giovedì 31 maggio 2012

Rothschild+Rockefeller

I BIG FINANZIARI OCCIDENTALI SI COALIZZANO. Fonte:Maurizio Molinari per "la Stampa". I banchieri d'Europa, finanziatori di Papi e imperatori, si alleano con la dinastia più ricca e rispettata di Wall Street con un patto di entità segreta il cui intento è rigenerare la vitalità della finanza transatlantica aggredita dalle crisi e sfidata dai nuovi rivali emergenti sui mercati di Asia e Russia. L'intesa fra Lord Jacob Rothschild, 76 anni, e David Rockefeller, che ne ha venti di più, segna un momento di fine e al tempo stesso di inizio della finanza occidentale come oggi noi la conosciamo. Ciò che termina è la parabola parallela di due imperi riusciti a crescere e fiorire nei rispettivi mondi senza mai scontrarsi. La casata degli «Scudi Rossi» (Rothschild) di Francoforte sul Meno si origina nel 1744 da Mayer Amschel, cambiavalute ebreo del principe d'Assia, per diventare durante le guerre napoleoniche indispensabile allo sforzo bellico che consente al Duca di Wellington di vincere a Waterloo per poi conquistare titoli nobiliari e fortune nell'Impero d'Austria come nel Regno Unito, arrivando a finanziare imprese dall'apertura del Canale di Suez alla creazione della Rhodesia. Mentre il ramo francese della famiglia inaugura ferrovie e miniere destinate a trasformare l'Esagono in una moderna potenza industriale, con la ramificazione italiana che all'inizio del XIX secolo passa per Napoli da dove i Rothschild costruiscono un solido rapporto con il Vaticano fino al punto da essere definiti dall'Enciclopedia Judaica come i «guardiani dei tesori del Pontefice» Gregorio XVI. Sopravvissuti alle tempeste del Novecento grazie ad un profilo meno vistoso, i Rothschild dal 1980 sono guidati da Lord Jacob, il IV barone, il cui trust nel 2008 vantava proprietà per 3,4 miliardi di dollari riuscite a sopravvivere alla tempesta finanziaria degli ultimi anni grazie «a scelte manageriali molto conservatrici» come lui stesso ha spesso ripetuto a partire dal 2010. La cassaforte di Lord Jacob è la RIT Capital Partner, di base a Londra, che ora acquista il 37 per cento dei Rockefeller Financial Services ovvero la nave ammiraglia della corazzata di Wall Street guidata da David Rockefeller, dotata di un portafoglio stimato in almeno 34 miliardi di dollari. Sin dalla fondazione nel 1882 da parte di John D.Rockefeller, capo della dinastia, la Financial Services ha accompagnato genesi e trasformazioni della potenza economica americana, dagli iniziali investimenti industriali in petrolio, acciaio e carbone allo sviluppo delle ferrovie fino al debutto della moderna finanza, simboleggiata dal complesso di 16 edifici del Rockefeller Center costruiti nel bel mezzo di Manhattan. Al momento della morte il patriarca John era considerato l'uomo più ricco d'America. Fra i suoi cinque figli è stato David a esserne l'erede nella gestione di un immenso patrimonio che lo ha portato, fra l'altro, a diventare presidente e quindi principale azionista della banca JP Morgan Chase. È stato proprio David Rockefeller nel 2011 a introdurre Lord Rothschild, che conosce da oltre 50 anni e con cui condivide la passione per la filantropia, al proprio Ceo americano, Reuben Jeffrey. Da questo colloquio hanno avuto inizio i contatti prima esplorativi, poi divenuti sempre più concreti, che hanno portato ad un acquisto di quote dei Financial Services per un valore destinato a rimanere coperto dal più assoluto segreto, nel rispetto di una tradizione di riservatezza che la vecchia finanza europea condivide con gli «Old Money» di Wall Street. Ci possono essere tuttavia ben pochi dubbi sul fatto che l'investimento guidato dalla banca franco-svizzera Edmond de Rothschild Group, di cui il Financial Times per primo ha dato notizia, miri a consolidare le fondamenta industriali di un gigante finanziario euro-americano che si presenta come la più importante roccaforte transatlantica su un mercato globale dove i protagonisti più aggressivi sono i banchieri delle economie emergenti, dalla Russia a Cina e India, intenzionati a sfruttare il momento favorevole per insediarsi a Parigi, Francoforte, Londra e New York. Ovvero, le piazze finanziarie dell'Occidente che Lord Jacob e David Rockefeller hanno contribuito a creare.
JACOB ROTHSCHILD
DAVID ROCKEFELLER

FUGA DEI DEPOSITI DALLE BANCHE

Poco, tardi e male di MARIO PIANTA, da il
manifesto Troppo poco e troppo tardi. Di fronte alla crisi è così che agisce la politica, europea e italiana. Prima questione, la finanza. Per decenni si è lasciata mano libera alla speculazione, la Commissione europea ha presentato una proposta di tassa sulle transazioni finanziarie, due giorni fa il Parlamento europeo ha votato una mozione. L'accordo politico è generale - con l'eccezione del premier inglese David Cameron - e secondo Eurobarometro il 66% degli europei vogliono questa misura. Ma non sappiamo ancora se e quando entrerà in vigore. Seconda questione, la Grecia. Il (piccolo) debito pubblico della Grecia avrebbe potuto essere garantito senza problemi dall'insieme dell'Eurozona. È diventato la miccia che ha fatto scoppiare la speculazione contro tutti i paesi della periferia europea. Ora rifinanziare il debito costa il doppio di prima (quasi il 15% della spesa pubblica andrà a pagare gli interessi) e l'Unione - costretta da Berlino - si è infilata in un fiscal compact che costringe tutti a rimborsare il debito: una politica irrealizzabile, ma solo il nuovo presidente francese Hollande osa dire che «il re è nudo»; l'Italia si allinea e la cancelliera tedesca Merkel resta irremovibile - dopo quattro sconfitte elettorali - sulla proposta di eurobond . Dopo questi disastri sul lato della finanza pubblica, l'asse Berlino-Bruxelles-Francoforte ha deciso a fine 2011 di salvare le banche private; il conto sono gli oltre mille miliardi di euro di liquidità "regalati" per tre anni dalla Bce alle banche al tasso dell'1%, per rimettere in sesto conti che continuano a fare acqua da tutte le parti (si vedano i casi di JP Morgan, banche spagnole, Monte Paschi). In più, il Meccanismo europeo di stabilità si profila come lo strumento per permettere alle banche private di liberarsi dai titoli pubblici a rischio. Le quote del debito di Grecia, Spagna e Italia detenute da investitori stranieri stanno scendendo rapidamente; in Italia tra giugno e dicembre scorso gli stranieri si sono liberati di Bot per 150 miliardi, in questi mesi la corsa è accelerata. Messa in salvo la finanza, si può a questo punto scaricare la Grecia dall'Eurozona. Le voci si moltiplicano, i costi non saranno più pagati dalle banche tedesche, ma - attraverso svalutazione e prezzi delle importazioni alle stelle dal 90% dei greci più poveri; i ricchi hanno già portato via i soldi dal paese. È questa la terza questione, la fuga di capitali. Scappano da Grecia, Spagna e Italia, vanno in Germania (si comprano titoli tedeschi con rendimenti dello 0,07%), vanno in Svizzera, dove a fine 2011 si valutavano in 80 miliardi i patrimoni finanziari dei greci in fuga (ora moltiplicati), vanno nei paradisi fiscali. Per l'Italia Citigroup valuta le fughe di capitali nel 2011 in 160 miliardi di euro (il 10% del Pil), per la Spagna si calcolano 100 miliardi; quest'anno la tendenza è accelerata bruscamente. I depositi in Italia delle banche straniere sono caduti di un terzo, ancora peggio negli altri paesi del sud Europa. Siamo arrivati ora al ritiro dei depositi dalle banche: è l'intero sistema finanziario che vacilla, e la politica, ancora una volta, non vede, tace, non agisce. La corsa verso il collasso non si ferma, a meno che le elezioni dei prossimi mesi - nell'ordine, in Grecia, Olanda, Italia e Germania impongano un radicale cambio di rotta.

martedì 29 maggio 2012

Liquidare l'Europa.Già deciso prima che Monti diventasse Primo Ministro.

