mercoledì 28 marzo 2012

NostalgiANDO


Per Ando Gilardi, amico e maestro...,

di Pino Bertelli

«Bisogna avere molto caos dentro di sé per partorire una stella danzante...
Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente.
Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che il trattenimento non sia troppo impegnativo.
Non si diventa più né ricchi né poveri: ambedue le cose sono troppo fastidiose.
Chi vuole ancora governare? Chi obbedire? Ambedue le cose sono troppo fastidiose.
Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali:
chi sente diversamente va da sé al manicomio. “Una volta erano tutti” - dicono i più raffinati e strizzano l’occhio.
Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine.
Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per non guastarsi lo stomaco.
Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte salva restando la salute.
“Noi abbiamo inventato la felicità”- dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio».

Friedrich W. Nietzsche, il dinamitardo di tutte le morali.

Ando Gilardi

Arquata Scrivia 1921 — Ponzone 2012


Fotografo, storico, critico della fotografia sociale

Meglio ladro che fotografo...


L’ho conosciuto bene Ando Gilardi... mi è stato amico e maestro... ci siamo frequentati per quasi vent’anni... scambiati lettere, opinioni, invettive sull’uso politico o poetico della fotografia... lo andavo a trovare una o due volte l’anno... lassù nei boschi dove aveva fatto il partigiano, in quella casa in fondo al paese... colorata delle sue opere sparse dappertutto... si mangiava qualcosa con Luciana, sua moglie, e poi ci si rinchiudeva nella sua stanza/studio... fascinosa... piena di cose, libri, stampe digitali delle sue fotografie surreali... accendevo il registratore e fermavo nel tempo le nostre lunghe discussioni sulla politica, la fotografia, la Shoah, la resistenza sociale... eretico dell’eresia, sosteneva, a ragione, che per chi scrive o fotografa a un certo grado di qualità è sempre aperto il reparto degli incurabili dell’utopia... quindi — “Meglio ladro che fotografo” — diceva. Le nostre conversazioni, scambi di idee, e-mail quasi giornaliere... sono poi finite in un pamphlet (ancora inedito): “Dio non esiste! La fotografia sì” (MERDE DE PHOTOGRAPHE), il titolo è di Ando. Sin da quando tiravo i sassi alla celere di Scelba che bastonava gli operai in sciopero della città-fabbrica dove vivevo (e vivo ancora), ho sempre pensato che ciò che non mi uccide, mi fortifica.

Le metafore ciniche di Ando mi graffiavano l’anima... mi accompagnavano in sentieri poco battuti della fotografia sociale e le sue provocazioni sulla mia ingenua ostinazione a lavorare con la fotografia argentica (forse per paura di non maneggiare bene il mezzo, tenermi a distanza dalla fotografia numerica e mi sbagliavo)... mi hanno aperto un mondo... quello dell’immagine digitale sporca, mossa, sgranata dei telefonini, videocamere, fotocamere usa-e-getta... fatta dai protagonisti stessi delle insurrezioni sociali che hanno debuttato nel mondo (non solo) arabo nel 2011... attraverso i social network riversavano nell’intero pianeta il diritto degli oppressi ad avere diritti... queste fotografie dell’indignazione mostravano che la storia della fotografia non aveva più bisogno di eroi, di santi né di profeti specializzati (spesso a libro paga dei padroni dei mass-media o sprezzanti architetti dello scoop sanguinolento che tanto piace a galleristi e operatori del settore), ma era affabulata dai medesimi insorti che osavano sfidare i potenti della terra e s’incamminavano verso la conquista di una società più giusta e più umana.
Ando aveva compreso (e teorizzato nei suoi molti e straordinari libri) che i fotografi o sono randagi dell’immagine poetica o inservienti dell’industria culturale... tutto vero... un giorno, accesi il sigaro toscano all’anice e seduto sul lettino della sua stanza/covo (mentre fuori nevicava da matti), gli dissi con la mia solita ironia da osteria di porto: “Chi conosce la forca non sempre sa fotografare, e chi sa fotografare non sempre conosce la forca, anche se qualche volta la meriterebbe!” . Ando sorrise sulla sedia a rotelle (“mi fai ridere anche il catetere numero sei o dieci”, disse, non ricordo bene) e carezzando il suo cane che teneva sulle gambe aggiunse (quasi con queste parole): “Fotografare, in fondo, significa disfarsi dei propri rancori, vomitare i propri misteri, e il fotografo davvero grande è uno squilibrato che si serve delle immagini per guarire la propria stupidità”. E io: “La maggior parte della fotografia è riconducibile a un crimine di leso linguaggio, a un crimine contro la decenza (non solo fotografica)”. Ando: “Sei un figlio di puttana... non è indecente esibire i propri segreti, le proprie lacerazioni... indecente è sterminare milioni di ebrei e fare finta che sia stato l’errore di un pazzo e non la banalità del male operato dai grandi poteri... Pino sei simpatico, sei di un’ingenuità commovente. Non è che tu non capisca, non ti hanno mai detto le due o tre cose fondamentali… ecco… prima di tutto se per ebreo s’intende uno con la “E” maiuscola, ad Auschwitz non cen’era nemmeno uno. Te l’ho raccontata la mia famosa… sai che io sono autore di barzellette antisemite… (raccontane qualcuna, dico). Ti racconto questa… ci sono due ebrei, uno è un vecchio sionista, sono a Tel Aviv, passeggiano, chiaccherano del più e del meno, l’altro è un ebreo normale. A un bel momento il sionista lancia un grido di dolore, si piega in due, si stringe all’inguine, si contorce… l’altro gli dice, cosa ti succede? Il sionista: mi hanno dato un calcio proprio qui. Ma se non c’è nessuno, riponde l’altro. Il sionista, ma non lo sai che i nostri coglioni sono ad Auschwitz” (sorridiamo insieme). È così. Perché poi se c’è una storia da conoscere, interessante da conoscere, è quella delle vicende dell’ebraismo, degli ebrei soprattutto europei, dal Portogallo agli Urali, degli ultimi duecento anni. I libri, i testi, i trattati che preannunciavano la Shoah… è come il titolo di quel film, Un assassinio annunciato, mi pare… è stata prevista, annunciata, minacciata per decenni e decenni”…
Ando, ogni uomo, in ogni epoca, possiede una realtà o una verità solo grazie proprie esagerazioni, alla propria capacità di santificare i propri dèi. Ando, ancora: “Sei proprio un coglione... uno stupido trova sempre qualcuno più stupido di lui da venerare, e così sia!” (ridiamo e Ando beve finalmente la tisana preparata da Luciana un paio di ore prima).
Scese la sera... montai in macchina e andai giù per la salita con queste parole in testa... a una curva l’auto scivolò sul ghiaccio, per non cadere in un burrone mi buttai in una stradetta ed entrai con la macchina nella casa di una famiglia che stava cenando davanti al telegiornale... dopo un po’ di naturale scompiglio... furono gentili con la mia confusione... dissi che ero amico di Ando, mi accolsero alla loro tavola, mangiai fagioli e salsicce, vino frizzante della loro vigna, poi ripresi la strada... detti anche un passaggio a una graziosa puttana infreddolita (mi ricordava Anna Karina di Questa è la mia vita, un film di Jean-Luc Godard)... la portai dove abitavano i suoi genitori (Aqui Terme)... entrai con la ragazza in una cucina che odorava di buono... i genitori della ragazza (facce di carbonai d’altri tempi) fecero degli spaghetti aglio, olio e peperoncino... vino rosso e un liquore di non so quali erbe... su una parete c’era il ritratto di un ragazzo ammazzato dai nazifascisti in un imboscata, uno della famiglia, mi dissero... ripresi la strada cantando “Bella ciao”. Quando arrivai a Piombino era l’alba ma non riuscivo a trovare la via dove abitavo... così mi addormentai a Marina, vicino alle Fonti delle serpi in amore... mi svegliò un pescatore... chiese se avevo bisogno di aiuto... mi ero vomitato addosso e l’odore non era proprio dei migliori... diavolo di un Ando, pensai (ogni volta che vado a trovarlo mi smonta certezze e utopie e la sua belligerante intelligenza mi resta attaccata alla pelle come un amore passionale)... presi la fotocamera, scattai un paio di immagini al pescatore (vennero un po’ mosse) e parlando a un gatto affamato che mi leccava gli stivali (ci aveva anche pisciato sopra), dissi tra me e lui: è la fotografia bellezza e nessuno ci può fare nulla!
Ando si è trovato spesso a scrivere dei miei libri, qualche volta è sceso tra gli uomini a presentarli... era un’emozione sentirlo parlare e leggere cosa scriveva dei linguaggi fotografici poi significava entrare nel bordello senza muri della fotografia, senza bavagli... giocava con le parole, i paradossi, le provocazioni... ecco cosa diceva in apertura a un mio fotolibro: “La Fotografia ha bisogno dei Pino Bertelli, e i Pino Bertelli hanno bisogno della Fotografia. Siccome attraverso l’ultima fase della senilità megalomane (sia benedetta l’arteriosclerosi che offre motivazioni a delinquere più di tutte le ideologie) aggiungo che la Fotografia e i Pino Bertelli hanno bisogno di me. Tutto così si risolve in un piccolo clan di quarantaquattro gatti, ma anche questo deserto è un vanto per noi e la Fotografia. Tanto io che Pino Bertelli facciamo ogni sforzo possibile per vivere ai margini della società, solo che io onestamente lo affermo e Pino Bertelli ingenuamente lo nega, anzi afferma il contrario e per farlo credere, e crederci, si serve della Fotografia.
Con la Fotografia Pino Bertelli inventa una società che non esiste: dove le donne hanno un’anima e la rivelano con occhi belli e profondi da Sante e Puttane; dove i proletari sono pelosi e pensosi e indossano la coscienza di classe; dove nelle rughe che scavano il volto dei vecchi c’è incisa tanta saggezza... È il massimo dell’assurdo poetico! L’assurdo nasce specialmente dal fatto che, come dice Bertelli, i suoi sono ritratti “di strada”: presi, figurati, alla gente comune! Per questo la sua risulta: “...fotografia come stupore o invettiva contro il fascio evangelico dell’ordine culturale/costituito”. Ogni volta che mi capita di leggere le cose che Ando ha scritto su di me, come su altri, penso che non c’è storia che non sia dell’anima e non c’è anima bella o santificata che valga quanto una risata tra amici fraterni o sabotatori della pubblica opinione.
Anche io ho scritto di lui (senza un filo di pudore che forse era necessario), così: “La fotografia digitale di Ando Gilardi ci sorprende. E non poco. Senza uscire dalla propria tana sui boschi piemontesi, Gilardi è riuscito a produrre immagini elettroniche di notevole bellezza. Sono fotografie che attraversano la storia dell’arte e la riconducono a nuovi orizzonti estetici e politici. Interrogano i fantasmi dell’esistenza quotidiana e sovente accompagnano furori iconoclasti gettati contro le banalità del male (di ogni potere). Gilardi détourna i maestri della pittura, viola i codici della prospettiva, fa di ogni donna una Gioconda coi baffi ed è soprattutto lo stupore ludico del colore improbabile che lascia il segno nelle sue opere. L’insieme del suo lavoro annuncia un viatico che si allunga tra l’utopia possibile e la grazia dell’apocalisse.
La scrittura (non solo) fotografica digitale di Gilardi è allegorica, grottesca, surreale… deriva dal sogno teurgico, qabbalico o chassidico di Maimonide (o della mistica ebraica), Martin Buber, Hannah Arendt,[1] quanto dall’insubordinazione degli utopisti libertari che hanno trapassato il cuore dei secoli in cerca di una vita che valesse la fatica di vivere. Il linguaggio della diserzione di Gilardi, annoda la surrealtà amorosa di André Breton,[2] con la crudeltà dell’amore di Antonin Artaud[3] e quel che più conta li attraversa entrambi, non per giungere ad un particolare luogo emozionale dell’anima, ma per demistificare tutto ciò che viene eretto e idolatrato a simulacro artistico. C’è nella decostruzione dell’arte digitale di Gilardi, un pensiero androgino che non bada alla perfezione del nulla ma canta l’elogio del margine. Cabalista di segni, “dagherrotipista” di colori, masnadiero di visioni controcorrente (à rebours),[4] Gilardi dispiega nelle sue opere lo stupore e l’innocenza di una lunga infanzia e dissemina nella magia contaminata delle forme, l’immaginazione ludra[5] o poetica del sogno,[6] che rende reale tutto ciò che si trascolora in poesia.
Per noi, Gilardi è un profanatore di segni, un trovatore d’eresie, un incendiario dell’immaginario… l’oblio della suo fare-fotografia elettronica lo porta a scardinare le verità dell’ordine e le sue iconologie, anche le più cattive o coinvolgenti, giocano sulla limpidezza del ludico e la loro trasparenza amorosa li trascolora in pietre. La filosofia della dis/apparenza che Gilardi butta contro il fascio del mercato delle immagini, porta la “fotografia digitale” fuori dalla norma e porge a ciascuno l’inclinazione o il bisogno di pensare. L’immaginazione è la più chiara delle visioni, “ci permette di vedere le cose sotto il loro vero aspetto, di porre a distanza tutto ciò che è troppo vicino in modo da comprenderlo senza parzialità né pregiudizi” (Hannah Arendt). In questo senso il lavoro di Ando Gilardi è una “teca” d’immagini che ha molti inizi e nessuna fine. Di ciò che vedi tu farai la tua scrittura e di quanti ti amano o ti odiano sarà la tua lettura, diceva”. Sia lode ora a uomini di fama.
Per amore, solo per amore della nostra amicizia stellare ti porto con me Ando, là dove finisce il mare e comincia il cielo... dove i ragazzi con i piedi scalzi nel sole o con la pioggia sulla faccia tirano i sassi alle stelle... te mi hai insegnato quanto è dura la vita di colui che chiede amore e riceve indifferenza... tuttavia devo ancora incontrare un ignorante, un folle, un “quasi adatto” o un bandito per necessità le cui radici non affondino nel mio cuore... ricordi quando mi ricordavi un passo di non so quale libro: “Possiamo cambiare con le stagioni, ma le stagioni non possono cambiare noi”... tu mi hai fatto comprendere che l’uomo e il fotografo guardano nella medesima direzione, fanno della libertà e della giustizia il principio di ogni bellezza o non sono nulla... tu mi hai lasciato in dono la vita sognata degli angeli ribelli e il canto della loro disperata utopia racchiusa in queste parole — Lontano da me la saggezza che non sa piangere con gli ultimi della terra... la filosofia che non ride della politica che la uccide e la stupidità che non abbassa la testa davanti a un bambino massacrato dalle guerre —... ogni forma d’arte celebra il sublime che insorge contro l’ipocrisia del proprio tempo e rompe le proprie catene. Anche l’ultimo degli stupidi, forse, sa ormai che la rivoluzione del pane amaro riporta l’arte di vivere o morire nella strada e il bene comune nella società di liberi e uguali che viene... a memoria di ubriaco chi non ricorda che il profumo dei gelsomini può mutare il corso delle costellazioni?... il genio ha inizio sempre col dolore.
Ti abbraccio teneramente à bonne lumiere Ando, con chi ami e chi ti ama... là dove le nostre lacrime s’incontrano, i nostri cuori si danno del tu! Ciao (lasciami il posto alla tua sinistra, a destra ci mettiamo un corona di spine d’acacia e ci facciamo sedere chi sappiamo noi)... ciao a te, Pino.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 15 volte marzo 2012

