lunedì 25 novembre 2013

TOO LATE, SORRY.

Global warming. Troppo tardi per fare qualcosa, "punto di non ritorno" di: WSI Pubblicato il 25 novembre 2013. "Anche se le emissioni subissero un brusco arresto, l'anidride carbonica potrebbe continuare a scaldare la Terra per centinaia di anni".
Global warming: secondo lo studio "Continued global warming after CO2 emissions stoppage", siamo arrivati a un punto di non ritorno. ROMA (WSI) - Secondo lo studio "Continued global warming after CO2 emissions stoppage," pubblicato su Nature Climate Change, «anche se le emissioni di anidride carbonica subissero un brusco arresto, l'anidride carbonica che è già nell`atmosfera terrestre potrebbe continuare a scaldare il nostro pianeta per centinaia di anni». In sostanza, quindi si sarebbe già raggiunto il punto di non ritrno. La ricerca - finanziata dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica e dalla Carbon Mitigation Initiative della Princeton University - suggerisce che ci potrebbe volere molta meno CO2 di quanto attualmente si pensa per i raggiungere la temperatura globale che gli scienziati ritengono pericolosa. I ricercatori della Princeton University hanno simulato un pianeta Terra in cui, dopo che 1.800 miliardi di tonnellate di Co2 sono state immesse nell'atmosfera, tutte le emissioni di anidride carbonica venissero improvvisamente bloccate. Fino ad ora gli scienziati hanno usato uno scenario in cui le emissioni frenano fino ad uno stop completo per misurare la capacità di resilienza nello stoccaggio del calore e della CO2. In questo "shutoff" simulato, in un millennio il carbonio diminuisce costantemente con il 40% che viene assorbito dagli oceani e dalle masse terrestri in meno di 20 anni e l'80% viene stoccato alla fine dei 1000 anni. Questa diminuzione della CO2 atmosferica dovrebbe portare ad un raffreddamento. Ma secondo il nuovo studio «Il calore intrappolato dall'anidride carbonica ha una strada divergente». Dopo un secolo di raffreddamento, il pianeta si sarà riscaldato di 0.37 gradi Celsius (0,66 gradi Fahrenheit) nel corso dei prossimi 400 anni, dato che l'oceano assorbirà sempre meno calore». Anche se il picco delle temperature che ne consegue sembra basso, va tenuto di conto che la Terra dall'epoca pre-industriale si è riscaldata di soli 0,85 gradi Celsius (1,5 gradi Fahrenheit). L`Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) stima che un aumento delle temperature medie globali di soli 2 gradi Celsius (3,6 gradi Fahrenheit) superiore ai livelli pre-industriali potrebbe interferire pericolosamente interferire con il sistema climatico. Per evitare quel punto di rottura bisognerebbe mantenere le emissioni di CO2 sotto i 1.000 miliardi di tonnellate di carbonio, circa la metà dei quali è già stato messo in atmosfera. Ora i ricercatori della Princeton University hanno scoperto quello che chiamano "lingering warming effect" che dimostrerebbe che i temuti 2 gradi in più si possono raggiungere con molto meno carbonio in atmosfera. Lo studio contraddice la convinzione scientifica che la temperatura globale rimarrebbe costante o calerebbe e se le emissioni fossero improvvisamente ridotte a zero. Ma secondo i ricercatori della Princeton le ricerche precedenti «non tengono conto di una progressiva riduzione della capacità degli oceani di assorbire il calore dall`atmosfera, in particolare gli oceani polari». Frölicher ed il suo collega Jorge Sarmiento della Columbia university dicono: «Anche se l'anidride carbonica si disperde costantemente, alla fine, il calore residuo compensa il raffreddamento verificatosi a causa di diminuzione quantità di anidride carbonic

mercoledì 20 novembre 2013

IDA DOMINIJANNI CROCEFIGGE PRODI E CIAMPI.

