ovunque, può essere la capitale o il paese più sperduto dell'Appennino: il risultato è sempre lo stesso: fango nelle cantine, alberi in gita lontano dalle loro radici, un paesaggio rotto, incapace di ricordarci che non è questione di piccole inadempienze, ma di un modo di abitare il mondo che qui da noi ha i tratti conclamati del delirio. Certo, ce la possiamo prendere coi cittadini che si fanno le case in zone pericolose e con chi glielo permette, possiamo immaginare che lo Stato si faccia avaro e non rimborsi i danni, ma comunque non si risolve molto. E piuttosto che dichiarare lo stato di calamità naturale, che va ad alimentare la sempre fertile economia della catastrofe, bisognerebbe dichiarare lo stato di calamità morale. Ed è uno stato ormai perenne, con o senza piogge fa i suoi danni ogni giorno. E li fa nella civilissima Liguria allo stesso modo che nelle terre delle mafie.
L'Italia è divisa su tutto, ma è unita dalla frane. Le frane di cui parliamo fanno scalpore perché ci sono vittime, perché un paese in bilico è a suo modo spettacolare. La frana più grande è stata la fuga degli abitanti dall'Appennino e la discesa a valle dei paesi. Come se chi fosse rimasto avesse bisogno di abitare un luogo che in qualche modo scimmiottasse la città. Praticamente ogni paese alto ha sempre una periferia lungo la strada nazionale. I paesi si sono duplicati. E quello in alto è quasi sempre un museo delle porte chiuse, un gioiello dell'agonia. Oltre alle case, è vuota anche la terra intorno.
Gli italiani hanno fatto di tutto per non essere più contadini e ci sono riusciti. Lo sanno tutti che la terra coltivata attenua l'impatto delle piogge, ma oggi coltivare la terra è un lusso per ricchi. E l'attenzione della politica ai problemi dell'agricoltura è testimoniata dalla nomina del ministro attuale che nella sua vita si è occupato di ben altro. Il panorama è ugualmente desolante se pensiamo alle politiche sui piccoli paesi. Ormai da anni viene approvata una leggina in un ramo del parlamento e poi puntualmente si ferma per strada. L'anno scorso la Camera ne ha approvate due, ma lo stanziamento complessivo è di soli cento milioni di euro. Non mi risulta che il Senato abbia affrontato l'argomento. Nell'italietta televisiva una legge sui paesi non fa gola a nessuno. Sarebbe ora che gli abitanti che sono rimasti sui paesi si sollevassero per reclamare misure a difesa del territorio, ma i paesi sono governati dalle stesse logiche che hanno i dinosauri del parlamento. Una piccola borghesia fangosa che imbratta con furbizie e intrallazzi ogni cosa.
Sarebbe il momento di reclamare alcune semplici norme, prima fra tutte lo stop al consumo di suolo agricolo. Una norma che suona inconcepibile ai tromboni dello sviluppo e della crescita che abitano tutte le contrade politiche. E allora le frane, come gli incidenti stradali e altri disastri ordinari, fanno parte di questa apocalisse diluita che chiamiamo società civile. Nessuno si illuda di essere a riparo, oltre alle frane che muovono la terra, ci sono le frane mediatiche che hanno portato nelle nostre case la poltiglia di un consumismo cieco e avvilente. Non servono solo geologi e opere di ingegneria naturale, serve passione per il bene comune, ardore politico, serve l'ammissione che ogni giornata in un mondo del genere è un fallimento. La pioggia diventa una sorta di marker tumorale, rivela impietosamente che il nostro paesaggio è malato, è malato il nostro modo sempre più autistico di abitarlo. Siccome non possiamo chiedere alle acque di placarsi, siccome non possiamo addomesticarle, allora è il caso di non prendersela coi metereologi che sbagliano le previsioni, dobbiamo prendercela con le leggi che consentono anche a chi non è agricoltore di farsi la casa in campagna. Nei piccoli paesi è rimasta poca gente e se ne vede pochissima in giro perché abitano quasi tutti in campagna, nelle case sparse. Il lavoro nei campi è stato abbandonato, ma la piantagione delle villette non accenna a diminuire.

martedì 25 ottobre 2011

La crisi europea nell'analisi della Rossanda


La rotta d'Europa


Rossana Rossanda - dal manifesto 19 luglio 2011

Qualche anno fa Romano Prodi si è felicitato di aver fatto l’unità dell’Europa cominciando dalla moneta. Se avessimo cominciato dalla politica – è stato il suo argomento – non ci saremmo arrivati mai data la storica rissosità dei singoli stati. Mi domando se lo ripeterebbe oggi.

E’ vero che la moneta unica, l’euro, c’è ed è diventata la seconda moneta internazionale del mondo, ma lui medesimo, che aveva a lungo diretto la Commissione, Jacques Delors, che l’aveva preceduto - nonché Felipe Gonzales, presidente all’epoca del governo spagnolo ed altri minori responsabili di quegli anni - hanno scritto sabato su “Le Monde” un preoccupato testo sul suo destino. Quattro paesi dell’Unione, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia sono indebitati fino agli occhi e sono entrati in una zona di turbolenza pericolosa per tutto il continente. Soprattutto i padri dell’euro riconoscono che “certe misure” che si sarebbero dovute prendere a suo tempo, “come un coordinamento delle politiche economiche”, non sono state prese e “si stanno elaborando oggi “ e “nel dolore”. Di furia, perché siamo alle strette. Se ho capito bene, si tratta di alleggerire il debito greco con l’emissione di Eurobonds che se ne assumono una parte a lunga scadenza (e senza specularci sopra come hanno fatto le banche tedesche e francesi) e poi andare a un programma economico di tutti i paesi europei che cessi di lasciare ciascuno a cavarsela da sé. E non getti sui cittadini greci tutto il “dolore” e il peso del rientro del debito e della ricostruzione di una economia. Paghino una parte del conto “i grossi investitori istituzionali”, cioè le banche estere hanno investito a rischio, e il rischio è il loro mestiere.

Parole prudenti, ma sufficienti, penso, a non trovare l’accordo dei paesi che si riuniranno giovedì 21 a Bruxelles - per cui la Germania sarebbe stata incline a prendere più tempo. Un suo illustre economista sostiene, una pagina più in là, che bisogna invece mettere la Grecia temporaneamente fuori dall’euro a spicciarsela con le sue dracme, una loro energica svalutazione e senza l’aiuto degli Eurobonds. E’ la linea liberista. Che si incrocia, in tutt’altra prospettiva, con quella di Amartya Sen, di alcuni economisti e sociologi francesi come Jacques Sapir e Emmanuel Todd e di politici di sinistra come Mélenchon e una parte dell’amletico Partito socialista, e dell’estrema destra di Marine Le Pen - via dall’euro e per sempre.