[1] Maimonide e la mistica ebraica, di Moshé Idel, il Melangolo 2000; Profezia e politica, setet saggi, di Martin Buber, Città Nuova 1996; Ebraismo e modernità, di Hannah Arendt, Unicopli 1986
[2] I vasi comunicanti, di André Breton, Lucarini 1990
[3] Van Gogh, il suicidato della società, di Antonin Artaud, Adelphi 1988
[4] Controcorrente (À rebours), di Joris-Karl Huismans, Garzanti 2000
[5] Per immaginazione ludra, intendiamo quel pensiero ereticale, sovversivo, anarchico che — come l’olio buono di Nietzsche — fuoriesce dall’orlo dell’otre e va ad insinuarsi negli anfratti più celati dell’ordine costituito… lì prende fuoco e di colpo illumina la caverna di Platone. La civiltà dello spettacolo nasce tra quelle ombre e quelle luci. La rêverie che fa divampare il fuoco blu dei cavalieri erranti della luna e la stessa rêverie che vuole spegnerlo e renderlo innocuo. Le gesta eversive (non sospette) della Compagnia del libero spirito di fra’ Dolcino, sono ancora cantate ai quattro venti della terra e insieme al mito di Prometeo ci ricordano la tentazione a disobbedire. Il fiore di rosso e nero vestito di Buenaventura Durruti si schiuderà ancora: “Noi cambieremo il mondo, perché portiamo un mondo nuovo dentro di noi. E mentre vi sto parlando, il mondo sta già cambiando”. L’obbedienza non è mai stata una virtù.
[6] Poetica del fuoco, frammenti di un lavoro incompiuto, di Gaston Bachelard, Red Edizioni 1990


Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

venerdì 23 marzo 2012

Bersani, adesso ti aspettiamo al varco parlamentare sui diritti sociali e sindacali!



Bersani non vomita mai

dal blog di Beppe Grillo

Il Pdmenoelle può finalmente gettare la maschera e votare alla Camera a favore della riforma dell'articolo 18. La Camusso, persino lei, non è riuscita ad accettare il licenziamento libero, dai conati di vomito che le procurava. Bersani invece ce la può fare, ce la farà, a consegnare all'oblio decenni di conquiste dei lavoratori. Là dove neppure Berlusconi osò, lui volerà alto e non si tirerà indietro. Per il bene dello Stato, ovviamente. Cancellare l'articolo 18 per un pdimenoellino è un atto liberatorio, un outing che gli restituisce la sua vera identità politica dopo anni di relazioni nascoste con il Pdl. Si sentirà meglio nelle serate insieme a Azzurro Caltagirone e al Coniglione Mannaro. Rigor Montis, argomentando con il mento in fuori, ha spiegato alla plebe che a partire dall'articolo 18 il "diritto di veto" non sarà più concesso. A nome di chi parla? Il diritto di mandarlo a fanculo, questo ce lo concediamo da soli.

lunedì 19 marzo 2012

La percezione di se'


Chi sono io?

di Franco Battiato, da Il Fatto Quotidiano


Ramana Maharshi – 30 dicembre 1879-14 aprile 1950. Non teneva conferenze, lui era un insegnamento vivente. E’ stato uno dei saggi più celebrati in India.

Da “L’insegnamento di Sri Ramana Maharshi” Edizioni Vidyananda

1) Chi sono io?

Io non sono il corpo grossolano, composto dai sette umori. Io non sono i cinque organi di senso, vale a dire udito, tatto, vista, gusto e odorato, che comprendono i loro rispettivi oggetti, cioè suono, tatto, colore, sapore e odore. Io non sono i cinque organi di senso cognitivi, cioè gli organi della parola, del movimento, della presa, dell’escrezione e della procreazione, che svolgono le rispettive funzioni di parlare, muoversi, afferrare, eliminare e provare piacere. Io non sono i cinque soffi vitali, prana, ecc., che esercitano rispettivamente le cinque funzioni di inspirare ecc. Io non sono neppure la mente che pensa. Io non sono neanche la nescienza, che comprende solo le impressioni residue degli oggetti e nella quale non vi sono oggetti né funzioni.

2) Se non sono nessuno di questi, allora chi sono io?

Dopo aver negato tutte le cose menzionate sopra dicendo “non questo”, “non quello”, la Consapevolezza che sola rimane-quella. Io sono.

sabato 17 marzo 2012

Travaglio affonda la trimurti


I Tre dell’Ave Mario

A furia di citare la foto di Vasto con Bersani, Di Pietro e Vendola per dire che gli intrusi erano Di Pietro e Vendola, è stata scartata a priori l’ipotesi che dei tre quello sbagliato fosse Bersani. Ipotesi che assume una certa pregnanza alla vista della foto di Casta, twittata da un gaio Piercasinando durante l’inutile vertice con Monti.

La foto di gruppo lo ritrae in compagnia del resto della Trimurti, anzi della Trimorti a giudicare dal consenso di cui godono i rispettivi partiti: l’implume Angelino Jolie e il solito Bersani, che sta diventando un po’ come Zelig e Forrest Gump: fa capolino in tutte le foto (anche in quelle dei matrimoni). Eccoli lì, sorridenti e giulivi davanti al fotografo, Casini, Alfano e Bersani, ma anche Casano, Bersini e Alfani, ma anche Alfini, Bersano e Casani. La Trimorti è uscita finalmente dalla clandestinità, dopo tre mesi di incontri clandestini in tunnel, catacombe e suburre umidicce e infestate da cimici e pantegane, e ha trovato il coraggio di fare outing sul loro ménage à trois: ebbene sì, i tre dell’Ave Mario si amano e rivendicano i loro diritti di trojka di fatto.

Un tempo la politica si faceva nelle piazze, poi traslocò in televisione. Ora invece va avanti a colpi di foto e photoshop. Da quando i partiti sono appunto partiti senza più dare notizie di sé, per avvertire i loro cari di esser ancora vivi i presunti leader postano ogni tanto un autoscatto. Prossimamente manderanno una cartolina da Venezia. O magari da San Vittore, a giudicare dall’imperversare degli scandali e delle inchieste un po ’ in tutta Italia, su tutti i partiti, vecchi e nuovi, di destra di centro e di sinistra. Ormai parlare di indagini è riduttivo: questi sono rastrellamenti.