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo stralci del libro di Ida Dominijanni «Difendere l'Italia» (Bur, 266 pagine, 11 euro, disponibile anche in ebook a 8,99 euro). I brani scelti sono tratti dal capitolo 3, parte seconda: «L'identità italiana nell'organizzazione del potere». Il libro è disponibile da oggi. Sono passati circa settant'anni da quando è stata progettata l'unificazione europea e le conseguenze sono state catastrofiche per tutti gli Stati che vi hanno aderito. Le Nazioni hanno perso la libertà e l'indipendenza, quella libertà e quell'indipendenza che erano state conquistate con le durissime lotte, con l'eroismo e la morte dei patrioti dell'Ottocento e della Prima guerra mondiale. [...] Dopo settanta anni di tentativi falliti, dopo le tragiche vicende di una crisi che è tutt'altro che una crisi ma una catastrofe economica, politica, culturale, morale quale le Nazioni europee non avevano mai vissuto, si sentono risuonare per l'ennesima volta in questi giorni, le parole dei piccoli dittatori che governano (che fingono di governare) la Grecia, l'Italia, la Francia e che affermano, come ha fatto François Hollande nel suo discorso alla Nazione del 16 maggio 2013: «Nei prossimi due anni faremo l'unione politicaeuropea».[...] L'aspetto più grottesco di questa situazione già così tragica sono le vuote chiacchiere dei difensori dell'Europa. Chi non ha sentito ripetere innumerevoli volte il ritornello che, senza l'adesione all'euro, l'inflazione sarebbe stata gravissima portando alla svalutazione della dracma? Ritornello che del resto viene ripetuto anche negli altri Paesi, come la Spagna, il Portogallo, l'Italia (tutti riuniti dalla finanza mondiale nel nefando recinto dei «maiali» o pigs), che soffrono più o meno quanto la Grecia per le conseguenze della crisi economica. Il prelievo forzoso del 20 per cento sui conti correnti, deciso dai banchieri d'Europa per Cipro, agli effetti pratici è forse diverso da una fortissima svalutazione? Lo è per la sua gravità come espropriazione diretta dei risparmi dei cittadini; lo è perché ha scavalcato i governanti ciprioti costringendoli ad ubbidire alla «troika», barbara istituzione di sorveglianza-giudiziocondanna- esecuzione, copiata da quella creata dal governo sovietico per controllare e punire qualsiasi «disobbedienza». [...] Tutti sanno che il passaggio all'euro ha comportato quasi ovunque un'immediata, gravosissima svalutazione, dovuta all'insieme dei fattori negativi del progetto europeista, ma in particolare dovuta all'idea stessa di una moneta comune fra Paesi con produzioni molto diverse e al tempo stesso legati ai parametri fissati nel Trattato di Maastricht. È stato Amartya Sen, premio Nobel per l'economia, ad affermare in una intervista al «Corriere della Sera» che «l'euro è stata un'idea orribile» e che «i parametri di Maastricht sono arbitrari ed economicamente insensati ». Affermazioni quasi incredibili per la loro gravità e per la competenza della persona che le ha pronunciate. Ebbene, nessuno ha risposto, né i politici, né i ministri, né i banchieri [...] Per quanto riguarda l'Italia, si è aggiunto all'errore di partenza compiuto con l'adesione all'euro il folle rapporto di cambio fissato da Ciampi e da Prodi, insieme agli altri governanti e ministri dell'Economia dell'area euro, un errore così madornale che ha comportato l'immediata svalutazione della metà del suo valore. Ma si è trattato davvero di un errore? Il cambio è stato deciso in modo assolutamente consapevole, come del resto è avvenuto per tutte le altre norme riguardanti l'unificazione; è stato il comune buon senso a giudicarle come «errori», essendo impossibile per dei cittadini «normali», supporre che si sia trattato di decisioni prese volutamente allo scopo di distruggere l'economia dei singoli Stati. [...] Per degli studiosi seri e competenti, il progetto del mercato unico e della moneta unica avrebbe dovuto apparire del tutto errato fin dall'inizio, ossia dagli anni del Mercato comune, della distruzione delle colture agricole, delle quote latte, e al più tardi dalla firma di Maastricht, ossia dal 1992. A che servirebbero gli scienziati se non fossero in grado di valutare gli errori a livello di progetto? [...] La conclusione è inevitabile: non si tratta di «errori», ma di una loro precisa volontà. Per quanto sia difficile convincersi che i governanti abbiano voluto distruggere i propri Stati, è ancora più difficile credere che siano stati compiuti gli enormi errori tecnici che hanno portato l'Europa fino alla crisi attuale senza che almeno qualcuno fra i politici, gli economisti e i banchieri in campo ne fosse consapevole.

lunedì 11 novembre 2013

Nel 2014 l'Italia rischia il collasso.