Il club dei potenti di Bilderberg vuole liquidare l'Europa. di: WSI Pubblicato il 17 agosto 2011| Ora 15:10 Le colpe del continente? In 400 milioni vivono con standard di vita troppo alti e costosi per lo stato. Da qui il prolungamento artificioso della crisi allo scopo di indebolire le economie nazionali. Grecia e Piigs sono solo i capri espiatori. "Il caos gestito" che ne deriva sarebbe "utile non solo per screditare i politici, ma l'istituzione della statualita' come tale", che la plutocrazia considera il suo nemico principale. Il nuovo capitolo per gli amanti delle teorie "cospiratorie".
Il Principe Bernhard dei Paesi Bassi, scomparso nel 2004, e' uno dei due membri fondatori del club di Bilderberg, creato nel 1954. New York - Uno degli argomenti principali trattati nell'ultima riunione della societa' quasi segreta dei potenti di Bilderberg, una delle piu' ambiziose elite del mondo (vogliono il controllo globale), pare sia stata "la liquidazione dell'Europa". Ecco come sono andate le cose, punto per punto, sulle Alpi Svizzere il 9-12 giugno 2011, secondo i racconti di diversi analisti, il cui contenuto va letto e interpretato con il dovuto distacco e senso critico. WSI ne aveva gia' offerto un primo resoconto due mesi fa. A Saint Moritz non si e' parlato solo del disastro di Fukushima e delle rivolte della primavera araba, ma anche della chiusura degli impianti nucleari in Germania, dei presunti problemi legati alle attivita' su Internet e (come reso noto dal direttore generale della Deutsche Bank J. Akkerman, tra i membri fissi della lobby che punta a istaurare un nuovo ordine mondiale) del "prolungamento artificioso della crisi allo scopo di indebolire le economie nazionali. Una delle colpe maggiori del continente e' avere 400 milioni di persone che vivono con standard di vita troppo alti e costosi per lo stato (vedi sistema di sussistenza e servizi sociali). Per annullare tali privilegi, l'idea e' scatenare "un caos gestito" che sarebbe "utile non solo per screditare i politici, ma l'istituzione della statualita' come tale", che la plutocrazia considera il suo nemico principale. Non si potra' arrivare a un nuovo sistema di governance, senza prima provocare la demolizione della fortezza Europa. Per farlo vanno colpiti i settori finanziario, politico e sociale. Gli obiettivi principali per scardinare i tre pilastri sono: 1) minare le economie nazionali, 2) provocare la rottura dell'Unione Europea e 3) scatenare un "caos gestito" esportando le rivoluzioni, i flussi migratori di rifugiati musulmani e la dipendenza da sostanze stupafecenti. Per raggiungere il primo obiettivo, il piano ambizioso si propone non solo di minare la credibilita' dell'euro, ma provocare anche un default del debito di paesi che non fanno parte dell'area della moneta unica. Un default che sarebbe la conseguenza di una crisi finanziaria iniziata quattro anni fa e che riguarda tutti i membri della piramide mondiale, compresa la Federal Reserve. Il collasso del sistema della banca centrale americana finira' per pesare sulle spalle della popolazione statunitense e sara' l'inevitabile e logica fine dei 40 anni di dominio dei soliti noti delle forze mondiali, che e' stato redditizio per gli organizzatori del sistema e penalizzante per tutti gli altri. Grecia e Piigs sono diventati i capri espiatori solo perche' non sono riusciti a resistere alle pressioni esercitate dal "casino' globale" e hanno perso sempre piu' fonti di risorsa interne. Dalla riunione di due mesi fa e' emerso inoltre che la solidarieta' politica della Ue non assicura per forza l'integrita' della stessa unione. E' una situazione in cui tutti preferiscono morire soli. All'inizio della crisi greca si parlava di "effetto domino" e della catastrofe che avrebbe rappresentato l'uscita di Atene dall'Ue. Ma a fine giugno ormai il crack di un solo paese era diventato un'opzione a breve termine presa in considerazione come la pillola meno dolorosa da ingerire. Al contempo sono aumentate le richieste di espulsione di tutti i paesi insolventi dalla confederazione europea. Per quanto riguarda l'attacco all'economia, portera' da un lato alla disintegrazione dell'Unione Europea e alla riduzione dei finanziamenti per i programmi di assistenza e servizi sociali con il conseguente inevitabile ampiamento del gap tra ricchi e poveri, dall'altro creera' la prima ondata di caos, i cui primi sintomi gia' si possono notare in questa fase. Qui di seguito riportiamo la lista ufficiosa dei partecipanti, divisa per paese, all'ultimo meeting del Bilderberg, che Wall Street Italia aveva gia' pubblicato in giugno: Belgio Coene, Luc, Governor, National Bank of Belgium Davignon, Etienne, Minister of State Leysen, Thomas, Chairman, Umicore Cina Fu, Ying, Vice Minister of Foreign Affairs Huang, Yiping, Professor of Economics, China Center for Economic Research, Peking University Danimarca Eldrup, Anders, CEO, DONG Energy Federspiel, Ulrik, Vice President, Global Affairs, Haldor Topsøe A/S Schütze, Peter, Member of the Executive Management, Nordea Bank AB Germania Ackermann, Josef, Chairman of the Management Board and the Group Executive Committee, Deutsche Bank Enders, Thomas, CEO, Airbus SAS Löscher, Peter, President and CEO, Siemens AG Nass, Matthias, Chief International Correspondent, Die Zeit Steinbrück, Peer, Member of the Bundestag; Former Minister of Finance Finlandia Apunen, Matti, Director, Finnish Business and Policy Forum EVA Johansson, Ole, Chairman, Confederation of the Finnish Industries EK Ollila, Jorma, Chairman, Royal Dutch Shell Pentikäinen, Mikael, Publisher and Senior Editor-in-Chief, Helsingin Sanomat Francia Baverez, Nicolas, Partner, Gibson, Dunn & Crutcher LLP Bazire, Nicolas, Managing Director, Groupe Arnault /LVMH Castries, Henri de, Chairman and CEO, AXA Lévy, Maurice, Chairman and CEO, Publicis Groupe S.A. Montbrial, Thierry de, President, French Institute for International Relations Roy, Olivier, Professor of Social and Political Theory, European University Institute Gran Bretagna Agius, Marcus, Chairman, Barclays PLC Flint, Douglas J., Group Chairman, HSBC Holdings Kerr, John, Member, House of Lords; Deputy Chairman, Royal Dutch Shell Lambert, Richard, Independent Non-Executive Director, Ernst & Young Mandelson, Peter, Member, House of Lords; Chairman, Global Counsel Micklethwait, John, Editor-in-Chief, The Economist Osborne, George, Chancellor of the Exchequer Stewart, Rory, Member of Parliament Taylor, J. Martin, Chairman, Syngenta International AG Grecia David, George A., Chairman, Coca-Cola H.B.C. S.A. Hardouvelis, Gikas A., Chief Economist and Head of Research, Eurobank EFG Papaconstantinou, George, Minister of Finance Tsoukalis, Loukas, President, ELIAMEP Grisons Organizzazioni Internazionali Almunia, Joaquín, Vice President, European Commission Daele, Frans van, Chief of Staff to the President of the European Council Kroes, Neelie, Vice President, European Commission; Commissioner for Digital Agenda Lamy, Pascal, Director General, World Trade Organization Rompuy, Herman van, President, European Council Sheeran, Josette, Executive Director, United Nations World Food Programme Solana Madariaga, Javier, President, ESADEgeo Center for Global Economy and Geopolitics Trichet, Jean-Claude, President, European Central Bank Zoellick, Robert B., President, The World Bank Group Irlanda Gallagher, Paul, Senior Counsel; Former Attorney General McDowell, Michael, Senior Counsel, Law Library; Former Deputy Prime Minister Sutherland, Peter D., Chairman, Goldman Sachs International Italia Bernabè Franco, CEO, Telecom Italia- Elkan John, Chairman, Fiat- Monti, Mario, Presidente dell'Universita' Luigi Bocconi- Scaroni Paolo, CEO, Eni- Tremonti Giulio, Ministro dell'Economia Canada Carney, Mark J., Governor, Bank of Canada Clark, Edmund, President and CEO, TD Bank Financial Group McKenna, Frank, Deputy Chair, TD Bank Financial Group Orbinksi, James, Professor of Medicine and Political Science, University of Toronto Prichard, J. Robert S., Chair, Torys LLP Reisman, Heather, Chair and CEO, Indigo Books & Music Inc. Center, Brookings Institution Olanda Bolland, Marc J., Chief Executive, Marks and Spencer Group plc Chavannes, Marc E., Political Columnist, NRC Handelsblad; Professor of Journalism Halberstadt, Victor, Professor of Economics, Leiden University; Former Honorary Secretary General of Bilderberg Meetings H.M. the Queen of the Netherlands Rosenthal, Uri, Minister of Foreign Affairs Winter, Jaap W., Partner, De Brauw Blackstone Westbroek Norvegia Myklebust, Egil, Former Chairman of the Board of Directors SAS, sk Hydro ASA H.R.H. Crown Prince Haakon of Norway Ottersen, Ole Petter, Rector, University of Oslo Solberg, Erna, Leader of the Conservative Party Austria Bronner, Oscar, CEO and Publisher, Standard Medien AG Faymann, Werner, Federal Chancellor Rothensteiner, Walter, Chairman of the Board, Raiffeisen Zentralbank Österreich AG Scholten, Rudolf, Member of the Board of Executive Directors, Oesterreichische Kontrollbank AG Portogallo Balsemão, Francisco Pinto, Chairman and CEO, IMPRESA, S.G.P.S.; Former Prime Minister Ferreira Alves, Clara, CEO, Claref LDA; writer Nogueira Leite, António, Member of the Board, José de Mello Investimentos, SGPS, SA Svezia Mordashov, Alexey A., CEO, Severstal Schweden Bildt, Carl, Minister of Foreign Affairs Björling, Ewa, Minister for Trade Wallenberg, Jacob, Chairman, Investor AB Svizzera Brabeck-Letmathe, Peter, Chairman, Nestlé S.A. Groth, Hans, Senior Director, Healthcare Policy & Market Access, Oncology Business Unit, Pfizer Europe Janom Steiner, Barbara, Head of the Department of Justice, Security and Health, Canton Kudelski, André, Chairman and CEO, Kudelski Group SA Leuthard, Doris, Federal Councillor Schmid, Martin, President, Government of the Canton Grisons Schweiger, Rolf, Ständerat Soiron, Rolf, Chairman of the Board, Holcim Ltd., Lonza Ltd. Vasella, Daniel L., Chairman, Novartis AG Witmer, Jürg, Chairman, Givaudan SA and Clariant AG Spagna Cebrián, Juan Luis, CEO, PRISA Cospedal, María Dolores de, Secretary General, Partido Popular León Gross, Bernardino, Secretary General of the Spanish Presidency Nin Génova, Juan María, President and CEO, La Caixa H.M. Queen Sofia of Spain Turchia Ciliv, Süreyya, CEO, Turkcell Iletisim Hizmetleri A.S. Gülek Domac, Tayyibe, Former Minister of State Koç, Mustafa V., Chairman, Koç Holding A.S. Pekin, Sefika, Founding Partner, Pekin & Bayar Law Firm USA Alexander, Keith B., Commander, USCYBERCOM; Director, National Security Agency Altman, Roger C., Chairman, Evercore Partners Inc. Bezos, Jeff, Founder and CEO, Amazon.com Collins, Timothy C., CEO, Ripplewood Holdings, LLC Feldstein, Martin S., George F. Baker Professor of Economics, Harvard University Hoffman, Reid, Co-founder and Executive Chairman, LinkedIn Hughes, Chris R., Co-founder, Facebook Jacobs, Kenneth M., Chairman & CEO, Lazard Johnson, James A., Vice Chairman, Perseus, LLC Jordan, Jr., Vernon E., Senior Managing Director, Lazard Frères & Co. LLC Keane, John M., Senior Partner, SCP Partners; General, US Army, Retired Kissinger, Henry A., Chairman, Kissinger Associates, Inc. Kleinfeld, Klaus, Chairman and CEO, Alcoa Kravis, Henry R., Co-Chairman and co-CEO, Kohlberg Kravis, Roberts & Co. Kravis, Marie-Josée, Senior Fellow, Hudson Institute, Inc. Li, Cheng, Senior Fellow and Director of Research, John L. Thornton China Center, Brookings Institution Mundie, Craig J., Chief Research and Strategy Officer, Microsoft Corporation Orszag, Peter R., Vice Chairman, Citigroup Global Markets, Inc. Perle, Richard N., Resident Fellow, American Enterprise Institute for Public Policy Research Rockefeller, David, Former Chairman, Chase Manhattan Bank Rose, Charlie, Executive Editor and Anchor, Charlie Rose Rubin, Robert E., Co-Chairman, Council on Foreign Relations; Former Secretary of the Treasury Schmidt, Eric, Executive Chairman, Google Inc. Steinberg, James B., Deputy Secretary of State Thiel, Peter A., President, Clarium Capital Management, LLC Varney, Christine A., Assistant Attorney General for Antitrust Vaupel, James W., Founding Director, Max Planck Institute for Demographic Research Warsh, Kevin, Former Governor, Federal Reserve Board Wolfensohn, James D., Chairman, Wolfensohn & Company, LLC

Soli con noi stessi, postmoderni inconsapevoli.Parla Bauman.

