venerdì 29 ottobre 2010

Basso impero



L'ommo Presidente (L'uomo Presidente)

(pubblicata da Il Pasquino il giorno venerdì 29 ottobre 2010)


Ma ca’ ci pozzo fa

si e’ femmen me fanno arrevutà.

I’ song n’ommo chieno e sentimento

e perciò me e’ porto rinto o’ Parlamento.

Tra na festa e na ballata

tra na cena e na tuccata

so’ arrivato a conclusione

ca’ song meglio e’ nu’ uaglione.

Nu’ mporta ra’ professione,

aggia ricere a’ verità,

‘stu guverno è l’occasione

ca’ aspettavo tiemp fa.

Co’ Viagra so’ capire,

nu’ c’è niente da ridire,

queste enormi qualità

annascuse rint’a sti beltà.

Mo’ ve rico pe coerenza

ca ce vo’ molta pazienza

a truvà rint’a Gelmini

duje pensieri sopraffini.

Ma i’ song duro assaje

e nisciuno dirà maje

ca’ nun ci aggio mai pruvato,

ca’ nu’ me so sacrificato.

Tutta qua sta la questione

nu’ facimme confusione,

chistu grande paese

ca’ governà me tocca

tene tropp assaje pretese…

ppe’ tramente i’ pens’a’ gnocca!

giovedì 28 ottobre 2010

Vendola: "Nel mio Governo? Voglio Gino Strada, Don Ciotti e Lorella Zanardo. Berlusconi? Pornografico, maschilista"








Nichi Vendola protagonista della prossima puntata di "Matrix". Il Governatore pugliese, nonchè prossimo candidato alle Primarie del Partito democratico nazionale, ne ha per tutti: sembra quasi leader in pectore del partito nazionale. "C'è il giustizialismo per le persone marginali, per i poveri, mentre c'è il garantismo per la classe dirigente. Da 15 anni l’Italia discute di come consentire la difesa dal processo di un pezzo di classe dirigente. Eppure - insiste Nichi - dovremmo essere tutti uguali davanti alla legge".



Capitolo alleanze - L'ipotesi di un Pd vicino ai finiani è fantascienza? Sì, no, forse, dice: "Fini non è uscito dal centrodestra per transitare nel centrosinistra - avverte il Governatore - E’ uscito per fondare un’altra destra, più libertaria, più gaullista, più europea. Guardo con attenzione e con rispetto a Fini, ma da qui non si può immaginare di reclutare Gianfranco Fini nel centrosinistra, lui che fino a ieri ha rivendicato la filiazione da Almirante. Sarebbe ingiusto per lui e per noi", dice generosamente. Su Pier Ferdinando Casini, invece, sembra più possibilista: "Non ho nessun pregiudizio a discutere con Casini, anzi l'ho sfidato - dice Vendola - a confrontarci con i suoi soggetti sociali di riferimento: il popolo del 'Family day' e il popolo delle partite Iva, cuore pulsante del centrodestra molto caro a Casini. Questi soggetti oggi si interrogano e sentono il berlusconismo come qualcosa da cui liberarsi".



Capitolo: prossimo Premier? - Se dovesse spuntarla alle Primarie, e se poi dovesse vincere alle elezioni, Vendola avrebbe le idee chiare su chi contattare per costituire il governo: "Bisogna smetterla di considerare che i politici nascono nella fabbrica della politica. Io ho indicato Lorella Zanardo, che ha scritto un libro bellissimo sul corpo delle donne, Carlin Petrini, Gino Strada, che ha un’idea di politica estera senza carri armati, e Don Luigi Ciotti, protagonista con Libera della lotta al narcotraffico. E' insopportabile - prosegue Nichi - la politica che cucina la propria minestra dentro al palazzo. Le alleanze vengono dopo, prima bisogna dire di quale cultura riformatrice l’Italia ha bisogno. Io - conclude Vendola - posso benissimo allearmi con il centro, non ci devono essere pregiudizi tra sinistra e centro, ma voglio prima parlare di che idea della vita ha bisogno il paese. Partire dalle alleanze è politicistico".



Capitolo Berlusconi - Non potevano mancare delle parole sull'attuale Presidente del Consiglio: "Io il Berlusconi rosso? E’ il reddito che fa la differenza. Però la più grande differenza tra me e Berlusconi - insiste il Presidente di Terlizzi - è dal punto di vista del linguaggio. Berlusconi ha sdoganato un linguaggio vagamente pornografico, ha un linguaggio venatorio sulle donne. Questa continua performance maschilista di un linguaggio pubblico in erezione, è uno degli elementi di massimo degrado della vita pubblica".



Capitolo gossip - In conclusione Vendola si concede un po' di gossip: "I gay in Parlamento sono tantissimi, ma non si dichiarano perchè sono ipocriti, sono dei sepolcri imbiancati, tra l’altro sono anche ricattabili. Mi dispiace per chi vive in clandestinità la propria condizione. Uno che fa il parlamentare dovrebbe avere il coraggio di dirlo".



http://libero-news.it/news/519456/Vendola___Alleanze__Fini_no__Casini_s__.html

mercoledì 27 ottobre 2010

Cresce la xenofobia in Europa

I sondaggi dicono che un partito xenofobo, in Germania, potrebbe oggi prendersi il 15%. E il resto dell'Europa non sembra passarsela meglio. Il tutto mentre l'Onu avverte che i movimenti migratori sono destinati ad aumentare nei prossimi anni

Un continente vecchio, stanco e incattivito. Fotografia di un’Europa da nuovo millennio

25-10-2010 di Roberto Savio

Con la dichiarazione della Merkel sul fallimento del modello multiculturale in Germania, si va completando la svolta xenofoba Europea. Secondo i sondaggi, se oggi un partito xenofobo si presentasse in Germania, prenderebbe sul 15% dei voti. Paesi simbolo della tolleranza a rifugiati di tutta Europa, come l’Olanda, o di grandi valori civici, come la Svezia, sono solo gli ultimi casi di governi condizionati da partiti che chiedono l’espulsione degli stranieri, ed il ritorno ad una nazione pura ed omogenea.

Secondo le Nazioni Unite (UNFPA, 2009), l’Europa dovrebbe accogliere entro il 2015 almeno 20 milioni di immigrati, per restare competitiva sul piano mondiale. L’invecchiamento della popolazione è così rapido, che per la prima volta nella storia coloro che hanno più di 50 anni ( e che si avviano alla pensione) sono in numero maggiore di coloro che ne hanno meno di 18. Il sistema previdenziale è destinato quindi a una crisi strutturale, se non vi saranno sufficienti lavoratori per pagare i contributi.

Sempre secondo le Nazioni Unite (OIL, 2010), circa il 35% dei giovani è oggi disoccupato, ed il 50% degli occupati guadagna meno di 1.000 euro al mese. Oltre il 73% ha contratti precari o a termine. In queste condizioni, è impossibile ottenere un mutuo dalle banche, e si calcola che quando andranno in pensione, avranno circa di 420 euro attuali. La OIL parla di una “generazione persa”.

Dal suo canto, il Fondo Internazionale Monetario prevede che occorre attendere sino al 2015, per uscire dalla crisi del 2008. Ma numerosi economisti, fra cui Stiglitz e Krugman (ambedue premi Nobel), sostengono che occorre attendere almeno il 2020, certamente per l’Europa. L’Unione Europea, l’innovazione senza precedenti, disegno politico di grande forza e di garanzia per i cittadini, oggi viene vista come una camicia di forza, una barca in cui siamo tutti obbligati a traghettare non si sa per dove, con zavorre come la Grecia, con dirigenti invisibili come la Ashton e Van Rompuy, e che invece di dare sicurezza aumenta l’incertezza.

La scorso mese l’Europa ha ricevuto una umiliazione senza precedenti, nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha rifiutato di elevare il suo stato di osservatore. Alcuni degli alleati tradizionali, come l’Australia, il Canada e la Nuova Zelanda, si sono astenuti, Paul Luit,il direttore per l’Europa dell’Istituto Austriaco per gli Affari Internazionali, ha dichiarato: “La sconfitta dell’Unione è più di una umiliazione. Dimostra il crescente isolamento dell’Europa, che viene vista ancora meno efficiente delle Nazioni Unite”.

La identità europea era indissolubilmente associata alla difesa dei Diritti Umani. È stata una condizione fondamentale nell’allargamento ai Paesi dell’ex blocco sovietico. Ma quest’anno 127 paesi sui 192 membri dell’assemblea generale hanno votato contro l’Europa su questi temi,contro i 117 l’anno scorso. Inoltre, solo la metà dei Paesi democratici hanno votato con l’ Europa, il più delle volte, Nel 1990, aveva l’appoggio del 70% nelle votazioni su questo tema. Oggi, è al 42%, vicino al 40% degli Stati Uniti, e sotto il 60% della Cina e della Russia, notariamente estranei ai valori europei. In altre parole, l’Europa sta rapidamente perdendo la sua funzione di riferimento mondiale.

Se passiamo alla immagine dell’Europa come potenza economica e commerciale, la situazione è ancora peggiore. Non solo la bilancia dei pagamenti si va squilibrando sempre di più, ma con l’eccezione della Germania tutti i Paesi europei vanno perdendo progressivamente quote del mercato mondiale. Secondo le proiezioni della Organizzazione Mondiale del Commercio ( 2010), l’Europa, se non inverte il trend attuale, sarà superata dalla Cina come motore dell’economia mondiale il 2015.
Mentre questi dati non toccano certamente l’uomo della strada, il declino della credibilità delle istituzioni europee e il crescente divario con le istituzioni politiche lo tocca da vicino. L’Eurobarometer del 2010, indica che solo il 52% dei cittadini europei è ancora disposto a votare. E, cosa ancora più grave, solo il 61% dei giovani. Ormai l’unico governante europeo con fiducia popolare rimane Cameron, con il 61% di popolarità. Ma probabilmente fra un anno l’indice è destinato a scendere. Da Sarkosy a Zapatero, dalla destra alla sinistra, la stanchezza degli elettori è evidente.

Le analisi politiche della storia moderna ( e non solo), hanno provato che in caso di incertezze, di dubbi e di decadimento economico e sociale, la democrazia entra in crisi, perchè il cittadino cerca sicurezza, e per questa è disposto a ridurre il suo spazio di libertà e di espressione personale. Come dimostrano le vicende dell’Asia e dell’America Latina, i decenni di sviluppo hanno portato alla riduzione di regimi militari o di dittature, mentre in Africa non a caso succede il contrario. Ed il primo sintomo del declino della democrazia è la ricerca di un capro espiatorio. Una volta erano gli ebrei: oggi sono gli immigranti.

E rappresentativo della pochezza della classe politica europea, che nessun governo abbia cercato di fare una politica di educazione dei propri cittadini sulla importanza degli immigrati per lo sviluppo nazionale, e si sia lasciato dilagare il mito della perdita di posti di lavoro degli Europei, e che gli immigrati rappresentino un pericolo per l’ordine pubblico. Oggi circa il 70% delle nuove imprese sono iniziativa di immigrati ( OECDE, 2099), e solo l’1% di essi è coinvolto in attività criminose (anche se rappresentano una parte importante della popolazione carceraria). Ma che una parte importante della popolazione europea veda negli immigrati la minaccia più diretta alla loro sicurezza, alla loro identità, ed al loro stile di vita, è la miglior cartina di tornasole per sapere che l’Europa, invece di affrontare i suoi problemi con responsabilità e scelte difficile, preferisce una fuga in avanti, seguendo le paure degli elettori, e cavalcandole.

