sabato 17 marzo 2012

Scomodiamo Céline, per il PD




Viaggio al termine del Pd

di Piero Sansonetti,da "Gli Altri", 16 mar 2012



Informe, lacerato, senza anima e missione. Nel Partito democratico si respira area di fine lavori. Troppo ampia la distanza col suo popolo, troppo frequenti le faide, troppo numerose le correnti. Il Pd oggi esiste solo sulla carta, o tra i numeri vagamente consolatori di qualche sondaggio, ma ormai non è più – quando mai lo sia stato – il punto di riferimento per un centrosinistra forte e credibile.

Sul numero in edicola da oggi articoli e interventi di Anna Paola Concia, Matteo Orfini, Sandro Gozi, Alessandro Antonelli, Aurelio Mancuso, Peppino Caldarola, Cesare Damiano, Maurizio Zipponi, Gennaro Migliore e Mattia Baglieri

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Il Pd, così com’è, non può più esistere. Per due ragioni che si completano tra loro. La prima è che il Pd è nato con una “ragione sociale” che oggi è scomparsa. La seconda è che oggi gli è impossibile definire una linea politica. E un partito che non ha una “ragione sociale” (cioè un “fine”) e non ha una strategia politica non è più un partito. Si dirà: ma il Pd ha un elettorato, anzi è il partito con l’elettorato più grande. Di per se avere un elettorato non è sufficiente ad essere “partito”. Anche se – è chiaro – il controllo su u vasto elettorato è un “patrimonio politico” enorme e dal quale è difficile prescindere, se si vuole fare politica.

Prima di concludere il ragionamento, ripartiamo dalle premesse: l’esaurirsi della ragione sociale e la scomparsa della linea politica. Qual era la ragione sociale originaria, cioè quali erano le fondamenta sulle quali è nato il Pd? Il desiderio di proporsi all’Italia, e alle sue classi dirigenti – principalmente alla sua borghesia – come nuovo e limpido partito di governo, in grado di sostituire il pasticcio populista di Berlusconi. L’operazione che compì Walter Veltroni nel 2008, sviluppando l’idea centrista di Prodi, era esattamente questa: Veltroni propose un Pd a guida Fiat-De Benedetti, con una linea politica moderata sia in economia sia sui grandi temi ideali (immigrazione, sicurezza, questioni etiche), che desse garanzie alla borghesia rendendo inutile il berlusconismo ed escludendo dalla contesa politica la sinistra radicale. La sua scelta di sospingere fuori dal Parlamento Rifondazione e gli altri gruppi di sinistra rispondeva pienamente a questo disegno, ne era una parte decisiva. Questa “ragione sociale” – ispirata in parte al blairismo, ma molto più spregiudicata nello spostamento a destra – è stata messa drammaticamente in crisi dalla sconfitta elettorale (politiche, europee, regionali sarde), e poi è stata definitivamente liquidata dal governo Monti. Perché? Le elezioni del 2008-2009 dimostrarono che il veltronismo non aveva la maggioranza, e non era in grado di liquidare Berlusconi; l’arrivo di Monti ha risolto il problema, nel senso che l’indecisione della borghesia italiana – tra Pd e Berlusconi – è stata superata dalla realizzazione di un governo tecnico “organico”. Ora il Pd non ha più la possibilità di offrirsi come “soluzione”, la soluzione già c’è, si tratta solo di trovarle il sostegno elettorale.

L’assenza di linea politico-strategica invece sta per diventare clamorosa di fronte alla questione dell’articolo 18. Lì, e cioè quando la battaglia politica scenderà (o salirà) sul terreno delle grandi scelte, anche simboliche, il Pd non ha la possibilità di restare unito. E dovrà dichiarare la sua assenza – o nel migliore dei casi la sua pluralità – di strategia.

Diciamo che ci sono tutti i presupposti per una disfatta. Con l’unica controindicazione della “potenza elettorale”. Qual è la via d’uscita? Ne vedo una sola: la rinuncia ad essere partito. La scelta di trasformarsi in qualcosa di diverso, in un’area, in uno strumento politico, all’interno del quale possano convivere linee e organizzazioni diverse tra loro. Si tratta di rinunciare in modo drastico alla vecchia idea di “partito” che abbiamo ereditato dalla prima repubblica, e che peraltro risentiva pesantemente delle tradizioni leniniste da una parte, di quelle “vaticane” dall’altra, e persino di alcuni residui fascisti. E di pensare a qualcosa che assomigli un po’ alla politica americana e al partito democratico di Kennedy, di Clinton e di Obama. Cioè si tratta di “mettersi a disposizione”. Non più dei gruppi di potere, ma invece delle “idee” e degli “interessi”. E permettere che al proprio interno confliggano idee e interessi diversi e, dove possono – ma solo dove possono – trovino una sintesi.

È possibile fare questo? Francamente non lo so, vedo molti ostacoli (uno tra tutti: il giudizio contrastato sul governo, su questo o su futuri governi) però è l’unica via di salvezza per il Pd. L’alternativa è quella di scindersi, di dare vita a due formazioni, che interloquiscano in modi diversi con gli altri partiti di centro e di sinistra, e quindi di imporre il ritorno, in Italia, di un sistema politico multipartitico.

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