Bauman: siamo moderni o post-moderni? di Carlo Bordoni | 28 maggio 2012, da Il Fatto Quotidiano
Ma insomma, siamo moderni o post-moderni? Da quando Jean-François Lyotard ha lanciato il suo manifesto sulla post-modernità, ci eravamo abituati a sentirci rinnovati da capo a piedi. Lontani dai lacci costrittivi della modernità e dai suoi condizionamenti solidi. La grande divisione tra l’ieri e l’oggi, sottolineava Lyotard, era caratterizzata dalla perdita delle “grandi narrazioni”, quei pilastri fondamentali della cultura e delle ideologie che erano stati la Rivoluzione francese, l’industrializzazione, il marxismo e tutti i credo in cui riconoscersi e per i quali lottare. Tutto crollato sotto i colpi del progresso: la fine delle ideologie ha lasciato l’uomo solo con se stesso, reso improvvisamente “individuo”, fuori dalla massa (un’entità che ha cominciato a sgretolarsi proprio negli ultimi decenni del secolo scorso) e quasi privato della solidarietà sociale. Senza valori a cui appigliarsi, precarizzato nel lavoro, e il lavoro stesso smaterializzato, secondo la ben nota intuizione di André Gorz. Una condizione dolorosa, eppure quanto mai feconda, perché avvantaggiata dalla nuove tecnologie che hanno permesso di creare forme alternative di aggregazione sociale (i social network), certamente più labili delle precedenti forme di relazione, ma non meno fruttuose, perché produttrici di capitale sociale. Nell’era della prevalenza dei legami deboli era quasi un punto d’orgoglio sentirsi post-moderni. Invece no. Contrordine compagni. La doccia fredda viene proprio dal sociologo decano della società liquida, Zygmunt Bauman, che domenica 27 maggio era a Pistoia nell’ambito del Festival “Dialoghi sull’uomo”, a parlare di solidarietà sociale. Dopo il consueto bagno di folla, in un momento di relax di fronte a una birra, ha dato il colpo di grazia all’idea di post-modernità. Un concetto troppo negativo, ha ammesso. Dal suo magico cappello è sortita l’ultima rivelazione di Lyotard, quasi un ripensamento o uno stravolgimento, quando ha affermato che “per essere moderni, bisogna prima essere stati post-moderni”. Ergo: siamo ancora dentro la modernità, anzi nel guado scivoloso di una modernità liquida in cui è sempre più difficile muoversi. Bauman ci ha rimandati indietro. E, dal momento che non possiamo non dirci moderni, allora è probabile che siamo passati attraverso la post-modernità senza neppure accorgercene!

lunedì 28 maggio 2012

VATICANO QUOTATO IN BORSA?

Un Facebook paradisiaco. di ALESSANDRO ROBECCHI, da il manifesto
Dopo le note vicende che hanno scosso la credibilità dell'azienda, il Vaticano rinvia la quotazione in Borsa. Doveva presentarsi al Nasdaq come il più grande social network del mondo - centinaia di milioni di utenti collegati tra loro da un capo infallibile - ma il momento non è propizio. In particolare la diffusione di segreti aziendali, gli scontri tra personaggi molto in vista nella gerarchia dell'azienda, il licenziamento del banchiere di riferimento, hanno rallentato la quotazione. In più, la curiosità dei media si è fatta morbosa e qualcuno ha notato - come per il fondatore di Facebook, Zuckerberg - che neanche il papa mette la cravatta nelle occasioni ufficiali. Ma quel che più turba gli utenti in tutto il mondo è il crollo di immagine del consiglio di amministrazione. Ha fatto scalpore, infatti, la recente dichiarazione del card. Bagnasco. I vescovi, ha detto il direttore della filiale italiana, non sono obbligati a denunciare i preti pedofili. Cosa che ha mandato su tutte le furie i social network concorrenti. Se li vediamo sulle nostre pagine noi li denunciamo, ha detto Facebook. Noi denunciamo persino i dissidenti cinesi, ha rilanciato Google. Poi, la pubblicazione di piantine, plastici e schemini con gli appartamenti papali ha svelato anche il lato meno glamour dell'azienda. Se le grandi imprese tecnologiche americane si fanno un vanto di far divertire i loro dipendenti perché questo aumenta la produttività - ping pong, monopattini, tornei di Risiko - in Vaticano è tutto un pregare, un raccogliersi in meditazione, un intonare nenie noiosissime. In queste condizioni, l'eventualità che qualche dipendente si ribelli è inevitabile. Ma dalla sede centrale, un lussuoso palazzo nel centro di Roma, filtrano le prime contromosse. Una grande manifestazione a Milano in difesa della famiglia tradizionale, per esempio, perché i divieti su come la gente gestisce la propria vita, la propria morte, maternità, paternità e sessualità rimane il core business dell'azienda. L'unico social network - fanno notare il Vaticano - che vende da duemila anni un prodotto di cui non è nemmeno certa l'esistenza.

SENILITA'.

CACCIARI : “ORMAI BERLUSCONI È UN APPESTATO. CHI LO TOCCA MUORE"

L'amore esiste.

Di solito, le dediche stanno all’inizio dei libri. Le ho trovate talvolta un po’ fastidiose, appiccicaticce,come non c’entrassero poi molto con quello che veniva dedicato: A Maria con affetto,e a seguire un trattato di zootecnia sulla riproduzione artificiale dei bovini. Senza alcun disprezzo, sia chiaro, ma mi sono sembrate solo un omaggio, un regalo, qualcosa di esterno, se non di estraneo, a chi lo riceve. Ho voluto metterla alla fine questa dedica, perché tutto quello che precede, esattamente tutto, è stato reso possibile dalla generosità, dall’intelligenza, dalla pazienza e soprattutto dall’amore di Teresa. Così una dedica si è trasformata nella logica conclusione di questo libro che, anche se poca cosa, è interamente suo. Lei lo ha “scritto” lasciandomi scorrazzare per il mondo,lasciando che togliessi a lei, e a nostra figlia,tempo,dedizione,sostegno,e purtroppo anche amore.Lei lo ha scritto,sopportando di non sentire mie notizie per mesi,pur sapendomi in zone di guerra,sobbarcandosi da sola l’educazione di una figlia e i cento guai di una famiglia,aspettando i miei ritorni,ascoltando ogni volta le mie preoccupazioni, coccolando i miei sogni e le mie follie.Senza mollarmi mai, anche quando lo avrei capito cento volte… Non sono mai stato capace di dirgliele di persona fino in fondo queste cose, per lo stupido orgoglio che è sempre lì a proteggere la mia fragilità.Ma vorrei che lei sapesse che in ogni momento di questi lunghi anni, anche quando mi sentivo soddisfatto-indipendente-autonomo-realizzato, anche quando… non ho ma smesso di sentire dentro un po’ di tristezza, tanta nostalgia, un sacco di rimorsi. Spesso mi sono sentito un ladro,un truffatore.Avrei dovuto essere vicino a lei,darle amore e aiuto,partecipare ai suoi problemi,insomma esserci.E invece ero in giro a occuparmi di me e di gente strana, col turbante e con gli occhi a mandorla, di bambini altrui, di sconosciuti che ho curato perché andava fatto, ma forse,innanzitutto,per la mia personale soddisfazione.A qualcuno sarà stato utile. Che cosa io abbia guadagnato non lo so,so di certo che cosa ho perso.Tornassi indietro,rifarei quasi tutto.Vorrei solo che al mio fianco,in ognuno dei tanti luoghi pieni di sofferenza che ho visto, ci fosse sempre lei. A consigliarmi, a impedirmi di sbagliare,a dividere con me momenti importanti, che solo la sua presenza avrebbe potuto rendere irripetibili. A Teresa. Gino Strada