La stessa situazione, in modo ovviamente profondamente diverso, si presenta negli Stati Uniti. La crisi finanziaria, la disoccupazione che forse non si può ormai più eliminare , la perdita della propria casa di milioni di persone, la impossibilità di pensionarsi e di dover continuare a lavorare per sopravvivere, l’aumento della povertà ad un americano su 10, taglio di servizi, di scuole, di infrastrutture di stati sempre più indebitati, hanno prodotto un risultato scontato: la sfiducia verso il governo, al punto tale da lasciare Obama con una approvazione pubblica del 43%, ed avere il 49% degli intervistati dalla CNN dichiarare che preferiscono Bush ad Obama. Le elezioni di novembre vedranno un ridimensionamento dei Democratici, che renderà ancora più difficile la seconda metà del governo Obama (elezioni il 2012, come in Cina, in Italia, in Russia ed altri 27 Paesi). E questo nonostante Obama sia riuscito a compiere riforme di grande importanza: da quella, quasi intera, del sistema sanitario, a quella abbastanza ridotta del sistema educativo, a quella infine molto timida del sistema finanziario.

Comunque la sinistra lo accusa di aver tradito le promesse elettorali. E la destra? La destra ha creato un fenomeno spontaneo, il Tea Party, che si considera discendente diretto della rivolta dei cittadini delle colonie inglesi che nel 1872 ne porto di Boston gettarono a mare il te che proveniva dall’Inghilterra, pur di non pagare le imposte decise dalla corona. Ed anche qui siamo davanti ad una fuga in avanti, altra cartina del tornasole di una crisi profonda, che negli americani è dovuta oltre a fattori interni alla consapevolezza che il loro Paese sta perdendo il ruolo di “Destino Manifesto”: cioè che gli Stati Uniti sono diversi da qualsiasi altro Paese, ed i valori americani sono sempre universali, e sono destinati a governare il mondo.

Il Tea Party è composto da due grandi filoni: quello che vuole ridurre il governo alla minima espressione: che considera Obama un pericoloso socialista che vuole fare degli Stati Uniti una seconda Europa. Quindi il taglio massimo delle tasse, ed il cittadino libero. E poi un secondo filone, che crede che il declino americano sia una cospirazione internazionale, ed è ora di mettersi i pantaloni e togliere gli inefficienti intellettuali come Obama dalla scena.

I candidati del tea Party sono anzitutto antidemocratici, visti come i classici difensori dello stato e della sua responsabilità sociale. Si collocano quindi nell’area repubblicana, che però vogliono radicalizzare. Essendo un movimento popolare, l’establishment repubblicano, da Mac Cain a Romney, ha cambiato lo stile elettorale per cercare di cooptarli e controllarli. Ma non sarà facile. Si tratta di una collezione di personaggi in cerca di autore. Tra i candidati a senatore e deputato ( con molte vittorie nelle elezioni interne),si va da Joe Miller in Alaska, che vuole chiudere i sussidi di disoccupazione perché sono incostituzionali, a Ben Buck del Colorado che oppone la separazione tra Chiesa e Stato:a la Signorina Angle, del Nevada, che dichiara che il fondo di compensazione che Obama ha chiesto alla BP per il disastro nel Golfo del Messico è “un fondo comunista”; alla signorina O’Donnel, che vede equivalente la masturbazione con l’adulterio: a Rand Paul, del Kentucky, che vuole eliminare ogni sussidio per disabili. Vi son ben quattro candidati (Utah,Michigan,Wisconsin e Florida), che sostengono che Obama non è nato negli Stati Uniti, e che quindi non può essere preidente. Tutti si rifanno alla Palin come candidata a Presidente della Repubblica nel 2012, ad un aumento delle forze militari, ad un affrontamento deciso con la Cina, ed ad obbligare gli inaffidabili Europei ad assumere la loro parte di alleanza non discutibile con gli Stati Uniti.

Queste derive dell’Europa e degli Stati Uniti, avvengono mentre non solo la Cina, l’India ed il Brasile, ma diversi Paesi emergenti, dall’Indonesia alla Malasia, dalla Corea all’Argentina, hanno ritmi di crescita molto superiori. Una delle caratteristiche delle crisi è che i protagonisti non hanno più la capacità di vedere al di là del loro mondo. Ma secondo le proiezioni delle Nazioni Unite (Unctad, 2010), la Cina supererà gli Stati Uniti fra 10 anni. Ce la farà il Nord del mondo a smettere di cercare capri espiatori, di fuggire in avanti, e di cominciare a fare una politica che regga alla sfida dei tempi, quando sia ancora in tempo? Chi scrive non ne è affatto convinto.

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Anche se per Tremonti la cultura non si mangia...



"Giustizia, libertà, uguaglianza".

L'intervento di Amartya Sen ai "Dialoghi sull'uomo" di Pistoia, maggio 2010

di Emilio Carnevali, da Micromega online


“La filosofia può esercitarsi con esiti di straordinario interesse su una varietà di questioni che non hanno nulla a che fare con le miserie, le iniquità e la mancanza di libertà che affliggono la vita umana. È bene che sia così, e c’è senz’altro di che essere felici per l’espansione e il consolidamento del nostro orizzonte conoscitivo in ogni campo che sollecita la curiosità dell’uomo. La filosofia, però, può anche contribuire a dare maggiore rigore e rilevanza alle riflessioni sui valori e sulle priorità, nonché a quelle sulle privazioni, le angherie e le umiliazioni cui in tutto il mondo gli esseri umani sono soggetti”.
Amartya Sen


“Alla memoria di John Rawls”: in questa dedica che apre l’ultimo libro di Amartya Sen c’è molto più che l’omaggio formale ad uno dei maggiori filosofi politici del Novecento, autore fra le altre cose di Una teoria della giustizia, che nel 1971 rivoluzionò gli studi etico-politici contemporanei con la sua innovativa concezione della “giustizia come equità”. C’è il riconoscimento della grande eredità intellettuale lasciata da Rawls a chiunque oggi voglia cimentarsi con le teorie di giustizia, a partire da un’“antropologia” molto distante da certe varianti della “teoria della scelta razionale” molto in voga nella scienza economica contemporanea, secondo le quali gli esseri umani sarebbero in grado di prendere solo decisioni fondate sul proprio interesse individuale senza alcuna capacità di “simpatia” verso gli altri nell’assunzione di un punto di vista imparziale.

Ma c’è anche l’individuazione in Rawls di un nobilissimo e autorevole bersaglio polemico: da qui infatti – dal confronto dialettico e critico con la concezione rawlsiana della giustizia come equità - prende le mosse quell’originale e antisistematica teoria della giustizia che Sen (premio Nobel per l’economia nel 1998) affida al suo ultimo scritto: L’idea di giustizia, recentemente pubblicato in Italia da Mondadori (euro 22, pp. 451). Rawls è infatti identificato come l’ultimo grande esponente di quell’”istituzionalismo trascendentale” che nasce con i filosofi dell’illuminismo e che - dopo aver mutuato da Hobbes l’idea del “contratto sociale” - tenta di delineare le strutture della “società giusta”. Passando per le opere di John Locke, Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant, fino ad arrivare, appunto, al neocontrattualismo di Rawls e ai nostri contemporanei Ronald Dworkin, David Gauthier e Robert Nozick, questo approccio “punta a identificare la natura di ciò che è ‘giusto’, anziché a individuare qualche criterio per riconoscere un’alternativa come ‘meno ingiusta’ di un’altra”.

Sen colloca la propria indagine all’interno di un approccio alternativo, quello della “comparazione centrata sulle realizzazioni concrete”, fatto risalire ad un’altra tendenza interna all’illuminismo europeo comprendente le opere di Adam Smith, Condorcet, Jeremy Bentham, Mary Wollstonecraft fino ad arrivare a Karl Marx e John Stuart Mill. Tutti questi autori, al di là delle loro idee tutt’altro che univoche in materia di giustizia, condividono in buona sostanza un metodo comparativo connesso a concrete realizzazioni sociali frutto delle istituzioni reali, dei reali comportamenti – che nell’approccio dell’istituzionalismo invece tendono ad assecondare “naturalmente” le istituzioni giuste una volta che esse siano riconosciute come tali dai membri di una comunità – e da molteplici altri fattori.

Ma quali sono secondo l’economista indiano gli elementi di profonda debolezza dell’istituzionalismo? Essenzialmente ne possiamo ricordare tre:

1. L’impossibilità di trovare un consenso universale attorno ai principi di una società giusta che abbiano le “carte in regola” per proporsi come imparziali ed unici. In questo senso le conclusioni della “posizione originaria” immaginata da Rawls – dove tutti i membri della comunità sono coperti da un “velo di ignoranza” sulla loro futura collocazione sociale e dunque sono privi di interessi particolaristici da difendere in un confronto sviluppato attraverso argomentazioni razionali – sono giudicate da Sen troppo ottimistiche.

2. Anche ipotizzando la “perseguibilità” di una teoria trascendentale – anche ipotizzando cioè che si possa arrivare a quell’accordo al quale abbiamo accennato nel punto 1 - Sen ne afferma la “superfluità”: “l’identificazione di assetti sociali completamente giusti non è né necessaria né sufficiente”, nel senso che non è necessaria per decidere in “quale direzione” deve andare il processo di cambiamento fra uno stadio “più ingiusto” di una società e uno “meno ingiusto” (come non è necessario decidere che la Gioconda è il dipinto ideale per scegliere fa un Picasso e un Dalì), e non è nemmeno sufficiente per fondare le ipotesi riformiste sul grado di prossimità all’ideale che gli assetti proposti possono raggiungere: la vicinanza nella proposizione non si traduce infatti in una vicinanza nella valutazione (un amante del vino rosso può preferire un buon bicchiere di bianco ad un bicchiere che mette insieme bianco e rosso al fine di avvicinarsi al suo bicchiere di rosso ideale).

3. Infine Sen rivendica l’importanza “delle diverse vite, esperienze e realizzazioni umane” che non si lasciano “surrogare da qualche informazione sulle istituzioni e le regole in vigore. Istituzioni e regole”, scrive Sen, “hanno senza dubbio un’influenza molto significativa su quanto accade e certamente sono parte integrante del mondo reale. Ma le realizzazioni concrete vanno ben al di là del quadro organizzativo e investono la vita che le persone riescono – o non riescono – a vivere”.
Questa centralità della vita concreta degli individui è del resto il cuore teorico del suo “approccio delle capacità”, intese come le “opportunità effettive” di realizzare “quelle cose a cui, per un motivo o per l’altro, [una persona] assegna un valore”.

Queste debbono essere secondo l’economista indiano le variabili sulle quali puntare la propria attenzione nel giudicare il vantaggio o lo svantaggio di un certo individuo (o di una certa società) rispetto ad una diversa dotazione di “capacità”.

Tale impostazione viene contrapposta non solo a quella fondata sulla centralità del reddito (o dei “beni primari” secondo l’accezione usata da Rawls) ma anche a quella imperniata sulla felicità/utilità che contraddistingue la moderna economia del benessere, nonostante lo stesso Sen riconosca l’importanza che l’approccio utilitarista ha avuto nel mettere in discussione il “tacito presupposto dei paladini della crescita come panacea di tutti i problemi economici, comprese la povertà e l’infelicità” (piccola nota a margine: non ci sentiamo di condividere il giudizio di Sen secondo cui gli utilitaristi “tendevano a ignorare il problema dell’ineguale distribuzione di benessere e utilità tra gli individui” perché con Mill, Edgeworth e Pigou il principio distributivo “neutrale” viene meno grazie al concetto di utilità marginale decrescente e ciò apre la strada a politiche egualitarie e redistributive).

