venerdì 9 marzo 2012

Un ricordo di Ando Gilardi


Nello Rossi ricorda Ando Gilardi.


Didascalia per una fotografia mai "prelevata".


Anni fa ho dovuto abituarmi a una Milano senza Ando Gilardi. Ma era bello saperlo nel suo studio a Ponzone, nella casa che ho visitato più volte con la fantasia aiutato da alcune fotografie, davanti al computer che lo collegava con il resto del mondo, o in giardino, con negli occhi un panorama mozzafiato che apre il pensiero. Adesso dovrò fare l'abitudine a un pianeta privo della sua presenza. Ma non sarà facile. Ando Gilardi ci ha insegnato, e può sembrare una bestemmia, che una figurina, come quelle che da piccoli raccoglievamo e con cui giocavamo, può avere, nel mondo della riproducibilità tecnica delle immagini, lo stesso impatto sociale degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina. Non ha tenuto in alcun conto il consenso dei rappresentanti della cultura del suo tempo. Scriveva per il futuro, riuscendo abilmente a contrabbandare tanti apparenti paradossi e rivoluzionarie teorie iconologiche alternandole a toni volutamente "dimessi", condendole con sapidi racconti delle sue esperienze, e così rendendole più facilmente condivisibili a un più vasto pubblico. Spesso si è provata la netta impressione che facesse quanto possibile per essere rifiutato, con lo scopo di sperimentare, con sé stesso prima che con gli altri, fino a che punto la sua inusitata sincerità e la sua totale mancanza di secondi fini potesse spingersi senza perdere il consenso dei suoi lettori. "Quello che non abbiamo mai saputo fare sono i soldi", l'ho sentito dire pochi mesi fa a un produttore di trattori intervenuto alla mostra "Bevevano i nostri padri", e, data la sua politica culturale, non c'è da stupirsene. Ma cosa si nascondeva dietro una scorza a volte decisamente scostante è stato intravisto da tanti. Il rifiuto del consenso della stragrande maggioranza degli intellettuali, da lui chiaramente cercato, è stato però compensato in modo inversamente proporzionale dall'affetto la stima e la riconoscenza di tanti fedeli lettori e amici. Perché l'intelligenza, accompagnata dalla sincerità e, nonostante tutto, dalla generosità di sapere perdonare, è piuttosto rara e capace di far accettare i pochi elementi di dissenso. Ando Gilardi ha detto più volte che le fotografie più belle sono quelle che abbiamo scattato soltanto nella nostra mente, per cui invitava ad andare in giro con l'apparecchio fotografico senza averlo caricato. A me piace immensamente quella pubblicata da Sergio Coppi su Facebook, nella bacheca di Ando Gilardi, il 6 marzo 2012, il giorno successivo alla scomparsa del grande Maestro, caro amico e insostituibile interlocutore, una "fotografia" che, questa sì, vale non le mille ma un numero incalcolabile di parole: Milano 1980. Entro a casa tua in via degli Imbriani, tu sei in fondo alla stanza con con il cappello di lana in testa e il telefono all'orecchio, "Cava signovina con queste cazzo di vadio libeve io non ascolto più Vadio Tve, sono ebveo, zoppo, comunista, mi manca solo di esseve fvocio per aveve tutti i difetti che questa società non soppovta ma non è detto ancova, e Vadio Tve è la mia unica consolazione".

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