domenica 27 maggio 2012

Lo spettro del Grexit

Grexit, vale la pena uscire dall’Euro?
La Grecia non riesce a ripagare il suo debito pubblico e, in assenza di ulteriori rifinanziamenti, si troverà nell’incapacità di pagare stipendi e pensioni. Cresce la voglia di un ritorno alla dracma, che comporterebbe indubbiamente un recupero di competitività internazionale per i prodotti greci. Ma non risolverebbe i problemi di lungo periodo, come quello dell’esile base produttiva e di un bilancio statale fuori controllo. E, anche nell’immediato, i risparmi dei greci sarebbero fortemente svalutati e le banche dovrebbero probabilmente essere nazionalizzate. di Fausto Panunzi - lavoce.info Grexit è la parola del momento. Si riferisce alla presunta, forse probabile, uscita della Grecia dall’euro. La Grecia non riesce a ripagare il suo debito pubblico, neanche dopo il taglio di circa il 50 per cento dei mesi scorsi, patito dai creditori privati, e non riesce a rispettare gli obiettivi che la comunità internazionale le ha posto in termini di deficit e riduzione della spesa. In assenza di ulteriori rifinanziamenti, ben presto la Grecia si troverà nell’incapacità di pagare stipendi e pensioni, dato che nelle casse del Tesoro sono rimasti circa 2,5 miliardi di euro, come sottolineato dal Fondo monetario internazionale (Fmi). E tra poche settimane i greci torneranno a votare per il Parlamento. I sondaggi danno in ulteriore crescita Syriza, il partito di estrema sinistra, che denuncia il cosiddetto memorandum firmato dal precedente governo greco con i creditori. Alexis Tsipras, il leader di Syriza, propone anche di adottare misure costose per il bilancio dello Stato, quali sgravi fiscali per beni di prima necessità e sussidi di disoccupazione e assistenza sanitaria più generosi. Ancora, ha intenzione di nazionalizzare gli istituti di credito e, elemento più significativo, rinegoziare il pacchetto di aiuti concordato con la troika (Fmi, Bce, Ue). Ovviamente queste promesse, seppure fatte per evidenti ragioni elettorali, rendono ancora più scettica la comunità internazionale sulla serietà della Grecia nel voler rispettare gli accordi sottoscritti e rendono le spinte verso l’uscita greca dall’euro più forte. Come un’impresa a un passo dal fallimento Sarebbe ora di guardare in faccia la realtà. La Grecia non può ripagare il suo debito, neanche dopo la rinegoziazione del marzo scorso. Da questo punto di vista, Syriza dice una cosa ovvia quando afferma che il memorandum non può essere applicato. L’effetto negativo di un eccesso di debito (in inglese debt overhang) è un fenomeno ben noto nella finanza d’impresa. Esso porta l’impresa debitrice a non effettuare investimenti redditizi perché a beneficiarne sarebbe principalmente i creditori. Come se ne esce? Con la combinazione di una riduzione del debito in cambio di un impegno a investire risorse in progetti che aumentino il valore dell’impresa. Nessuna banca rinegozierebbe un prestito se la famiglia che gestisce l’impresa continuasse a usare i soldi ancora rimasti sul conto corrente per i consumi e non (anche) per reinvestirli in azienda. Anche nel caso greco, un’ulteriore e significativa riduzione forzosa del debito e un piano di austerità meno severo e meno penalizzante dovrebbero ancora essere fatti per rendere credibile e accettabile ai greci un programma di rientro dall’indebitamento. D’altra parte, non è pensabile che il memorandum sia rinegoziato di fronte alla minaccia di un’addizionale espansione della spesa pubblica. Perdita di fiducia e moral hazard La revisione degli accordi con la troika è (o forse era) la strada maestra per uscire dall’impasse greca, quella che è nell’interesse di tutte le parti. Ma non sempre le trattative riescono a raggiungere esiti che pure sarebbero desiderabili per i soggetti coinvolti. Questo può accadere per varie ragioni. In primo luogo, l’Unione Europea sembra aver perso la fiducia nella ragionevolezza o nella capacità di onorare gli impegni della controparte. La seconda ragione è che le parti coinvolte possono pensare di guadagnare da una rottura delle trattative. Nel caso dei creditori, pesa il moral hazard, cioè la paura che una rinegoziazione troppo generosa possa indurre altri paesi indebitati a imitare l’esempio greco. Ma anche il governo greco potrebbe essere tentato dal default, dato che nel breve periodo solo una sostanziale svalutazione potrebbe rendere competitivi i prodotti greci. Perché non conviene il ritorno alla Dracma Ci sono però due considerazioni che vanno in direzione opposta. Innanzitutto una massiccia svalutazione darebbe respiro all’economia greca ma non risolverebbe i problemi di lungo periodo, come quello dell’esile base produttiva e quello di un bilancio statale fuori controllo. Inoltre, anche nell’immediato, il ritorno alla dracma non sarebbe indolore né per i cittadini greci, i cui risparmi (almeno quelli rimasti ancora in Grecia) sarebbero fortemente svalutati, né per le banche greche che dovrebbero probabilmente essere nazionalizzate perché i loro attivi perderebbero gran parte del loro valore. E la Grecia avrebbe probabilmente grosse difficoltà ad accedere ai mercati finanziari internazionali nei prossimi anni. Quindi dovrebbe avere un surplus primario di bilancio e sarebbe quindi in ogni caso obbligata a misure di tagli della spesa e aumento delle tasse. Uno scenario tutt’altro che roseo. Il presidente del Consiglio Mario Monti ieri si è detto convinto che la Grecia resterà nell’euro. L’Unione Europea ha il dovere di fare ogni tentativo per dare ai greci una vera scelta. Oggi le “colpe” e le omissioni dei governi greci passati non contano più. Oggi conta solo il futuro. Un futuro che è negato sia dal memorandum che dalle promesse di nuove spese fatte dai politici greci. Fausto Panunzi ha conseguito il PhD presso il Massachusetts Institute of Technology. Attualmente insegna Economia Politica presso l’Università Bocconi. In precedenza ha insegnato presso l’Università di Bologna, l’Università di Pavia, Lecturer all’University College London, Research Fellow presso IDEI (Toulouse ) e IGIER. Le sue aree di interesse scientifico sono la Teoria dell’impresa, finanza d’impresa e Teoria dei contratti T
Euro Crisis.Will There Be a Greek Bank Run? European banks have spent the past two years increasing capital buffers, writing down Greek bonds, and using central bank loans to refinance regional operations in southern Europe in anticipation of some cataclysmic event such as a Greek withdrawal from the euro. All that preparation may not do much good. With more than $1.2 trillion in Spanish, Portuguese, Italian, and Irish debt, Europe’s lenders still face deposit flight risk and rising defaults elsewhere. “A Greek exit would be a Pandora’s box,” says Jacques-Pascal Porta of Ofi Gestion Privee, an asset manager in Paris. “It’s a disaster that would leave the door open to other disasters. The euro’s credibility will be weakened, and it would set a precedent: Why couldn’t an exit happen for Spain, for Italy, and even for France?” Should Greece return to the drachma, its currency probably would suffer an immediate devaluation of as much as 75 percent against the euro, spurring widespread defaults on foreign loans, economists at UBS (UBS) say. If European leaders couldn’t make a credible argument that Greece was an isolated case, depositors in other nations might decide to withdraw euros from banks or shift them to countries seen as safer. “The more policy makers continue to openly discuss an exit, the more likely that people in Spain, Ireland, and Portugal pull money out of their local banks,” says Andrew Stimpson, an analyst at Keefe, Bruyette & Woods (KBW) in London. France’s Société Générale estimates that a Greek exit could mean more than $1.1 trillion in loan and currency losses in the U.S. and Europe. Banks in Greece, Ireland, Italy, Portugal, and Spain saw a decline of €81 billion ($103 billion), or 3.2 percent, in household and corporate deposits in the 15 months through March, according to the European Central Bank. On March 30, Greece had €160 billion of bank deposits, down almost €75 billion from the peak in 2009, central bank data show. Lenders in Germany and France saw an increase in deposits of €217 billion, or 6.3 percent, in the same period. UBS has told its wealthy clients that there’s a 20 percent chance of Greece leaving the euro within six months. To prevent contagion, countries in the euro zone would have to form a full-fledged political and fiscal union immediately and implement uniform guarantees on bank deposits throughout the area, UBS says. The chances of that happening? Effectively nil. A Greek exit could trigger “a chain reaction of bank runs and soaring risk premiums on government bonds of weaker countries, and that ultimately breaks up the entire euro zone,” UBS economists Thomas Wacker and Jürg de Spindler wrote in a note to investors. Citigroup (C) analysts in May said the likelihood of Greece abandoning the euro over the next 18 months stands at 50 percent to 75 percent. “Banks’ risk-management departments have probably taken into account a Greek exit and most would likely have a plan,” says Robert Liljequist, a fixed income strategist at Swedbank. “The big problem is that nobody really knows what would happen in the markets if the country leaves the currency.” The ECB’s unprecedented provision of €1 trillion in three-year loans to financial institutions in December and February helped calm financial markets in the first quarter by removing concern that banks, unwilling to lend to one another, would run out of cash. Lenders in Spain and Italy also used the funds to buy sovereign debt, reducing government borrowing costs. The rebound was short-lived as doubts about the health of Spain’s banks and questions over Greece’s future returned. In May the Euro Stoxx Banks index fell below its March 2009 levels, and the euro is at its lowest against the dollar since mid-January. With Spain in a recession and unemployment at more than 24 percent, bad loans in the country jumped to 8.4 percent of total lending in March, the highest since 1994, the Bank of Spain reports. The government has embarked on its fourth effort in less than three years to rebuild confidence in the financial industry. On May 9 the state took control of Bankia (BKIA), the lender with the most Spanish assets, and on May 11 it ordered banks to set aside an additional €30 billion as a cushion against losses on property loans. ECB President Mario Draghi on May 16 acknowledged that Greece might leave the euro area and signaled that policymakers won’t compromise on their key principles to prevent an exit. He’s not alone in contemplating what was once unthinkable. German Minister of Finance Wolfgang Schäuble has indicated that a departure would be manageable, and Bank of France Governor Christian Noyer has said “whatever happens in Greece” won’t place any French financial institution in difficulty. A year ago, Schäuble said a Greek exit would create an “exceptionally difficult” situation that would be “hard to control,” while Noyer called the possibility of a Greek default a “catastrophe.” What’s changed is that banks in Germany, France, and the U.K. have insulated their southern European units against losses. They have cut holdings of sovereign debt issued by weaker countries, and they have used ECB money to replace their own funds backing subsidiaries in the region. Deutsche Bank (DB) tapped what it called “a small amount” of ECB cash to help fund corporate and retail business in continental Europe. Barclays (BCS) took €8.2 billion in three-year loans from the central bank to provide “funding stability” for its units in Spain and Portugal. BNP Paribas (BNP) used ECB money to shore up its Italian unit. Lloyds Banking Group (LYG) says it’s using central bank money to “ring-fence” its Spanish operation. “If you’re a U.K. lender and you’ve lent €10 billion to your Spanish subsidiary and Spain exits, you’re suddenly only going to get paid back in 50 percent-devalued pesetas,” says Philippe Bodereau, head of European credit research at Pimco. “And you’re on the hook for €5 billion.” The bottom line: A Greek exit from the euro could trigger a run on European banks, which are sitting on more than $1.2 trillion in loans to southern Europe.