L’indagine di Sen, che in quest’opera presenta una maggiore densità filosofica rispetto ai tanti lavori che l’hanno preceduta, contiene senza dubbio elementi di grande interesse. Il dialogo a distanza con Rawls offre spunti molto preziosi di riflessione attorno all’impianto generale di ogni teoria della giustizia e le critiche che vengono mosse all’istituzionalismo trascendentale e alle elaborazioni di matrice contrattualista e neocontrattualista colgono nel segno.

L’elemento di maggiore debolezza, almeno a parere di chi scrive, è invece riscontrabile in una certa sottovalutazione della dimensione del “conflitto” all’interno di una concezione della democrazia come “governo per mezzo del dibattito” la quale rischia di far rientrare dalla finestra quell’utopismo che - tramite la critica dell’istituzionalismo trascendentale - era stato fatto uscire dalla porta. In un mondo in cui la colonizzazione del “mondo della vita” da parte delle soverchianti forze del mondo dell’economia e della finanza mette in discussione la stessa possibilità di un dibattito pubblico costruito sulla regolare competizione di argomentazioni razionali, una maggiore attenzione agli aspetti del dibattito pubblico reale potrebbe essere funzionale a quell’ancoraggio alle “concrete condizioni di vita dell’individuo” cui Sen dimostra di tenere più che a qualsiasi altra cosa.

La grande importanza dell’opera di Sen, come del resto di quelle di Rawls e degli altri teorici della giustizia, va tuttavia ben oltre le singole lacune o i singoli punti di disaccordo che si possono riscontrare in essa. Questi incessanti tentativi, che in ultima analisi risalgono alla nascita stessa del pensiero razionale e del suo primo interrogarsi sul mondo, ci ricordano – è lo stesso Sen a sottolinearlo in conclusione del libro - che “nella società umana la generale aspirazione alla giustizia assai difficilmente potrà essere cancellata, anche se diversi possono essere i modi per realizzarla”. E questo contribuisce a tener viva la speranza anche quando la storia sembra imboccare un tornante nel quale di speranza se ne intravede ben poca. Potremmo quasi dire che l’ottimismo della ragione resiste nonostante il pessimismo della realtà!

(22 ottobre 2010)

Dopo la sintesi, ecco a voi l'analisi!

Fiat, la falsa scorciatoia della de-localizzazione

"Collegato lavoro", ingiustizia è fatta

Per una riconversione ambientale dell'industria. Una proposta alla Fiom
Sindacato, la difficile difesa del lavoratore globaledi Luciano Gallino,

la Repubblica, 26 ottobre 2010

Se si mettono insieme diagnosi e proposte formulate in tv dall'ad Sergio Marchionne si è forzati a concludere che il grosso della produzione di Fiat auto è ormai destinato a svilupparsi all'estero. Non si vede infatti come sia possibile raccordare le prime con le seconde.

Dal lato delle diagnosi, l'ad forse esagera quando afferma che l'Italia è al 118/mo posto su 139 per efficienza del lavoro, ma ha ragione nel dire che negli ultimi 10 anni l'Italia non ha saputo reggere il passo con gli altri paesi - aggiungendo subito che non è colpa dei lavoratori. Il problema è che da parte sua neanche la Fiat ha saputo reggere il passo con gli altri costruttori europei. Una parte delle difficoltà del gruppo proviene certo dalla situazione del paese. Però di suo, nel decennio, Fiat ci ha messo sia la difficoltà a produrre e vendere su larga scala modelli di fascia medio-alta, quelli su cui si guadagna sul serio (anche quando ne aveva di eccellenti, come accadde con l'Alfa 156), sia una organizzazione complessiva della produzione, e con essa della filiera della fornitura, che ha ridotto a livelli troppo bassi l'utilizzazione degli impianti nazionali. Si parla del 30-40 per cento, mentre gli stabilimenti francesi e tedeschi fan segnare tassi di utilizzazione all'incirca doppi.

Se questi sono i problemi cruciali di Fiat Auto, è arduo capire come il famoso piano Fabbrica Italia riesca a risolverli. Forse riducendo le pause da due di 20 minuti a tre di 10 minuti, come a Pomigliano e a Melfi? Oppure introducendo la nuova metrica del lavoro contenuta nel documento di aprile (19 pagine su 36!) che sotto l'etichetta dell'ergonomia intensifica in ogni minuto secondo la prestazione fisica e mentale dell'operaio? Allo scopo di far salire l'utilizzazione degli impianti la soluzione starebbe semmai nella concentrazione della produzione in due o tre stabilimenti, e nel completo ridisegno della filiera della componentistica, in modo da ridurre drasticamente i chilometri che ogni pezzo percorre prima di arrivare dove viene montato. Può anche darsi che la soluzione che Fiat ha in mente sia appunto questa. Ma se tale fosse il disegno, sarebbe preferibile dirlo, piuttosto che girare attorno alla questione insistendo sull'anarchia degli stabilimenti italiani che impedisce di produrre, per addetto, quanto in Polonia o in Argentina.

L'ad Marchionne ha anche detto - così riportano le cronache - che se le anomalie della gestione degli stabilimenti italiani cessassero, sarebbe disposto a portare il salario dei dipendenti a livello dei nostri paesi vicini. Questi sono la Francia, la Svizzera e l'Austria. Poco più in là c'è la Germania. Ora, nel 2008, il salario annuo lordo dei dipendenti dell'industria e dei servizi, esclusa pubblica amministrazione, istruzione, sistema sanitario e simili, era - a parità di potere d'acquisto - di circa 23.000 euro in Italia, 30.000 in Francia, 35-36.000 in Svizzera e Austria, 42.000 in Germania. Portare i nostri salari a livello dei vicini significherebbe dunque aumentarli tra il 30 e l'80 per cento.

Roba da correre subito, se uno ci crede, a sottoscrivere il piano Fabbrica Italia. Se non fosse che quel piano dovrebbe prima spiegare come si raddoppia o magari si triplica l'utilizzazione degli stabilimenti Fiat in Italia; come si articola la produzione di quei due terzi di auto che sono fabbricati al di fuori di essi; e come si pensa di affrontare nei prossimi anni un mercato europeo dove i costruttori francesi e tedeschi propongono al momento 20-22 modelli di auto ciascuno, grosso modo il doppio di Fiat, ed i consumatori probabilmente non aspettano il 2014 se hanno intenzione e mezzi per cambiare la macchina. In mancanza di questo corredo esplicativo, lo scenario cui dobbiamo guardare con rammarico e preoccupazione è una Fiat, unico tra i grandi costruttori europei, che in sostanza si accinge a fare del suo paese uno dei tanti in cui de-localizza secondo convenienza le sue produzioni.

(25 ottobre 2010)

lunedì 25 ottobre 2010

Dopo la serata da Fazio, urge la sintesi




Come donna mi unisco alla Litizzetto che lo ha vissuto come un concentrato infausto di potere, una specie di alieno atterrato dal CdA della FIAT (l'azienda più foraggiata al mondo dallo stato che la storia ricordi),che se potesse sfogare altrove i suoi istinti repressi, sarebbe più felice e potrebbe dare di più.
24 ottobre 2010

Sana e robusta Costituzione

di Piergiorgio Odifreddi , fonte: Repubblica online

Le recenti dichiarazioni dei presidenti della Repubblica e della Camera spingono a riflettere, rispettivamente, sullo stato di salute della Costituzione e della legge elettorale.

Cominciamo dalla prima, che viene tirata in direzioni opposte dalle opposte forze politiche. La destra sembra considerarla ormai obsoleta e buona solo a essere stracciata, mentre il centro-sinistra la esalta e la difende in maniera acritica e aprioristica. Come sempre succede, le posizioni estreme rischiano di essere entrambe sbagliate.

Se infatti la Costituzione non è certo tutta da buttare, sarebbe difficile sostenere che debba essere preservata intatta. A cominciare dal famigerato Articolo 7, che recepiva i Patti Lateranensi nella carta di quello che avrebbe dovuto essere uno stato laico, repubblicano e democratico. I Patti si aprivano invece con un’invocazione alla Santissima Trinità, proclamavano il cattolicesimo religione di Stato, facevano un esplicito richiamo allo Statuto Albertino del 1848, recavano la firma del Duce e il marchio del fascismo, e concedevano ai cattolici privilegi in aperta contraddizione con il resto della Costituzione.

Un articolo di tal genere, solo in parte rimediato dalla revisione dei Patti del 1984, non permette certo di considerare perfetta la Costituzione che lo contiene. E le modalità che hanno portato alla sua approvazione all’Assemblea Costituente, il 25 marzo 1947, grazie al tradimento dei comunisti, che unirono il loro voto a quello dei democristiani e della destra, dimostrano a sufficienza, nel caso ce ne fosse bisogno, che la Costituzione non è piovuta dal cielo come le Tavole della Legge. E’ invece “umana, troppo umana”: cioè, politica, troppo politica.

E se è politica, è non solo possibile, ma doveroso cambiarla quando le condizioni politiche cambiano, così come sono cambiate dal 1948 ad oggi. Naturalmente, l’unico modo democratico e corretto di cambiare la Costituzione sarebbe di farla riscrivere da una nuova Assemblea Costituente. Non certo di modificarla con colpi di mano quali le riforme a maggioranza, di cui si sono macchiati sia il governo Amato nel 2001, che il governo Berlusconi nel 2005.

Ma poiché un’Assemblea Costituente dev’essere eletta in qualche modo, si ripropone immediatamente il problema della legge elettorale. Il presidente della Camera si è finalmente accorto, bontà sua, che “il partito carismatico è il miglior strumento per vincere le elezioni, ma il peggiore per governare”. Magari un giorno si accorgerà che il problema è ben più grave, e in realtà non risiede nè nel partito carismatico, nè nel giustamente vituperato porcellum. Bensì, è ormai l’intero sistema democratico occidentale a far sì che le qualità (individuali o collettive) necessarie per vincere le elezioni non siano quelle necessarie per governare.

Anzitutto, perché il gioco e l’impegno politico richiedono ormai un coinvolgimento così totale, che possono impegnarcisi soltanto coloro che non hanno nient’altro da fare, o che non sanno fare nient’altro. E poi, perché i costi e le fatiche della competizione elettorale la rendono inappetibile a coloro che non ritengono di poter ricavare benefici dall’elezione. Il risultato è di fronte agli occhi di tutti, ed è misurabile dall’infimo livello intellettuale e morale della casta dei politici professionisti.

Ma ancora più grave è l’anacronismo del sistema democratico occidentale, che si fonda sulla delega in bianco del potere politico o amministrativo a rappresentanti eletti una volta ogni cinque anni. Lo dimostrano episodi traumatici come l’attentato dell’11 settembre 2001, quando nessuno dei governi occidentali aveva avuto mandato dagli elettori di dichiarare guerra all’Afghanistan e all’Iraq, e di invaderli militarmente. O la crisi economica del 2008, quando nessuno di quei governi aveva avuto mandato dagli elettori di spendere centinaia di miliardi di dollari per salvare le banche o ristrutturare l’economia mondiale.