Li stanno andando a prendere l’uno dopo l’altro. Presto si esauriranno anche le riserve di manette ed esploderanno i cellulari (intesi come mezzi di locomozione): ci vorrà l’accalappiacani. In attesa della prossima retata, i partiti si difendono come possono. Più gli elettori si allontanano, più i politici si avvicinano, in quel Partito Unico Nazionale (Pun) che ha rinunciato pure agli ultimi pudori. Più che un inciucione, un partouze che compravende tutto: giustizia, Rai, frequenze, welfare, legge elettorale, Costituzione. Basta grattare un po’ la foto di Casta per scoprire che è tutto finto. Per evitare il linciaggio dagli eventuali elettori rimasti, Bersani giura che il Pd non parteciperà alla spartizione della Rai, ma in realtà è già d’accordo con gli altri due, dietro il trompe l’œil delle “personalità indipendenti” (tutti ottuagenari fossili da Jurassic Park). Alfano dà il via libera alla legge anticorruzione, in realtà già sa che la Convenzione di Strasburgo verrà svuotata, mentre le sole leggi sulla giustizia che passeranno sono: l’ammazza-giudici sulla responsabilità civile diretta e personale (unica al mondo); l’ammazza-intercettazioni e imbavaglia-stampa modello Mastella; e l’ammazza-concussione per salvare B. anche dal processo Ruby con la gentile collaborazione del Pd che l’ha addirittura proposta.

Intanto in Cassazione si provvede a tener buone le Procure di Palermo e Caltanissetta, così imparano a indagare su stragi e politica: ma non l’hanno ancora capito che le trattative Stato-mafia si chiamano “grandi intese”? Sulla legge elettorale i partiti dicono che manca ancora un quid, ma in realtà sono già d’accordo per eliminare con sbarramenti e altre lupare bianche i pochi partiti e movimenti non allineati. La Camusso dice che l’accordo sull’articolo 18 ancora non va bene, in realtà lo sanno tutti che la Cgil è già d’accordo da un bel po’, perché così vuole il Pd, e il Pd è d’accordo perché così vuole il Quirinale. E, se qualcuno protesta, è pronta la scusa: “Ce lo chiede l’Europa”. Da questo vortice di vertici, da questo partouze a base di foto, cartoline, finzioni, tavoli e teatrini, resta fuori un piccolo dettaglio: gli elettori.

Ma che saranno mai 45 milioni di italiani. Basta rafforzare le scorte dei politici. E non perché siano minacciati dai terroristi o dai mafiosi (ma quando mai): è che rischiano di incontrare un elettore.

Scomodiamo Céline, per il PD




Viaggio al termine del Pd

di Piero Sansonetti,da "Gli Altri", 16 mar 2012



Informe, lacerato, senza anima e missione. Nel Partito democratico si respira area di fine lavori. Troppo ampia la distanza col suo popolo, troppo frequenti le faide, troppo numerose le correnti. Il Pd oggi esiste solo sulla carta, o tra i numeri vagamente consolatori di qualche sondaggio, ma ormai non è più – quando mai lo sia stato – il punto di riferimento per un centrosinistra forte e credibile.

Sul numero in edicola da oggi articoli e interventi di Anna Paola Concia, Matteo Orfini, Sandro Gozi, Alessandro Antonelli, Aurelio Mancuso, Peppino Caldarola, Cesare Damiano, Maurizio Zipponi, Gennaro Migliore e Mattia Baglieri

***

Il Pd, così com’è, non può più esistere. Per due ragioni che si completano tra loro. La prima è che il Pd è nato con una “ragione sociale” che oggi è scomparsa. La seconda è che oggi gli è impossibile definire una linea politica. E un partito che non ha una “ragione sociale” (cioè un “fine”) e non ha una strategia politica non è più un partito. Si dirà: ma il Pd ha un elettorato, anzi è il partito con l’elettorato più grande. Di per se avere un elettorato non è sufficiente ad essere “partito”. Anche se – è chiaro – il controllo su u vasto elettorato è un “patrimonio politico” enorme e dal quale è difficile prescindere, se si vuole fare politica.

Prima di concludere il ragionamento, ripartiamo dalle premesse: l’esaurirsi della ragione sociale e la scomparsa della linea politica. Qual era la ragione sociale originaria, cioè quali erano le fondamenta sulle quali è nato il Pd? Il desiderio di proporsi all’Italia, e alle sue classi dirigenti – principalmente alla sua borghesia – come nuovo e limpido partito di governo, in grado di sostituire il pasticcio populista di Berlusconi. L’operazione che compì Walter Veltroni nel 2008, sviluppando l’idea centrista di Prodi, era esattamente questa: Veltroni propose un Pd a guida Fiat-De Benedetti, con una linea politica moderata sia in economia sia sui grandi temi ideali (immigrazione, sicurezza, questioni etiche), che desse garanzie alla borghesia rendendo inutile il berlusconismo ed escludendo dalla contesa politica la sinistra radicale. La sua scelta di sospingere fuori dal Parlamento Rifondazione e gli altri gruppi di sinistra rispondeva pienamente a questo disegno, ne era una parte decisiva. Questa “ragione sociale” – ispirata in parte al blairismo, ma molto più spregiudicata nello spostamento a destra – è stata messa drammaticamente in crisi dalla sconfitta elettorale (politiche, europee, regionali sarde), e poi è stata definitivamente liquidata dal governo Monti. Perché? Le elezioni del 2008-2009 dimostrarono che il veltronismo non aveva la maggioranza, e non era in grado di liquidare Berlusconi; l’arrivo di Monti ha risolto il problema, nel senso che l’indecisione della borghesia italiana – tra Pd e Berlusconi – è stata superata dalla realizzazione di un governo tecnico “organico”. Ora il Pd non ha più la possibilità di offrirsi come “soluzione”, la soluzione già c’è, si tratta solo di trovarle il sostegno elettorale.

L’assenza di linea politico-strategica invece sta per diventare clamorosa di fronte alla questione dell’articolo 18. Lì, e cioè quando la battaglia politica scenderà (o salirà) sul terreno delle grandi scelte, anche simboliche, il Pd non ha la possibilità di restare unito. E dovrà dichiarare la sua assenza – o nel migliore dei casi la sua pluralità – di strategia.

Diciamo che ci sono tutti i presupposti per una disfatta. Con l’unica controindicazione della “potenza elettorale”. Qual è la via d’uscita? Ne vedo una sola: la rinuncia ad essere partito. La scelta di trasformarsi in qualcosa di diverso, in un’area, in uno strumento politico, all’interno del quale possano convivere linee e organizzazioni diverse tra loro. Si tratta di rinunciare in modo drastico alla vecchia idea di “partito” che abbiamo ereditato dalla prima repubblica, e che peraltro risentiva pesantemente delle tradizioni leniniste da una parte, di quelle “vaticane” dall’altra, e persino di alcuni residui fascisti. E di pensare a qualcosa che assomigli un po’ alla politica americana e al partito democratico di Kennedy, di Clinton e di Obama. Cioè si tratta di “mettersi a disposizione”. Non più dei gruppi di potere, ma invece delle “idee” e degli “interessi”. E permettere che al proprio interno confliggano idee e interessi diversi e, dove possono – ma solo dove possono – trovino una sintesi.

È possibile fare questo? Francamente non lo so, vedo molti ostacoli (uno tra tutti: il giudizio contrastato sul governo, su questo o su futuri governi) però è l’unica via di salvezza per il Pd. L’alternativa è quella di scindersi, di dare vita a due formazioni, che interloquiscano in modi diversi con gli altri partiti di centro e di sinistra, e quindi di imporre il ritorno, in Italia, di un sistema politico multipartitico.

RicordANDO


Ricordo per un amico

Pubblicato il 13-03-2012 8:59

Memori dei complimenti che ci ha sempre elargito, ma soprattutto delle critiche argute e pungenti che non ci ha mai lesinato, riceviamo e pubblichiamo questo bel ricordo di Ando Gilardi (la “foto della settimana” è sua).

da: La Red/Azione de Il Buio, www.ilbuio.org

Era facile che all’inizio di una conferenza prima di dire il suo nome si presentasse dicendo di essere un ebreo, zoppo e comunista.
Era Ando Gilardi. Ci ha lasciati il 5 Marzo scorso.
Era manifestamente amico de Il Buio e, schivo alle commemorazioni, sono convinto che se avesse potuto scegliere dove essere commemorato lo avrebbe preferito ad altre testate cartacee e decisamente di maggior diffusione che pur hanno dedicato ampio spazio alla notizia della sua dipartita.
Ancora ragazzo Ando partecipò alla Resistenza partigiana perché mi diceva:”Un combattente in più sul fronte occidentale ne sottraeva uno nazista su quello della Russia di Stalin!”. Dopo la Liberazione si schierò con chi riteneva non dovesse finire lì e preferì perciò non consegnare le sue armi. La sua passione per la fotografia cominciò quando, dopo la guerra, si mise a raccogliere le immagini che la raccontavano e la sua condizione di judio guidò il suo maggior interesse verso quelle che riguardavano la Shoah. Per incarico di una commissione inter-alleata documentò per il Tribunale di Norimberga le accuse al processo dei criminali nazi-fascisti. Il suo interesse per la fotografia sociale lo accompagnò in tutta la sua esperienza di giornalista presso le testate della sinistra del dopoguerra dall’Unità a Il Lavoro -mensile della C.G.I.L.- e Vie Nuove. Scomodo e irriverente verso ogni forma di cultura compiacente di una sinistra accomodante che però non osò mai schierarglisi apertamente contro salvo definire le sue differenze come gli “esuberi di un carattere originale” scelse di percorrere la sua strada da intellettuale libero e come fotografo scalzo si accompagnò ad Ernesto de Martino, Tullio Seppilli e Diego Carpitella per documentare la storia dell’Italia del dopoguerra vista dalla parte dei cafoni al Sud e della classe operaia al Nord. Le sue immagini, alcune delle quali illustrano le più importanti enciclopedie nazionali, sono oggi patrimonio della Fototeca Storica Nazionale da lui fondata assieme alla sua “portatrice d’arma” e moglie Luciana Barberino. La sua raccolta fotografica del Risorgimento raccontata dalla parte di chi aveva cacciato i Borboni per dare:” la terra a chi la lavora” e non per assoggettarla ad un’altra monarchia è arrivata fino in Giappone. Tra le sue maggiori opere bisogna citare La Gioconda di Lvov, una mostra foto-letteraria itinerante concepita in collaborazione con gli Istituti Storici della Resistenza e inerente ai fatti dello Sterminio.
Le sue collaborazioni come consulente del Centro Televisivo Universitario del Politecnico di Milano ci svelano anche un Ando grande formatore e didatta.
Ideatore e collaboratore delle più importanti iniziative editoriali, sue sono Photo13, Phototeca e Index solo per nominarne alcune, vere e proprie pietre miliari nella storia e per lo studio della fotografia. Oltre alla Fototeca Storica Nazionale da tempo ormai a lui intitolata ci lascia una serie di saggi assolutamente significativi a cominciare dalla Storia sociale della fotografia, Wanted, Storia infame della fotografia pornografica, Meglio ladro che fotografo e Lo specchio della memoria.
Ci ha lasciati all’età di quasi 91 anni ancora in piena e formidabile attività prima come Maestro nel mondo della immagine analogica e negli anni più recenti come Maestro e pioniere del futuro numerico. A chi piace immaginarlo lassù lo cerchi immortale nella rete di Internet a passeggio con la sua simpatica camminata claudicante sul suo canale “TubArt” in YouTube e su Facebook nelle sue affascinanti lezioni che non sono solo una chiave per comprendere la fotografia ma sono anche un modo per interpretare la vita.