Non so - non trovando traccia delle procedure di abbandono dell’euro nelle varie bozze di trattati - se sia fattibile né ho capito in che cosa migliorerebbe le condizioni della Grecia un ripescaggio della dracma; la poderosa svalutazione si accompagnerebbe, certo, a una maggiore possibilità di esportare i suoi prodotti (ammesso che ne abbia di appetibili oltre il turismo) ma anche a un aumento, di proporzioni pari, del debito con le banche tedesche. O sbaglio?

Sta di fatto che alla vigilia del ventesimo compleanno della moneta europea, il giudizio su che fare è una cacofonia. Non a caso l’appello di cui sopra chiama prima di tutto ad avere “una visione chiara” e condivisa dello stato dell’Europa. Sarebbe stato utile arrivarci prima e non con il coltello alla gola. Oltre alla Grecia infatti, Portogallo, Spagna e Italia hanno accumulato un indebitamento pubblico mostruoso e vacillano sotto l’occhio spietato e non disinteressato delle agenzie di rating. Per il patto di stabilità non si dovrebbe superare il 60 per cento del Pil mentre noi, per esempio, siamo al 120. Ma la nostra economia appare in stato ben migliore di quella greca e, cosa che conta, il nostro indebitamento è soprattutto all’interno, non ci sono banche tedesche che ci ringhiano addosso.

Per cui anche se Moody ci abbassa la pagella, la Commissione si limita a ordinarci cure da cavallo, tipo la manovra votata a velocità supersonica qualche giorno fa, per “rientrare”. La cui filosofia è uguale per tutti: tagli alla spesa pubblica (scuole ospedali e amministrazioni locali in testa), vendita di tutto il vendibile (perché la Grecia non cederebbe il Partenone a Las Vegas?), privatizzare il privatizzabile, cancellazione dello stesso concetto di “bene pubblico”. Il governo greco, naturalmente di unità nazionale come tutti quelli delle catastrofi, è andato già a un taglio del 10 per cento dei salari e delle pensioni, e la collera e le manifestazini della gente vengono dalla disperazione. E già per l’euro è un sisma.

Forse non è inutile ricordare che fra pochi giorni, il 2 agosto, gli Stati Uniti si troveranno, mutatis i molti mutandis, nella situazione greca di non poter pagare i salari né onorare le proprie fatture, perché il debito pubblico ha superato il tetto imposto dalla legge. Senonché a innalzare quel tetto basta un accordo fra i democratici e i repubblicani, che finora lo hanno negato. Nessuno stato europeo può invece spostare da solo il patto di stabilità. Più che consolarsi sulle vaghe analogie sarà meglio chiedersi se questi indebitamenti dell’ex ricco occidente non abbiano qualche radice comune.

Mi rivolgo a chi ne sa più di me, cioè agli amici economisti e ai padri e ai padrini (di battesimo, in senso cattolico) della Ue, nella speranza che rispondano ad alcune altre domande che a una cittadina di media cultura si presentano ormai impietosamente. Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?

La prima domanda è come mai i padri dell’euro si erano convinti che un’unificazione della moneta sarebbe stata di per sé unificatrice di un’area vasta di paesi dalla struttura economica così diversa per qualità e robustezza. Tanto convinti da non avere previsto misure di recupero per chi non riuscisse a stare nel patto di stabilità. Non è forse che consideravano impensabile che la mano invisibile del mercato non riuscisse ad allineare a medio termine le economie di questi paesi? Per cui bastava affidarsi a una politica monetaria e attentamente deflazionista - linea che la Bce ha fedelmente seguito - per garantirne il successo? L’euro e la Ue sono nati in quella fede nel liberismo, che von Hajek aveva ripreso, proprio prima della guerra, contro la politica rooseveltiana seguita al 1929 e le proposte di Beveridge e di Keynes di trarre da quella crisi la consapevolezza del pericolo che rappresenta una frattura economica e sociale profonda, trovarsi di fronte una destra populista come quella che negli anni ’30 si sviluppò, oltre il fascismo, nel Terzo Reich di Hitler, nella Grecia di Metaxas e nella Spagna di Franco? Non era necessario evitarla andando a un vero compromesso fra le parti sociali, costringendo i governi a (mi sia premesso il gioco di parole) costringere il capitale a cedere una parte meno iniqua del profitto alla monodopera, in modo da: a) garantirsi una certa pace sociale (c’era ancora di fronte l’Urss che aveva fatto arretrare i tedeschi a Stalingrado); b) garantire un potere d’acquisto di massa per una produzione di massa (fordista)? Le costituzioni e le politche dei governi europei del secondo dopoguerra andarono, più o meno, tutte in questa direzione.

Dalla quale la Ue svoltava decisamente.Tre anni prima era caduto il Muro di Berlino, e i partiti di sinistra e i sindacati avrebbero seguito, più o meno convinti, la strada. I conti della scelta liberista ci sono oggi davanti agli occhi.

Al di là degli effettivi successi in campo giuridico in tema di diritti umani, non è forse vero che, malgrado le enfatiche dichiarazioni, i vari trattati, quello di Nizza incluso, registrano un arretramento dei diritti sociali rispetto ai Trenta Gloriosi? Probabilmente si riteneva che costassero troppo: nessuno è stato eloquente su questo punto come il New Labour di Tony Blair. Sta di fatto che, dichiarando nobilmente la piena libertà di circolazione delle persone, delle imprese e dei capitali, messi sullo stesso piano, la Ue dava libero corso alla finanza, alle delocalizzazioni e assestava ai lavoratori una botta epocale.

Cittadini, imprese e capitali non sono infatti soggetti della stessa natura, e non hanno la tessa libertà di movimento. Altra cosa è spostarsi in Lituania per il salariato di una impresa lombarda ed altra per la sua impresa andarvi in cerca di dipendenti da pagare di meno. E ancora altra lo spostarsi virtuale di un quotato in borsa da Milano a Tokio. Ma non stiamo a fare filosofia. Con la Ue cessava infatti ogni controllo sul movimento dei capitali in entrata e in uscita, non solo da parte di ogni singolo stato ma del continente; e siccome in Europa i lavoratori avevano raggiunto collettivamente un salario più alto e una normativa migliore che nel resto del mondo, i capitali scoprivano presto che potevano ottenere dalle operazioni finanziarie un profitto assai più ingente di quello che si poteva ottenere dagli investimenti nella produzione, materiale o immateriale che fosse. La finanza ha preso un ritmo di crescita senza precedenti, le sue figure si sono moltiplicate inanellandosi su se stesse fino a perdere ogni base effettiva, abbiamo scoperto parole suggestive, come i fondi sovrani, i trader, gli asset, i futures, e capito meglio a che e a chi servisse un paradiso fiscale, la Ue liberista apriva insomma il varco a manipolazioni non illegali ma mai conosciute prima, le stesse che gonfiandosi hanno formato la grandiosa bolla finanziaria scoppiata nel 2008. Nella quale gli stati sono dovuti intervenire con i soldi pubblici per evitare il crollo delle banche (una, la Lehman Brothers, è colata a picco) e dei relativi e ignari depositari. Coloro che erano stati consigliati di comperare una casa dall’allegria finanziaria delle banche stesse si sono trovati per strada. Un trader più esperto dei suoi superiori ha fatto perdere cinquecento milioni di euro alla antica Sociéte Générale, per amore della mirabolante professione, senza mettersi in tasca un quattrino. Alcuni imbroglioni hanno fatto miliardi, uno di loro, Madoff, s’è fatto pescare. Il G20 e il G21, riuniti in fretta, hanno innalzato lamenti, denunciato la finanza, inneggiato all’intervento dello Stato, denigrato fino un mese prima, deprecato l’esistenza dei paradisi fiscali e si sono fin giurati di ridare “moralità” al capitale. Ma tutto è tornato come prima, neppure l’obbiettivo più semplice, chiudere con i paradisi fiscali, è stato realizzato. L’investimento nella finanza resta golosissimo.