La complessità globale dell’economia e la rapidità dei cambiamenti richiederebbero oggi un ripensamento dell’intero sistema di rappresentanza e di partecipazione politica. Ma invece di guardare a una nuova Bretton Woods e a una nuova Yalta, noi stiamo a discutere di lodi costituzionali e di leggi elettorali: anche sul Titanic si ballava, mentre la nave affondava…

domenica 24 ottobre 2010

State of the art secondo Scalfari

Il sasso istituzionale e lo tsunami politico

di EUGENIO SCALFARI


NON È soltanto un sasso nello stagno la lettera inviata da Giorgio Napolitano al presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato. Il Capo dello Stato si è limitato ad attirare l'attenzione del Parlamento e della pubblica opinione su un solo aspetto della legge sull'immunità delle massime cariche istituzionali presentata dal ministro Alfano, ma la logica che ha motivato i suoi rilievi fa parte d'una cultura istituzionale che inquadra una visione complessiva del bene comune e delle regole che ne rendono possibile la realizzazione. La legge Alfano è invece uno dei tasselli della costituzione materiale che Berlusconi e i suoi accoliti hanno in mente da tempo di mettere al posto della Carta vigente. Napolitano, definendo un articolo della legge Alfano "irragionevole e manifestamente contrario all'attuale articolo 90 della Costituzione", ha di fatto interrotto quel percorso obbligando la maggioranza a rimetterci le mani. Solo questo, ma ora quel sasso nello stagno si è trasformato in un maremoto politico che non riguarda il Quirinale ma Palazzo Chigi e il Parlamento.
L'articolo 90 stabilisce l'immunità del Presidente della Repubblica per quanto riguarda eventuali illeciti che possa commettere nell'ambito delle sue funzioni, con l'eccezione di due sole ipotesi: tradimento della Repubblica e atti contro la Costituzione per i quali il "plenum" del Parlamento può con un voto a maggioranza qualificata tradurlo dinanzi alla Corte che si autocostituisce in Alta Corte di giustizia.

Per illeciti che non riguardano la sua funzione il Capo dello Stato può invece essere inquisito e giudicato dai tribunali ordinari. Napolitano ha rivendicato questa immunità e soltanto questa, niente di più e niente di meno.
Stupisce che l'editorialista del Corriere della Sera Massimo Franco abbia avanzato il dubbio di irritualità sulla lettera di Napolitano. Le leggi di riforma costituzionale secondo la prassi debbono esser promulgate dopo la doppia lettura prevista dall'articolo 138 e la firma di promulgazione è considerata un atto dovuto. Ma nel caso specifico era stata creata una situazione di dipendenza del Capo dello Stato dal Parlamento che imponeva al Quirinale di rilevarne la stridente contraddizione ordinamentale. Irrituale è dunque quella norma contestata della legge Alfano, non certo la lettera del Presidente.
Si vedrà ora in che modo la questione sarà risolta dal Parlamento, a cominciare dal Senato. Ma l'intervento del Quirinale, al di là del tema specifico, ne ha aperti altri.
Alcuni di carattere costituzionale che Napolitano non ha sollevato ma che tuttavia emergono chiaramente; altri di carattere politico che esulano dalla competenza del Quirinale ma che tuttavia sono ora sotto gli occhi dei partiti e della pubblica opinione.

I temi costituzionali sono due. Il primo, messo in rilievo dall'ex presidente della Corte, Valerio Onida, sta nel fatto che la legge Alfano colloca il Presidente del Consiglio sullo stesso piano del Presidente della Repubblica dal punto di vista del delicatissimo tema delle immunità, con la differenza che il primo è indicato nella scheda delle elezioni politiche sulla quale il "popolo sovrano" appone il proprio voto, mentre il secondo viene eletto dal Parlamento. Si crea in questo modo un sistema duale al vertice dello Stato nettamente sbilanciato a favore dell'inquilino di Palazzo Chigi che può vantare la sua investitura popolare declassando il Capo dello Stato ad un ruolo puramente notarile senz'altra prerogativa che quella di certificare l'autenticità degli atti sottoposti alla sua firma.
L'altro tema consiste nella differenza tra il concetto di immunità e quello di impunità (l'ha sottolineato anche Luca Ricolfi sulla Stampa). L'immunità sospende la procedibilità del titolare di una carica istituzionale nel periodo in cui esercita le sue funzioni e limitatamente ai reati che può aver commesso relativi a quelle funzioni.
L'impunità invece copre anche illeciti che non riguardano le funzioni ed è ripetitiva se la stessa persona passa dalla carica che ricopre ad altra egualmente "immune" raffigurando in tal modo un salvacondotto valido per molti e molti anni. Come non vedere dietro una siffatta normativa far capolino la maschera di Silvio Berlusconi? È accettabile un salvacondotto di questo genere, per di più in presenza di una legge elettorale come quella attuale che affida alla sua discrezione la scelta dei candidati con un meccanismo elettorale che assegna alla coalizione vincente anche per un solo voto un premio nazionale per la Camera e premi regionali al Senato? Queste considerazioni debbono esser state ben presenti al Presidente della Camera. Fini ha infatti dichiarato ieri sera che l'immunità prevista dalla legge Alfano non può essere reiterabile.

* * *
È evidente che lo scontro tra queste opposte visioni istituzionali avrà conseguenze politiche che sono già visibili. Bene ha fatto il Quirinale a sottolineare ieri che i rilievi del Presidente riguardano specifici aspetti della legge Alfano mentre lo scontro politico e le sue conseguenze sono del tutto estranee alla competenza del Capo dello Stato. All'attenzione delle forze politiche c'è ora con rinnovato vigore un dilemma fondamentale: lo stato di diritto o il comando di una persona, il popolo sovrano e i suoi rappresentanti liberamente scelti o la cricca e la casta che pensa per tutti e provvede per sé? Questa è la posta ed è inutile e deviante anteporre i problemi del paese a questi che sembrano invece temi da intellettualoidi e da politicanti autoreferenti. I problemi del paese ci sono ben presenti e ne parliamo di continuo; sono quelli del fisco, dei rapporti tra le forze sociali, del lavoro, dei rifiuti di Napoli, della corruzione, delle infrastrutture, della crescita economica, dell'Università e della ricerca. Li ha risolti da solo Berlusconi? Li ha risolti da solo Tremonti? Li ha risolti da solo Bertolaso?
O dobbiamo sperare in una Madonna pellegrina e lacrimante? Come mai dopo tanti anni di governo quei problemi sono diventati voragine? Parlare di essi derubricando quello che tutti li ha determinati e ne subordina la soluzione a quel Salvacondotto che è la sola cosa che importa, è un depistaggio in piena regola e come tale va definito.

* * *
Le conseguenze politiche riguardano soprattutto l'opposizione, quella di sinistra, quella di centro e quella finiana.
È evidente e non da ora che la posta in gioco è la Costituzione. Ma ora, con l'arrivo al pettine di tutti i nodi irrisolti, la partita è giunta alla sua svolta che implica un'emergenza oggettiva. L'emergenza soggettiva era quella predicata anzitempo, una sorta di "al lupo al lupo" quando il lupo era ancora sulla montagna. Adesso il lupo è sceso in pianura, pronto a divorare le pecore se pecore resteranno. Per questo dico che adesso l'emergenza è oggettiva e questo impone alcune riflessioni.
1. Per cambiare la legge elettorale ci vuole uno schieramento che unisca tutto il centro e tutta la sinistra.
2. Se si va alle elezioni con questa legge ci vuole egualmente uno schieramento elettorale che unisca tutto il centro (finiani compresi) e tutta la sinistra, altrimenti mancherebbero i numeri per essere competitivi con l'avversario.
3. Una cordata di quest'ampiezza avrà bisogno d'un leader che copra con la sua autorevolezza tutto l'arco delle forze alleate e possa rappresentare il minimo comun denominatore che non è poi tanto minimo: combattere mafie e corporazioni, rilanciare la crescita senza abbassare la guardia sulla finanza pubblica, garantire i diritti e far rispettare i doveri, tutelare i ceti deboli, i poveri, la pari dignità delle persone e le pari opportunità nel lavoro e nell'istruzione, dare alle forze sociali il ruolo che loro spetta a fronte dei sacrifici che la modernizzazione e la globalizzazione impongono. Vi sembra molto "minimo" questo denominatore?
4. Se questo progetto è accettato (ed è l'unico che può evitare una vittoria del berlusconismo per i prossimi nove anni) esso comporta che non vi siano veti da parte di nessuno e contro nessuno. È una sorta di lodo cui tutta l'opposizione è chiamata. Poi, passata la stretta tra Scilla e Cariddi, ognuno riprenderà la propria navigazione e il denominatore minimo cederà il passo ai denominatori massimi che ciascuna forza politica ha il diritto di proporsi e di proporre in libera competizione.
Ma oggi non siamo di fronte a una libera competizione, siamo di fronte appunto ad una concezione radicalmente diversa della democrazia e dello Stato. Questo è il salto. Chi non lo fa si perde e perde il paese.

Focus sull'Europa

Verso un nuovo patto di stabilità europeo?

giovedì 21 ottobre 2010 13:26 -

di Alfonso Gianni, Sinistra Ecologia Libertà

Il punto interrogativo è d’obbligo. Infatti le nebbie non sono ancora diradate, malgrado le oltre 13 ore della riunione dei ministri finanziari a Lussemburgo e il contemporaneo vertice politico a tre, Medvedev, Sarkozy e Merkel, gli ultimi due ritratti a spasso sulla spiaggia di Deaudeville, la stessa del famoso film “Un uomo, una donna” di Lelouch. Tanto è vero che, in attesa di mettere le mani sul rapporto finale preparato dalla task force guidata da Herman Van Rompuy in vista del vertice europeo di fine ottobre, tutti i commenti giornalistici sono assai prudenti e il condizionale regna sovrano. Il più deciso è Tremonti, cui il linguaggio ecclesiale sta in proporzione alle sue manie di grandezza. “Habemus novum pactum” ha proclamato con enfasi, ma gli fa da controcanto Juncker, presidente dell’Eurogruppo, con una frase altrettanto prevedibile “il diavolo sta nei dettagli”, ovvero prima di entusiasmarsi guardiamo bene di cosa si tratta.
In ogni caso, tenendo soprattutto conto della dichiarazione congiunta Sarkozy-Merkel sembra evidente che siamo di fronte a un tra l’acceso rigorismo tedesco ed una inclinazione più morbida voluta dai paesi mediterranei, con a capo la Francia di Sarkozy, feroce in patria quanto malleabile all’estero. In sostanza la riforma del patto di stabilità avverrà lungo due tappe. La prima diventerà operativa nel 2012 e modificherà in senso rigorista la normativa secondaria della Ue. La seconda tappa, invece, prevede la modifica vera e propria dei trattati, almeno su due punti. Il primo concerne la costruzione di un fondo contro i pericoli di default dei paesi dell’Unione, che vedrà anche la “partecipazione del settore privato”. Ma i modi di alimentazione e di funzionamento di questo fondo rimangono del tutto indeterminati. Il secondo prevede addirittura la sospensione del diritto di voto di quei paesi membri incorsi in violazioni gravi del patto di stabilità.

Come si vede la logica del “sorvegliare e punire” resta perfettamente in piedi, con qualche leggero ammorbidimento sulle sanzioni. In particolare sparisce l’obbligo per i paesi il cui debito pubblico supera il 60% del Pil di ridurre la parte eccedente di un ventesimo all’anno, che avrebbe costretto questi paesi ad avanzi primari da record ben difficilmente realizzabili. Il che ha fatto storcere il naso ai rigoristi, come Jurgen Stark, uno dei sei membri del comitato esecutivo della Bce e tra gli estensori dell’originale patto di stabilità negli anni novanta, che considera i risultati della riunione di Lussemburgo molto inferiori alle proposte iniziali della commissione preposta, mentre al contrario assai più morbida è la dichiarazione del ministro delle finanze francese Christine Lagarde che, rispondendo alla metafora del diavolo, replica che non sono i particolari che contano ma l’impianto generale del “nuovo” patto.