Gianni

Ando forever!






Manuale, di Marco Belpoliti

Ando Gilardi. Wanted!


È morto Ando Gilardi uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, autore di libri davvero straordinari, fotografo lui stesso, direttore di riviste, giornalista, fotoreporter, e altro ancora; oltre che fondatore della Fototeca storica nazionale.



I suoi libri sono stati riediti negli anni da Bruno Mondadori, l’ultimo ha come titolo Meglio ladro che fotografo (2007). Michele Smargiassi ne ha tracciato un bel profilo su La Repubblica di lunedì 6 marzo, e lo ricorda nel suo blog; lo voglio qui ricordare con un pezzo scaturito dalla riedizione di Wanted! Storia, tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria uscito nel 2003 (Bruno Mondadori, Milano, pp. 210).



Il viaggiatore che entra nel territorio degli Stati Uniti, munito di regolare passaporto e visto d’ingresso, deve sottoporsi a una doppia pratica: posare le dita della mano su uno scanner elettronico che registra rapidamente le impronte, mentre un’altra macchina, anch’essa digitale, ritiene istantaneamente l’immagine del viso e probabilmente anche quella della sua iride. In questo modo presso la polizia federale americana si costituirà in breve tempo un gigantesco archivio visivo destinato a superare ogni precedente raccolta di foto segnaletiche del passato. Una misura preventiva contro il terrorismo, ma anche un sistema per schedare, senza che abbiano commesso alcun reato, un numero altissimo di persone. Oggi, grazie alle moderne tecnologie, quattro milioni di schede segnaletiche digitali, realizzate da un corpo di polizia qualsiasi, possono trovare posto nel cassetto di una semplice scrivania.Viviamo in una società in cui, come aveva previsto Andy Warhol, stampando l’avviso segnaletico per una delle sue prime mostre, ciascuno può diventare il protagonista di un “Wanted!” affisso nella bacheca di un museo invece che in quella di una stazione di polizia, o viceversa.


Alla fine degli anni Settanta, Ando Gilardi, uno dei più curiosi e inclassificabili studiosi di fotografia, aveva edito presso l’editore Mazzotta un libro con questo titolo, Wanted!, primo volume di una serie promessa intitolata “Sillabari della fotografia”. Era un volume eccentrico dal sottotitolo programmatico: “Storia, tecnica e estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria”.

L’autore segnalava con forza l’esistenza di un rimosso nelle origini stesse della fotografia: l’uso poliziesco e giudiziario. La fotografia, inventata all’inizio dell’Ottocento, si è sviluppata e diffusa grazie a due prerogative: la sua facilità e l’utilizzo a fini di controllo e normalizzazione. Della prima si occupano tutte le storie della fotografia, mentre la seconda è generalmente omessa, oppure la si ritrova solo nei capitoli dedicati alla storia della psichiatria o delle indagini poliziesche. Charcot e Lombroso, lo studioso francese dell’isteria e il criminologo italiano, sono due esempi eclatanti dell’uso “scientifico” della fotografia ad uso diagnostico, classificatorio e investigativo.



Wanted!, che è stato ristampato dalla Bruno Mondadori con una nuova introduzione, si presenta come una straordinaria Wunderkammer della fotografia criminale, l’esposizione e insieme il racconto dell’uso abnorme della fotografia. L’atteggiamento di fondo di Gilardi, autore di una Storia della fotografia pornografica (anche questa edita da Bruno Mondadori) ha tuttavia qualcosa di curiosamente perverso, nel senso etimologico del termine. Mentre denuncia infatti ciò che è accaduto nel periodo tra il 1839 (anno in cui l’invenzione di Daguerre e Niépce viene presentata al pubblico nell’aula del Senato francese) e il 1978 (anno in cui le Brigate rosse scattano un fotografia segnaletica e giudiziaria ad Aldo Moro, sequestrato in un loro covo, e la recapitano ai giornali italiani), descrive e documenta visivamente gli abomini commessi attraverso l’uso della fotografia.

Si tratta di una storia singolare, bizzarra, ma anche dolorosa e terribile, che ha come protagonisti ladri e prostitute, malati di mente e rivoluzionari, donne di malaffare e assassini, appartenenti per la maggior parte alle classi subalterne e popolari. Due sono i personaggi principali, accanto a una folla di comparse e di attori secondari: Alphonse Bertillon, oscuro impiegato diventato capo del servizio d’identificazione della Prefettura di Parigi alla fine dell’Ottocento, e Umberto Ellero, inventore, pochi anni dopo, delle “Gemelle Ellero”, la macchina fotografica per realizzare le immagini segnaletiche.



La ripubblicazione di Wanted! è avvenuta in un momento particolare, non solo per l’iniziativa assunta dall’amministrazione americana, ma anche per la contemporanea diffusione di un nuovo sistema di riproduzione delle immagini che avrà probabilmente lo stesso impatto che ebbe alla fine degli anni sessanta la prima macchina Polaroid a sviluppo immediato. Oggi la maggior parte dei telefoni cellulari sono in grado di ottenere un’istantanea digitale a colori e di inviarla ad altri nell’arco di alcuni secondi. Tra foto segnaletiche e fotografie realizzate impugnando un cellulare probabilmente c’è una parentela, la medesima che esiste tra le foto giudiziarie e criminali e foto-tessera realizzate mediante le Photomatic per uso burocratico oppure solo per divertimento. La parentela riguarda il problema dell’identificazione, o meglio dell’identità. Ma prima di affrontare quello che è il problema centrale della fotografia ad uso segnaletico (criminale, psichiatrico, giudiziario), vale forse la pena di riassumere la tesi esposta in Wanted!.



La nascita della fotografia ha dato via a un doppio uso delle immagini: da un lato, l’idea della creazione di immagini artistiche (la produzione del “bello”), accessibili a tutti; dall’altro, la possibilità di realizzare immagini “oggettive”. Ellero e gli altri creatori della fotografia indiziaria pensavano, scrive Gilardi, che il foto-ritratto segnaletico produce un’immagine oggettiva del soggetto fotografato, che non sempre sappiamo vedere con i nostri occhi. La fotografia produce la realtà, e svela il “reale” che è in ciascuno, compresa la propensione a delinquere. Di più: il ritratto, scrive Ellero in un suo volumetto del 1908, produce un’opera astratta, attraverso la quale si raggiunge “l’assoluto della conoscenza” della realtà. La fotografia è, come la lente di Sherlock Holmes, uno strumento scientifico, cioè oggettivo. Noi sappiamo che l’immagine è un fatto mentale, prodotta dal nostro cervello, e che lo strumento utilizzato per visualizzarla può essere diverso: fino al Cinquecento il disegno aveva il medesimo ruolo della fotografia; le immagini digitali inviate da Marte e riprodotte sui nostri schermi o giornali sono, dal punto di vista della produzione delle immagini, la medesima cosa delle lastre di Niépce.


Qual è allora la questione? L’identificazione, meglio: l’identità. Lo spiega molto bene una pagina di un romanzo di Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore. Il protagonista, un militante comunista, osserva i documenti di identità delle persone che si recano a votare nel seggio costituito dentro l’istituto del Cottolengo. Tra di loro ci sono delle suore. Amerigo Ormea non può fare a meno di trovare una perfetta somiglianza tra la loro realtà interiore e la fotografia sulla carta d’identità. Come si sa, nessuno riesce a riconoscersi nell’istantanea incollata sul documento che ha in tasca: Ma quello sono io?. Le suore invece sì. “Posavano – pensa Ormea – di fronte all’obiettivo come se il volto non appartenesse più a loro: a quel modo riuscivano perfette”. Sono dimentiche di sé, hanno superato la soglia tra immediatezza della vita e beatitudine perché contemplano la morte.



Il nostro problema davanti alla macchina fotografica che ci identifica è quello di dare un’immagine compiuta e veritiera di noi. Tuttavia nessuno posto davanti alle “Gemelle Ellero” riuscirebbe a trasmettere all’obiettivo un senso di beatitudine. E non solo per una ragione soggettiva, ma anche per una evidente ragione oggettiva: è lo sguardo che produce il criminale, lo sguardo classificatorio e punitivo della macchina che ci ritrae e, con feed-back, il nostro stesso sguardo spaventato, iroso, depresso, angosciato. L’identità, premessa per l’identificazione, è un oggetto che dipende da molte variabili, tra cui anche la realtà esterna; l’identità con una retroazione produce realtà, e questo è un paradosso con cui la fotografia ha iniziato a partire dai ritratti criminali a fare drammaticamente i conti.

venerdì 16 marzo 2012

NOI DONNE




Una donna forte è quella che tira la corda.
Una donna forte è una donna che sta
in punta di piedi a sollevare pesi
mentre cerca di intonare il Boris Godunov.
Una donna forte è una donna intenta
a svuotare il pozzo nero degli anni,
e mentre spala racconta
di come non le importa di piangere, il pianto stura
i dotti lacrimali, e vomitare
sviluppa gli addominali, e
continua a spalare tirando su
dal naso.
Una donna forte è una donna nella cui mente
una voce ripete, te l’avevo detto,
brutta cattiva, puttana, musona, strillona, strega,
rompipalle, nessuno ricambierà mai il tuo amore,
perché non sei femminile, perché non sei
dolce, perché non stai zitta, perché
non sei morta?
Una donna forte è una donna determinata
a fare qualcosa che altri sono determinati
a non farle fare. Cerca di sollevare il coperchio di piombo
di una cassa da morto. Cerca di alzare
con la testa un tombino. Prova
a sfondare a testate una parete d’acciaio.
La testa le fa male. Chi aspetta che il buco
sia fatto dice, più in fretta, sei così forte.
Una donna forte è una donna che sanguina
dentro. Una donna forte è una donna che si fa
forte ogni mattina, mentre i denti s’allentano
e la schiena duole. Ogni bambino,
un dente, sentenziavano le levatrici, ed ora
ogni battaglia una ferita. Una donna forte
è un mucchio di cicatrici che fanno male
quando piove e di ferite che sanguinano
quando le urti e di memorie che si svegliano
di notte e marciano avanti e indietro.
Una donna forte è una donna che ha bisogno assoluto d’amore
come d’ossigeno oppure diventa cianotica.
Una donna forte è una donna che ama
fortemente e piange fortemente e fortemente
è terrorizzata e ha forti desideri. Una donna forte è forte
in parole, opere, relazioni, sentimenti,
non è forte come una roccia ma come una lupa
che allatta i suoi piccoli. La forza non è in lei, ma lei
la mette in moto come il vento che gonfia una vela.
Ciò che le dà sollievo è che gli altri la amino
ugualmente per la sua forza e la debolezza
da cui sgorga, lampo da una nuvola.
Il lampo abbaglia. Nella pioggia, si sciolgono le nuvole.
Solo l’acqua delle relazioni rimane,
e ci attraversa. Forti ci facciamo
l’una con l’altra. Finché non saremo forti tutte assieme
una donna forte è una donna fortemente spaventata.