"La caduta dell'Italia nel 2014". di: Il Blog di Beppe Grillo .
Pritchard, International Business Editor del The Daily Telegraph: è tempo di valutare un euro a due velocità. ROMA (WSI) - E' un dato di fatto inoppugnabile che l'Europa stia viaggiando a due velocità e che i Pigs, i Paesi del Sud Europa in difficoltà, debbano dotarsi di una politica comune che non sia supina alla Germania. Le esportazioni dei Pigs sono frenate dal valore dell'Euro, una situazione che sta diventando insostenibile, è tempo di valutare un euro a due velocità e di iniziare a discutere a un tavolo comune con i Pigs una posizione unitaria verso la UE. "Nel 2014 l'Italia rischia il collasso", intervista a Pritchard, International Business Editor del The Daily Telegraph da l'Antidiplomatico, di Alessandro Bianchi. Alessandro Bianchi: Dalle colonne del Telegraph, Lei ha scritto spesso come i Paesi dell'Europa del sud dovrebbero formare un cartello e parlare con un'unica voce nel board della Bce e nei vari summit per forzare quel cambiamento di politica necessario a rilanciare le loro economie. Ritiene che il sistema euro possa ancora salvarsi o giudica migliore per un Paese come l'Italia scegliere il ritorno alla propria valuta nazionale? Pritchard: Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell'Abenomics (serie di iniziative macroeconomiche attuate nel 2013 per risollevare il Giappone dalla decennale depressione economica, ndr). Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare. Questi Paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento. La BCE oggi non sta rispettando gli obblighi previsti dai trattati e non solo per il target del 2%, dato che nei trattati non si parla solo d'inflazione, ma anche di crescita e di occupazione. Il dato dello 0,8% di ottobre è un autentico disastro per l'andamento della traiettoria di lungo periodo del debito. Senza un cambio di strategia forte, l'Italia sarà al collasso nel 2014. Il Paese ha un avanzo primario del 2.5% del PIL e ciononostante il suo debito continua ad aumentare. Il dramma dell'Italia non è morale, ma dipende dalla crisi deflattiva cui è costretta per la sua partecipazione alla zona euro. La politica è fatta di scelte e di coraggio. Fino ad oggi non si è agito per impedire che si dissolvesse il consenso politico dell'euro in Germania. Ma oggi c'è una minaccia più grande e se Berlino non dovesse accettare le nuove politiche, può anche uscire dal sistema. Il ritorno di Spagna, Italia e Francia ad una valuta debole è proprio quello di cui i Paesi latini hanno bisogno. Del resto, la minaccia tedesca è un bluff ed i Paesi dell'Europa meridionale devono smascherarlo. L'ora del confronto è arrivato. Alessandro Bianchi: Il problema è che i governi attuali dell'Europa meridionale sembrano ipnotizzati dall'incantesimo del "più Europa" e non prendono in considerazione altre soluzioni. Da cosa dipende? Pritchard: Recentemente ho avuto modo di incontrare a Londra il primo ministro italiano Enrico Letta ed abbiamo parlato proprio di questo. Alla mia domanda sul perché non si facesse promotore di un cartello con gli altri Paesi dell'Europa in difficoltà per forzare questo cambiamento, il premier italiano mi ha risposto che secondo lui sarà Angela Merkel a mutare atteggiamento nel prossimo mandato e venire incontro alle esigenze del Sud. Si tratta di un approccio assolutamente deludente. Enrico Letta, come anche Hollande in Francia, è un fervido credente del progetto di integrazione europea e non riesce ad accettare che l'attuale situazione sia un completo disastro. Questo atteggiamento non gli permette di comprendere le ragioni per cui l'euro sia divenuto così disfunzionale per i Paesi membri. Alessandro Bianchi: Coloro che sostengono che i Paesi dell'Europa meridionale non possono tornare alle loro monete nazionali utilizzano due motivazioni in particolare: l'enorme inflazione conseguente all'inevitabile svalutazione ed il fatto di non poter poi reggere la concorrenza di colossi commerciali come la Cina. Le giudica corrette? Pritchard: Si tratta, in entrambi casi, del contrario esatto della realtà. L'euro è un'autentica maledizione per le esportazioni, che dipendono dai prezzi e dal tasso di cambio. I Paesi europei sopravvalutati a causa della moneta unica hanno perso una quota importante del loro mercato globale a discapito della Cina. Con Pechino che tiene lo yuan sottovalutato e con una moneta enormemente sopravvalutata, molte aree dove l'industria italiana eccelle sono inevitabilmente in crisi. Una crisi che dipende dal tasso di cambio. Per quel che riguarda l'inflazione, qualora l'Italia dovesse procedere ad un collasso disordinato e caotico dell'euro, il Paese potrebbe perdere nella prima fase il controllo dei prezzi. Ma oggi quest'ultimi sono già fuori controllo. Nei Paesi dell'Europa meridionale è in corso una grave crisi di deflazione che rischia di riproporre il "decennio perso" del Giappone con contorni inquietanti per quel riguarda l'andamento debito/Pil. In Italia è passato dal 120% al 133% in due anni: si tratta di una trappola che sta portando il Paese al collasso. Il problema da combattere oggi è la deflazione e non l'inflazione. L'esperienza attuale