Sulla stessa linea, i capitali che restavano nella produzione scoprivano che avrebbero realizzato ben altri profitti se avessero spostato le loro imprese fuori dall’Europa occidentale, dove imperversano ancora, sebbene assai allentati, i “lacci e lacciuoli” e la “rigidità” del lavoro. Così succede, per offrire qualche esempio, che un gruppetto bresciano si sia acquistato in Francia una vecchia e gloriosa marca di piccoli elettrodomestici per portarla in Tunisia (prima della rivolta). Che un miliardario indiano si sia acquistato le residue acciaierie d’Europa per chiuderle, restando solo sul mercato con l’azienda paterna. I governi non si pemettono più di intervenire sulle parti sociali, correndo dietro ai capitali e mettendogli il sale sulla coda con agevolazioni e detassazioni. Chi non sa che una impresa paga meno tasse di quanto debba pagare un salariaro? Se poi è una multinazionale del petrolio, come la Total, che è insediata in diversi paesi, può succedere che in Fracia non paghi nulla.

Infine, il capitale ha avuto più intelligenza delle sinistre nel puntare sul trasferimento del lavoro in tecnologia. Poteva essere un enorme risparmio di fatica e un enorme aumento della produttività della manodopera, ma è solo servito a ridurla. Può sorprendere che in tutta Europa i disoccupati superino oggi i cento milioni? Che il 21 per cento dei giovani non trovi lavoro? I governi pensano poi a demolire, per facilitare le imprese, le difese restanti del salario e della normativa nel lavoro dipendente. L’invenzione del precariato è stata geniale. Certo resta ancora da fare per raggiungere l’inesistenza di diritti e contratti collettivi dell’Egitto e della Cina, ma si direbbe che l’obiettivo sia quello.
Come si faccia a tener alte le entrate e modificare la crescita e in direzione compatibile con un impoverimento diretto e indiretto, attraverso i tagli nel welfare della grande maggioranza delle nostre societa è per me un mistero. Come si possa stupirsi che gli operai, occupati o disoccupati, scombussolati dalle scelte dei partiti di sinistra e dei sindacati, non amino questa Europa? E crescano dovunque in voti le destre?

Vorrei essere smentita. E che mi si dimostrasse che l’Europa non c’entra, che non può, e non solo non ha voluto, far altro.

Orgogliosi della Val Susa!




Il popolo della Valle

di Marco Revelli, dal Manifesto




La gente della Val di Susa, domenica, ha fatto davvero un miracolo, nel senso etimologico del termine (dal latino mirari, come si dice di «cosa grande che meraviglia», o anche di «cosa grande e insperata»).
Deludendo l'intero universo politico-mediatico che aveva spasmodicamente atteso l'incidente (e in buona misura l'aveva anche preparato) per mettere, una volta per tutte, una pietra sopra la Valle e la sua resistenza. Hanno costruito un capolavoro: un corteo di migliaia e migliaia di persone di ogni età e condizione, che si snoda per sentieri di montagna (credo che sia l'unica esperienza al mondo), tra castagneti e blocchi di polizia, aggirando barriere e tagliando reticolati in un ordine assoluto, senza un gesto o una parola fuori posto, senza l'aggressività e la volgarità che invadono il mondo politico, senza neanche un petardo acceso o una pietra lanciata. Un'azione di disobbedienza civile in perfetto stile gandhiano, realizzata esattamente come le assemblee partecipatissime di valle avevano deciso nei giorni precedenti, mentre intorno strepitavano i profeti di sventura.
La ragione di questa forza è, tutto sommato, facile da spiegare, per chi abbia anche solo messo il naso in valle: perché quello della Val di Susa non è un semplice movimento, nel senso genericamente politico in cui si è soliti usare questo termine. E' un popolo, una comunità con legami fortissimi con la propria terra e la propria storia, impegnata da almeno un paio di decenni a prendersi cura dei propri beni comuni, del proprio habitat, del proprio sistema di relazioni. Sono persone, individui, ma anche famiglie, catene generazionali, reti sociali di vicinato, culturalmente aperte, disponibili all'accoglienza, alla condivisione e alla contaminazione con gli altri, ma consapevoli della propria identità.
E' tutto questo che non hanno capito i politici di professione e i giornalisti di passo, destinati a rompersi le corna contro questo materiale resistente, duro, coriaceo, su cui chiacchiere e manipolazioni scorrono via come acqua sulle pietre.
Con realtà come questa - irriducibile ai flussi e alle retoriche proclamate dall'alto, la politica dovrà imparare a fare i conti sempre più spesso. E' bene che si abitui all'idea.
Meno facile da spiegare è la ragione dell'accanimento con cui si cerca, con ogni mezzo, di piegare quella resistenza. Perché tanto unanimismo tra i mezzi d'informazione mainstream, disposti anche all'abuso di potere, alla violazione di ogni etica professionale, pronti a truccare le carte (e le interviste), a mentire più o meno apertamente, a occultare, a ridicolizzare, a enfatizzare episodi minimi e a tacere fatti clamorosi, perfettamente simmetrico con l'unanimismo bipartisan della politica, in lite anche furibonda su tutto, tranne che sul TAV? Il fatto è che nella questione del TAV in val di Susa, si manifesta, in un microcosmo locale delimitato, un paradigma globale esemplare. Un meccanismo che guida i processi politici ed economici a livello generale, nell'Unione Europea, di certo, e per molti aspetti nell'intero Occidente. Gli ingredienti ci sono tutti.
In primo luogo l'affermazione, tutta ideologica, di credenze dogmatiche, semplici, banali, ma indiscutibili, tali da resistere a qualsiasi confutazione razionale, a qualsiasi dato empirico, o alla semplice osservazione dei fatti. E' il meccanismo che fa dire, ossessivamente, che il TAV va fatto (anche se ci costerà qualcosa come 20 miliardi di Euro) perché «l'Europa ce lo chiede», o «perché è un'infrastruttura» (sic!), o perché «non possiamo restare isolati dal resto del continente». Anche se basta guardare una carta per capire che una ferrovia c'è già, che da anni è ampiamente sotto-utilizzata, mentre basterebbe una elementare conoscenza dei fatti economici per capire che tra due economie mature come quelle francese e italiana i flussi di merci - tanto più se pesanti - sono destinati a stabilizzarsi o a decrescere, non certo a impennarsi. E' lo stesso meccanismo che ha condotto le istituzioni economiche europee ad ammazzare (fisicamente) la Grecia con ricette mortali. E che, indifferenti a ogni evidenza, le estendono ad altri (in primo luogo a noi), all'insegna del dogma neo-liberista che impone di tagliare reddito, posti di lavoro e diritti, quando è evidente anche a un bambino che la crisi in corso nasce proprio dall'umiliazione del mondo del lavoro, dal crollo del suo reddito e del suo potere d'acquisto sconsideratamente compensato dalla dilatazione della finanza e del denaro virtuale.
In secondo luogo l'esistenza di una cupola degli affari e del potere - di una concentrazione di interessi - assurta a principale se non unica istanza destinata a determinare monopolisticamente le scelte strategiche, a scapito di tutto il resto, orientando le tecnocrazie e gli stessi organi rappresentativi, governando i flussi di risorse finanziarie e di determinazioni politiche, con decisioni irrevocabili, sottratte al controllo dei destinatari di quelle decisioni: di coloro che ne pagheranno il prezzo e ne sosterranno i sacrifici.
Infine la formazione di un fronte politico bipartisan, assolutisticamente bipartisan, tanto bipartisan da sopravvivere agli stessi conflitti interpartitici perché cementato da una commistione e condivisione di interessi materiali, da una rete di affari trasversale e indifferente alle linee di demarcazione politica (nel caso del TAV è significativo che gli appalti abbiano interessato tanto le cooperative emiliane quanto le società di ex ministri berlusconiani). Una rete affaristica che prevale sullo stesso rapporto di rappresentanza, travolgendolo. Rivelando la lacerazione dei rapporti tra rappresentanze istituzionali e territori, la forbice tra sordità dei governanti e solitudine dei governati.
20.000 manifestanti - ma mettiamo che fossero anche meno, 15.000... -, in una valle che conta all'incirca 40.000 abitanti (tanti sono i residenti nella media e bassa Val di Susa coinvolti nella protesta) significano metà della popolazione, almeno uno per famiglia, e anche di più. Sono un "pieno" che fa da contrappunto - e da antidoto - al vuoto delle tante bolle - mediatiche, finanziarie, politiche - che ci minacciano e ci affliggono. Nessuno può pensare di poterci passare sopra con gli scarponi chiodati. E nemmeno con i Lince dei poveri alpini reduci dall'Afghanistan. Il solo pensiero di poter militarizzare il problema della Val di Susa, concepito in modo bipartisan da alcuni parlamentari piemontesi, è sintomo di irresponsabilità. Di un inquietante deficit di razionalità, terribilmente simile a quello che ha portato i razionalissimi mercati nel caos. E che sta conducendo il mondo sull'orlo dell'abisso.