- Marge Piercy

(Traduzione Loredana Magazzeni)

Ando, sempre fra noi





Ando Gilardi: "Sono un’immagine, quindi sono" - prima parte

Pubblicato: 16 mar 2012 da Gabriele Ferrares

Ando Gilardi è un’immagine, quindi è. Fotografo, saggista, critico fotografico, Gilardi ci ha lasciato da poco. Come annunciato settimana scorsa da oggi cominciamo a pubblicare la prima puntata della biografia iconografica di Ando firmata da Elena Piccini, Patrizia Piccini e Fabrizio Urettini, anime della Fototeca Storica Nazionale. Proseguiremo nei prossimi giorni, sarà il nostro modo per ricordare un Maestro: buona lettura.

La Fototeca Storica Nazionale viene fondata a Roma nel 1962, da un’idea di Ando Gilardi, insieme alla moglie Luciana Barbarino. Il progetto di archivio fotografico nasce da un’intuizione di Ando maturata grazie ad un’intensa attività in campo editoriale. Nell’immediato dopoguerra Gilardi è nella redazione de L’Unità di Genova, poi accanto a Gianni Toti, Lietta Tornabuoni e Franco De Poli redattore per Lavoro, organo ufficiale della Confederazione Generale del Lavoro e collaboratore di Vie Nuove, rivista fondata nel 1946 da Luigi Longo.

Sono gli anni dei grandi settimanali illustrati, di una pubblicistica che dopo quel generale ritorno all’ordine degli anni a cavallo del secondo conflitto mondiale ritrova il suo vigore, ritorna a essere il crocevia dove si incontrano i più vitali protagonisti di una stagione culturale italiana rinata. È proprio lo stesso spirito nuovo che aveva marcato la produzione editoriale europea negli anni delle avanguardie, quello stesso piacere per la sperimentazione tipografica attraverso l’uso del fotomontaggio che unito al perfezionamento della stampa offset fa sì che nell’arco di poco più di un decennio non esista più manifestazione del pensiero umano nella quale l’immagine ottica non occupi una parte importante.
È proprio l’aver compreso l’importanza della fotografia nell’editoria a far scattare l’idea che lavorare alla produzione di immagini tratte da altre immagini, ovvero andarle a prelevare dai repertori sparsi nelle raccolte pubbliche o private e uniformarle con la fotografia in un archivio, potesse generare un servizio richiesto dalle redazioni sempre più immaginivore. Perciò, fra l’altro, generare il reddito necessario per vivere di fotografia. il lavoro gilardiTutto a condizione che nel catalogare l’archivio di immagini si tenesse conto delle seguenti linee-guida. Nelle parole di Ando:

«Occuparsi professionalmente delle immagini significa occuparsi necessariamente della loro archiviazione. Ogni immagine prodotta ha due destinazioni: una immediata, la seconda mediata dal tempo e nel tempo.

Quando fabbrichiamo, oppure acquistiamo dopo naturalmente averla scelta, un’immagine, conosciamo logicamente la necessità, il bisogno, lo scopo che deve soddisfare. Necessità, bisogno e scopo che si trovavano a monte della nostra fabbricazione, della nostra scelta e l’immagine “discende” da quello. Però dobbiamo pensare ad essa come ad un qualcosa che non si ferma, continua a scorrere – volendo proprio inventare una metafora – come l’acqua: come una goccia di un grande fiume della informazione visiva e che sicuramente, nel futuro, potrà essere bevuta per soddisfare la “sete” di una diversa, o meglio diverse, necessità illustrative. Archiviare un’immagine significa prevedere queste necessità. Diciamolo in un altro modo: prevedere dopo il primo utilizzo dell’immagine gli altri più probabili riutilizzi. Quando adesso parliamo di immagini intendiamo specialmente le fotografie, ma non soltanto le fotografie.

E quando parliamo di fotografie intendiamo: a) quelle che per essere state prese dal “vero” rappresentano un’immagine nuova, b) quelle che invece rappresentano, nel senso che la riproducono, un’immagine che già esisteva e che può essere a sua volta una fotografia ma anche un’immagine differente nel modo della sua fabbricazione. Una pittura, un’incisione, eccetera. Per concludere questo primo punto non dimentichiamo che anche le immagini fabbricate per il gusto di fabbricarle soddisfano un bisogno, creativo o ricreativo. Il loro secondo utilizzo, il riutilizzo, potrebbe soddisfarne uno molto più importante e socialmente più utile. Con la fotografia accade spesso che il suo consumo passi dal privato al pubblico, dal personale al sociale.

Cento immagini bene archiviate, bene organizzate, ne valgono più di mille disordinate o ordinate approssimativamente. Mille immagini bene archiviate ne valgono diecimila idem. Diecimila ne valgono probabilmente non centomila bensì cinquecentomila. Vogliamo dire che ad un certo punto dell’archiviazione avviene come un salto di quantità e qualità insieme: i significati attribuiti alle immagini si intrecciano fra di loro, si arricchiscono reciprocamente, addirittura ne producono di nuovi e impensati. Poi anche il tempo provvede ad introdurre nuovi significati nelle figure e nuovi valori, che possono essere attribuzioni estetiche – ma questo ci interessa meno – o vere e proprie occasioni di vedere in ciascuna immagine qualcosa di diverso, e spesso di profondamente diverso. Questo può essere un “qualcosa” di storico, di etico, di sociale e spesso, di tutto ciò insieme»

Dopo i primi sette anni romani la Fototeca viene trasferita a Milano, cuore pulsante di quel boom economico che contraddistinguerà la seconda metà degli anni 60. Nascono i grandi gruppi editoriali e la produzione si frammenta in una galassia di testate specializzate, si consolida il successo di pubblico delle grandi raccolte a puntate e delle enciclopedie a più volumi come Le Muse o Universo, di cui Ando e Luciana parteciperanno alla realizzazione. La stampa scientifica e specialistica fanno sì che i processi di riproduzione fotografica diventino sempre più economici e popolari e quindi strumento di democratizzazione del sapere e dell’arte.

Negli anni successivi intensamente dedicati alla ricerca finalizzata all’illustrazione editoriale, Ando ebbe modo di elaborare parecchie teorie sulla Storia sociale della fotografia accomunate da una filosofia di base: in questa nuova era i procedimenti di fabbricazione delle immagini, la loro evoluzione, avrebbero potuto diventare strumenti per l’insegnamento e l’apprendimento di ogni disciplina, così negli anni 70 Fototeca diventa luogo di sperimentazione, produzione culturale e insegnamento. Il fulcro delle attività era sempre la redazione di una rivista o di una collana di manuali, sulle pagine si concretizzavano i discorsi, in parole e immagini.

Nel 1970 è fondata Photo13, la tredicesima rivista di fotografia nelle edicole italiane (da cui il nome), la prima che tratta di fotografia come tecnica creativa che discende direttamente dalla storia della fabbricazione di immagini. Nel 1978 nasce il gruppo Foto/gram che insieme al CTU (Centro televisivo universitario) svolge attività di carattere esplorativo e sperimentale a dimostrare la validità di mezzi modesti e anche modestissimi nella educazione all’immagine e con le immagini; nel 1979 inizia la saga Phototeca, Index, Storia Infame, Materiali, che in dieci anni attraverso i grandi generi delle immagini di consumo ha seguito l’evoluzione dei mezzi tecnici arrivando a lambire l’inizio dell’era digitale: dedicando a riguardo qualche pagina profetica.

La ricerca corre parallelamente alla vita quotidiana in Fototeca dalla quale trae sostanza – il legame con il mondo reale - così come in Fototeca si applicano nella costruzione dell’archivio i principi “scoperti” nelle sperimentazioni.

Nel primo numero di Photo13 Ando scriveva:


«Per dirla con i modi di Amleto: non si era ancora asciugato l’inchiostro della lettera ad un amico, nella quale affermavo di voler fotografare solamente e smetterla di scrivere sulla storia, l’estetica, l’uso e persino l’archiviazione della fotografia, quando accettavo l’incarico di responsabile della parte tecnica di questa nuova rivista Photo 13. Incoerenza e malafede? Sicuramente l’una e l’altra cosa: chi mi conosce sa che non riesco a farne a meno. Dopo quello fotografico sono, per me, i due fondamentali mezzi di comunicazione con il prossimo. Ma c’è anche una terza spiegazione meno immorale.

Alcuni anni fa, nella rubrica fotografica di un settimanale a rotocalco, condussi una micro-inchiesta fra una ventina di fotografi romani. Si trattava di rispondere a questa singola domanda: «Che pellicola usi?». Diciassette pigolarono: “trix!”. Volevano dire “TRI X” 27 DIN, 400 ASA. La ragione non la chiesi: la sapevo. Con la “trix” le fotografie tecnicamente vengono sempre! È un ottimo prodotto: lo potete sottoesporre e sovraesporre, poi se trovate il laboratorio che a seconda dei casi ve lo stira o ve lo schiaccia, qualcosa vi dà in ogni caso. Mi ero dimenticato di dire che quei venti fotografi erano tutti professionisti per cui qualcosa debbono ottenere in ogni caso. Ma anche i sarti, i falegnami - tanto per fare solo due esempi - sono dei professionisti.