dell'Italia e degli altri Paesi della zona euro è molto nota in Gran Bretagna. Nel nostro Paese ci sono stati due esempi similari di crisi di deflazione e svalutazione interna: agli inizi degli anni '30 con il sistema del Gold Standard e nella crisi dello SME del 1991-1992. In entrambi i casi, il Regno Unito ha determinato la rottura del sistema e restaurato il controllo totale della propria valuta nel momento in cui gli interessi del Paese erano messi a rischio. I critici al tempo utilizzavano la stessa argomentazione dell'inflazione, ma nel 1931 all'uscita del Gold Standard, in una situazione di deflazione interna, non vi è stato alcun aumento incontrollato dei prezzi, con lo stimolo monetario e la svalutazione che sono stati la premessa per la ripresa dalla Grande Depressione. La stessa identica esperienza l'abbiamo vissuta nel 1992 con la crisi dello SME. Spesso si tende ad avere un approccio superficiale alle questioni economiche e questo non aiuta il dibattito politico. Se dovesse lasciare l'euro, l'Italia dovrebbe optare per un grande stimolo monetario da parte della Banca d'Italia, una svalutazione ed una politica fiscale sotto controllo. Questa combinazione garantirebbe al Paese una transizione tranquilla e nessuna crisi fuori controllo. Alessandro Bianchi: Molto spesso coloro che reputano insostenibile il ritorno alle monete nazionali paventano anche l'insostenibilità di poter sopportare le inevitabili ritorsioni economiche della Germania. Si tratta di una minaccia credibile? Pritchard: Non c'è nulla di più falso. E' negli interessi della Germania gestire l'eventuale uscita di un Paese membro nel modo più lineare, regolare e tranquillo possibile. Nel caso di un deprezzamento fuori controllo della Lira, ad esempio, il più grande sconfitto sarebbe Berlino: le banche ed assicurazioni tedesche che hanno enormi investimenti in Italia sarebbero a rischio fallimento; ed inoltre, le industrie tedesche non potrebbero più competere con quelle italiane sui mercati globali. Sarebbe interesse primordiale della Bundesbank acquisire sui mercati valutari internazionali le lire, i franchi, pesos o dracme per impedirne un crollo. Si tratta di un punto molto importante da comprendere: nel caso in cui uno dei Paesi meridionali dovesse decidere di lasciare il sistema in modo isolato, è nell'interesse dei Paesi economici del nord Europa, in primis la Germania, impedire che la sua valuta sia fuori controllo e garantire una transizione lineare. Tutte le storie di terrore su eventuali disastri che leggiamo non hanno alcuna base economica. Alessandro Bianchi: In diversi suoi articoli recenti, Lei dichiara come la spinta al cambiamento arriverà dalla Francia. Quale sarà l'elemento che lo determinerà in concreto? Pritchard: Con la disoccupazione che cresce a livelli non più controllabili, Hollande, che ha posto come suo obiettivo primario della sua presidenza quello dell'occupazione, ha perso ogni credibilità e sta arrivando al limite di sopportazione con l'Europa. Quello che sta accadendo oggi alla Francia è l'esatta riproposizione delle dinamiche economiche che il Paese ha vissuto dal 1934 al 1936, quando con il Gold Standard il Paese si trovava in una situazione di deflazione, disoccupazione di massa e non aveva gli strumenti per ripartire. I dati sono arrivati ad un livello insostenibile nella presidenza Laval nel 1935 ed hanno determinato un cambiamento politico rivoluzionario nel 1936: la vittoria del Fronte Popolare. La Francia di oggi è in una situazione simile al 1935, con i dati economici che continuano a peggiorare di mese in mese, ed una svolta come quella del 1936 si avvicina. Basta vedere la tensione dei movimenti di protesta in Bretagna o i risultati crescenti del Fronte Nazionale per comprenderlo. Alessandro Bianchi: Sarà Le Pen ad imprimere questo cambiamento? Pritchard: L'ascesa del Fronte Nazionale è incredibile, ma non penso che prenderà mai il potere. Quello che accadrà sarà però altrettanto rivoluzionario, in quanto costringerà gli altri partiti, soprattutto i gollisti, a modificare la loro politica. Il programma di Le Pen è chiaro: uscita immediata dall'euro - con il Tesoro francese che proporrà un accordo con i creditori tedeschi, e se questi non l'accetteranno la Francia tornerà lo stesso al franco e le perdite principali saranno per la Germania – e poi referendum sull'UE sul modello inglese. Sono argomenti che incontrano la simpatia di un numero crescente di persone in modo trasversale e gli altri partiti non possono più ignorarli. Il Fronte Nazionale sta forzando gli altri partiti a cambiare la loro agenda e realizzare che non possono semplicemente avere la stessa opinione di Berlino e Bruxelles. Alessandro Bianchi: In molti Paesi stiamo assistendo alla fusione dei partiti conservatori e socialisti a difesa dell'austerità di Bruxelles e contro le intenzioni di voto degli elettori. Il voto dei Parlamenti nazionali sulle leggi di stabilità ormai non conta più ed i governi aspettano solo l'approvazione della Commissione. Infine, i Paesi si stanno indebitando per finanziare organizzazioni inter-governative come il MES, che prenderà decisioni fondamentali per la vita delle popolazioni nei