Comunque sia la direzione che l’Europa sta prendendo è tutt’altro che positiva. Certamente siamo a una svolta. L’Europa non è più soltanto un’unione monetaria, ma diventa anche economica e fiscale, al punto che le leggi finanziarie dei singoli paesi diventano un’articolazione predeterminata delle decisioni di Bruxelles. Però la cessione di sovranità dei paesi membri non solo avviene in assenza di un’Europa politica e di un sistema di governo della medesima effettivamente democratico, visto che il parlamento eletto con metodo proporzionale conta assai meno della Commissione designata dai governi, ma il contenuto della politica economica che si esprime attraverso queste decisioni segna una decisa svolta a destra di fronte alla crisi. Infatti il rigore finanziario contraddice alla radice la necessità di un corposo intervento del pubblico nell’economia per modificare il modello di sviluppo che attraverso sovrapproduzioni di merci non indispensabili e spaventose bolle finanziarie ci ha trascinato nella più grande crisi dopo il ’29.

In questo quadro anche le cose di buon senso perdono di significato o addirittura ne acquistano uno opposto. Mi riferisco in particolare a ciò che Tremonti vanta come un suo successo, e che in realtà non sarebbe mai stato perseguito senza l’influente mediazione francese. Ossia la considerazione del debito privato oltre che quello pubblico nella valutazione del debito complessivo dei singoli paesi. Era questa una proposta che alcuni di noi avanzarono, sulla scorta di un documento di 85 economisti, che si sono riproposti più numerosi di fronte alla crisi attuale, fin dai tempi del breve governo Prodi, quando le condizioni della economia internazionale erano, o ancora apparivano, ben diverse da quelle attuali. Naturalmente non fummo ascoltati, visto che la linea rigorista di Tommaso Padoa Schioppa prese immediatamente il sopravvento nella compagine di governo. Se così non fosse stato si sarebbe scoperto facilmente che le condizioni dell’Italia non erano poi così tristi da dovere stringere i cordoni della borsa al punto da venire meno alle più elementari esigenze dello sviluppo economico e dello stato sociale, nonché del miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.

Con i valori di oggi, se si tenesse conto del debito privato, si vedrebbe che i paesi decisamente fuori controllo sono l’Irlanda e la Grecia, dove l’indebolimento privato è assai elevato, mentre la Spagna pur stando meglio si troverebbe sull’orlo di un burrone. Italia e Belgio, additati come gli ultimi della classe già nel 1992, quando venne fatto il trattato di Maastricht, sarebbero invece in migliori condizioni. D’altro canto, mentre il prodotto interno lordo, strumento come sappiamo assai rozzo , ma che non è ancora stato sostituito, è un flusso, la ricchezza finanziaria delle famiglie costituisce uno stock. Come osservano diversi economisti è fuori di senso pagare il debito pubblico, che è uno stock, con il Pil, che è un flusso. Infatti la nuova aggressività della Ue nei confronti del debito pubblico italiano rischia di venire risolta con una nuova (s)vendita di beni pubblici, ovvero di stock di patrimonio pubblico. Al contrario bisognerebbe aggredire lo stock rappresentato dalla ricchezza finanziaria delle famiglie. Particolarmente in Italia ove il tasso di patrimonializzazione della ricchezza è tra i più elevati.

In altre parole la nuova finanziaria di Tremonti più che un crimine è un errore, quindi peggio, come avrebbe detto Fouchè. Bisognerebbe al contrario agire sullo spostamento della pressione fiscale sulle rendite, sia aumentando l’aliquota almeno al 20 per cento, sia introducendo una patrimoniale (con le dovute franchigie in entrambi i casi per tutelare il piccolo risparmio e la piccola proprietà) che permetta un’impennata di flussi nelle entrate dello stato da spendere per aumentare la domanda interna di consumi e di investimenti, non tanto quantitativamente quanto qualitativamente.

Allo stesso modo la riforma che si profila del patto di stabilità europeo è foriera di nuovi disastri perché anziché agire su una crescita di nuova qualità, tale da favorire la ricchezza culturale e materiale del continente e dei singoli paesi, quindi la buona occupazione e i soddisfacenti tenori di vita, produce una nuova stretta rigorista che premia solo quei paesi, Germania in testa, che hanno già un forte apparato produttivo capace di competere nelle esportazioni su scala mondiale.

E’ una prospettiva miope anche per la Germania. Nella competizione fra Cina e Usa, di cui la pericolosa guerra delle monete che si è aperta è solo uno degli aspetti, anche il grande paese manifatturiero tedesco è destinato a soccombere. Se si vuole garantire la pace e costruire un’uscita dalla crisi che non allarghi a dismisura le diseguaglianze e gli squilibri mondiali, ci vuole un’Europa capace di una vera e profonda riforma dei suoi trattati ispirata alla convergenza fra i paesi membri, alla piena e buona occupazione, alla difesa dei beni comuni e del ruolo dello stato sociale. Un’utopia? Per di più nel mezzo di una grande e sconvolgente crisi, con una sinistra che gode di cattiva salute? Sì certo, ma quella di Altero Spinelli, di Eugenio Colorni, di Ernesto Rossi che stilarono il manifesto di Ventotene quando ancora il nazismo infuriava in Europa, lo era molto di più. Eppure di strada ne ha fatta.

Alfonso Gianni

sabato 23 ottobre 2010

La parola a Nichi






22-10-2010
VENDOLA CHIEDE PIU' SINISTRA, TENDE LA MANO AL PD E PARLA COL CENTRO


Una ''alleanza innovativa'' che vada dal Pd alla Federazione della sinistra, senza lasciar fuori i 'grillini' e che ''assuma le primarie non come gioco di societa' ma come uno strumento di dissequestro della politica che torni bene pubblico''. E' quella tratteggiata da Nichi Vendola, nel lungo discorso (circa due ore) che ha aperto il primo congresso di 'Sinistra ecologia e liberta'' a Firenze.

Vendola ha iniziato con una forte autocritica, quando ha ammonito che ''abbiamo il dovere di fare i conti con tutte le nostri sconfitte e con tutta la nostra sconfitta'' e ha ricordato che ''per paura di perdere la sinistra si e' persa''. Pero', ha rivendicato con orgoglio, ''la sinistra non e' una nicchia ideologica, non e' una rendita di posizione, ma e' il futuro del Paese''. Chiaro il messaggio al Pd: ''Io chiedo: la sinistra e' veramente un impedimento a vincere o questo Paese ha un disperato bisogno di sinistra per ritrovarsi, per uscire dal proprio smarrimento?''. Per il governatore della Puglia, Sel deve parlare ''con tutti gli attori del centrosinistra'': con l'IdV, con la Federazione della Sinistra, con il Partito socialista e i 'grillini'.

L'obiettivo e' quello di una sinistra unita: ''Non dobbiamo innamorarci del partito, ma viverlo come uno strumento: l'obiettivo e' la sinistra, l'Italia, il cambiamento''. Non solo: Sel guarda ''con interlocuzione al centro'', nella convinzione che e' necessario ''parlare con tutti'' e ''cercare anche nell'altro un pezzettino di verita''.

Vendola ha affrontato i problemi del mondo, della globalizzazione, a partire dall'11 settembre. ''Quel giorno abbiamo detto che siamo tutti americani e abbiamo fatto bene a dirlo, non ci puo' non essere una scelta di campo, senza se e senza ma, per le vittime''. Pero', ha aggiunto, ''ci sono 11 settembre che abbiamo frequentato poco, ci sono le Twin Towers dei poveri, ci sono le Twin Towers rovesciate dei 12 mila morti nel mare Mediterraneo dei naufraghi''. Centrale, nell'intervento di Vendola, il tema del lavoro e della precarieta': ''Se la modernita' e' Marchionne ho l'impressione che sia tutta una bolla mediatica e politica'', e comunque ''e' un'idea di modernita' regressiva rispetto ai rapporti sociali''. Al contrario, ''modernita' e' liberta', centralita' delle relazioni sociali, rapporto con l'ambiente, relazione non gerarchica e violenta tra uomo e donna''. Le risposte alla crisi, pero', ha detto, sono state inefficaci: ''Oggi non si puo' discutere chi abbia generato la crisi, tanto che l'iper-liberista Tremonti puo' svolgere tutte le parti in commedia: fustigatore di banchieri, affamatore del popolo, critico no-global del sistema''.

Per la capogruppo al Senato Anna Finocchiaro, Vendola si conferma ''interlocutore naturale'' del Partito democratico e per quanto riguarda la leadership, afferma, ''per il Pd il segretario e' il candidato premier'' ma se la coalizione ''esigera' una rappresentanza altra'', ''che sia cosi'' perche' ''l'importante e' che noi siamo capaci di diventare maggioranza nel Paese''. ''E' del tutto condivisibile l'immagine evocata da Vendola della trasformazione necessaria, ma non credo che quegli obiettivi si possano realizzare con l'Udc'', commenta il segretario del Prc Paolo Ferrero che dice si' a una ''alleanza per cacciare Berlusconi'' ma ''le differenze non sono scomparse e anzi sono per certi versi piu' pesanti''.

''Prima si fa l'alleanza innovativa, con un programma concreto, comprensibile e condiviso, poi si fanno le primarie. Su questo modo di procedere trovera' certamente d'accordo i socialisti'', conclude Riccardo Nencini (Psi).

lunedì 18 ottobre 2010

We have a dream




Non si può essere prigionieri di vecchie etichette della sinistra. Molti vorrebbero che mi fregiassi del titolo di leader della sinistra radicale, ma non farò loro questo regalo. Non per furbizia, ma perché il problema è che noi non stiamo combattendo per affermare i diritti di una minoranza. Noi siamo il seme di una nuova sinistra: penso che parlare di lavoro e della sua dignità significhi parlare a tutti gli italiani. Io voglio vincere, voglio che la sinistra torni a vincere.

Nichi Vendola.

Faremo le barricate



Le due anime di Veronesi

di Alessio Quinto Bernardi, lunedì 18 ottobre 2010



Due sono le aspirazioni che covano non tanto segretamente nell'animo del noto oncologo e politico italiano Umberto Veronesi, già ministro della Sanità nel governo Amato ed attualmente senatore in quota PD: l'una medica ovvero la "cura definitiva" per il cancro, l'altra politica ovvero la presidenza dell'agenzia nucleare. Già proprio così. Cose che parrebbero anche alla casalinga di Voghera in chiaro contrasto, sapendo tutti che le radiazioni sono cancerogene. Si profila uno scenario paradossale nel quale a San Pietro si propone la rotazione delle cariche e gli viene offerta la portineria dell'Inferno in cambio delle chiavi del Paradiso. E il santo che fa? Ovviamente accetta! Ne dubitavate.







Si tralasci il dirimente esempio di corretta applicazione del metodo scientifico offerto dall'indiscusso "esperto di salute" sugli inceneritori che non farebbero male di perchè "i suoi esperti gli hanno giurato"e si salti a pie' pari dopo un doppio salto mortale anche sulla posizione riguardo gli OGM, che, in tempi non sospetti, il professore ha sostenuto persino con la sottoscrizione di un manifesto . Umberto Veronesi sembrerebbe quasi predestinato alla guida dell'ASN: è uno scienziato "futurista". Vive con trasporto viscerale la modernità ed il primato tecnologico. Sì agli OGM, sì agli inceneritori, sì al nucleare! Ma anche sì alla panacea del cancro. Con piglio marinettiano, mentre conferma a Belpietro durante la trasmissione Mattino 5 la sua disponibilità alla presidenza, declama «i nuovi reattori sono bellissimi, potenti e non c'è alcun dubbio sulla loro sicurezza». Ma in natura nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma, nevvero? I reattori oltre all'energia producono anche rifiuti che nella fattispecie prendono il nome di scorie nucleari. Tuttavia non c'è di che preoccuparsi. Tanto in Italia con i rifiuti e loro traffico e smaltimento siamo messi benissimo già prima dell'avvento dell'atomo berlusconiano: un'avanguardia europea. Ma ci rassicura il luminare "Scorie nucleari? Niente pericoli". Chi gliel'avrà suggerito stavolta? Alcune neoplasie come le leucemie, il tumore del polmone, del colon, della mammella, della tiroide e della vescica sono particolarmente sono particolarmente sensibili agli effetti delle radiazioni. In un articolo recentemente pubblicato su Cancer Research si sostiene, vieppiù, che le radiazioni oltre a generare un singolo tumore, ne possono produrre multipli.