Ora pensate: se interrogavo venti sarti e mi avessero dichiarato di tagliar abiti, sia pure di foggia e per gente diversa, tutti dalla stessa chilometrica pezza di stoffa. O di usare il medesimo tipo di legno per qualsivoglia mobile. Ebbene il senso non cambiava. Solo che noi non accetteremo mai di andare in giro vestiti tutti nell’identica maniera. E nemmeno di sederci sopra milioni di identiche seggiole. Accettiamo però (non tutti, quasi!) – noi fotografi si capisce – di stampare le nostre storie vere o inventate che siano, con lo stesso carattere grafico. Ora io credo che un discorso come questo, non così rigido ma mica troppo meno, lo possiamo fare per quanto riguarda le carte sensibili, i prodotti chimici e altro ancora. Qualcuno ogni tanto cerca di distinguersi e stampa contrastato: se è una bella firma (amatoriale o professionale non importa) tutti, a valanga, il giorno dopo, usano solo carta del numero 5. Quello per sfuggire alla muta torna al morbido, e giù! La 2 si spreca.

I più audaci solarizzano, poi restano a guardare stupefatti l’inatteso risultato, che non saprebbero mai ripetere, neppure in cento volte. Lo lavano lo asciugano lo incorniciano e lo mandano ad una Mostra. Ci sono anche i fortunatissimi che però preferiscono essere chiamati ricercatori. Hanno dimenticato al principio dell’inverno una scatola di carta sul termosifone. Viene la primavera, ci stampano un ritratto: ecco dall’emulsione bianconera prodursi gialli e bruni mica male. Questi se perseverano, riescono a metter su una “personale” che scuote la critica. Mah, che vita!

***

E il discorso potrebbe continuare, complicandosi, per quanto riguarda le tecniche d’uso. Cioè: fermi restando i materiali, con eguale utensile, variare il più possibile i risultati. Ma fare questi discorsi significa per me sentirmi dire che, in fondo, l’unico gusto che ho è quello del paradosso e che non conta come si fotografa ma quello che si fotografa. Cioè: meglio fotografare uno zingarello, lacero, male che una pecorella bene. O viceversa. A pochi passa per la testa che la soluzione sta nel fotografare ottimamente, con tecnica e colori personali, lo zingarello a cavalcioni della pecora. E qui sono giunto alla conclusione. Cioè alla ragione morale che forse qualcuno vorrà accreditarmi insieme alla malafede e all’incoerenza. Ho accettato questo nuovo lavoro per insegnare a fotografare il bimbo povero sull’ovino bianco. Possibilmente in modo che l’ovino risulti verde e il bimbo rosso»



Tra le fonti citate in questo primo Photo13 come nei seguenti, manco a dirlo c’è Fototeca Storica Nazionale dalla quale proviene una sconvolgente serie di quattro “cartoline” dalla Libia, a quel tempo – per ragioni di sicurezza – se ne era omessa la provenienza ed il caso aveva dato l’opportunità di porre l’attenzione dei lettori sull’importanza della documentazione fotografica della realtà e dato l’occasione alla redazione di sottolineare come. Scriveva Ando:

«…talvolta la fotografia, oltre a far paura dopo cinquant’anni che è stata scattata, è curiosa portatrice di una sorta di nemesi storica. Pensate che alcune di queste immagini venivano spedite in patria come “cartoline” dai militari italiani impegnati in combattimento in Libia! Oggi invece vengono usate dall’altra parte…»

martedì 13 marzo 2012

Lettera aperta alla Fornero: lei mi fa orrore!


di Rita Pani, apolide da "Informare per resistere"

“Non si può dare il salario minimo agli italiani, o si siederebbero a prendere il sole e mangiare pasta al pomodoro”

In linea di massima, illustrissima signora Ministro Fornero, sono d’accordo con lei. Forse l’unico punto che mi lascia scettica è la scelta degli ingredienti. Fossi stata in lei, e nelle catene d’oro che ama mostrare peggio di una Maria Antonietta con meno classe e più supponenza, avrei detto: “Non si può dare il salario minimo agli italiani, o si siederebbero a prendere il sole e mangiare pasta al caviale a 180 Euro il piatto.”

Quanto ha ragione signora Ministro! E che bello, finalmente, sentire in Italia un ministro che parla con cognizione dicausa. È vero, troppi ne abbiamo visti di italiani abbronzati anche a febbraio,col muso ancora sporco di pomodoro e aragosta, venire a parlarci di carestia e sacrifici. Immagini cosa sarebbe questo nostro paese, se per assurdo a tutti fosse garantito di poter vivere esattamente come fate voi, parassiti ingrassati e pur sempre affamati.

Lei vede lontano, signora Ministro, e questa volta ha visto bene, e le riconosco il coraggio della sua arroganza. Lei sa di cosa parla, perché non passa giorno che lei non si renda conto di quanto male ha fatto al nostro paese garantire a pusillanimi come voi di poter passare sui nostri cadaveri restando pressoché impuniti. Ogni giorno, dinnanzi ad un nuovo avviso di garanzia, o di un’inquisizione,gli italiani col muso ancora sporco si chiudono a riccio proteggendo il loro sodale che rischia il fastidio di anni di tribunali, per i tempi delle prescrizioni giudiziarie che sono ancora troppo lunghi, e che impediscono di vivere i frutti del proprio lavoro con la dovuta serenità.

Ha ragione signora Ministro. Sarebbe un paese morto il nostro, se si desse ad qualunque, la possibilità di stare in piedi o di sostentare la famiglia senza dover rubare, se tutti avessero un tetto sopra la testa, se lebanche prestassero i soldi senza tassi da usura agli imprenditori che altriimprenditori hanno ridotto alla fame. Quale paese potrebbe mai sopravvivere in regime di giustizia sociale?
Ci sono già troppi italiani che hanno approfittato del salario garantito, e pergiunta non sono stati nemmeno riconoscenti, non hanno saputo accontentarsi.Hanno dovuto rubare tutto ciò che era possibile rubare, a volte anche a loro insaputa, perché la crisi fa paura più ai ricchi che ai poveri – come disse unsuo collega – che i poveri, ci sono già abituati alla povertà. I ricchi avrebbero troppa sofferenza e difficoltà di adattamento alla condizione normale.

Sarebbe bello e umano che lei si vergognasse, ma non è contemplato in questo nostro tempo in cui nessuno, alla fine, le taglierà la testa come la storia insegna e la civiltà – la nostra e non la sua – proibisce. Se le fosse una donna, umano o una persona, con la memoria dei morti che il vostro sterminio ha mietuto e miete quotidianamente, andrebbe in un supermercato a guardare lagente che guarda gli scaffali; le donne che prendono in mano un prodotto e lori pongono, pensando che in fondo si può fare a meno anche degli spaghetti,illudendosi che al fine se ne avrà agio dimagrendo, ed essendo pronte, d’estate ad andare a prendersi un po’ di sole, che almeno è gratis se non hai lastupidità di pagare per avere un po’ d’ombra da un ombrellone affittato.

Sono orgogliosa di non aver ceduto nemmeno per un attimo alla compassione, davanti alle sue lacrime egocentriche, date dall’emozione di essere davanti a una telecamera, con l’ansia di apparire perfetta stretta nel suo collare d’oro,addobbata come un albero di Natale dai suoi orecchini di diamanti. Lei mi fao rrore: è solo un sicario, pagata dalla mafia dello stato per ultimare lo sterminio che quel verme che vi ha preceduto non ha avuto il coraggio di perpetrare.

Mi piacerebbe finire inneggiando a Piazzale Loreto, ma non lo farò perché ho rispetto di tutti i Partigiani che hanno lottato e sono morti per consegnarciuno stato democratico che noi, colpevolmente abbiamo consegnato alla feccia come voi. Non siamo degni di Piazzale Loreto. Quel che le auguro, signora Ministro, è di arrivare a conoscere una vita di stenti, di non sapere comemettere insieme il pranzo con la cena, e di guardare sua figlia negli occhi con la disperazione che dà sapere di non poterle più garantire un futuro.

Tratto da: Lettera aperta alla Fornero: lei mi fa orrore! | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/03/13/lettera-aperta-alla-fornero-lei-mi-fa-orrore/#ixzz1oyx3xRSb
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

lunedì 12 marzo 2012

Il sole 24 ore boccia la tav


Il sole 24ore boccia la Tav,un chiaro messaggio di confindustria contro gli sprechi di denaro pubblico e le clientele.
Uno studio pubblicato sul Sole 24 Ore (sì, il giornale di Confindustria) spiega la totale anti-economicità dell'Alta velocità. E sulla Torino-Lione: "Se il nostro vicino fosse la Gran Bretagna non sarebbe mai fatta"


Da: notiziegenova.altervista.org/te-lo-nasondono/3291-il-sole-24ore-boccia-la-tavun-chiaro-messaggio-di-confindustria-contro-gli-sprechi-di-denaro-pubblico-e-le-clientele.html

Roma – martedì, 06 marzo 2012

Scritto da Andrea Malan





A poco più di sei anni dall'inaugurazione della prima tratta ferroviaria ad alta velocità – la Roma-Napoli – arriva un primo tentativo di valutazione economica a posteriori del complesso di investimenti degli ultimi 20 anni sulle linee Av. Lo studio di Paolo Beria e Raffaele Grimaldi, del Politecnico di Milano («An early evaluation of italian high-speed projects») dà una prima valutazione ex post dei progetti realizzati, sottolineandone «i successi e le potenzialità ancora inespresse – dicono gli autori – ma anche le significative criticità». Un tentativo importante visto che «l'investimento nella rete Av, interamente a carico dello Stato, è stato affrontato sulla base di valutazioni estremamente deboli e senza stime pubbliche e dettagliate della domanda attesa».

Lo studio analizza in primo luogo offerta e domanda dei servizi Av: la prima è rappresentata dai servizi di Trenitalia (le varie Frecce); la domanda viene stimata sui dati disponibili forniti dalla stessa Trenitalia (su base aggregata), applicando poi a questi un modello "gravitazionale" (basato principalmente sulle popolazioni dei centri toccati) per ripartirli fra le varie tratte. Per un'analisi costi/benefici vengono poi esaminati i costi di costruzione e di gestione, meno il valore finale atteso dell'infrastruttura; i guadagni sono dati dai minori tempi di collegamento e dal risparmio sui costi operativi delle linee tradizionali. Tra i benefici indiretti (non considerati nella valutazione costi/benefici) gli autori citano il possibile spostamento di utenza da altri mezzi di trasporto al treno e la maggiore disponibilità di tracce per altri tipi di servizi sulle vecchie linee, anche se per questo ultimo aspetto «i maggiori problemi di capacità sono nei nodi urbani, e le linee Av non li hanno risolti».