prossimi anni e non ha all'interno meccanismi di trasparenza e di controllo democratico. Ma cosa sta diventando l'Unione Europea? Pritchard: La difficoltà oggi è quella di comprendere il perché la creazione dei vari strumenti di coesione federale decisi dall'UE abbiano creato un sistema così disfunzionale. Il problema fondamentale è la mancanza del controllo delle imposte e della spesa da parte di un Parlamento eletto democraticamente. Non è un caso che la guerra civile inglese sia iniziata nel 1640 quando il re ha cercato di togliere questi poteri al Parlamento o che la rivoluzione americana sia scoppiata quando questo potere è stato tolto da Londra a Stati come Virginia o il Massachusetts, che lo esercitavano da tempo. Sono esempi anglosassoni, ma ce ne sono tanti altri di come le fondamenta della democrazia risiedono nel controllo del budget e delle imposte da parte di organi eletti dal popolo. Quello che sta accadendo all'UE è, al contrario, il tentativo di darne la gestione a strumenti e strutture sovranazionali, che non hanno alcun fondamento con nessun Parlamento. E' estremamente pericoloso e chiaramente antidemocratico. L'argomento che viene usato spesso in sua difesa è che si tratta di un primo passo antidemocratico si, ma che serve per completare la federazione sul modello statunitense. Il sistema americano sarebbe il modello logico da imitare, ma non è realizzabile: non c'è il consenso politico nei cittadini europei e per gli USA vi erano sistemi, istituzioni e tradizioni completamente differenti. François Heisbourg nel suo ultimo libro centra alla perfezione questo punto: non si può creare un'Unione politica con l'obiettivo di salvare l'euro. E' ridicolo. La federazione deve essere subordinata ai grandi ideali che plasmano una società e non per salvare una moneta. I Paesi devono tornare alla realtà sociale al più presto e non devono pensare a strumenti di ingegneria finanziaria per far funzionare qualcosa che non può funzionare. Alessandro Bianchi: Il referendum voluto da Cameron per la rinegoziazione della partecipazione del Regno Unito all'UE trova il favore di un numero crescente di Paesi, soprattutto nel nord Europa. Cosa si attende dal voto inglese? Pritchard: La prima reazione in Europa quando Cameron ha lanciato il referendum è stata quella di definire gli inglesi "stupidi suicidi". L'argomento era quello che Londra avrebbe perso mercato e si sarebbe rassegnata al declino economico. Si tratta di argomentazioni ridicole. Le persone che hanno ancora ben compreso come funziona l'Unione Europea, come quelle con cui mi sono confrontato alla Conferenza Ambrosetti a Como in settembre, sanno che l'uscita del Regno Unito sarebbe si un disastro, ma non per Londra, per l'UE. Il progetto europeo si basa su tre gambe, una delle quali è la Gran Bretagna, l'Olanda ed i Paesi scandinavi. E senza una di queste, l'UE è finita, perché la chimica interna cambierebbe e sarebbe particolarmente difficile soprattutto per la Francia mantenere i sottili equilibri con la Germania. La decisione inglese è un enorme avviso a Bruxelles: l'integrazione è andata troppo oltre il volere popolare e le popolazioni vogliono indietro alcuni poteri. La Costituzione europea è stata rigettata da un referendum in Francia ed Olanda. I trattati recenti non sono stati posti al giudizio del popolo, tranne che in Irlanda, ma costringendola a votare fino all'accettazione. Questa fase in cui si procede senza consultare i cittadini è finita. Questo tipo di arroganza è finito. Alessandro Bianchi: Nel maggio del prossimo anno ci saranno le elezioni per il Parlamento europeo, un test fondamentale per i partiti e movimenti scettici verso Bruxelles. L'UE non sarà più la stessa? Pritchard: Da studioso dell'economia mi trovo in difficoltà a rispondere. Posso dire che oggi il pericolo maggiore per i Paesi dell'Europa meridionale si chiama crisi deflattiva, che potrebbe presto trasformarsi in una depressione economica in grado di portare fuori controllo la traiettoria debito/Pil. E' un potenziale disastro. In questo contesto, la politica si deve porre l'obiettivo del recupero di una serie di poteri sovrani delegati a Bruxelles e le elezioni europee del prossimo maggio saranno un evento potenzialmente epocale: i partiti scettici dell'attuale architettura istituzionale potrebbero essere i primi in diversi Paesi – l'Ukip in Gran Bretagna, il Fronte Nazionale in Francia, il MoVimento Cinque Stelle in Italia, Syriza in Grecia ed in altri Paesi – e sarà la possibilità per le persone di esprimere la loro irritazione e frustrazione contro le scelte da Bruxelles. Un blocco politico importante potrà distruggere questo "mito artificiale" che si è costruito: l'UE non sarà più la stessa e sarà costretta ad essere meno ambiziosa e comprendere che molte delle sue prerogative devono tornare agli Stati nazionali. I governi di Italia, Spagna, Francia devono riprendere il pieno controllo delle vite dei loro cittadini e non pensare all'allargamento all'Ucraina o alla Turchia. Si tratta dell'ultima battaglia. Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Blog di Beppe Grillo - che ringraziamo - esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