Per uomo come Berlusconi, che viene mediaticamente propinato come il risolutore di ogni problema, il ritorno all'atomo rappresenta una ghiotta opportunità scenica, che non s'è fatto sfuggire. Ed intanto avanza l'agenzia nucleare, la cui presidenza, in accordo a cotanta speme, deve certo toccare a qualche insigne scienziato: un ingegnere, un fisico, un chimico. Macchè! Mettiamoci un famoso oncologo: dà maggiore sicurezza ed è da comunisti dire che le radiazioni sono agenti eziologici del cancro. "Foglia di fico" o meno la figura di Veronesi (ma anche la sua persona del resto) ben si presta al ruolo. Lo spot del nucleare garantito con Veronesi funziona come le pentole della Mondial Casa o i materazzi della Eminflex (in offerta speciale alle prima 100 chiamate da più di vent'anni). Il no del PD di Veronesi al programma nucleare del governo è netto e lo ribadiscono i senatori Della Seta e Ferrante che parlano “di una pericolosa avventura che finirà nel nulla”. La nomina di Veronesi, seppur nota, non è stata digerita e gli stessi senatori hanno chiesto le sue dimissioni da parlamentare. Paolo Brutti, responsabile nazionale Ambiente, Infrastrutture e Territorio per l'Italia dei valori con evocazione cinematografica spiega "come il professor Immanuel Rath, alle prese col fascino ambiguo, ha ceduto all'angelo azzurro Marlene Dietrich, così Umberto Veronesi ha ceduto all'ultima tentazione, sposando la battaglia nucleare". Al di là della connotazione politica, delle eventuali dimissioni o della competenza in materia nucleare del professore, mi chiedo, in scienza e coscienza, se vi sia compatibilità morale tra la professione medica e la presidenza di un'agenzia nucleare.

domenica 17 ottobre 2010

L'altra metà del cielo

Il contributo delle scrittrici allo sviluppo della letteratura nella Cina contemporanea


Fonte: www.noidonne.org

Alla nascita della Repubblica popolare di Cina il numero delle scrittrici cinesi è assai ridotto. Solo con la fine della rivoluzione culturale cominciano ad affacciarsi sul panorama letterario diverse scrittrici: alcune si sono affermate negli anni ‘50, altre iniziano la loro carriera letteraria agli inizi degli anni ‘60, prima dello scoppio della rivoluzione culturale, altre ancora, cresciute a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, appartengono alla generazione delle 'giovani istruite' (zhishi qingnian) costrette a trasferirsi nelle campagne durante gli anni della rivoluzione culturale.
Attorno alla metà degli anni ‘80, grazie anche alla disponibilità di opere tradotte in lingua cinese di scrittrici occidentali come Margherite Duras e Simone De Beauvoir, che favoriscono la presa di coscienza della donna cinese come soggetto, si afferma un genere letterario tutto al femminile (nüxing wenxue), i cui temi di fondo sono la famiglia, l’amore, la vita quotidiana, la carriera. Nel racconto, quasi sempre, la figura centrale è una donna. Nelle loro opere le scrittrici mettono in risalto il desiderio di eguaglianza e indipendenza delle donne cinesi nei sentimenti, in famiglia e nel lavoro. Le narrazioni delle scrittrici sono di solito ricche di metafore poetiche e di immagini, intrise di emozioni e sentimenti. Lo stile adottato è semplice e delicato, traendo quasi sempre spunto dall’esperienza personale. Di questo periodo, particolarmente rilevante è il contributo della scrittrice taiwanese Chen Ping (pseudonimo San Mao, 1943-1991). Morta suicida dopo due matrimoni d’amore intensi e sfortunati, e dopo un’esistenza avventurosa che le fornisce abbondante materiale per i suoi romanzi, diventa una sorta di modello romantico soprattutto per le ragazze degli anni ‘80, tanto da dar vita ad un vero e proprio fenomeno sociale, cui è attribuito il nome di febbre di San Mao (San Mao re). Nel clima di generale allontanamento dalla politica e dalla letteratura ideologicamente impegnata, che contraddistingue in particolar modo la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80, diversi sono i generi letterari che emergono: a volo di farfalla, ricordiamo qui i racconti e i romanzi della c.d. 'letteratura della ferita' (shanghen wenxue), che descrivono le violenze inflitte alla gente comune negli anni della rivoluzione culturale e denunciano il decennio della “nera dittatura in campo artistico e letterario” (wenyi heixian zhuanzheng), e le opere della c.d. 'letteratura delle radici', indifferente al mito della modernità e alla ricerca costante delle origini della civiltà cinese, delle sue credenze magiche e religiose. Accanto a questi due generi si afferma pure una corrente letteraria amorosa d’appendice, entro cui possiamo collocare le opere della citata scrittrice taiwanese San Mao. Certo, non mancano in quegli anni esperienze letterarie meno introspettive e meno romantiche, come quelle degli scrittori tesi a conciliare le esigenze di libera espressione artistica senza tuttavia rinnegare il partito e il nuovo corso cinese. Sono i letterati della perestrojka cinese. Lo sforzo di conciliare linea del partito ed esigenze della Cina moderna produrrà testi di grande valore, tra cui quelli della scrittrice Yang Jiang (1911), della quale ricordiamo Gan xiao liu ji (Sei capitoli di ricordi della scuola quadri, 1980) e Mengpo cha (1983 - II tè dell’oblio, Einaudi contemporanea 1994). In quest’ultimo libro è descritta l’opera di rieducazione in campagna dell’autrice e del marito tentata negli anni della rivoluzione culturale. La narrazione si concentra su piccoli episodi della vita quotidiana, dove i lavori a cui ciascuno è destinato (pulizia del cortile, dei bagni, lavori domestici) 'hanno' un fine pedagogico. Ma, alla resa dei conti, il risultato è relativo: “... In fondo a me stessa, continuavo a sentirmi la coscienza pulita... I colpi, gli insulti, le umiliazioni, non erano riusciti a piegarmi”. Di questa straordinaria scrittrice si ricorda soprattutto il libro Xizao (II bagno, 1988), il cui titolo allude al lavaggio ideologico al quale erano tenuti gli intellettuali per affrancarsi dalla mentalità borghese. Altro indirizzo che susciterà particolare interesse negli anni ‘80 è quello che si richiama alla c.d. 'letteratura della riforma' (gaige wenxue) e che guarda con ottimismo alla Cina della campagna delle 'quattro modernizzazioni' (1982-86), ponendo con forza al centro del dibattito letterario il tema del processo di rinnovamento della società. Come si è già accennato, allo sgomento successivo alla fine della rivoluzione culturale nasce una 'letteratura d’introspezione' (fansi wenxue), alla quale sono da collegarsi alcuni degli esiti più interessanti sul piano artistico della letteratura dei primi anni ‘90. Non manca, tuttavia, un certo gusto per il realismo di una parte della produzione letteraria, che contraddistingue sia gli anni ‘80 che ‘90, da cui scaturisce un fenomeno letterario sui generis, a metà tra giornalismo e narrativa: la c.d. 'letteratura di reportage' (baogao wenxue), che avrà stretti intrecci con il 'nuovo romanzo sulla terra natale' (xin xiangtu xiaoshuo). Nel 'nuovo romanzo…' si affronta, come in altre esperienze letterarie precedenti (si pensi al romanzo Musilin zangl del 1988, in italiano “Funerale musulmano”, della scrittrice Huo Da: storia di una famiglia musulmana in Cina, attraverso cui l’autrice cerca di costruire un ponte tra mondo antico e moderno), il tema del rapporto tra arretratezza e sviluppo, tra città e campagna, tra tradizione e modernità, non sempre risolto in chiave ottimistica. Altro genere letterario che avrà successo è quello conosciuto con l’espressione xiandaipai xiaoshuo (romanzo modernista) tramite cui gli scrittori rielaboreranno la lezione del 'modernismo occidentale'. Quest’ultimo influenzerà i lavori della scrittrice Can Xue (1953), dal linguaggio onirico e fortemente simbolico, della quale esistono in italiano alcuni racconti raccolti sotto il titolo di Dialoghi in cielo (Roma-Napoli, Teoria 1991).

L'altra metà del cielo

In fila per l'abbraccio di Amma, la sacerdotessa della felicita'


Fonte: www.corriere.it 10/14/2010

MILANO - Qualcuno medita, forse, qualcuno dorme. O cerca la concentrazione per ascoltare il suo messaggio, lei parla sì e no dieci minuti, prima e dopo, per 24 ore al giorno, abbraccia: ti offre un petalo di rosa con una caramella, ti stringe al petto come una madre, sussurra una preghiera. Si chiama Amma, Mata Amritanandamayi, è una grande anima, mahatma, come Gandhi, conosciuta in tutto il mondo come the hugging saint, la sacerdotessa dell'abbraccio.

È arrivata al Palasesto di Sesto San Giovanni martedì, entro stasera avrà abbracciato diecimila persone, dicono gli organizzatori (cinquecento volontari). In quarant'anni lo ha fatto con altri trenta milioni di «figli». È un gesto comune per noi toccare gli altri, in India non lo è, lei ha cominciato da ragazzina, oggi ha 57 anni, è il suo modo di salvare il mondo, predica amore e raccoglie fondi. Adesso è qui, Sesto San Giovanni è la seconda tappa del tour europeo.

Sta seduta con le mani giunte, vaste un sari bianco, ha un viso di bambina, i capelli neri raccolti, le guance morbide, parla, prega, canta. Dice cose come «la vera felicità è dentro di noi» o «l'amore è la nostra vera essenza» e ad ogni pausa è un lungo applauso, prima ancora che l'interprete traduca la sue parole. La sua lezione è nota, quello che fa i suoi «figli» lo sanno e Internet lo ha moltiplicato (embracingtheworld.org): opere di bene, più o meno tutte. Microcredito per le donne, diecimila borse di studio, 40 mila case per senza tetto, tre orfanotrofi, due milioni di pasti gratuiti all'anno e 73 mila per gli homeless negli Stati Uniti, 1.600mila pazienti curati gratuitamente, aiuti finanziari a vita per 100 mila vedove.

A renderle omaggio alle otto di sera arrivano Dario Fo e Franca Rame, l'attore Beppe Convertini e il vicesindaco di Sesto che annuncia la cittadinanza onoraria per Amma, perché è il settimo anno consecutivo che sceglie Sesto come tappa italiana. Le offrono una ghirlanda di fiori, lei restituisce petali sulla testa. Franca Rame prende la parola e la presenta come «una grande donna», parte dall'Afghanistan e arriva in pochi minuti alla conclusione: «Vogliamo la pace totale, subito». Come Amma. Applausi.