Vediamo i saldi stimati tra costi e benefici: nel caso migliore – quello della Milano-Bologna – la domanda necessaria a giustificare l'investimento sarebbe di 8,9 milioni di passeggeri l'anno, contro una stima degli autori della domanda 2010 tra 5,9 e 7,2 milioni; nel caso peggiore, quello dellaMilano-Torino, per pareggiare i conti servirebbero 14,2 milioni di passeggeri a fronte degli 1,2-1,5 stimati per il 2010.
La conclusione degli autori è che «i risparmi di costo e di tempi di trasporto non giustificano l'investimento per nessuna delle tratte considerate (Torino-Milano, Milano-Bologna, Bologna-Firenze e Roma-Napoli) tranne, nel caso più ottimistico, la Milano-Bologna». Questa tratta e la Bologna-Firenze, secondo gli autori, «potrebbero raggiungere un saldo positivo considerando i benefici economici indiretti». Di conseguenza – e tenendo conto anche della tratta preesistente Firenze-Roma – non è complessivamente negativo il giudizio sull'intera tratta Milano-Roma. Il saldo sembra invece «negativo» per la Roma-Napoli e «molto negativo» per la Milano-Torino.

Per quanto riguarda quest'ultima linea, gli autori ipotizzano che (costi di costruzione a parte) la lineaavrebbe potuto essere più sfruttata se costruita con standard non-Av, ovvero quelli simili alla "vecchia" direttissima Roma-Firenze, permettendo anche un utilizzo per servizi intermedi fra le due città. Tra Roma e Napoli invece pesa secondo Beria e Grimaldi l'estensione delle due metropoli, che per le relazioni tra due punti qualsiasi delle due aree urbane vanifica in parte i guadagni di tempo ottenuti con l'Av. Il debutto dell'operatore privato Ntv, previsto per quest'anno, aumenterà l'offerta e potrebbe avere un effetto positivo anche sulla domanda.
Lo studio si conclude con una valutazione – con la stessa metodologia – delle future estensioni della rete Av.

Gli autori ricordano che il programma delle infrastrutture strategiche «non fa alcun riferimento alla domanda attuale o prevista e manca di considerazioni costi/benefici». 
Le linee considerate sono Treviglio-Padova (parte della Milano-Venezia), tunnel del Brennero, Torino-Lione, Terzo valico dei Giovi, Napoli-Bari e Venezia-Trieste. «Per tutte le linee – scrivono Beria e Grimaldi – sono previsti pesanti incrementi della domanda, spesso pari al raddoppio del traffico passeggeri e il quintuplicamento del traffico merci. Presi non loro complesso, questi trend appaiono molto ottimistici e in contrasto con la stabilità degli andamenti pre-crisi».
La linea Napoli-Bari appare debole da ogni punto di vista: pochi passeggeri, poche merci, risparmi di tempo limitati; gli autori suggeriscono che un raddoppio e modernizzazione della linea attuale sia più appropriato. 
Il tunnel Torino-Lione è quello per cui le previsioni sono più ottimistiche: «Difficile da giustificare, dato il calo continuo dei traffici negli ultimi 10 anni».

«Se il nostro vicino fosse stata la Gran Bretagna e non la Francia – dice Beria – il nuovo tunnel non verrebbe mai fatto» poiché gli inglesi sono molto più attenti all'analisi dei costi e benefici dei progetti. La domanda attesa è «realisticamente elevata» per la Milano-Venezia, ma attenzione, ricordano gli autori: «Traendo lezione dagli errori commessi per la Milano-Torino, la Milano-Venezia dovrebbe essere costruita con maggiore attenzione ai collegamenti a medio raggio, con un modello tedesco o svizzero, senza necessariamente puntare alla massima velocità».

sabato 10 marzo 2012

Con Curzio Maltese anche i giornalisti mainstream finalmente dalla parte dei NOTAV



Curzio Maltese: stop alla Torino-Lione, scandalo italiano




Se io o voi fossimo della val di Susa, probabilmente oggi saremmo sulle barricate a difendere la salute dei figli, la nostra e una terra che rischia di essere stravolta e umiliata per sempre. Già questa banale osservazione avrebbe dovuto procurare alle lotte No Tav maggior rispetto di quanto ne sia stato riservato dalla politica e dai media in questi vent’anni, ovvero nessuno. Le ironie dei giornali di destra e del conduttore di uno dei più squallidi programmi radio, “La Zanzara”, sul povero Luca Abbà, caduto mentre stava inscenando una protesta del tutto legittima e pacifica su un traliccio, meritano in pieno la reazione di Alberto Perino: «Sciacalli, jene».

Se l’è cercata, Abbà? Ma andiamo, piuttosto se l’è cercata la politica. Si è cercata gli scontri, la guerra civile, i blocchi stradali, perfino le violenze, con Luca Abbà e la protesta No-Tavuna gestione delirante di quello che avrebbe potuto essere un grande progetto. In tutta Europa si sono costruite ferrovie super veloci, ma in nessun Paese è mai nato un movimento No Tav. Perché? Perché gli italiani sono nemici della modernità? Non facciamo ridere. Perché i valligiani sono fieri ambientalisti? Anche qui ci sarebbe da ridere. Nessuno in val di Susa ha battuto ciglio quando quel galantuomo di Gavio ha costruito una della peggiori, inutili, inquinanti e devastanti autostrade d’Italia. La verità è che in Italia c’è stata la peggior classe dirigente continentale, corrotta, incapace e incompetente.

Per vent’anni questa classe dirigente ha impedito una seria discussione nel merito sulla Lione-Torino. Troppo forti e inconfessabili erano gli interessi nascosti. Serve o non serve questa Tav? Dalla lettura delle centinaia di documenti e inchieste pro e contro, da farsi venire il mal di testa, l’unica conclusione ragionevole è che serviva vent’anni fa, quando è stata progettata, ma non servirà a nulla fra vent’anni, quando sarà ultimata. Del resto, com’è ovvio, nessun progetto resiste nella nostra epoca il tempo infinito di quarant’anni. Quel treno dell’alta velocità è passato e l’Italia l’ha perso, insieme a tanti altri. Se oggi si vuole andare avanti a ogni costo, alla Curzio Malteselettera, è perché dietro la Tav si muovono interessi colossali di potentati, costruttori, mafiosi, speculatori e politici corrotti.

Cifre alla mano, la Tav italiana è infatti un gigantesco scandalo e alla luce del sole. Per quale altro motivo, se non la corruzione, la nostra Tav dovrebbe costare sei, sette, dieci volte di più che in Francia o in Germania? Il governo Monti dovrebbe trovare lo stesso coraggio che ha dimostrato nel rifiutare le Olimpiadi e chiudere la pratica. Non perché sia sbagliato organizzare le Olimpiadi o costruire le reti ad alta velocità, ma perché l’Italia della crisi non può permettersi di assistere ad altre orge tangentizie.

(Curzio Maltese, “Tav, il treno è passato e l’Italia l’ha perso. Chiudiamo la pratica”, da “Il Venerdì di Repubblica” del 9 marzo 2012).

Combatterò per la Valsusa, il nuovo Vajont


Corona No-Tav: combatterò per la val Susa, nuovo Vajont



Noi non viviamo in democrazia, viviamo in democratura: è un misto tra democrazia e dittatura. Per questo io sto con gli abitanti della val di Susa: non perché mi schiero con un colore politico o con l’altro, ma perché la ragione ce l’hanno loro che vivono quei luoghi, che sono da secoli in quella terra, che la amano, hanno sofferto, l’hanno costruita con il sangue e il sudore. Lì ci abita il cuore, non ci abita gente normale, non ci abitano corpi. E’ inaccettabile che qualcuno si arroghi il diritto di andare lì, come hanno fatto con il Vajont, e spazzare via la gente, spazzare via i boschi, secoli di cultura, tradizioni, storie. Motivazioni tecniche? Ogni omicidio ha bisogno di un movente. E chi va in val di Susa e vuole stuprarla non si rende conto di fare un danno al cuore di quella gente, non al portafogli. Per questo non riusciranno a comprare gli abitanti della valle.

Non capisco perché fare una linea nuova, visto che ce n’è gia una che arriva in Francia e che è sottoutilizzata. E poi perché alta velocità? Ci siamo ormai Mauro Coronasuperati, l’uomo è passato avanti a se stesso. Il Tav è una vergogna e fanno bene a combattere quelli della val di Susa, e che non mi si venga a dire che sono violenti. La montagna è di chi la vive, loro soltanto possono decidere cosa fare. Ma lo mettono in conto, questi politici, che quello è un luogo del cuore? Qui avevamo il Vajont: faceva girare mulini e segherie, era la nostra “miniera d’oro”. Sono venuti i politicanti dell’epoca, hanno messo un foglio di cemento sulla valle, hanno mandato via le persone e hanno causato duemila morti. Per questo io sto con la val di Susa e andrò lì a combattere.

Anche qui da noi è così: ci stanno rubando la ghiaia, e anche l’acqua: la vendono a peso d’oro, e questi paesi ormai sono diventati un luogo abitato più dai Tir che dalle persone. Abbiamo costruito una società il cui unico obiettivo è fare denaro, a qualsiasi prezzo, anche al costo della vita stessa degli uomini e le donne. Oggi dicono che abbiamo bisogno dell’alta velocità, in quell’occasione dissero che avevamo bisogno di energia. Pochi uomini fecero immensi profitti con la diga del Vajont ed ignorarono, così come fanno ora, i gridi d’allarme dei vecchi del posto, che conoscevano la montagne e sapevano, ad esempio, che vi erano frequenti frane. Ignorarono quei gridi d’allarme anche quando la giornalista Tina Merlin, a pochi giorni dal disastro, scrisse su “L’Unità” che migliaia di persone erano in pericolo di No-Tav in una nube di lacrimogenivita, e che andavano evacuate. Come faccio io a fidarmi degli uomini, se sono stati in grado di spazzare via paesi, uomini, tradizioni con un’ondata d’acqua e fango?

E anche in val di Susa vogliono distruggere una civiltà. Il governo ignora le osservazioni di centinaia di studiosi, che hanno spiegato i rischi per la vita dei cittadini. E poi che bisogno c’è dell’alta velocità? Dobbiamo tornare all’essenziale. Vivere è come scolpire: bisogna imparare a togliere, per vedere l’opera nel suo splendore. Cos’è la montagna? Nient’altro che un luogo dove abitano persone, come il deserto, il mare, le pianure. La montagna è solo un luogo più ripido. E chi ci vive la ama perché si sente abbracciato da quelle rocce, da quei torrenti, dai boschi. Ma la montagna è soprattutto la memoria di chi è stato lì per secoli, di chi ha vissuto lì l’infanzia, è cresciuto, ha parlato coi vecchi. Ma è lo stesso nelle pianure o al mare: ogni luogo è montagna, dipende solo dalle pendenze. Quelli che vi abitano sono i padroni assoluti.