UNA RISATA LO HA SEPPELLITO






...ma non una delle sue, quella di Sarkozy e Merkel...


Lo sberleffo della verità

di BARBARA SPINELLI, da Repubblica

Chi frequenta i summit delle istituzioni europee, e ne conosce le deferenze opportuniste, le verità lente a dirsi, le cerimoniose capricciosità, non dimenticherà facilmente quel che è successo domenica, nella conferenza stampa di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel a Bruxelles. Un giornalista li interroga sulla credibilità di Berlusconi, ed ecco che d'improvviso scoppia un'ennesima bolla, fatta sin qui di illusioni e non-detti: una delle tante, nei quattro anni di crisi che abbiamo alle spalle. La bolla di uno Stato-subprime: debitore di seconda categoria, poco affidabile. Alcuni giudicano disdicevole la sbirciata complice che si sono lanciati l'un l'altro Sarkozy e la Merkel, e umiliante quell'attimo muto, terribile, che ha preceduto l'erompere inaudito della risata, subito echeggiata dai giornalisti presenti. È vero, è stata umiliazione e anche qualcosa di più: un atto di sfiducia che non avanza più mascherata, che si esibisce senza pudori sapendo il consenso mondiale di cui gode. Un assassinio politico in diretta.

È difficile ricordare episodi simili, nella storia dell'Unione, e non stupisce che gli autori stessi dell'incredibile gag siano quasi spaventati da quel che hanno fatto. Fonti governative tedesche si sono preoccupate ieri d'attenuare il colpo: "Le allusioni italiane sul sorriso scambiato ieri in conferenza stampa tra Merkel e Sarkozy sono basate su un equivoco". Ma colpo resta, quel che abbiamo visto domenica: e poco importa se sarà stato un attimo, se lo strappo sarà ricucito e - parola di Montale - "come s'uno schermo s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto". Per un attimo, è come se i dirigenti dei due motori d'Europa - Francia e Germania - avessero smesso di credere nelle virtù della diplomazia, della pazienza, e solennemente avessero bocciato un primo ministro nel più crudele dei modi, perché altra via non c'è. Sembra uno sfogo incontrollato ma c'è del metodo, nello sfogo: non è nelle istituzioni italiane che si cessa di credere, ma in chi governa. Dopo lo scoppio ilare Sarkozy s'è fatto serio, ha evocato il colloquio tra lui, la Merkel e Berlusconi, ed è stato chiarissimo: "La nostra fiducia, la riponiamo nel senso di responsabilità dell'insieme delle autorità italiane: politiche, finanziarie e economiche". Angela Merkel ha aggiunto: "La fiducia non nasce solo dalla costruzione d'un ombrello salva-Stati. È di prospettive chiare che c'è bisogno". Sono giorni che il Cancelliere non interpella Palazzo Grazioli per ottenere assicurazioni (che legittimità può avere, una sede governativa privata?) ma il Quirinale.

Il messaggio non potrebbe essere più netto, e ultimativo ("vi diamo tre giorni"). E c'è in esso del metodo perché ogni parola è pesata: è sulle istituzioni italiane che gli europei fanno affidamento, non sulla persona Berlusconi. Spetta all'insieme delle autorità italiane, politiche, finanziarie ed economiche mostrare il senso di responsabilità che il premier evidentemente non possiede. Può sembrare un insulto - un capo di Stato o di governo non dovrebbe ridacchiare in pubblico di un collega - ma la crisi che traversiamo è talmente vasta, e funesta per tutti i cittadini d'Europa, che il galateo diplomatico per forza si sfalda. Non sono due leader arroganti a sbeffeggiare l'alleato; è il disastro europeo che può nascere dal vuoto politico italiano che secerne l'inaudito incidente. Un disastro che Berlusconi ancor oggi elude, quando dopo il vertice proclama: "Non c'è stato e non c'è rischio Italia". L'occultamento dura dal 2007-2008 ("Non c'è crisi. Siamo i primi in Europa") con effetti catastrofici su quel popolo che il premier s'ostina a chiamare sovrano.