Alle nove di sera riprende il rito dell'abbraccio o darshan. Nel palazzetto si riforma la fila infinita. In centinaia aspettano da ore, ma nel frattempo, come da programma della manifestazione, hanno visitato i numerosi «shops» e si sono nutriti, si mangia pizza e si beve chai, menu indiano e italiano, costano 8 euro, è l'unica raccolta fondi, l'ingresso è gratuito. Arrivano ragazzi tatuati in felpa e cappuccio, anziani, molte donne, molti vestiti di bianco, ci sono famigliole, bimbi che gattonano. Cosa si aspettano? Dina Bizzi, golfino e collana di perle, arriva da Novara con marito e figlio più fidanzatina, per loro è la prima volta. «Qui c'è serenità. Mi piace l'aria che si respira. Speriamo di fare in tempo a ricevere il darshan, siamo arrivati ore fa e domani mattina si lavora». Alessio, impiegato trentenne di Varese, l'ha già provato, viene da tre anni: «Io non ci credo ma mi emoziona. E qui sto bene».

venerdì 15 ottobre 2010

L'altra metà del cielo

Storie di violenza quotidiana
14/10/2010 14:37


Fonte: www.deltanews.net

Roma - Donne uccise in famiglia nel 2007: : 107

Donne uccise in famiglia nel 2006: 101

Donne uccise in famiglia nel 2008: 112

Donne uccise in famiglia nel 2009: 119

Totale donne uccise in famiglia in Italia 2006 – 2009: 439

La storia dell’omicidio di Sarah suscita emozioni di pancia, di indignazione e di stupore. Io invece non mi meraviglio né mi stupisco ma assisto solo all’ennesima violenza consumata tra le mura domestiche.

Non è la minigonna di una tristemente nota sentenza della Cassazione a “provocare” la violenza, anche perché la violenza non è provocata ma agita da un soggetto nei confronti di un altro. Anzi poiché parliamo di “violenza di genere” è la violenza agita da un sesso, quello maschile, nei confronti di un altro, quello femminile.

Non è la strada buia o il parco della Caffarella il teatro delle violenze, ma è la famiglia, il posto in cui più che altrove il rapporto tra i sessi è connotato come rapporto di potere.

Sarah viene uccisa perché rifiutava le avance dello zio, come M. è stata violentata tutti i giorni dal marito, come F. ha subito la violenza da parte del padre, come P. è stata minacciata con la pistola dal marito, come L. è stata costretta dal compagno a prostituirsi, come S. ogni giorno viene chiamata “puttana” dal marito, come N. che è riuscita a scappare dal marito che ha tentato di ucciderla mentre era in gravidanza.

La storia di Sarah è purtroppo una storia tra tante, una storia ennesima di violenza domestica.

Come mi ha detto un amico qualche tempo fa, “fare la fidanzata o la moglie è il lavoro più pericoloso che c’è per le donne” ed in effetti come dargli torto visto che, in Italia, il 70% delle violenze alle donne avvengono tra le mura domestiche e che la violenza alle donne è nel mondo la prima causa di morte e di invalidità delle donne, ancor più del cancro, degli incidenti stradali e perfino della guerra.

Sono dati che dovrebbero allarmarci, inquietarci o almeno incuriosirci e invece no. Rimangono lì, confinati in un posto segreto e inaccessibile, sottratto allo sguardo pubblico, che preferisce concentrarsi su particolari morbosi, indignarsi per qualche ora, creare inutili gruppi di facebook (ma a cosa servono? a riconoscersi? a contare lo sdegno? a dare numeri al dolore?) e, dulcis in fundo, a fare trasmissioni in cui si guarda il dolore.

In questo modo ci illudiamo di guardare il dolore, la violenza da vicino ma lo facciamo solo per potercene allontanare. “Facciamo sempre più fatica”, scrive Barbara Duden “a distinguere tra ciò che è certamente visibile e la concretezza simulata di affascinanti ipotesi. Vediamo sempre più quello che ci viene mostrato. Ci siamo abituati a farci mostrare qualsiasi cosa e crediamo, in questo modo, di vedere “illimitatamente”. Questa tendenza alla visualizzazione presuppone una tendenza ad attribuire lo status di realtà solo a ciò che può essere registrato strumentalmente”. Quello che vediamo, anzi quello che ci facciamo raccontare diventa ciò che vogliamo vedere, l’unica realtà possibile, l’unica realtà accettabile, posizionata però su un piano falsato, non autentico. E quello che “vediamo” sono allora storie di “straordinaria follia”, storie che chiedono al nostro sguardo di essere viste come eclatanti, assurde, straordinarie.

Ma se potessimo guardare meglio, più da vicino, scopriremmo che sono storie del tutto “ordinarie”, comuni anche banali, come banale sa essere solo il male. Sono storie di donne che incontrano un uomo violento e la violenza ha mille modi per manifestarsi: può essere la violenza lenta e quotidiana di chi ti dice che non vai bene così e per te, donna da millenni abituata, anzi indotta, ad aver bisogno dello sguardo maschile, dell’approvazione maschile questo è già qualcosa che si incastra alla perfezione come il tassello di un pericoloso mosaico. Sono storie di donne che subiscono una violenza, a tutti i livelli, sia psicologico che fisico, e nemmeno riescono a nominarla come tale. “Mi marido me pega lo normal”, come il titolo di un bel libro di Miguel Lorente Acosta.

“Mio marito non è un uomo violento come quelli che sento alla televisione”, come se la televisione fosse ormai diventato il metro per valutare le nostre sensazioni, per riconoscere loro legittimità. Quello che ci mostrano diventa reale, più reale della realtà che è sotto i nostri occhi, più reale di quell’uomo che ogni giorno ci chiama “puttana” come se niente fosse come se fosse normale, di quell’uomo che ci annienta e che ci violenta, come se niente fosse come se fosse normale.

Allora tutto diventa normale, semplicemente perché succede. Una “anormale normalità” che si finge di non vedere, come la polvere che si nasconde sotto il tappeto. Solo che quando poi il tappeto viene spostato e viene fuori tutta la polvere che poco per volta abbiamo accumulato, ci meravigliamo, ci stupiamo, ci indigniamo e soprattutto ci dimentichiamo che siamo stati noi stessi a nascondere la polvere sotto il tappeto per non vederla. La violenza contro le donne è la storia di questa polvere nascosta, una polvere che è fatta di violenze quotidiane, violenze della porta accanto. Non violenze di maniaci, stranieri, devianti, ma, molto semplicemente, violenze di uomini contro le donne. Le storie di quotidiano orrore di queste donne sono storie fatte di polvere quotidianamente rimossa, nascosta, granello dopo granello, giorno dopo giorno. Storie nascoste in quella quotidianità che non fa notizia e finché non verranno uccise nessuno ne parlerà e quindi “non esisteranno”. Queste donne e la loro storia di quotidiana violenza inizieranno ad “esistere” solo da morte, solo da morte verranno “guardate”, “mostrate”, persino esibite. In una parola: esisteranno. Ma anche in questo caso esisteranno non solo su un piano falsato, quello che scegliamo di guardare (senza vedere), ma esisteranno anche per poco tempo, giusto quello che serve per smaltire l’onda emotiva.

Da vive la loro storia è invisibile, invisibile come solo le cose che sono sotto i nostri occhi ogni giorno possono esserlo, invisibile come le cose che non vogliamo vedere o che non possiamo vedere, invisibile come tutte le cose scomode da guardare. E allora continuiamo a guardarle da morte queste donne. Lascio a chi vuole farlo il commuoversi guardando i filmati e le foto di Sarah (o di tutte le altre donne uccise), a me interessa altro, interessa prima di tutto capire perché succede.

Vogliamo parlare di questo o vogliamo continuare a stupirci che succedano storie come quella di Sarah, come quella di M., come quella di T., come quella di P., come quella di F., come quella di S., come quella di N.?

Non è la furia omicida né il gesto folle di un maniaco né è qualcosa che appartiene allo “straniero”, non è nemmeno una questione da ridurre a meri dati biologici, ma soprattutto la violenza contro le donne non è un problema di ordine pubblico, anzi, al contrario è di ordine strettamente “privato”, proprio quel privato sottratto allo sguardo pubblico, quel privato delle nostre case, dei nostri condomini, delle stanze dei pranzi della domenica.

La violenza contro le donne non è nelle strade di periferia né al parco della Caffarella: la violenza contro le donne è un dato strutturale di questa società e di questa cultura e questo vuole anche dire che, invece che distogliere lo sguardo, potremmo fare molto per cambiarla.

“Ci sono momenti nella vita nei quali diventa assolutamente necessario sapere se è possibile pensare in modo diverso da come si pensa, percepire in modo diverso da come si vede, perché senza questa distanza non sarebbe più possibile vedere e riflettere oltre. Senza questa curiosità, la ricerca non è altro che una legittimazione di ciò che già si sa. Soltanto così si può osare scoprire fino a che punto sarebbe stato possibile pensare e percepire in modo diverso” (Foucault)

giovedì 14 ottobre 2010

mercoledì 13 ottobre 2010

disciuliamoci!

WWF, avviso agli umani: nel 2030 servono due Terre, troppi consumi


“Consumiamo” le risorse naturali della Terra a un ritmo tale che di questo passo nel 2030 per nutrire e tenere in vita l'umanità serviranno due pianeti, non uno. Ma già ora, se tutti usassero le risorse naturali quanto noi italiani (e siamo 29esimi nella classifica dei massimi “consumatori”), già oggi i pianeti necessari per la specie umana sarebbero quasi tre: 2,8, per la precisione. Ognuno, nel nostro paese, ha praticamente bisogno di 5 ettari di terreno, calcolati nel mondo intero per soddisfare l'attuale livello di vita.

Il Wwf con il Living Planet Report 2010. E l'avviso è chiaro: sfruttiamo acque dolci, mare, piante e animali a ritmo forsennato, a un ritmo superiore alla capacità delle risorse di rigenerarsi. Un esempio chiaro è quello dei pesci: ci sono zone di mare un tempo pescose dove ora i pesci scarseggiano o mancano. A questo ritmo però mettiamo in pericolo tutte le specie, la nostra inclusa. Si parla di risorse per il cibo, dell'acqua, delle sostanze da cui ricavare medicine, di materie prime. Ma anche degli effetti sulle piante che oltre tutto assorbono il carbonio frenando gli effetti del cambiamento climatico, tanto pare un esempio.

Il Wwf con la Zoological Society di Londra e il Global Footprint Network ha presentato il suo rapporto che ogni due anni fotografa la situazione globale del mondo naturale e del rapporto con l'uomo. Fa scattare un grado di allarme ancora più elevato del passato la fotografia di questo 2010anno. Scattata tra l'altro nell'anno internazionale della biodiversità e poco prima della della Conferenza di Nagoya che dovrà discutere e possibilmente fermare il tasso di perdita della biodiversità, ovvero quante specie animali e vegetali spariscono dalla faccia della terra ogni anno o non si “rinnovano”.

Lo stato di salute delle specie, stima il rapporto, diminuisce del 30%, ma nei paesi tropicali e in quelli più poveri, che almeno in Africa spesso coincidono, la percentuale sale al 60. Rispetto agli anni '70 la pressione che l'uomo esercita sull'ambiente naturale è praticamente raddoppiata e di conseguenza le risorse naturali per una vita degna per tutti equivalgono a quelle di una Terra e mezzo.

In sostanza, la crescita economica nei paesi ricchi è diventata insostenibile e gli impatti sugli ecosistemi ricadono più direttamente sulle popolazioni povere e vulnerabili. Il Living Planet Report però non calcola solo lo stato di salute della natura slegato al genere umano: valuta ora anche indicatori legati alle politiche ambientali ed economiche: ad esempio la “pressione antropica”, cioè la presenza degli esseri umani in un territorio; e come se la passano 8mila popolazioni animali di oltre 250 specie di vertebrati (dai pesci ai bovini, per esemplificare) che sono essenziali per la nostra vite.