domenica 10 novembre 2013

Agosti e l' italica demenza.

Dov’è la vittoria? – Silvano Agosti e “la demenza incurabile del sentirsi italiani”. di Paolo Barbieri | 10 novembre 2013.
Autore cinematografico, poeta, scrittore. Silvano Agosti si sente sicuramente a disagio in questa classificazione nei ruoli, avendo tra l’altro chiesto (inascoltato) da anni all’Unesco di proclamare l’essere umano patrimonio dell’umanità. L’Essere Umano, in quanto «massimo capolavoro della natura», infatti non può essere ingabbiato in un ruolo. Nato a Brescia 75 anni fa, dopo aver girato il mondo, vive da tempo a Roma. Tra le sue opere letterarie più significative figura Lettere dalla Kirghisia: il racconto di un paese immaginario «ma assai possibile da realizzare», dove si lavora tre ore al giorno, dove i politici si occupano del bene pubblico ma in forma volontaria e dove le persone hanno il tempo di vivere e non solo di esistere. Quanto è lontana oggi l’Italia da quel paese? È la parola oggi che mi fa sorridere. In poche parole riassumo il percorso della mia emotività. Sono nato in una città di 300mila abitanti che si chiama Brescia e da bambino e da ragazzo mi sono accorto che la chiamavano città ma non lo era. Era un agglomerato di chiese e di banche, di mercati e di negozi ma io pensavo che nella città abitassero cittadini e che il comune si adoperasse per renderli felici, invece non era così. Nessuno si interessava dei cittadini, interessavano i compratori o i clienti delle banche. Allora sono andato via a visitare il mondo. Ho deciso di abitare a Roma pensando che, essendo una metropoli, fosse più vicina a quella che io credevo fosse una città. Invece anche qui mi sono accorto che c’erano tonnellate di monossido di carbonio che riempivano le vie, tutti sottomessi al giogo di lavorare otto, nove, dieci ore al giorno. Ho capito che Roma non era altro che Brescia che avevo lasciato cinque anni prima, ma più grande. Dopodiché ho pensato di abbandonare il concetto di città e di abitare l’Italia. Ma ho scoperto che l’Italia non esisteva. Esisteva uno strano feudo dominato da quattro o cinque cosche tutte a carattere mafioso ed era pilotato dall’esterno da una grande potenza straniera che non nomino e che domina tuttora. Allora ho pensato all’Europa, cioè alla possibilità di sentire che qualcuno si occupasse del mio benessere e che come cittadino venissi valutato per la mia preziosità e non per la mia spendibilità. Purtroppo anche l’Europa si è di rivelata come un’accozzaglia di mercati che si basa sullo spread, sul Pil. Finalmente sono approdato al pianeta Terra in concomitanza del famoso afflusso di una nuova cultura planetaria. Lì mi sono fermato. Oggi penso di abitare su un pianeta che e mi è molto più simpatico di tutti gli Stati occidentali e orientali messi insieme. L’essere umano non è mai al centro. È questa, secondo lei, la malattia dell’Italia? Al centro non c’è l’essere umano ma l’imbecillità burocratica. La malattia è di non essere sé stessi ed è la malattia che hanno tutti gli esseri umani. Sono tutti murati vivi nei ruoli. Esistono migliaia di ragionieri, avvocati, mariti, direttori generali, muratori, artisti, papi, registi, attori, elettori, ma l’essere umano dov’è? Io non lo incontro mai se non nei bambini di età inferiore ai tre anni. La corruzione dilaga nonostante le inchieste. Agli italiani manca il senso del bene comune? Non è che gli manca. Gli italiani hanno un problema e cioè non hanno alcuna certezza di poter mangiare bene e di poter dormire al caldo. Quando gli italiani, ma vorrei dire quando tutti gli esseri umani, avranno la certezza di poter mangiare in qualsiasi ristorante due pranzi al giorno e di avere una casa che gli viene regalata o data in dotazione a diciotto anni, allora, ma solo allora il ladro sarà veramente ladro, l’assassino veramente assassino e l’accumulatore di ricchezza si rivelerà per ciò che veramente è, un malato mentale. Grazie alla cultura cattolica e socialista, l’Italia ha coltivato la solidarietà. Da anni però sembra prevalere l’egoismo. Quando è successo? Non si può dire che prevale l’egoismo quando un essere vivente non ha la certezza del cibo e del sonno … Faccio un esempio: i leghisti che si schierano contro gli immigrati… Il leghista è una versione rozza di una persona disperata che non ha vergogna di dire che non ha alcuna certezza. Poi ci sono le persone eleganti che non avendo nessuna certezza del cibo e del sonno accumulano denaro e si chiamano banchieri. Sono tutti sostanzialmente dei dementi dal punto di vista animale. L’essere umano è il massimo capolavoro che la natura ha concepito in cinque miliardi di anni, ma nessuno lo sa, né si tratta come un capolavoro. Questo essere umano viene distrutto scientificamente dalla scuola, dal lavoro coatto, dalla famiglia nucleare, dalla mancanza d’amore. Amore nel senso di tenerezza. Non esiste nessuno che faccia veramente l’amore. Il potere concede la procreatività, cioè il ballonzolare per un po’, come fanno vedere i film americani, sul