La cosa triste nell'Unione europea è la sua impotenza, quando un paese membro azzoppa la propria democrazia e con false informazioni frena l'insorgere - nei singoli cittadini - della responsabilità. Bisogna essere democratici, per poter entrare nell'Unione. Non bisogna necessariamente esserlo, per restarvi. C'è un articolo del trattato di Lisbona (il numero 7) che prevede sanzioni quando uno Stato si discosta dalla democrazia: ma nessuno, neanche l'opposizione in Italia, ha mai osato fare appello a esso. L'unico espediente dell'Unione, quando vuol render manifesta un'incompatibilità non solo economica e finanziaria con Stati devianti, è di conseguenza la peer pressure, la pressione dei pari grado. E la pressione non sembra in grado di secernere altro che il sogghigno. Solo quando è in gioco l'economia, pare efficace.

Ma è un sogghigno che va analizzato, perché spesso ridendo diciamo cose molto vere. Dichiarandosi fiduciosi nell'insieme delle autorità italiane, i colleghi dell'Unione scommettono proprio su quella pluralità di poteri che Berlusconi continua a contestare, e a questi poteri si rivolgono: spetta a voi risolvere il rebus Berlusconi, e mostrare un senso di responsabilità che metta fine allo sberleffo mondiale scatenato da Palazzo Grazioli. È un appello, non recondito, alle forze responsabili della maggioranza: che sfiducino loro il premier, prima delle elezioni perché non c'è più tempo. Che mandino ai prossimi vertici europei un capo di governo di cui nessuno ridacchi più.

Si ricorda spesso il Gran Consiglio fascista, che il 25 luglio '43 mise in minoranza Mussolini grazie alla mozione di Dino Grandi. Ma non c'è bisogno di risalire tanto indietro. Anche l'Unione delle democrazie postbelliche conobbe casi simili. Il 20 novembre 1990, Margaret Thatcher cadde in seguito a un voto interno del suo partito, prima delle elezioni, e anche lei fu messa da parte per incompatibilità con l'Europa comunitaria. Due giorni dopo il Gran Consiglio conservatore, il premier si dimise e lasciò in lacrime Downing Street. Che l'Europa e i mercati avessero decretato la sua fuoriuscita era stato confermato, il primo novembre, dalle dimissioni di Geoffrey Howe, il vice primo ministro più aperto all'Unione e all'euro. Michael Heseltine, conservatore, fu il Dino Grandi della situazione.

Berlusconi non può più andare a Bruxelles, dopo un episodio del genere. Perché trascina verso il basso non solo l'Italia, ma l'intera zona euro. Un primo monito è venuto da Mario Monti, non un semplice pretendente al trono ma un conoscitore-frequentatore delle istituzioni europee: "Sarebbe opportuno che quanti hanno dato il loro sostegno al governo Berlusconi (...) prendessero maggiore consapevolezza della realtà internazionale che rischia di travolgerci, di trasformare l'Italia da Stato fondatore in Stato affondatore dell'Unione europea" (Corriere della Sera, 16 ottobre 2011).

Berlusconi non può presentarsi a Bruxelles, e l'Europa non può concedersi l'anomalia italiana: è la lezione dello sberleffo, che solo in apparenza è irridente ma la cui sostanza è spaventosamente seria. È come quando ride una persona che piange. Nessuna cosa detta da Berlusconi ha più peso né senso, tanto trasuda incultura delle cose europee. Anche la sua insistenza sulle dimissioni di Bini Smaghi, membro della Bce, ha qualcosa di intollerabilmente ottuso, agli occhi non solo del diretto interessato ma di tutta la Bce. Bini Smaghi deve andarsene, "essendo stato nominato dal governo senza passare attraverso alcun tipo d'elezione o concorso". Sono frasi come queste, di una rozzezza e insipienza senza limiti, che rendono velenosa la vicenda. Bini Smaghi non è, a Francoforte, un rappresentante dell'Italia ma di Eurolandia. La sua nomina, come quella di Draghi, prevede ben 3 votazioni (Eurogruppo, Parlamento europeo, Consiglio europeo) e il Trattato contiene regole precise per la rimozione dei membri del Comitato esecutivo Bce, che può avvenire solo per motivi gravi. Comunque non può esser decretata né da Berlusconi né da Sarkozy, in nome dei rispettivi Stati nazione.
La crisi strappa tanti veli, compreso questo. È il suo lato positivo: le regole diventano più importanti, non meno, man mano che lo sconquasso s'estende. Berlusconi le ignora del tutto, ed è un autentico miracolo che abbia alla fine nominato una personalità profondamente indipendente come Ignazio Visco alla testa di Banca d'Italia. Quanto a lui, non farà alcun passo indietro: chiederglielo è nenia un po' beota. Ma la pressione dei pari esercitata a Bruxelles può avvenire anche in Italia. Sempre che esistano uomini della destra davvero responsabili, che non usino questo nobile aggettivo per brigare, alla Scilipoti, prebende e notorietà.

domenica 23 ottobre 2011

Un grande Erri De Luca



Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Erri De Luca: “La violenza di sabato a Roma è l’epilogo di quella subita tutti i giorni”

Per lo scrittore napoletano ieri sera al Bartleby di Bologna: "Le devastazioni nel centro della capitale sono danni collaterali. C'è una ragione molto più forte di quei danni. Una ragione che può oscurare i poteri costituiti”.
Tra una firma e un’altra di un autografo sul suo nuovo libro si ferma un po’ a pensare alla domanda postagli, dispensa un sorriso affettuoso a un suo giovane lettore, poi sentenzia: “La lotta armata. Quella legge ha incrementato la lotta armata. Il rischio è sempre quello di costringere a reagire”. Erri De Luca, lo scrittore napoletano in visita al centro sociale studentesco Bartleby di Bologna, non ha dubbi su quello che potrebbe significare la reintroduzione in Italia della legge Reale, proposta dal ministro Maroni e da Antonio Di Pietro dopo i fatti di Roma del 15 ottobre. Per lui, che da membro di spicco di Lotta continua non volle seguire le sirene del terrorismo quando il gruppo dell’extra-sinistra si sciolse, quella legge porterebbe solo a radicalizzare lo scontro, mettendo a tacere le piazze e rischiando di portare lo scontro su un altro piano.

Per De Luca l’obiettivo di chi fa proposte del genere dopo ciò che è avvenuto sabato non può che essere quello di oscurare ciò che sta avvenendo. Così, quando gli chiediamo delle devastazioni nel centro della capitale, lui le definisce così: “Si tratta di danni collaterali, c’è una ragione molto più forte di quei danni. Una ragione che può oscurare i poteri costituiti”.