Dal 1966 l'”Impronta ecologica globale”, riferisce il rapporto del Wwf, è raddoppiata, quella idrica aumenta costantemente e considerando anche l'acqua “virtuale” contenuta nei prodotti commercializzati internazionalmente le ricadute su fiumi e falde acquifere di tutto il mondo sono molto pesanti. Secondo gli esperti, per esempio, un britannico consuma 150 litri di acqua al giorno, ma calcolando anche i prodotti esteri che vengono da paesi lontani dal Regno Unito fa la stima, su scala globale, fino a 4.645 litri al giorno.

L'indice delle specie di vertebrati segnala un certo miglioramento nella zona temperata del nostro Pianeta (+29%) rispetto al 1970, ma rileva un tragico declino tra il 60 e il 70% per le specie di acqua dolce ai Tropici, «il tasso più alto tra tutte le specie terrestri e marine considerate», sottolinea il Living Planet Report. «La perdita di biodiversità è sintomo e sinonimo del cattivo stato di salute degli ecosistemi e implica un peggioramento dei servizi ecosistemici che sono proprio alla base della nostra vita e del nostro benessere». E qui si parla di fornitura di cibo, materie prime e medicine. Oltre alla regolazione del clima, alla depurazione di acqua e aria, alla rigenerazione del suolo, all'impollinazione delle piante, alla protezione da inondazioni e dalle malattie. Secondo gli esperti del Living Planet Report circa il 75% delle cento principali colture a livello mondiale si affida agli impollinatori naturali, oltre metà degli attuali composti medici di sintesi provengono da precursori naturali, gli ecosistemi terrestri immagazzinano ben 2.000 miliardi di tonnellate di carbonio dando così un contributo preziosissimo alla lotta al cambiamento climatico.

Per il direttore scientifico del Wwf Italia Gianfranco Bologna il discorso a questo punto è sempre più chiaro: «La sfida posta dal Living Planet Report è molto chiara. Dobbiamo assolutamente trovare un modo per soddisfare le esigenze di una popolazione sempre più numerosa che incrementa i propri consumi. Dobbiamo insomma imparare a vivere nei limiti delle risorse dell'unico Pianeta che abbiamo e per fare questo bisogna pensare da uno stile di vita consumista a uno stile di vita più sostenibile che limiti i consumi e gli sprechi». Scatta allora la domanda: l'Italia sta facendo abbastanza?

Oltre la retorica guerrafondaia fascista




Facciamo nostre le parole profetiche di una grande donna indiana, Arundathi Roy, scritte in quel tragico 7 ottobre 2001:



"Il bombardamento dell’Afghanistan non è una vendetta per New York e Washington. E’ l’ennesimo atto di terrorismo contro il popolo del mondo. Ogni persona innocente che viene uccisa deve essere aggiunta, e non sottratta, all’orrendo bilancio di civili morti a New York e Washington. La gente raramente vince le guerre, i governi raramente le perdono. La gente viene uccisa. I governi si trasformano e si ricompongono come teste di idra. Usano la bandiera prima per cellofanare la mente della gente e soffocare il pensiero e poi, come sudario cerimoniale, per avvolgere i cadaveri straziati dei loro morti volenterosi"

Mons. Nogaro ci ricorda l'art. 11 della Costituzione



Una riflessione e un appello di Mons. Raffaele Nogaro, Vescovo Emerito di Caserta; P. Alex Zanotelli; P. Domenico Guarino – Missionari Comboniani – Sanità, Napoli; Suor Elisabetta Pompeo; Suor Daniela Serafin; Suor Anna Insonia – Missionarie Comboniane Torre Annunziata; Suor Rita Giaretta; Suor Silvana Mutti; Suor Maria Coccia; Suor Lorenza Dal Santo – Comunità Rut – Suore Orsoline; P.Mario Pistoleri; P.Pierangelo Marchi; Padre Giorgio Ghezzi – Sacramentini – Caserta; P.Antonio Bonato – missionari Comboniani – Castelvolturno (Caserta); Don Giorgio Pisano – Diocesano – Portici (Napoli)

Stiamo entrando nel decimo anniversario della guerra contro l’Afghanistan: è un momento importante per porci una serie di domande.

In quel lontano e tragico 7 ottobre 2001 il governo USA, appoggiato dalla Coalizione Internazionale contro il terrorismo, ha lanciato un attacco aereo contro l’Afghanistan. Questa guerra continua nel silenzio e nell’indifferenza, nonostante l’infinita processione di poco meno di 2.000 bare dei nostri soldati morti. Che si tratti di guerra è ormai certo, sia perché tutti gli eserciti coinvolti la definiscono tale, sia perché il numero dei soldati che la combattono e le armi micidiali che usano non lasciano spazio agli eufemismi della propaganda italiana che continua a chiamarla “missione di pace”. Si parla di 40.000 morti afghani (militari e civili), e il meccanismo di odio che si è scatenato non ha niente a che vedere con la pace. Come si può chiamare pace e desiderare la pace, se con una mano diciamo di volere offrire aiuti e liberazione e con l’altra impugniamo le armi e uccidiamo?

La guerra in Afghanistan ha trovato in Italia in questi quasi 10 anni unanime consenso da parte di tutti i partiti – soprattutto quando erano nella maggioranza – e di tutti i governi. Rileggere le dichiarazioni di voto in occasione dei ricorrenti finanziamenti della “missione” rivela – oltre devastanti luoghi comuni e diffuso retorico patriottismo – un’ unanimità che il nostro Parlamento non conosce su nessun argomento e problema. Perché solo la guerra trova la politica italiana tutta d’accordo? Chi ispira questo patriottismo guerrafondaio che rigetta l’articolo 11 della nostra Costituzione?

L’elenco degli strumenti di morte utilizzati è tanto lungo quanto quello dei cosiddetti “danni collaterali” cioè 10.000 civili, innocenti ed estranei alla stessa guerriglia, uccisi per errore. Ma la guerra non fa errori, poiché è fatta per uccidere e basta.

Noi vogliamo rompere le mistificazioni, le complicità e le false notizie di guerra che condannano i cittadini alla disinformazione, che orientano l’opinione pubblica a giustificare la guerra e a considerare questa guerra in Afghanistan come inevitabile e buona. La guerra in Iraq, i suoi orrori e la sua ufficiale conclusione hanno confermato negli ultimi giorni la totale inutilità di queste ‘missioni di morte’. Le sevizie compiute nel carcere di Abu Ghraib e in quello di Guantanamo, i bombardamenti al fosforo della città di Falluja nella infame operazione Phantom Fury non hanno costruito certo né pace né democrazia, ma hanno moltiplicato in Iraq il rancore e la vendetta. Altrimenti perché sono orami centinaia i soldati degli Stati Uniti, del Canada e del Regno Unito che si suicidano, dopo essere tornati dall’ Iraq e dall’ Afghanistan? Cosa tormenta la coscienza e la memoria di questi veterani? Cosa hanno visto e cosa hanno fatto che non possono più dimenticare? Dall’inizio della guerra in Afghanistan ci sono più morti fra i soldati tornati a casa che tra quelli al fronte: si susseguono i suicidi dei veterani negli USA.

Tutto il XX secolo ha visto la nostra nazione impegnata a combattere guerre micidiali ed inutili nelle quali i cattolici hanno offerto un decisivo sostegno ideologico. Ancora troppo peso grava sulla coscienza dei cattolici italiani per avere esaltato, pregato e partecipato alla I guerra mondiale e tanto più ancora all’omicida guerra coloniale in Abissinia.
"Ci presentavano l’Impero come gloria della patria! – scriveva Don Milani nella celebre lettera ai giudici L’obbedienza non è più una virtù – Avevo 13 anni. Mi pare oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri si erano dimenticati di dirci che gli Etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini, mentre loro non ci avevano fatto proprio nulla. Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non lo so, preparava gli orrori di tre anni dopo… E dopo essere stato così volgarmente mistificato dai miei maestri... vorreste che non sentissi l’obbligo non solo morale, ma anche civico, di demistificare tutto?".

Forse conoscere la storia dei tanti eccidi criminali compiuti dai militari, dagli industriali, dai servizi segreti nella nostra storia contemporanea aiuterà i giovani a formarsi una coscienza politica e un senso critico. Tanto da renderli immuni dalla propaganda che vuole soltanto carpire consenso e impegnarli in imprese di morte come la guerra in Afghanistan, nella quale facciamo parte di una coalizione che applica sistematicamente la tortura – come nel carcere di Bagram e nelle prigioni clandestine delle basi Nato – e le esecuzioni sommarie.

Chi dunque ha voluto e vuole questa guerra afghana che ci costa quasi 2 milioni di euro al giorno?
Chi decide di spendere oltre 600 milioni di euro in un anno per mantenere in Afghanistan 3300 soldati, sostenuti da 750 mezzi terrestri e 30 veicoli?
Come facciamo tra poco ad aggiungere al nostro contingente altri 700 militari? Quante scuole e ospedali si potrebbero costruire?
Chi sono i fabbricanti italiani di morte e di mutilazioni che vendono le armi per fare questa guerra?
Chi sono gli ex generali italiani che sono ai vertici di queste industrie?
Che pressioni fanno le industrie militari sul Parlamento per ottenere commesse di armi e di sistemi d’arma?
Quanto lucrano su queste guerre la Finmeccanica, l’Iveco-Fiat, la Oto Melara, l’Alenia Aeronautica e le banche che le finanziano?
E come fanno tante associazioni cattoliche ad accettare da queste industrie e da queste banche elargizioni e benefici?
Può una nazione come l’Italia che per presunte carenze economiche riduce i posti letto negli ospedali, blocca gli stipendi, tiene i carcerati in condizioni abominevoli e inumane, licenzia gli insegnanti, aumenta gli studenti per classe fino al numero di 35, riduce le ore di scuola, accetta senza scomporsi che una parte sempre più grande di cittadini viva nell’indigenza e nella povertà, impegnare in armamenti e sistemi d’arma decine di miliardi di euro?
A cosa serviranno per il nostro benessere e per la pace i cacciabombardieri JSF che ci costano 14 miliardi di euro (quanto ricostruire tutto l’Abruzzo terremotato)?
E le navi FREM da 5,7 miliardi di euro?
E la portaerei Cavour – costata quasi 1,5 miliardi e per il cui esercizio sprechiamo in media circa 150.000 euro al giorno – come contribuirà a costruire la pace?
E come è possibile che il Parlamento abbia stanziato 24 miliardi di euro per la difesa nel bilancio 2010?

Chi sottoscrive questo appello vuole soltanto che in Italia si risponda a queste domande.

Rispondano i presidenti del Consiglio di questi ultimi 10 anni, i ministri della difesa e tutti i parlamentari che hanno approvato i finanziamenti a questa guerra.

Dicano con franchezza che questa guerra si combatte perché l’Afghanistan è un nodo strategico per il controllo delle energie, per il profitto di alcuni gruppi industriali italiani, per una egemonia economica internazionale, per una volontà di potenza che rappresenta un neocolonialismo mascherato da intenti umanitari e democratici, poiché questi non si possono mai affermare con armi e violenza.

Facciamo nostre le parole profetiche di una grande donna indiana, Arundathi Roy, scritte in quel tragico 7 ottobre 2001: "Il bombardamento dell’Afghanistan non è una vendetta per New York e Washington. E’ l’ennesimo atto di terrorismo contro il popolo del mondo. Ogni persona innocente che viene uccisa deve essere aggiunta, e non sottratta, all’orrendo bilancio di civili morti a New York e Washington. La gente raramente vince le guerre, i governi raramente le perdono. La gente viene uccisa. I governi si trasformano e si ricompongono come teste di idra. Usano la bandiera prima per cellofanare la mente della gente e soffocare il pensiero e poi, come sudario cerimoniale, per avvolgere i cadaveri straziati dei loro morti volenterosi".

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(11 ottobre 2010)