LA POLITICA UNFIT

Poco, tardi e male. di MARIO PIANTA, da il manifesto
25.05.2012 Troppo poco e troppo tardi. Di fronte alla crisi è così che agisce la politica, europea e italiana. Prima questione, la finanza. Per decenni si è lasciata mano libera alla speculazione, la Commissione europea ha presentato una proposta di tassa sulle transazioni finanziarie, due giorni fa il Parlamento europeo ha votato una mozione. L'accordo politico è generale - con l'eccezione del premier inglese David Cameron - e secondo Eurobarometro il 66% degli europei vogliono questa misura. Ma non sappiamo ancora se e quando entrerà in vigore. Seconda questione, la Grecia. Il (piccolo) debito pubblico della Grecia avrebbe potuto essere garantito senza problemi dall'insieme dell'Eurozona. È diventato la miccia che ha fatto scoppiare la speculazione contro tutti i paesi della periferia europea. Ora rifinanziare il debito costa il doppio di prima (quasi il 15% della spesa pubblica andrà a pagare gli interessi) e l'Unione - costretta da Berlino - si è infilata in un fiscal compact che costringe tutti a rimborsare il debito: una politica irrealizzabile, ma solo il nuovo presidente francese Hollande osa dire che «il re è nudo»; l'Italia si allinea e la cancelliera tedesca Merkel resta irremovibile - dopo quattro sconfitte elettorali - sulla proposta di eurobond . Dopo questi disastri sul lato della finanza pubblica, l'asse Berlino-Bruxelles-Francoforte ha deciso a fine 2011 di salvare le banche private; il conto sono gli oltre mille miliardi di euro di liquidità "regalati" per tre anni dalla Bce alle banche al tasso dell'1%, per rimettere in sesto conti che continuano a fare acqua da tutte le parti (si vedano i casi di JP Morgan, banche spagnole, Monte Paschi). In più, il Meccanismo europeo di stabilità si profila come lo strumento per permettere alle banche private di liberarsi dai titoli pubblici a rischio. Le quote del debito di Grecia, Spagna e Italia detenute da investitori stranieri stanno scendendo rapidamente; in Italia tra giugno e dicembre scorso gli stranieri si sono liberati di Bot per 150 miliardi, in questi mesi la corsa è accelerata. Messa in salvo la finanza, si può a questo punto scaricare la Grecia dall'Eurozona. Le voci si moltiplicano, i costi non saranno più pagati dalle banche tedesche, ma - attraverso svalutazione e prezzi delle importazioni alle stelle dal 90% dei greci più poveri; i ricchi hanno già portato via i soldi dal paese. È questa la terza questione, la fuga di capitali. Scappano da Grecia, Spagna e Italia, vanno in Germania (si comprano titoli tedeschi con rendimenti dello 0,07%), vanno in Svizzera, dove a fine 2011 si valutavano in 80 miliardi i patrimoni finanziari dei greci in fuga (ora moltiplicati), vanno nei paradisi fiscali. Per l'Italia Citigroup valuta le fughe di capitali nel 2011 in 160 miliardi di euro (il 10% del Pil), per la Spagna si calcolano 100 miliardi; quest'anno la tendenza è accelerata bruscamente. I depositi in Italia delle banche straniere sono caduti di un terzo, ancora peggio negli altri paesi del sud Europa. Siamo arrivati ora al ritiro dei depositi dalle banche: è l'intero sistema finanziario che vacilla, e la politica, ancora una volta, non vede, tace, non agisce. La corsa verso il collasso non si ferma, a meno che le elezioni dei prossimi mesi - nell'ordine, in Grecia, Olanda, Italia e Germania impongano un radicale cambio di rotta.
L'Euro, il dibattito che non c'è. Marco D'Eramo, da il manifesto
È il segreto meglio conservato d'Italia. È la domanda cui nessuno è in grado di rispondere: cosa pensa Pierluigi Bersani dell'euro? O cosa ne dicono Rosy Bindi, Massimo D'Alema, Walter Veltroni? Mistero. Li avete mai sentiti pronunciarsi sul punto che preoccupa tutti gli europei, sul tema che ci mette in pericolo stipendi, pensioni, sanità, scuola? In diversa misura, la domanda vale anche per altri esponenti della sinistra. Si esprimono sul consiglio d'amministrazione Rai, sulla riforma elettorale, sul finanziamento ai partiti, ma sapere che futuro vedono per Eurolandia, come pensano di farci superare la crisi, quali misure adotterebbero se governassero da soli, tutto ciò è precluso saperlo. È come se disquisissero su quante uova prevede la ricetta della nonna mentre la casa brucia. Perché invece sappiamo benissimo come vedono il futuro di Europa Angela Merkel, e persino Mario Monti, anche se pure loro ci devono spiegare come intendono farci uscire dal tunnel senza fondo in cui ci hanno intrappolati. Sul nodo che sta facendo precipitare le nostre società, che ha abrogato le costituzioni di mezza Europa, che ha sospeso la democrazia, la sinistra (non solo) italiana latita. Quella rappresentata in parlamento si contenta di aver ingoiato il patto di stabilità e di aver votato un emendamento costituzionale furbetto che include già le proprie scappatoie. Un voto «all'italiana»: perché lo sanno tutti che nel decennio a venire sarà assolutamente impossibile rispettare il dogma del pareggio di bilancio, quindi un voto che già sconta l'infrazione: un gesto alla Lazarillo de Tormes, da servitore che vuole accontentare la padrona (tedesca), salvo poi a buttarsi col nuovo patrono (francese), proprio come fa Mario Monti che s'inventa un fantomatico asse con François Hollande dopo aver per mesi retto lo strascico alla cancelliera. E la sinistra che agisce fuori dal parlamento, nelle piazze, nei movimenti, nel sindacato, si ostina cocciuta a rinchiudersi in un orizzonte nazionale di una crisi che invece è continentale e che non troverà risposta se ci limitiamo a cercarla entro i nostri confini. Ma quando avremo una giornata di protesta europea? Quand'è che i manifestanti scenderanno in piazza insieme a Roma, Parigi, Madrid, Berlino? Quand'è che esprimeremo solidarietà pubblica verso la Grecia? Si parla tanto di tornare a Keynes, anche se - sono d'accordo con l'analisi di Mario Pianta sul manifesto di ieri - è ormai troppo tardi e troppo poco. Urge ristabilire la dimensione politica di una crisi che non è affatto tecnica, ma politica, di democrazia. Altrimenti come meravigliarsi allora che i cittadini disertino? L'antipolitica che serpeggia in tutto il continente è una risposta istintiva dei popoli al silenzio della politica tradizionale, alla sua incapacità a incidere per migliorare le nostre vite materiali. La risposta è sbagliata, velleitaria, fuorviante, ma ci andrei piano a demonizzare l'antipolitica, a trattarla con il sussiego di chi reagisce a un peto in un salotto.

UNA FAZZA UNA RAZZA.

La Grecia prigioniera GABRIELE PASTRELLO,
da: il manifesto 27.05.2012 Negli scacchi si chiama zugzwang , ed è quando un giocatore ha la scelta solo tra due mosse ugualmente cattive. Sembra proprio la posizione della Grecia, tra rimanere nell'euro o uscirne. Restare e rispettare i patti, come dicono la Commissione europea e la cancelliera Angela Merkel, significa solo immiserimento progressivo. In un quadro recessivo europeo e mondiale, la politica di riduzione del rapporto tra debito e Pil non può che portare all'aumento di quel rapporto. Il debito, infatti, non può che aumentare, dato che il deficit dello Stato greco può essere finanziato solo con fondi europei provenienti dal Fondo europeo di sostegno. L'alternativa di uscita dall'euro non pare più rosea. Il ritorno alla dracma non può che portare a una fortissima svalutazione che si potrebbe tradurre rapidamente in inflazione. Inoltre, data l'evasione fiscale greca, superiore a quella italiana, si potrebbe innescare una dinamica iperinflazionistica come quella tedesca dei primi anni Venti. Per di più, dato lo scarso peso del settore esportatore, i vantaggi di un'uscita potrebbero non essere molto grandi. Cioè, mentre non entrare nell'euro avrebbe potuto avere vantaggi, uscirne pare avere solo svantaggi. Forse una soluzione potrebbe essere quella proposta dal partito di sinistra Syriza: rimanere nell'euro ma ricontrattando i termini degli impegni presi. La linea sembra, però, doversi scontrare con un ostacolo apparentemente insormontabile. Siccome il governo greco non può finanziarsi sui mercati, la sostenibilità del suo deficit statale dipende oggi dalla disponibilità del Fondo di sostegno europeo a finanziarlo, a condizione che gli impegni siano rispettati. Quindi, se il governo greco denunciasse quegli accordi, un qualsiasi funzionario del Fondo potrebbe chiudere il rubinetto, e impedire al governo greco di far fronte alle spese correnti. La cosa è di per se inaccettabile, ma potrebbe succedere. Quantomeno solo una decisione politica dovrebbe poter costringere la Grecia a uscire dall'euro sospendendo il finanziamento corrente. Ma se l'interruzione di finanziamenti fosse automatica, l'uscita sarebbe forzata ben prima che si potesse riaprire una discussione politica. In realtà, la Bce, o meglio il sistema delle banche centrali europee, potrebbe intervenire. Si è discusso molto sul fatto che nelle funzioni della Bce manchi quello di prestatore di ultima istanza. Si è fatto notare che paesi molto indebitati, come Usa e Uk, non hanno i problemi greci o spagnoli perché godono di sovranità monetaria: cioè, la loro banca centrale può intervenire a calmierare i mercati. In realtà non è del tutto vero che la Bce manchi di questo strumento. L'unico vero divieto è il finanziamento diretto dei deficit statali. Peraltro, Draghi, nel dicembre 2011, con il suo programma di rifinanziamento a tre anni del sistema bancario europeo, l'ha aggirato. E' vero che le banche ci hanno fatto profitti indecenti, ma bisogna ricordare che l'alternativa era l'immediato collasso finanziario. Questo programma non potrebbe essere applicato alla Grecia. Ma c'è una misura, poco nota, addirittura riservata, che potrebbe servire: l'Ela, emergency liquidity assistance , l'assistenza di liquidità d'emergenza. L'Ela può essere decisa solo da una banca centrale nazionale, nel caso quella greca, mentre la Bce dovrebbe solo dare l'assenso; diversa quindi dalla misura Draghi. E' stata usata per l'Irlanda nel 2010; mentre capitali in euro fuggivano verso la Germania, l'Ela riforniva di liquidità le banche irlandesi, impedendone il collasso. Ma da Draghi, già determinato, nel dicembre 2011, nell'attuare una linea di salvataggio dell'euro, ci possiamo aspettare che permetta un aiuto d'emergenza al sistema bancario greco, che impedisca l'uscita forzata della Grecia dall'euro; cioè che si metta in moto un effetto domino che potrebbe concludersi con l'esplosione dell'euro. Fatto che amplierebbe a livello europeo i problemi che la Grecia potrebbe incontrare a uscire dall'euro. Questa misura d'emergenza potrebbe riaprire la discussione politica. Hollande, ma anche Monti, se hanno idee e carattere, potrebbero mettere sul tavolo una diversa politica europea, verso la Grecia in particolare, ma più in generale una politica non più dominata dall'isteria dell'austerità. Alla Grecia dovrebbe essere concessa una moratoria fiscale, e un condono di parte del debito. Questo potrebbe far guadagnare tempo per permettere a un governo greco di studiare un piano complessivo per far ripartire l'economia. In questo modo, la Grecia, da capro espiatorio, esempio a chi non rispetta l'austerità europea, potrebbe diventare invece esempio di un'Europa che si prende carico dei problemi dei suoi membri, esempio dell'Europa lungimirante che vorremmo al posto di quella micragnosa e arcigna che vediamo.

La nuova strategia della tensione.

dal blog di Beppe Grillo Bomba o non bomba, arriveremo a Roma. Nell'aria c'è odore di zolfo, ma il cambiamento non si può arrestare. Se tre indizi (il ferimento di Adinolfi a Genova, la bomba di Brindisi e le continue esternazioni sul ritorno del terrorismo) fanno una prova, allora ci sono ottime probabilità del ritorno di una stagione stragista. Per ora le nuove sigle e i nuovi bombaroli non sono all'altezza di piazza Fontana, che bloccò le aperture a sinistra di Aldo Moro, o della stazione di Bologna, alla quale fecero seguito un decennio di craxismo e un ventennio di berlusconismo. Forse ritengono che alzare il tiro non sia ancora necessario. In questi giorni ricorre il ventennale della morte di Falcone, un uomo di grande intelligenza e di immenso coraggio che sapeva di dover morire. La sua morte fu un monito a chiunque volesse un cambiamento radicale, un rinnovamento. Falcone viveva a Roma, lavorava al ministero di Giustizia, era pedinato dalla mafia e poteva essere ucciso con un semplice colpo di pistola in ogni momento. Lo sventramento di Capaci fu un messaggio, un monumento di sangue. Quanti, tra coloro che oggi lo piangono pubblicamente, sono stati a guardare mentre veniva macellato in vita? Lo stesso trattamento fu riservato a Borsellino che sapeva perfettamente di essere un morto che cammina, un Cristo laico che si avviò consapevole al martirio, tradito da una parte dello Stato di cui era esemplare servitore. Nei momenti di cambiamento o meglio in cui il cambiamento si manifesta possibile, le forze che vogliono mantenere gli interessi costituiti, economici e politici, bussano alla porta con grande energia. Le bombe e gli attentati sono il loro biglietto da visita. I fatti del dopoguerra ci hanno insegnato che godono dell'impunità. "La realtà racconta che gli assassini di Falcone e Borsellino e i loro complici non hanno solo i volti truci e crudeli di coloro che sulla scena dei delitti si sono sporcati le mani di sangue, ma anche i volti di tanti, di troppi sepolcri imbiancati. Un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d'oro, personaggi apicali dell'economia e della finanza. Tutte responsabilità penali certificate da sentenze definitive, costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una retorica pubblica e da un sistema dei media...". Roberto Scarpinato (da "Le ultime parole di Falcone e Borsellino"). Bomba o non bomba, arriveremo a Roma...
Teca auto Capaci

venerdì 25 maggio 2012

Neorealisti o movimentisti? Il dibattito filosofico-politico attuale: dialogo fra Vattimo e Ferraris.