La mia idea di progresso? Tornare all’agricoltura, al lavoro manuale. Ma vi rendete conto che abbiamo ceduto la Terra alle macchine? E come è stata causata la crisi economica? Abbiamo puntato tutto sullo svilupo tecnologico. Io ho scritto un libro, letto da pochissime persone, si intitola “Ritorno alla campagna”. Se vogliamo salvarci non dobbiamo pensare all’alta velocità: dobbiamo tornare a essere capaci di procurarci il cibo, senza violentare la terra, senza mettera in cima ai nostri propositi il profitto. Non sappiamo più usare le mani, abbiamo desideri inutili: il Suv, il Un'autoblindo Puma nel sito di Chiomonte destinato al futuro cantiere Tavnavigatore satellitare… Ma me lo spiegano, questi “tifosi della crescita economica”, cosa serve per vivere, per stare in piedi?

Vedo questo nichilismo imperante, il cinismo dell’economia: cambiano i luoghi, le persone, qui fecero una diga, lì l’alta velocità, ma è il nichilismo che impera su tutto. E’ l’uomo che non ha più progetti per il futuro, non c’è più una missione. Pensiamo a ingozzarci più che possiamo per quei pochi giorni che ci è concesso di vivere. Costruiamo grattacieli, tunnel di alta velocità e ci facciamo guerre meschine perché non sappiamo accontentarci. Dovremmo insegnare ai bambini che il denaro è una porcheria, che ne basta solo un minimo per vivere. Per questo i No Tav fanno bene a combattere in val di Susa, perché è contro questo nichilismo che combattono.

E io andrò in val di Susa, e voglio essere preso a manganellate come loro, perché non è possibile che si dica solo “hanno ragione”: bisogna metterci il corpo ed è quello che farò. C’è una valle, uomini e donne che vogliono viverci, allevare lì i loro figli. La valle abbraccia la sua gente, non può venire un politicante a spezzare questo abbraccio con le ruspe, per la sua eiaculazione nello spostare velocemente delle merci. La vera necessità sta nelle piccole valli, dove ci si può chiamare da una costa all’altra. E’ questo il vero senso dei No Tav, è per questo che si battono. E vinceranno, mi creda.

(Mauro Corona, dichiarazioni rilasciate a Davide Falcioni per l’intervista apparsa su “Agoravox” il 9 marzo 2012).


I sogni non sempre si realizzano. Ma non perché siano troppo grandi o impossibili. Perché noi smettiamo di crederci.

Martin Luther King, Jr.

Dell'Utri, processo da rifare


Dell’Utri,sua onnipresenza

di Peter Gomez, da Il Fatto Quotidiano

Filippo Alberto Rapisarda, l’amico del vecchio capo dei capi, Stefano Bontade, interruppe il suo discorso e, rivolgendosi al giovane cronista, chiese: “Ma lei conosce il dottor Dell’Utri?”. Subito dopo il discusso finanziere siciliano, con alle spalle una fedina penale alta qualche centimetro e una latitanza in Venezuela trascorsa alla corte dei boss Caruana-Cuntrera, si mise a urlare quasi a squarciagola: “Marcellino, Marcellino, Marcellino”. Fu così che Dell’Utri, versione 1989, entrò nella grande sala riunioni da una porticina nascosta tra gli stucchi. Guardò il giornalista e tendendogli la mano disse: “Io la leggo sempre, lei scrive molto bene. Ma sa… l’importante non è solo come si scrive. È importante soprattutto cosa si scrive”.

Ecco se si vuol raccontare davvero chi è Marcello Dell’Utri e la sua quasi infallibile capacità di avere rapporti con le persone sbagliate nel momento sbagliato, si può benissimo partire da qui. Dal palazzo di Rapisarda in via Chiaravalle a Milano, che Dell’Utri riprende a frequentare a partire dal 1988, dopo averci lavorato e vissuto sul finire degli anni Settanta, quando per quasi quattro anni si era allontanato da Silvio Berlusconi.

Un ritorno strano il suo. Ambiguo e carico di misteri, come è stata ambigua e carica di misteri la sua vita, destinata a farlo incappare, come testimone o indagato, in inchieste giudiziarie di ogni tipo: dalle stragi, alla P4, dalla corruzione, ai furbetti del quartierino, dalla frode fiscale, alla mafia e alla ‘ndrangheta. A fargli vestire, al di là dell’esito dei processi, i panni dell’uomo nero della Seconda Repubblica.

Dell’Utri torna a calcare i pavimenti di via Chiaravalle che, secondo i testimoni, erano stati calpestati da uomini d’onore del calibro di Ugo Martello, Pippo Bono, Vittorio Mangano e, forse, Vito Ciancimino, pochi mesi dopo un esplosivo interrogatorio di Rapisarda. Un lungo verbale del luglio del 1987 in cui il finanziere, in quel momento accusato di bancarotta e mafia (sarà poi prosciolto), sostiene di averlo assunto nelle sue aziende nel 1978, dietro i pressanti consigli di Bontade, del costruttore mafioso Mimmo Teresi e di un loro parente acquisito, Gaetano Cinà, il proprietario di una piccola lavanderia palermitana. “Era molto difficile dire di no a Cinà” ricorda davanti a un magistrato Rapisarda, che poi aggiunge un carico da novanta. Dice di aver un giorno incontrato per caso Bontade e Teresi in piazza Castello a Milano. I due boss, afferma, gli avrebbero domandato un consiglio: “Berlusconi ci ha chiesto 20 miliardi di lire per diventare soci nelle sue televisioni. Secondo te è un buon affare?”.

Dell’Utri non presenta denuncia per calunnia. Incassa, tace e dopo anni di cattivi rapporti, fa la pace con il suo accusatore. Torna a frequentarlo, mentre sua moglie, Miranda Ratti, tiene a battesimo una figlia di Rapisarda. Nel 1992 a chi gli chiederà il perché di questo singolare atteggiamento, risponderà citando un proverbio siciliano: “Non si può tirare un sasso a ogni cane che abbaia”.

Smussare, mediare, alzare la voce solo quando è strettamente necessario, usare spesso frasi e detti della tradizione palermitana, è del resto una caratteristica di Dell’Utri. Così nel 1991, eccolo mentre dice al senatore repubblicano Vincenzo Garraffa, deciso a non versare una grossa somma in nero a Publitalia: “Abbiamo uomini e mezzi per convincerla a pagare”. Poche parole a cui seguirà un incontro tra Garraffa e un boss trapanese che chiede al parlamentare lumi sui problemi insorti “con l’amico Marcello”. Cinque anni dopo ancora una frase destinata, nel suo piccolo, a diventare celebre. Dell’Utri è appena stato ascoltato per 17 ore dalla procura di Palermo che lo accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Uno dei suoi problemi è il legame antico con il boss Mangano, in quel momento detenuto al 41 bis. Ma lui affronta i giornalisti con piglio sicuro: “Mangano? Se fosse libero ci prenderei un caffè”. Poi quando Piero Chiambretti gli chiede “esiste la mafia?”, sorride: “Le risponderò con una frase di Luciano Liggio: se esiste l’antimafia, esisterà anche la mafia”.

Insomma quando è in pubblico Dell’Utri dà l’impressione di fare di tutto per mostrarsi a proprio agio nei panni nei dell’uomo nero. E in privato addirittura raddoppia. Nel 2007, mentre il suo processo a Palermo è in corso, intercettando due uomini legati alla cosca Piromalli Molè i carabinieri scoprono che parlano con Dell’Utri, chiedendo aiuti per gli affari e promettendo voti. Intanto l’ex big boss della Banca di Lodi, Gianpiero Fiorani, racconta di avergli versato 100.000 in contanti, attraverso un altro senatore, per ottenere appoggi per la sua banca. Mentre la sorella di un capomafia siciliano latitante in Sud Africa gli telefona proponendogli un incontro. Dell’Utri non si nega. Ha una buona parola per tutti. E continua a far politica e business. Che poi per lui sono una cosa sola. Così nel 2009 di nuovo i carabinieri fotografano una riunione di lavoro. Intorno a un tavolo ci sono lui, il faccendiere Flavio Carboni e due esponenti dell’organizzazione poi ribattezzata P4: Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi. Con loro si discute di soldi e di giustizia. Ci sono appalti legati all’energia eolica da concludere e, secondo, l’accusa nomine al Csm da pilotare, giudici della Corte costituzionale e di Cassazione, da avvicinare.

Perché la linea della palma, come diceva Leonardo Sciascia, sale di un metro all’anno. Ormai ha superato abbondantemente Roma. E Dell’Utri, lo sa. Sciascia lo ha letto. Lui infatti è un uomo colto. Sul fatto.

Il Fatto Quotidiano, 10 Marzo 2012

"FACCE DA CULO"


Dal palco Fiom Paolo Flores d’Arcais chiama tutti per nome e per cognome: “Facce da culo”

- Fabrizio Salvatori -Informare per Resistere, da FB


Marchionne, Marcegaglia, Berlusconi e “buon ultimo Bersani”: tutte “facce da culo” per un inedito Paolo Flores D’Arcais, direttore di MicroMega, intervenuto dal palco della manifestazione della Fiom a piazza San Giovanni. “Un certo signor Marchionne – ha esordito – ha accusato la Fiom di fare politica. Una certa signora Marcegaglia si lamenta che la Fiom fa politica. Un certo cavalier Berlusconi ha sempre trattato la Fiom come il demonio, perchè fa politica, chiedendo esorcismi ai Sacconi, i Brunetta e altri chierichetti del suo regime. Buon ultimo è arrivato l’onorevole Bersani, che ha vietato ai dirigenti del Pd di partecipare a questa manifestazione, perchè la Fiom fa politica, anzi una brutta politica, visto che da questo palco parlerà anche un dirigente del Pd della Val di Susa, ex sindaco e più che mai No Tav. Vorrei dirlo sommessamente – ha proseguito Flores – con i toni sobri che sono di prammatica da quando abbiamo un nuovo governo: questi signori, ogni volta che si stracciano le vesti perchè la Fiom fa politica, hanno la faccia come il culo”. “Non fa forse politica Marchionne, quando col sostegno di qualsiasi governo e dei media asserviti, impone che nelle fabbriche la Costituzione diventi carta straccia? Non fa politica la Confindustria, un giorno sì e l’altro pure, che dai governi pretende sempre favori per i padroni (con i soldi nostri) e sacrifici per gli operai? Non fanno politica i grandi banchieri – ha affermato ancora – al punto che uno di loro è ormai il ministro più potente del governo ‘tecnico’? E il partito di Bersani non ha candidato nelle sue liste i Calearo e i Colaninno (bella roba, sia detto en passant, per un partito che si dice riformista e forse di sinistra), ritenendo normale che gli imprenditori facciano politica?”.

http://www.controlacrisi.org/notizia/Conflitti/2012/3/9/20461-dal-palco-fiom-paolo-flores-darcais-chiama-tutti-per-nome-e/

Tratto da: Dal palco Fiom Paolo Flores d’Arcais chiama tutti per nome e per cognome: “Facce da culo” | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/03/10/dal-palco-fiom-paolo-flores-darcais-chiama-tutti-per-nome-e-per-cognome-facce-da-culo/#ixzz1oibTTC4q


- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!