corpo di una donna e poi metterla incinta così hanno il grande padronato ha dei piccoli nuovi servi. Ma se la gente potesse fare l’amore anche una sola volta nella vita, l’imbecillità diventerebbe così visibile da non poter più esistere. Lei si sente italiano? Sentirsi italiano sarebbe un livello di demenza addirittura incurabile. Cosa si può fare? Ribellarsi? Ogni persona deve prendersi la responsabilità globale di ciò che sta accadendo (morti per immigrazione, guerre, armi chimiche) e scacciare dalla propria personalità tutti quegli elementi emotivi, culturali che assomigliano in modo allarmante al potere che gestisce il mondo. Pasolini scrisse nel 1975 un articolo sulla scomparsa delle lucciole come fine di una certa civiltà contadina. «Darei l’intera Montedison per una lucciola…» scrisse. Lei cosa darebbe? Darei la mia intera felicità perché Pasolini fosse riuscito a capire che i miti sulla civiltà contadina erano da snob. Pasolini era un piccolo borghese affascinato dall’ideologia comunista, suo papà era colonnello. La civiltà contadina? Mi fa ridere, i contadini erano sfruttati fino alle lacrime dagli agrari, non sono mai esistiti i contadini. In realtà si chiamavano famigli ed erano degli eterni precari. Ogni autunno dovevano migrare in un altro fondo, sempre nell’incertezza, sempre nella fame. Cosa pensa dei giovani italiani? Li osservo, sono generalmente disperati, smarriti, sono senili nel dedicarsi ai vizi che lo Stato propone ai giovani: alcool, fumo e discoteche. Sono dei relitti smarriti. Questi ipocriti degli adulti, che siedono nei governi, sono anche peggio. Siccome non riescono a garantire il presente dicono che ai giovani bisogna assicurare il futuro. Io ho ribrezzo per l’ipocrisia perché è l’arma più tremenda che offusca il mondo. Molto più potente della menzogna, perché distrugge la vita.

venerdì 8 novembre 2013

I PADRONI DEL MONDO.

Nelle librerie "I padroni del mondo" di Luca Ciarrocca, su capitalismo, bankster, debito, euro. Il nuovo libro del direttore di Wall Street Italia. di: WSI Pubblicato il 07 novembre 2013. Il nuovo libro del direttore di Wall Street Italia.
ROMA (WSI) - "Perché mai, noi cittadini che lottiamo per sopravvivere, dobbiamo essere condizionati da debiti creati da una élite al potere che li ha contratti a nostre spese?" Murray Newton Rothbard, economista, storico, filosofo dell’anarcocapitalismo. Un club esclusivo di poche migliaia di persone, non elette democraticamente, che decide i destini di intere popolazioni, in grado di manipolare i mercati finanziari e di imporsi sulla politica e sugli Stati. Chi sono, come agiscono e quali obiettivi hanno i banchieri - i famigerati bankster - che guidano i giochi delle banche centrali e vivono sulle spalle della classe media e dei ceti più poveri? Il libro di Ciarrocca riesce a mappare il genoma della finanza mondiale attraverso la rete di società finanziarie e industriali che di fatto controllano l’economia mondiale, e ne denuncia la pericolosità. Ecco come i grandi istituti commerciali azionisti delle banche centrali, innanzitutto la Federal Reserve e la Bce, riescono a veicolare le informazioni e a tirare le fila del capitalismo mondiale. Il prezzo di materie prime, azioni, obbligazioni, valute, non è frutto di una contrattazione libera, quella è solo una messa in scena. La realtà è ben diversa: sono i bankster a condurre il gregge dei piccoli risparmiatori e dei contribuenti, complici le agenzie specializzate come Moody’s e Standard & Poor’s e i governi loro alleati, pronti a scaricare sulla collettività il peso delle crisi e l’onere di generare nuovo cash. Come uscirne? La proposta c’è, e l’autore ce la illustra. I cittadini sarebbero finalmente svincolati dai diktat della finanza, e i governi non dovrebbero più cedere il potere di creare moneta alle grandi banche commerciali, la cui influenza sarebbe ampiamente ridimensionata. Una rivoluzione dalla parte della gente che lavora e dell’economia reale. Luca Ciarrocca, romano, famiglia paterna di Santo Stefano di Sessanio (L’Aquila), vive dal 1988 in America, dove è stato per molti anni corrispondente economicopolitico da New York per grandi giornali italiani, tra cui «il Giornale» (fu assunto da Indro Montanelli) e «l’Espresso». Laurea in Giurisprudenza e master in Business administration, nell’ottobre del 1999 ha lasciato il giornalismo tradizionale fondando il sito Wallstreetitalia.com che tuttora dirige. Descrivendo senza filtri la grande crisi del 2008, l’attacco ai Btp del 2011 e le disfunzioni di euro e Unione europea, Wall Street Italia (che è orgogliosamente indipendente e non accetta sussidi pubblici) è diventato in pochi anni il secondo website dopo «Il Sole 24 Ore» nel segmento Economia, Finanza, Politica e News. Ha pubblicato il libro "Investire in tempo di guerra" (Nutrimenti) in cui si racconta la mattina dell’11 settembre 2001, quando Wall Street Italia ha dato per primo al mondo la notizia dell’attacco dei terroristi di Al Qaeda ai grattacieli del World Trade Center.