L’addio al pensiero debole che divide i filosofi Addio alla verità o addio all’essere? La controversia sull’ermeneutica è al centro dell' Almanacco di filosofia di MicroMega – con gli interventi di Richard Rorty, Gianni Vattimo, Paolo Flores d’Arcais e Maurizio Ferraris. dialogo tra Maurizio Ferraris e Gianni Vattimo, da Repubblica, 19 agosto 2011. Siamo ancora postmoderni o stiamo per diventare "neo realisti", ritornando al pensiero forte? Il dibattito filosofico è aperto. Grazie anche al convegno che si terrà a Bonn sul "New Realism" a cui parteciperanno, fra gli altri, Umberto Eco e John Searle. FERRARIS Gli ultimi anni hanno insegnato, mi pare, una amara verità. E cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività, non ha avuto gli esiti di emancipazione che si immaginavano illustri filosofi postmoderni come Richard Rorty o tu stesso. Non è successo, cioè, quello che annunciavi trentacinque anni fa nelle tue bellissime lezioni su Nietzsche e il "divenir favola" del "mondo vero": la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (credevamo allora) dei canali televisivi. Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi è diventato un reality, ma il risultato è il populismo mediatico, dove (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa. Questo, purtroppo, è un fatto, anche se entrambi vorremmo che fosse una interpretazione. O sbaglio? VATTIMO Che cos’è la "realtà" che smentisce le illusioni post-moderniste? Undici anni fa il mio aureo libretto su La società trasparente ha avuto una seconda edizione con un capitolo aggiuntivo scritto dopo la vittoria di Berlusconi alle elezioni. Prendevo già atto della "delusione" di cui tu parli; e riconoscevo che se non si verificava quel venir meno della perentorietà del reale che era promessa dal mondo della comunicazione e dei mass media contro la rigidità della società tradizionale, era per l’appunto a causa di una permanente resistenza della "realtà", però appunto nella forma del dominio di poteri forti – economici, mediatici, ecc. Dunque, tutta la faccenda della "smentita" delle illusioni post-moderniste è solo un affare di potere. La trasformazione post-moderna realisticamente attesa da chi guardava alle nuove possibilità tecniche non è riuscita. Da questo "fatto", pare a me, non devo imparare che il post-modernismo è una balla; ma che siamo in balia di poteri che non vogliono la trasformazione possibile. Come sperare nella trasformazione, però, se i poteri che vi si oppongono sono così forti? FERRARIS Per come la metti tu il potere, anzi la prepotenza, è la sola cosa reale al mondo, e tutto il resto è illusione. Ti proporrei una visione meno disperata: se il potere è menzogna e sortilegio ("un milione di posti di lavoro", "mai le mani nelle tasche degli italiani" ecc.), il realismo è contropotere: "il milione di posti di lavoro non si è visto", "le mani nelle tasche degli italiani sono state messe eccome". È per questo che, vent’anni fa, quando il postmoderno celebrava i suoi fasti, e il populismo si scaldava i muscoli ai bordi del campo, ho maturato la mia svolta verso il realismo (quello che adesso chiamo "New Realism"), posizione all’epoca totalmente minoritaria. Ti ricorderai che mi hai detto: "Chi te lo fa fare?". Bene, semplicemente la presa d’atto di un fatto vero. VATTIMO Se si può parlare di un nuovo realismo questo, almeno nella mia esperienza di (pseudo)filosofo e (pseudo)politico, consiste nel prender atto che la cosiddetta verità è un affare di potere. Per questo ho osato dire che chi parla della verità oggettiva è un servo del capitale. Devo sempre domandare "chi lo dice", e non fidarmi della "informazione" sia essa giornalistico-televisiva o anche "clandestina", sia essa "scientifica" (non c’è mai La scienza, ci sono Le scienze, e gli scienziati, che alle volte hanno interessi in gioco). Ma allora, di chi mi fiderò? Per poter vivere decentemente al mondo devo cercare di costruire una rete di "compagni" – sì, lo dico senza pudore – con cui condivido progetti e ideali. Cercandoli dove? Là dove c’è resistenza: i no-Tav, la flottiglia per Gaza, i sindacati anti-Marchionne. So che non è un verosimile programma politico, e nemmeno una posizione filosofica "presentabile" in congressi e convegni. Ma ormai sono "emerito". FERRARIS Per essere un resistente, sia pure emerito, la tua tesi secondo cui "la verità è una questione di potere", mi sembra una affermazione molto rassegnata: "la ragione del più forte è sempre la migliore". Personalmente sono convinto che proprio la realtà, per esempio il fatto che è vero che il lupo sta a monte e l’agnello sta a valle, dunque non può intorbidargli l´acqua, sia la base per ristabilire la giustizia. VATTIMO Io direi piuttosto: prendiamo atto del fallimento, pratico, delle speranze post-moderniste. Ma certo non nel senso di tornare "realisti" pensando che la verità accertata (da chi? mai che un realista se lo domandi) ci salverà, dopo la sbornia ideal-ermeneutica-nichilista. FERRARIS Non si tratta di tornare realisti, ma di diventarlo una buona volta. In Italia il mainstream filosofico è sempre stato idealista, come sai bene. Quanto all’accertamento della verità, oggi c’è un sole leggermente velato dalle nuvole, e questo lo accerto con i miei occhi. È il 15 agosto 2011, e questo me lo dice il calendario del computer. E il 15 agosto del 1977 Herbert Kappler, responsabile della strage delle fosse Ardeatine, è fuggito dal Celio, questo me lo dice Wikipedia. Ora, poniamo che incominciassi a chiedermi "sarà poi vero? chi me lo prova?". Darei avvio a un processo che dalla negazione della fuga arriverebbe alla negazione della strage, e poi di tutto quanto, sino alla Shoah. Milioni di esseri umani uccisi, e io garrulamente a chiedermi "chi lo accerta?". VATTIMO È ovvio (vero? Bah) che per smentire una bugia devo avere un riferimento altro. Ma tu ti sei mai domandato dove stia questo riferimento? In ciò che "vedi con i tuoi occhi"? Sì, andrà bene per capire se piove; ma per dire in che direzione vogliamo guidare la nostra esistenza individuale o sociale? FERRARIS Ovviamente no. Ma nemmeno dire che "la cosiddetta verità è un affare di potere" mi dice niente in questa direzione, al massimo mi suggerisce di non aprire più un libro. Ci vuole un doppio movimento. Il primo, appunto, è lo smascheramento, "il re è nudo"; ed è vero che il re è nudo, altrimenti sono parole al vento. Il secondo è l’uscita dell’uomo dall’infanzia, l’emancipazione attraverso la critica e il sapere (caratteristicamente il populismo è a dir poco insofferente nei confronti dell’università). VATTIMO Chi dice che "c’è" la verità deve sempre indicare una autorità che la sancisce. Non credo che tu ti accontenti ormai del tribunale della Ragione, con cui i potenti di tutti i tempi ci hanno abbindolato. E che talvolta, lo ammetto, è servito anche ai deboli per ribellarsi, solo in attesa, però, di instaurare un nuovo ordine dove la Ragione è ridiventata strumento di oppressione. Insomma, se "c’è" qualcosa come ciò che tu chiami verità è solo o decisione di una auctoritas, o, nei casi migliori, risultato di un negoziato. Io non pretendo di avere la verità vera; so che devo render conto delle mie interpretazioni a coloro che stanno "dalla mia parte" (che non sono un gruppo necessariamente chiuso e fanatico; solo non sono mai il "noi" del fantasma metafisico). Sul piovere o non piovere, e anche sul funzionamento del motore dell’aereo su cui viaggio, posso anche essere d´accordo con Bush; sul verso dove cercare di dirigere le trasformazioni che la post-modernità rende possibili non saremo d’accordo, e nessuna constatazione dei "fatti" ci darà una risposta esauriente. FERRARIS Se l’ideologia del postmoderno e del populismo è la confusione tra fatti e interpretazioni, non c´è dubbio che nel confronto tra un postmoderno e un populista sarà ben difficile constatare dei fatti. Ma c'è da sperare, molti segni lo lasciano presagire, che questa stagione volga al termine. Anche l’esperienza delle guerre perse, e poi di questa crisi economica, credo che possa costituire una severa lezione. E con quella che affermo apertamente essere una interpretazione, mi auguro che l’umanità abbia sempre meno bisogno di sottomettersi alle "autorità", appunto perché è uscita dall’infanzia. Se non è in base a questa speranza, che cosa stiamo a fare qui? Se diciamo che "la cosiddetta verità è un affare di potere" perché abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi? VATTIMO
Dici assai poco su dove cavare le norme dell’agire, essendo il modello della verità sempre quello del dato obiettivo. Non hai nessun dubbio su "chi lo dice", sempre l’idea che magicamente i fatti si presentino da sé. La questione della auctoritas che sancisce la veritas dovresti prenderla più sul serio; forse io ho torto a parlare di compagni, ma tu credi davvero di parlare from nowhere?