Del resto lui a Roma sabato scorso c’era in mezzo a quel gigantesco corteo degli indignati e per capire ciò che è successo bisogna, secondo De Luca, partire dalla violenza che tutti i giorni ci viene “spalmata sotto il naso” e che a un certo punto ci nausea e trabocca: “Ci invitano a credere che le nostre missioni all’estero siano interventi di pacificazione. Di questi interventi siamo talmente fieri che non ne sappiamo niente”. Nella sua elencazione delle violenze il dramma delle migrazioni ha un posto fondamentale: “Ricordo che noi italiani abbiamo affondato una nave albanese piena di migranti albanesi: 100 morti nel 1997. Nessuno ha pagato per quella impresa (qualche condanna, seppur irrisoria ci fu, ndr). Che cosa dire delle espulsioni in mare, dei traffici con Gheddafi, nessuno ha pagato, neppure in danno di immagine, per i traffici con lui. E poi i Cie, i centri di identificazione ed espulsione, dove si viene reclusi con la sola accusa di viaggio, di essere viaggiatori”.

De Luca non giustifica, cerca di dare una sua lettura di ciò che ha visto. “Spuntano forze non censite, non rappresentate che sfuggono all’obbedienza. Quello che è successo sabato scorso a Roma, è la nascita di un movimento di irresponsabili, di persone che non vogliono portare la responsabilità delle schifezze morali e politiche di questo Paese”.

Questa forma di violenza, a furia di essere ammessa e accumulata, a un certo punto crea dei corto circuiti. “Indignati è una parola che presume una tensione nervosa. La tensione ha dei picchi, non presenta un elettroencefalogramma piatto, ha dei picchi e quello che successo a Roma sabato scorso è che quella manifestazione enorme era formata da una tale carica nervosa che per attrito inevitabile è andata a sbattere contro il suolo di quella città”.

Nella sede bolognese di Bartleby, almeno 200 persone seguono in un silenzio surreale le parole di questo scrittore sessantenne, che nella sua vita è stato migrante, operaio, operatore di pace (nella guerra jugoslava dei primi anni Novanta guidava i camion con il cibo per i civili) e infine scrittore, poeta e traduttore. A sentirlo, nella calca della sala, tanti suoi coetanei, che guardano ammirati il rispettoso silenzio dei giovani accorsi in massa in questo centro sociale (che ha peraltro appena ricevuto avviso di fratto dal rettore e ora cerca casa).

Poi ci sono loro, gli studenti. Molti sabato erano a Roma e vogliono capire come la pensa De Luca. “La crisi di governo dell’economia del mondo ha trovato la sua risposta da una generazione-mondo. Una generazione mondiale si muove, questo fiume si muove insieme a migliaia altri fiumi del mondo e non è controllabile dalle dighe del potere costituito locale. Le ragioni di questa nuova generazione sono al di là dei poteri di controllo dei singoli Stati. Anche se questi si mettono a fare i loro scongiuri, anche se dipingono questo movimento sotto le luci delle fiamme della piazza, dei danni collaterali… perché sì, questi di Roma sono dei danni collaterali. Ed è osceno che invece gli Stati chiamino danni collaterali la perdita di vite umane nei bombardamenti”.

Poi De Luca racconta di una recentissima intervista sui fatti di Roma, rilasciata in questi giorni, in veste di responsabile del servizio d’ordine di Lotta continua ai tempi della sua militanza: “Ho spiegato al giornalista che il nostro servizio d’ordine serviva contro le aggressioni della polizia e dei fascisti non per arrestare le persone dentro al corteo” e giù gli applausi. E a proposito di polizia De Luca considera positivo il comportamento della polizia sabato: “È stata attenta a non aggredire il corteo”. Dopo i fatti e le condanne di Genova del resto sarebbe stato stupido ripetere quella repressione.

Intanto gli studenti di Bartleby non abbassano la guardia e già domani organizzano un incontro sui fatti di Roma. “Abbiamo deciso di parlarne con la città”. A Roma qualcosa è cambiato. Oltre agli scontri c’erano anche migliaia di persone scese a manifestare e non si può far finta di niente.

lunedì 17 ottobre 2011

Voglia di spaccare tutto

Il black bloc svela i piani di guerra

"Ci siamo addestrati in Grecia"

Parla un "nero": le armi erano nascoste in piazza, è da un anno che ci prepariamo. E ancora: per noi questa è una guerra, ed è appena l'inizio

di CARLO BONINI e GIULIANO FOSCHINI DA REPUBBLICA

ROMA - E' un "nero". F. è pugliese, ha 30 anni all'anagrafe, una laurea, un lavoro precario e tutta la rabbia del mondo in corpo. Sabato le sue mani hanno devastato Roma.


E lui, ora, ne sorride compiaciuto. "Poteva esserci il morto in piazza? Perché, quanti morti fa ogni giorno questo Sistema? Chi sono gli assassini delle operaie di Barletta?".

Non i poliziotti o i carabinieri a 1.300 euro al mese su cui vi siete avventati, magari. Non quelli che pagano a rate le macchine che avete bruciato. Non il Movimento in cui vi siete nascosti.

"Noi non ci siamo nascosti. Il Movimento finge di non conoscerci. Ma sa benissimo chi siamo. E sapeva quello che intendevamo fare. Come lo sapevano gli sbirri. Lo abbiamo annunciato pubblicamente cosa sarebbe stato il nostro 15 ottobre. Ora i "capetti" del Movimento fanno le anime belle. Ma è una favola. Mettiamola così: forse ora saranno costretti finalmente a dire da che parte stanno. Ripeto: tutti sapevano cosa volevamo fare. E sapevano che lo sappiamo fare. Perché ci prepariamo da un anno".

Vi preparate?

F. sorride di nuovo. "Abbiamo fatto il "master" in Grecia".

Quale "master"?

"Per un anno, una volta al mese, siamo partiti in traghetto da Brindisi con biglietti di posto ponte, perché non si sa mai che a qualcuno viene voglia di controllare. E i compagni ateniesi ci hanno fatto capire che la guerriglia urbana è un'arte in cui vince l'organizzazione. Un anno fa, avevamo solo una gran voglia di sfasciare tutto. Ora sappiamo come sfasciare. A Roma, abbiamo vinto perché avevamo un piano, un'organizzazione".

Quale organizzazione avevate?

"Eravamo divisi in due "falangi". I primi 500 si sono armati a inizio manifestazione e avevano il compito di devastare via Cavour. Altri 300 li proteggevano alle spalle, per evitare che il corteo potesse isolarli. L'ordine che avevano i 300 era di non tirare fuori né caschi, né maschere antigas, né biglie, né molotov, né mazzette fino a quando il corteo non avesse girato largo Corrado Ricci. Non volevamo scoprire con gli sbirri i nostri veri numeri. E volevamo convincerli che ci saremmo accontentati di sfasciare via Cavour. Ci sono cascati. Hanno fatto quello che prevedevamo. Ci hanno lasciato sfilare in via Labicana e quando ci hanno attaccato lì, anche la seconda falange dei 300 ha cominciato a combattere. E così hanno scoperto quanti eravamo davvero. A quel punto, avevamo vinto la battaglia. Anche se loro, gli sbirri, per capirlo hanno dovuto aspettare di arrivare in piazza San Giovanni, dove abbiamo giocato l'ultima sorpresa".