CI MANCAVA SOLO L'ESM

24 Maggio 2012 L’ESM sarà la pietra tombale della democrazia in Italia. Occorre far sapere a quante più persone possibile a cosa stiamo andando in contro. L’ESM il fondo permanente di salvataggio per combattere la crisi del debito di Eurolandia diverrà operativo dal 1° luglio prossimo. Ma in sostanza cosa è l’ESM? L’ European Stability Mechanism (ESM) che prenderà il posto del fondo salvastati prima versione (EFSF), si propone di concedere finanziamenti agli stati in difficoltà e alle banche. Bene potrebbe rispondere lo sprovveduto che legge, ma il fatto è purtroppo che qui c’è in gioco il futuro nostro e dei nostri figli. I finanziamenti saranno dati solo dopo l’implementazione di severe misure di austerità, che tradotto significheranno sempre più tagli alle spese per i servizi essenziali e sempre più tasse. L’IMU è solo l’inizio. Dopo aver ceduto la sovranità monetaria con l’entrata nell’euro adesso stiamo pian piano cedendo alla trojka anche la sovranità nazionale intesa come perdita di democrazia. Perchè questo fondo non farà la carità ma presterà denaro solo ed esclusivamente se verranno implementate misure lacrime e sangue (vedi come sempre Grecia). Vuoi 300 mld per rinnovare il debito in scadenza? Bene, ma dovrai licenziare il 20% dei lavoratori statali. Te ne servono altri 100 per salvare il sistema bancario? Non ci son problemi, solo che te li do se abbassi i salari del 40%. Te ne mancano altri 50 di mld? Prima aumenta le tasse di almeno 80 mld che vediamo. E così via. Di questo passo in pochi anni non è difficile prevedere che anche tu che stai leggendo in questo momento e che ancora oggi ti puoi permettere le vacanze e le cene al ristorante nei week end, possa avere difficoltà ad arrivare a fine mese. E c’è di più, tale fondo godrà pure di immunità giurisdizionale, in pratica nessuno potrà condannarlo se anche avrà ridotto in miseria il 90% della popolazione. E ancora, lo stato in difficoltà potrà usufruire dei piani di finanziamento concessi dal “fondo salva-stati“ soltanto se, oltre a cedere pezzi di sovranità riguardanti scelte di politica interna, si impegnerà a pagare un tasso di interesse il cui limite non è stato nemmeno definito nel trattato. E chiaro e lampante anche ai soliti babbuini di Sumatra che i beneficiari di tutto questo siano le lobby dei poteri finanziari ovvero in ultima istanza le banche. Le banche che fanno utili lucrando sui debiti pubblici, prendendo a prestito all’1% dalla BCE e incassando il 5-6-7% da Spagna e Italia, alle spalle dei cittadini che col frutto del sudore del loro lavoro glieli girano attraverso la tassazione. e loro ringraziano, Banche Italia: Uilca, nel 2011 crescita a due cifre per gli stipendi dei ceo La gara di questi ultimi giorni è la corsa alla dichiarazione che: “la Grecia non uscirà mai dall’euro“. I tecnocrati hanno una paura fottuta che una volta uscita gli altri paesi sotto ricatto come il nostro vedano coi loro occhi che si può fare e che tutto sommato è molto meglio fuori che dentro, e prendano la stessa decisione scendendo giù dal treno-euro che li sta portando dritti a schiantarsi contro un muro. Andiamo avanti con lo sfascio della democrazia nel nome dell’euro e delle banche. Meditate gente. IdeaTrading Blog di analisi tecnica e commenti sui mercati finanziari, economia e politica

EUROCRACK

I grandi fondi di investimento europei mollano l'euro. di: WSI Pubblicato il 25 maggio 2012| Ora 10:38 Alcuni gestori dei fondi leader in Europa si stanno liberando degli asset espressi nella moneta unica, scrive in prima pagina il capofila degli anti-euro Financial Times. Motivo: i calcoli sulla possibile uscita della Grecia dall'Eurozona. Timori su Spagna e Italia.
Alcuni grandi gestori di fondi europei si stanno liberando degli asset in euro. Roma - Alcuni gestori dei fondi più grandi in Europa hanno ora una sola cosa in mente: liberarsi al più presto di asset in euro. Motivo: i timori sulla possibile uscita della Grecia dall'Eurozona che, a dispetto delle rassicurazioni cantilenanti dei leader Ue, sono ben avvertite dal mondo della finanza globale. L'articolo sullo smobilizzo di asset in euro è firmato dal Financial Times, che riporta come gli stessi gestori dei fondi abbiano confermato la notizia. Si spiega così il forte e improvviso calo dell'euro nel corso di questo mese: la moneta unica ha perso il 5% nelle ultime tre settimane, dopo una performance che è stata praticamente laterale nei confronti del dollaro, per gran parte dell'anno. Nella giornata di ieri, la valuta è precipitata al nuovo minimo degli ultimi 22 mesi, a $1,2514. Merk Investments, società attiva nel mercato valutario con sede negli Stati Uniti, ha comunicato di aver tagliato tutte le sue partecipazioni in euro nel mese di maggio. "Abbiamo venduto l'ultimo euro lo scorso 15 maggio - ha confermato Avel Merk, responsabile degli investimenti della omonima società - Siamo preoccupati per quanto il processo si stia mostrando pieno di disfunzioni (in Europa)". Ma sono appunto gli stessi fondi europei che stanno scappando dall'euro. Tra questi Amundi, gruppo che gestisce gli investimenti di alcuni tra i più importanti fondi pensione e società del Vecchio Continente, e che è convinto che il rischio che la crisi contagi la Spagna e l'Italia stia aumentando, visto che le autorità europee non sono riuscite a convincere gli investitori di disporre di sufficienti protezioni per evitare il contagio. Creata attraverso la fusione tra Crèdit Agricole Asset Management e Société Générale Asset Management tre anni fa, Amundi - che gestisce asset per 659 miliardi di euro - è uscito dai bond denominati in euro per puntare sugli asset in dollari. C'è poi Hermes Fund Managers, che ha ridotto la sua esposizione all'azionario dei paesi periferici a un livello vicino allo zero. "I politici europei stanno fallendo nella loro impresa di convincere i mercati che stanno davvero affrontando i problemi dell'Eurozona", ha detto Neil Williams, responsabile economista del fondo.

Quanto vale la lira se crolla l'Euro?

Se veramente si tornasse alla Lira, quanto varrebbe? di: WSI Pubblicato il 25 maggio 2012| Ora 11:31 Ecco una stima su quanto sarebbe il valore di Lira, Dracma, Pesetas e Marco nel caso di un crollo del castello di sabbia della moneta unica. Per i calcoli risulta utile studiare l'andamento dei bond europei. Dall'andamento dei bond e spread nel periodo pre-euro si puo' fare una stima su quanto varrebbe la Lira in caso di crack dell'euro. Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Blitz Quotidiano - che ringraziamo - esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
Roma - Se l'Euro crollasse e tutti i Paesi dovessero tornare alle proprie monete, quanto varrebbero Lira, Dracma, Pesetas, Marco? Per tentare di fare una stima è molto utile osservare l'andamento dei bond europei: secondo molti un'esplosione dell'Euro comporterebbe nei Paesi periferici dell'area (quelli con il debito pubblico più alto e traballante, ovvero Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia) un'esplosione dei rendimenti dei bond, riportandoli ai livelli pre-euro. Questo però a fronte di un marco molto più potente di allora e che sarebbe dunque ancora di più la moneta di riferimento per i cambi. Tentiamo di fare delle stime. Nel 1993 - come evidenziato in un'analisi di John Greenwood, chief economist di Invesco - i Bund a 10 anni pagavano il 6,5%, i rispettivi Btp il 10,8%, i Bonos il 9,9%, gli Oat francesi il 6,45%, i bond del Portogallo il 10,57% e i bond di Dublino il 7,3%. Livelli certamente superiori a quelli attuali dove impressiona il tasso della Germania che oggi invece paga sugli stessi titoli l'1,4% nominale. Se però ci spostiamo a fine 1997 (quindi sempre nella fascia temporale pre-euro) il quadro cambia profondamente. I Bund tedeschi pagavano il 5,5%, i BTp il 6,1%, i Bonos il 5,9%. Tra il 5,5% e il 6% anche i titoli di Francia, Portogallo e Irlanda. Ci si avviava alla stabilizzazione delle varie monete, che oggi per forza di cose non potrebbe più essere. La Germania si è rafforzata parecchio, a tal punto che oggi paga i suoi bond quasi all'1% mentre dieci anni fa li pagava al 6% e questo a fronte di altri Paesi, come Italia, Spagna, Grecia, Irlanda, che sono rimasti stabili o hanno fatto il processo inverso. Ma è proprio dall'andamento dei bond e dai loro differenziali nel periodo pre-euro che possiamo fare una stima (seppure approssimativa) di quanto varrebbero Lira, Dracma, Pesetas, ecc. Prendiamo la Lira italiana, ad esempio. Nel 1996 un Marco tedesco valeva 990 Lire. Nel 1998 quando venne stabilita la parità tra le monete della zona Euro valeva più o meno mille lire, ma a ottobre del 1992 valeva ben 1300 lire. E' probabile che oggi, se si tornasse a monete separate, con un Marco ancor più forte di allora e una Lira leggermente più debole, ci vorrebbero più o meno 2mila lire per fare un Marco. Per quanto riguarda la Spagna, nel 1993 pagava sui suoi bonos un tasso dell'8,9% contro il 6,5% dei Bund. Nel dicembre del 1997 la Spagna pagava sui Bonos un tasso del 5,97% contro il 5,45 della Germania, oggi paga il 5,33% contro l'1,18 della Germania. Questo vuol dire che se nel 1998 quando fu fissata la parità delle monete un marco valeva 85 Pesetas, oggi ne varrebbe almeno 250. La Francia nel 1993 pagava sui suoi Oat il 6,54% di interessi, molto vicino al tasso tedesco nel 6,5%. Nel 1997 questi tassi si erano ridotti al 5,4% mentre oggi sono intorno al 2,8, più o meno un punto percentuale sopra agli interessi tedeschi. Questo vuol dire che se nel 1998 quando fu fissata la parità delle monete un Marco valeva circa 3 Franchi francesi, oggi ne varrebbe almeno 4 o 5. Per quanto riguarda la Grecia, al momento dell'entrata nell'Euro il Marco valeva 174 Dracme. Adesso si potrebbe calcolare che ne varrebbe cinque volte di più. Stessa storia per l'Escudo Portoghese e la Lira irlandese: Portogallo e Irlanda sono gli unici Paesi che oggi pagano un'interesse sui propri bond più alto di 15 anni fa. Ciò significa che, se si tornasse alle monete nazionali, anche Escudo e Lira sarebbero molto svalutate. Allora se nel 1998 un Marco valeva 102 Escudi e 0,40 Lire irlandesi ora varrebbe almeno 400 Escudi e 2 Lire irlandesi. Copyright © Blitz Quotidiano. All rights reserved http://www.wallstreetitalia.com/article/1383901/economia/se-veramente-si-tornasse-alla-lira-quanto-varrebbe.aspx

ANCORA KRUGMAN. SPENDERE ORA, PAGARE DOPO.

BERLINO BARBARA - PARLA IL NOBEL PAUL KRUGMAN: “I TEDESCHI DICONO IN MODO SINCERO COSE FALSE” - MONTI, HOLLANDE, RAJOY POSSONO FARE QUALCOSA, MA NON FARE MOLTO. L’UNICA ARMA CHE HANNO È ANDARE A BERLINO E DIRE: QUESTO È IL PIANO PER SALVARE L’EURO, SE LO ACCETTATE BENE, ALTRIMENTI CROLLA TUTTO” - LA FORMULA SALVEZZA: “SPENDERE ORA, PAGARE DOPO”.… Mattia Ferraresi, per "il Foglio". La conversazione del Foglio con Paul Krugman parte da quella volta in cui il columnist del New York Times ha assistito a un discorso del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble. Nel mezzo della prolusione la moglie del professore di Princeton, l'economista Robin Wells, gli s'è avvicinata all'orecchio e ha sussurrato: "All'uscita distribuiranno delle fruste per autoflagellarci". La ponderata esposizione del ministro si era improvvisamente trasformata in un sermone costruito sull'idea che la crisi fosse una colpa ineluttabile da espiare necessariamente con il cilicio dell'austerità. In tedesco, del resto, il termine "Schuld" significa debito, ma anche colpa. Krugman racconta l'episodio nella sua tagliente requisitoria intitolata "End this depression now!", dove l'accento cade sul "now", perché il premio Nobel non si esercita nell'eziologia della crisi, ma ragiona intorno alle vie per uscirne. E l'ostacolo che impedisce a cancellerie e amministrazioni di adottare misure drastiche e tuttavia facilmente praticabili è "quell'invincibile desiderio di vedere l'economia come un ‘morality play' nel quale i tempi duri sono una punizione ineluttabile per eccessi precedenti". Le operette morali nascoste sotto l'ordito della crisi sono una costante del discorso krugmaniano. America ed Europa propongono il paradigma dell'austerità secondo declinazioni differenti; Berlino insiste in modo ossessivo sulla responsabilità, sia nel senso della colpa per le passate baldorie sia nel senso delle riforme che cerca di imporre ai paesi dell'Eurozona, mentre a Washington l'ortodossia repubblicana martella sul taglio della spesa e la riduzione del debito. "C'è una differenza fra le due impostazioni", dice Krugman. "Credo che i tedeschi, guidati dalla figlia di un pastore luterano, siano sinceri nella loro lettura moralistica degli eventi. Il problema è che dicono in modo sincero cose completamente false, ma non penso insistano sull'austerità per un progetto di potere o un calcolo, tanto che ora la Germania rischia di essere la vittima più illustre della sua stessa logica". Sembra di sentire l'eco di un profetico pamphlet di Gilbert Keith Chesterton intitolato "Berlino barbara", anno 1914, dove sosteneva che la barbarie teutonica, una barbarie culturalmente assai avanzata, si esprime sommamente nella buona fede con cui i tedeschi prendono decisioni disastrose. E allora lo scrittore inglese le conseguenze poteva soltanto immaginarle. "In America è diverso - continua Krugman - c'è molta più ipocrisia e ci si appella all'austerità in modo selettivo". "Questo vale per entrambi gli schieramenti, anche se i repubblicani hanno fatto della riduzione del deficit e del taglio delle tasse una bandiera. Peccato che non si rendano conto che tagliare le tasse aumenta il deficit". Per Krugman il problema del Gop è di aver promosso la lezione libertaria di Ron Paul e compagni di Tea Party a ortodossia di partito, "perché la versione secondo cui lo stato è il responsabile di ogni male è più semplice. Siamo di fronte alla crisi del friedmanismo, filosofia incoerente, perché ammette nelle sue premesse che il governo è l'unico soggetto in grado di aggiustare i problemi del mercato. Quando è scoppiata la crisi, i repubblicani si sono resi conto che spiegare il meccanismo in cui loro stessi credevano era politicamente troppo difficile, quindi ne hanno creato una versione semplificata". Merkel, dice l'economista, è intrappolata nella "Grande Delusione" che deriva dalla scoperta che l'austerità ha effetti devastanti sulla realtà economica; gli americani sono fermi alla "Grande Bugia" che consiste nell'attribuire allo stato ogni colpa. La ricetta ultrakeynesiana di Krugman per uscire dalla crisi è reiterata in decine di editoriali e conferenze, e il libro "End this depression now!" la sintetizza con la formula: "Spendere ora, pagare dopo". La politica dello stimolo praticata da Barack Obama nel 2009, con il contestuale taglio dei tassi da parte della Fed, è la medicina giusta, che però è stata somministrata in dosi insufficienti. E più la ripresa economica mostra la sua fragilità, più diventa chiaro agli occhi di questo spadaccino della teoria economica che l'origine della scelta obamiana è dolosa. Con una certà voluttà ricorda il documento in cui il suo avversario Larry Summers spiegava al presidente che uno stimolo da 787 miliardi di dollari sarebbe stato insufficiente per spingere il paese fuori dalla depressione ("al massimo avrebbe tamponato la recessione, come si è visto", dice Krugman) ma aumentare le proporzioni della manovra sarebbe stato politicamente dannoso. E Obama, dice, sta scoprendo alla fine del primo mandato che anche il calcolo politico era sbagliato. "Non c'è altra soluzione - continua Krugman - oltre a immettere liquidità, sostenere il mercato del lavoro, e accettare un ragionevole aumento dell'inflazione. Possiamo stare qui a ragionare sulle cause della crisi per una vita, il problema ora è uscirne. Questo è il punto che i politici non capiscono, e passano il loro tempo a spiegare che questa volta è diverso, siamo in mezzo a un crisi strutturale. Per fortuna non è vero, ma per sfortuna chi ha il potere di prendere le decisioni non lo capisce, o non lo vuole capire".
La storia del futuro europeo, poi, ha due versioni. Una è quella dello storico Niall Ferguson, convinto che l'Eurozona sia costretta ad andare verso un destino federalista forse malignamente programmato sin dall'inizio, un superstato con una politica economica condivisa e scritta sostanzialmente in tedesco; l'altra versione è il "divorzio di velluto", un break-up controllato della zona euro, tratteggiato da Gideon Rachman sul Financial Times. "Se potessi - dice l'adepto della fantascienza Krugman - prenderei la macchina del tempo, andrei a Maastricht nel 1992, entrerei nella sala dove firmano il Trattato e griderei: stop! Un esito più credibile sarebbe quello federalista, ma ci vorrebbe un Hamilton europeo, e il problema è che non c'è. La visione di Ferguson di un'Europa più simile agli Stati Uniti, con una Bce che fa da garante della moneta, è auspicabile, ma non succederà. Una Eurodämmerung è la soluzione più probabile e anche la più dolorosa, in termini economici e politici, ma non vedo alternative". Monti e Hollande, con l'appoggio esterno di Obama, non hanno gli strumenti per piegare l'austerità merkeliana? "Monti sta facendo bene e sono prudentemente fiducioso in Hollande. Loro, assieme a Rajoy, possono fare qualcosa, ma non fare molto. L'unica arma che hanno è andare a Berlino e dire: questo è il piano per salvare l'euro, se lo accettate bene, altrimenti crolla tutto. Non può essere altro che l'iniziativa europea però, l'America, purtroppo, può fare soltanto moral suasion". E una piattaforma di riforme strutturali per aumentare la competitività, rendere flessibile il mercato del lavoro e dare una sferzata al ciclo economico non può salvare l'Europa? In Italia il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha tentato di fare una riforma storica, che è stata annacquata dalle pressioni dei sindacati: "Un provvedimento molto giusto, perché il mercato del lavoro italiano è troppo rigido. Non bisogna confondere le cose, però. Le riforme strutturali non ci faranno uscire dalla depressione, sono lente e danno benefici nel lungo periodo. Ma, come diceva Keynes, nel lungo periodo siamo tutti morti

mercoledì 23 maggio 2012

APOCALISSE

Apocalypse Fairly Soon
By PAUL KRUGMAN, source:The New York Times Suddenly, it has become easy to see how the euro — that grand, flawed experiment in monetary union without political union — could come apart at the seams. We’re not talking about a distant prospect, either. Things could fall apart with stunning speed, in a matter of months, not years. And the costs — both economic and, arguably even more important, political — could be huge. This doesn’t have to happen; the euro (or at least most of it) could still be saved. But this will require that European leaders, especially in Germany and at the European Central Bank, start acting very differently from the way they’ve acted these past few years. They need to stop moralizing and deal with reality; they need to stop temporizing and, for once, get ahead of the curve. I wish I could say that I was optimistic. The story so far: When the euro came into existence, there was a great wave of optimism in Europe — and that, it turned out, was the worst thing that could have happened. Money poured into Spain and other nations, which were now seen as safe investments; this flood of capital fueled huge housing bubbles and huge trade deficits. Then, with the financial crisis of 2008, the flood dried up, causing severe slumps in the very nations that had boomed before. At that point, Europe’s lack of political union became a severe liability. Florida and Spain both had housing bubbles, but when Florida’s bubble burst, retirees could still count on getting their Social Security and Medicare checks from Washington. Spain receives no comparable support. So the burst bubble turned into a fiscal crisis, too. Europe’s answer has been austerity: savage spending cuts in an attempt to reassure bond markets. Yet as any sensible economist could have told you (and we did, we did), these cuts deepened the depression in Europe’s troubled economies, which both further undermined investor confidence and led to growing political instability. And now comes the moment of truth. Greece is, for the moment, the focal point. Voters who are understandably angry at policies that have produced 22 percent unemployment — more than 50 percent among the young — turned on the parties enforcing those policies. And because the entire Greek political establishment was, in effect, bullied into endorsing a doomed economic orthodoxy, the result of voter revulsion has been rising power for extremists. Even if the polls are wrong and the governing coalition somehow ekes out a majority in the next round of voting, this game is basically up: Greece won’t, can’t pursue the policies that Germany and the European Central Bank are demanding. So now what? Right now, Greece is experiencing what’s being called a “bank jog” — a somewhat slow-motion bank run, as more and more depositors pull out their cash in anticipation of a possible Greek exit from the euro. Europe’s central bank is, in effect, financing this bank run by lending Greece the necessary euros; if and (probably) when the central bank decides it can lend no more, Greece will be forced to abandon the euro and issue its own currency again. This demonstration that the euro is, in fact, reversible would lead, in turn, to runs on Spanish and Italian banks. Once again the European Central Bank would have to choose whether to provide open-ended financing; if it were to say no, the euro as a whole would blow up. Yet financing isn’t enough. Italy and, in particular, Spain must be offered hope — an economic environment in which they have some reasonable prospect of emerging from austerity and depression. Realistically, the only way to provide such an environment would be for the central bank to drop its obsession with price stability, to accept and indeed encourage several years of 3 percent or 4 percent inflation in Europe (and more than that in Germany). Both the central bankers and the Germans hate this idea, but it’s the only plausible way the euro might be saved. For the past two-and-a-half years, European leaders have responded to crisis with half-measures that buy time, yet they have made no use of that time. Now time has run out. So will Europe finally rise to the occasion? Let’s hope so — and not just because a euro breakup would have negative ripple effects throughout the world. For the biggest costs of European policy failure would probably be political. Think of it this way: Failure of the euro would amount to a huge defeat for the broader European project, the attempt to bring peace, prosperity and democracy to a continent with a terrible history. It would also have much the same effect that the failure of austerity is having in Greece, discrediting the political mainstream and empowering extremists. All of us, then, have a big stake in European success — yet it’s up to the Europeans themselves to deliver that success. The whole world is waiting to see whether they’re up to the task.