Quale?

"La sera di venerdì avevamo lasciato un Ducato bianco all'altezza degli archi che portano in via Sannio. Dentro quel Ducato avevamo armi per vincere non una battaglia, ma la guerra. Il resto delle mazze e dei sassi lo abbiamo recuperato nel cantiere della metropolitana in via Emanuele Filiberto".

Sarebbe andata diversamente se avessero caricato subito il corteo in largo Corrado Ricci e vi avessero isolati.

"Non lo hanno fatto perché, come ci hanno insegnato a fare i compagni greci, sono stati confusi dal modo in cui funzionano le nostre "falangi"".

Come funzionano?

"Siamo divisi in batterie da 12, 15. E ogni batteria è divisa in tre gruppi di specialisti. C'è chi arma, recuperando in strada sassi, bastoni, spranghe, fioriere. C'è chi lancia o usa le armi che quel gruppo ha recuperato. E infine ci sono gli specialisti delle bombe carta. Organizzati in questo modo, siamo in grado di assicurare un volume di fuoco continuo. E soprattutto siamo molto snelli. Ci muoviamo con grande rapidità e sembriamo meno di quanti in realtà siamo".

È la stessa organizzazione con cui funzionano i reparti celere.

"Esatto. Peccato che se lo siano dimenticato. Dal G8 di Genova in poi si muovono sempre più lentamente. Quei loro blindati sono bersagli straordinari. Soprattutto quando devono arretrare dopo una carica di alleggerimento. Prenderli ai fianchi è uno scherzo. Squarci due ruote, infili un fumogeno o una bomba carta vicino al serbatoio ed è fatta".

Parli come un militare.

"Parlo come uno che è in guerra".

Ma di quale guerra parli?

"Non l'ho dichiarata io. L'hanno dichiarata loro".

Loro chi?

"Non discuto di politica con due giornalisti".


E con chi ne discuti, ammesso che tu faccia politica?


"Ne discuto volentieri con i compagni della Val di Susa".


Sei stato in val di Susa?


"Ero lì a luglio".

A fare la guerra.

"Si. E vi do una notizia. Non è finita".

domenica 16 ottobre 2011

Roma, 15 ottobre ed il commento di Parlato




QUI SOTTO FINALMENTE UN COMMENTO FUORI DAL CORO GENERICO DELLA CONDANNA ALLA VIOLENZA: GRAZIE DI ESISTERE, VALENTINO PARLATO.

Un milione di euro di danni, dodici arrestati e una settantina di feriti. Il più grave ha perso due dita, spappolate da un petardo. Un ragazzo ferito alla testa dallo specchio retrovisore di un blindato in retromarcia. Una ragazza inerme manganellata in pieno volto . E poi banche danneggiate, un blindato e alcune auto in fiamme. Questo il bilancio all'indomani della giornata di guerriglia vissuta dalla capitale. E dopo la rabbia dei manifestanti pacifici, contro chi di fatto ha oscurato una piazza stracolma, oggi è la politica a fare i conti con i black bloc. Alemanno chiede maggiore durezza contro "gli animali" e se la prende con l'atteggiamento "buonista" delle forze dell'ordine. Maroni invece difende la polizia: "Sono soddisfatto, abbiamo evitato il morto" di Baraggino, Dimalio, Galeazzi, Perluigi, Rosselli da Repubblica


COMMENTO16/10/2011 | Valentino Parlato


Una nuova epoca

Valentino Parlato dal Manifesto



Quella di ieri a Roma è stata una manifestazione storica, il segno di un possibile cambiamento d'epoca. Una manifestazione enorme, rappresentativa di tutto il paese (camminando nel corteo e in piazza si sentivano gli accenti di tutte le regioni italiane). E ancora, una manifestazione che si realizzava in contemporanea con tante altre nel mondo, in Europa e anche negli Usa, tutte concentrate sul cambiamento del modello di sviluppo, a sancire la crisi del liberalcapitalismo. Per dire che così non si può andare avanti, che la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un'inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.
A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell'attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell'urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.
La manifestazione e le pressioni che essa esprime chiedono un rinnovamento della politica. È una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato. La crisi attuale - più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 - non può essere superata con i soliti strumenti. Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell'Iri, fondamentale nell'economia anche dopo la caduta del fascismo?
Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente. Non si può continuare a fare politica con le vecchie ricette. Ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica. Per concludere, vorrei ricordare che dopo il discorso di Sarteano anche un banchiere come Mario Draghi ha detto di capire le ragioni degli indignati. Forse siamo all'inizio di una nuova epoca.

Soros dà la sua ricetta all'Europa





A routemap through the eurozone minefield

di George Soros, dal Financial Times

A group of almost 100 prominent Europeans delivered an open letter to the leaders of all 17 eurozone countries on Wednesday. The letter said, in so many words, what the leaders of Europe now appear to have understood: they cannot go on “kicking the can down the road”. The road has been blocked by the German constitutional court which has found the law establishing the European financial stability fund constitutional, but declared that no further transfers are allowed without Bundestag authorisation. The leaders have also understood that it is not enough to ensure that governments can finance their debt at reasonable interest rates, they must also do something about the banking system.

Faced with the prospect of having to raise additional capital at a time when their shares are selling at a fraction of their book value, the eurozone’s banks have a powerful incentive to reduce their balance sheets by withdrawing credit lines and shrinking their loan portfolios. The banking and sovereign debt problems are mutually self reinforcing. The decline in government bond prices has exposed the banks’ undercapitalisation and the prospect that governments will have to finance recapitalisation has driven up risk premiums on government bonds.

The financial markets are now anxiously waiting for the leaders’ next move. Greece clearly needs an orderly restructuring because a disorderly default could cause a meltdown. The next move will have fateful consequences. It will either calm the markets or drive them to new extremes.

I am afraid that the leaders are contemplating some inappropriate steps. They are talking about recapitalising the banking system, rather than guaranteeing it. They want to do it country-by-country, rather than for the eurozone as a whole. There is a good reason for this. Germany does not want to pay for recapitalising the French banks. While Angela Merkel is justified in her insistence, it is driving her in the wrong direction.

Let me stake out more precisely the narrow path that would allow Europe to pass through this minefield. The banking system needs to be guaranteed first and recapitalised later. National governments cannot afford to recapitalise the banks now. It would leave them with insufficient funds to deal with the sovereign debt problem. It will cost the governments much less to recapitalise the banks after the crisis has abated, and both government bonds and bank shares have returned to more normal levels.

The governments can however, provide a guarantee that is credible because they have the power to tax. It will take a new legally-binding agreement for the eurozone to mobilise that power, and that will take time to negotiate and ratify. In the meantime, they can call upon the European Central Bank, which is already fully guaranteed by the member states on a pro-rata basis. To be clear, I am not talking about a change to the Lisbon Treaty but a new agreement. A treaty change would encounter too many hurdles.

In exchange for a guarantee, the major banks would have to agree to abide by the instructions of the ECB. This is a radical step but necessary under the circumstances. Acting at the behest of the member states, the central bank has sufficient powers of persuasion. It could close its discount window to, and the governments could seize, the banks that refuse to co-operate.

The ECB would then instruct the banks to maintain their credit lines and loan portfolios while strictly monitoring the risks they take for their own account. This would remove one of the main driving forces of the current market turmoil.

The other driving force – the lack of financing for sovereign debt – could be dealt with by the ECB lowering its discount rate and encouraging countries in difficulties to issue treasury bills and prompting the banks to subscribe. The bills could be sold to the central bank at any time, so that it would count as cash. As long as they yield more than deposits with the ECB, the banks would find it advantageous to hold them. In this way, governments could meet their financing needs within agreed limits at very low cost during this emergency period, yet article 123 of the Lisbon Treaty would not be violated. I owe this idea to Tomasso Padoa Scioppa.

These measures would be sufficient to calm markets and bring the acute phase of the crisis to an end. The recapitalisation of the banks should wait until then. Only the holes created by restructuring the Greek debt would have to be filled immediately. In conformity with the German demands, the additional capital would come first from the market and then from the individual governments. Only in case of need would the EFSF be involved. This would preserve the firepower of the fund.

A new agreement for the eurozone, negotiated in a calmer atmosphere, should not only codify the practices established during the emergency but also lay the groundwork for a growth strategy. During the emergency period fiscal retrenchment and austerity are unavoidable. But the debt burden will become unsustainable without growth in the long term – and so will the European Union itself. This opens up a whole new set of difficult but not insurmountable problems.

The writer is chairman of Soros Fund Management and founder of the Open Society Foundations

La parola al Dalai Lama

È stato chiesto al Dalai Lama: “Cosa l’ha sorpresa di più nell’umanità?”

E Lui ...ha risposto: “ Gli uomini….
perché perdono la salute per fare soldi
e poi perdono i soldi per recuperare la salute.
Perché pensano tanto ansiosamente al futuro
che dimenticano di vivere il presente in tale maniera
che non riescono a vivere né il presente né il futuro.
Perché vivono come se non dovessero morire mai
e perché muoiono come se non avessero mai vissuto.”

mercoledì 12 ottobre 2011

Cronache dal Titanic

L'ITALIA CHE AFFONDA NEL BLACK ROCK

di Andrea Cinquegrani [ 02/10/2011]da La Voce delle Voci.com



Le economie affondano sotto i colpi della speculazione, registe le tre ormai famigerate (con)sorelle del rating, piene fino al midollo di conflitti d'interesse e di capitali di opacissima provenienza. Ultimo caso - dopo i declassamenti Usa e Italia - alcune banche di casa nostra, tra cui Unicredit, dove Standard e Poor's ha una partecipazione attraverso il fondo a stelle e strisce Black Rock. Davvero un bel nome, nero come la peste e tutti i buchi neri delle nostre, ormai globalizzate, finanze. Bene, siamo sull'orlo del precipizio, vediamo tutti i giorni con i nostri occhi il crac fatto di soldi che non ci sono piu' per i cittadini - ma continuano a correre a fiumi per le Caste - aziende piccole e medie che chiudono ora dopo ora, pensionati alla fame, servizi sociali che non li trovi neanche con il lanternino, giovani senza speranza e senza lo straccio di un futuro. Insomma, con un ossigeno da malati iper terminali...
Eppure, cosa fa il Palazzo, l'Inciucio Massimo che dura da quasi vent'anni, dalla Seconda mitica repubblica che avrebbe dovuto salvarci dal marcio? Cosa fanno i nostri Prodi, i D'Alema, i Berlusconi? I soliti Casini: che a loro van bene - fin che dura la pacchia bypartizan - ma che uccidono quell'Italia onesta che va ancora al lavoro (ma fino a quando?) ogni mattina. L'emblema Massimo? Le paginate continue - tra 8 e 10 - che i media illuminati (si vede che l'Enel ha tagliato la corrente) dedicano alle zoccole di Palazzo. L'Italia affonda? E giu' a botte di D'Addario e troie al seguito. Piu' facile pubblicare colonne di telefonate a luci rosse che scovare i ladri di stato, le mafie, i poteri occulti che regolano l'economia. Ma Marcegaglia, una mattina si' e l'altra pure, si sveglia e detta l'agenda: il tempo e' scaduto, e' ora di cambiare pagina. Lei, fino a ieri, passeggiava tra i monasteri nepalesi. Dove forse ha ascoltato il verbo del semprepallido Montezemolo, da un pezzo pronto per il via...
Ma fateci il piacere, avrebbe detto e strariso Toto'. Governo (si fa per dire) e opposizione (si fa per dire), due facce - di bronzo - della stessa medaglia. Lo scrive da mesi e mesi sulla Voce Ferdinando Imposimato, che anche in questo numero rinacara la dose. Muri di gomma trasversali, Inciucio continuo al di la' delle finte battaglie (solo di carta), tutti d'accordo per mangiarsi l'Italia (quel poco che ne resta) a pezzi e bocconi. Abbiamo un esecutivo da colonia penale? Siamo alle prese ogni settimana con lo Scajola o il Romano di turno? E cosa fanno le truppe bersaniane, scendono in piazza? Macche'. Il sonno. Il segretario-tortellino Bersani, al Massimo, scende sul pianerottolo di casa per invocare la class action contro chi osa parlare del suo ex capo staff, Penati, alle prese con le super mazzette rose'. Il suo ex, e oggi sindaco di Torino, Piero Fassino, annuncia un'azione civile contro chi ha scritto della sua (del Pd) tentata scalata Antonveneta, via Unipol. Ciliegina sulla torta da Napoli, dove il Pd impelagato con le camorre per le primarie - udite udite - si dichiara “parte civile”: e poi (ci) fanno la festa a Telese a casa del sempreverde Clemente Mastella...
Intanto, il paese muore di giustizia che non c'e'. Mentre fa strage una “giustizia” che si chiama prescrizione. Una montagna senza confini, centinaia di migliaia di processi all'anno abortiti per favorire la Casta, i Potenti, mentre i senza diritti marciscono in galere iperaffoffate.
Ultimo, incredibile caso, il processo napoletano “Cassiopea”: chi ha ucciso per rifiuti tossici in vent'anni la fa franca. Non e' reato. Alla faccia di chi e' morto intossicato, di chi morira' nei prossimi anni. E di chi ha osato far nomi e cognomi degli assassini e dei loro mandanti.