sabato 2 novembre 2013

IL CAPITALISMO NON E' PIU' COMPATIBILE CON LA VITA SULLA TERRA.

Lo scienziato Werner: “per salvare il pianeta, necessaria resistenza contro la cultura capitalista” . .
. Come la scienza ci sta dicendo di ribellarci . di Naomi Klein. Nel dicembre del 2012 un ricercatore, dai capelli rosa, dei sistemi complessi, di nome Brad Werner, si è fatto strada tra la folla dei 24.000 scienziati della terra e dello spazio all’Assemblea Annuale Autunnale dell’Unione Geofisica Statunitense, che si tiene ogni anno a San Francisco. Il congresso di quest’anno ha avuto tra i partecipanti dei grandi nomi, da Ed Stone del Progetto Voyager della NASA, che ha illustrato una nuova pietra miliare sulla via dello spazio interstellare, al regista James Cameron, che ha discusso le sue avventure nei sommergibili di profondità. Ma è stata la sessione di Werner a suscitare gran parte gran parte dello scalpore. Era intitolata “La terra è fott….a?” (Titolo Intero: “La terra è fott…a? Futilità dinamica della gestione globale dell’ambiente e possibilità di sostenibilità mediante l’attivismo dell’azione diretta”). In piedi di fronte alla sala del congresso, il geofisico dell’Università della California, San Diego, ha accompagnato l’uditorio attraverso il modello informatico avanzato che ha utilizzato per rispondere alla domanda. Ha parlato di confini dei sistemi, perturbazioni, dissipazione, attrattori, biforcazioni e un mucchio intero di altra roba largamente incomprensibile a quelli tra noi non iniziati alla teoria dei sistemi complessi. Ma il succo è stato sufficientemente chiaro: il capitalismo globale ha reso così rapido l’esaurimento delle risorse, così conveniente e privo di barriere, che i sistemi “terra-umani” stanno in conseguenza diventando pericolosamente instabili. Quando sollecitato dai giornalisti a fornire una risposta chiara alla domanda “siamo fott…i?”, Werner ha abbandonato il gergo e ha risposto: “Più o meno”. C’era tuttavia una dinamica nel modello che offriva qualche speranza. Werner l’ha definita “resistenza”, movimenti di “persone o gruppi di persone” che “adottano un certo insieme di dinamiche che non si adeguano alla cultura capitalista”. Secondo il compendio della sua presentazione, ciò include “azione ambientale diretta, resistenza derivata dall’esterno della cultura dominante, come nelle proteste, nei blocchi e nel sabotaggio da parte dei popoli indigeni, dei lavoratori, degli anarchici e di altri gruppi attivisti”. Le riunioni scientifiche serie solitamente non ospitano appelli alla resistenza politica e ancor meno all’azione diretta e al sabotaggio. Ma, di nuovo, Werner non stava esattamente sollecitando queste cose. Ha semplicemente osservato che le rivolte di massa della gente – del genere del movimento abolizionista [della schiavitù – n.d.t.], del movimento per i diritti civili o di Occupy Wall Street – rappresentano la fonte più probabile di “frizione” per rallentare una macchina economica che sta sbandando fuori controllo. Sappiamo che i movimenti sociali del passato hanno “avuto un’enorme influenza su … com’è evoluta la cultura dominante”, ha segnalato. Dunque appare ragionevole che “se pensiamo al futuro della terra e al futuro del nostro rapporto con l’ambiente dobbiamo includere la resistenza come parte di tale dinamica”. E questa, ha sostenuto Werner, non è una questione di opinioni, ma “realmente un problema geofisico”. Una quantità di scienziati è stata spinta dalle scoperte delle proprie ricerche a scendere in strada con iniziative. Fisici, astronomi, medici e biologi sono stati all’avanguardia dei movimenti contro le armi nucleari, l’energia nucleare, la guerra, la contaminazione chimica e il creazionismo. E nel novembre del 2012 la rivista Nature ha pubblicato un articolo del finanziere e filantropo ambientalista Jeremy Grantham che sollecitava gli scienziati a unirsi a questa tradizione e a “farsi arrestare, se necessario”, perché il cambiamento climatico “non è solo la crisi delle vostre vite, è anche la crisi dell’esistenza della nostra specie”. Alcuni scienziati non hanno bisogno di farsi convincere. Il boss della scienza climatica moderna, James Hansen, è un attivista formidabile, arrestato circa mezza dozzina di volte per essersi opposte all’estrazione di carbone mediante rimozione delle cime montane e alle condutture delle sabbie bituminose (ha persino lasciato quest’anno il suo lavoro presso la NASA, in parte per avere più tempo per condurre campagne). Due anni fa, quando sono stata arrestata all’esterno della Casa Bianca in un’azione di massa contro la conduttura delle sabbie bituminose Keystone XL, una delle 166 persone in manette quel giorno era un glaciologo di nome Jason Box, un esperto di fama mondiale della fusione della coltre di ghiaccio della Groenlandia. “Non avrei potuto conservare il rispetto di me stesso se non avessi partecipato”, ha dichiarato Box all’epoca, aggiungendo che “limitarsi a votare non sembra essere sufficiente in questo caso. Io ho bisogno di essere anche un cittadino.” Questo è lodevole, ma quello che Werner sta facendo con il suo modello è diverso. Non sta dicendo che la sua ricerca l’ha spinto a intraprendere azioni dirette per fermare una particolare politica; sta dicendo che la sua ricerca dimostra che il nostro intero paradigma economico è una minaccia alla stabilità ecologica. E, in effetti, che contrastare tale paradigma economico – con la contro-pressione del movimento di massa – è l’arma migliore dell’umanità per evitare la catastrofe. E’ roba pesante. Ma non è solo. Werner fa parte di un gruppo piccolo, ma sempre più influente, di scienziati le cui ricerche sulla destabilizzazione dei sistemi naturali – in particolare del sistema climatico – stanno portandoli a conclusioni analogamente trasformative, persino rivoluzionarie. E per ogni rivoluzionario da scrivania che abbia mai sognato di rovesciare l’attuale ordine economico a favore di uno che abbia meno probabilità di costringere i pensionati italiani a impiccarsi a casa loro, questo lavoro dovrebbe essere di speciale interesse. Perché rende il disfarsi di quel sistema crudele a favore di qualcosa di nuovo (e forse, con parecchio lavoro, di migliore) non più una questione di mere preferenze ideologiche, bensì piuttosto una questione di necessità esistenziale a livello della nostra specie. A guidare il gruppo di questi rivoluzionari scientifici c’è uno dei maggiori esperti britannici del clima, Kevin Anderson, vicedirettore del Centro Tyndall per le Ricerche sul Cambiamento Climatico, che si è rapidamente consolidato come una delle principali istituzioni del Regno Unito di ricerca sul clima. Rivolgendosi a tutti, dal Dipartimento dello Sviluppo Internazionale e Consiglio Comunale di Manchester, Anderson ha speso più di un decennio a tradurre pazientemente le implicazioni della più recente scienza climatica a politici, economisti e conduttori di campagne. In un linguaggio semplice e chiaro egli espone un percorso rigoroso per la riduzione delle emissioni, che offre una possibilità decente di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto due gradi Celsius, un obiettivo che la maggior parte dei governi ha deciso preverrebbe la catastrofe. Ma in anni recenti i documenti e le diapositive di Anderson sono diventati più allarmanti. Sotto titoli quali “Cambiamento climatico: Ormai più che pericoloso … cifre brutali e tenue speranza”, egli segnala che le possibilità di restare entro qualcosa che si avvicini a livelli di temperatura sicuri si stanno riducendo rapidamente. Con la collega Alice Bows, un’esperta di mitigazione del clima al Centro Tyndall, Anderson segnala che abbiamo perso così tanto tempo a causa dello stallo politico e di politiche climatiche deboli – il tutto mentre il consumo globale (e le emissioni) saliva alle stelle – che ora abbiamo di fronte tagli tanto drastici da sfidare la logica fondamentale della priorità del PIL su ogni altra cosa. Anderson e Bows ci informano che il tanto spesso citato obiettivo di mitigazione a lungo termine – un taglio dell’80% delle emissioni sotto i livelli del 1990 entro il 2050 – è stato scelto puramente per obiettivi di convenienza politica e non ha “alcuna base scientifica”. Ciò è dovuto al fatto che gli impatti sul clima non derivano da quel che emettiamo oggi o emetteremo domani, bensì dalle emissioni cumulative che si sommano nel tempo nell’atmosfera. E ci avvertono che concentrandosi su obiettivi distanti tre decenni e mezzo nel futuro – anziché su ciò che possiamo fare rapidamente e immediatamente per tagliare il carbonio – c’è in grave rischio che consentiremo alle nostre emissioni di continuare a crescere negli anni a venire, influenzando troppo il nostro “budget del carbonio” di 2 gradi e mettendoci in una situazione impossibile più in là nel secolo. Ed è questo il motivo per cui Anderson e Bows sostengono che se i governi fanno sul serio riguardo al conseguire l’obiettivo concordato a livello internazionale di mantenere il riscaldamento entro i 2 gradi Celsius, e se le riduzioni devono rispettare un qualche principio di equità (fondamentalmente che i paesi che hanno diffuso emissioni per la maggior parte di due secoli devono tagliare prima dei paesi dove più di un miliardo di persone è privo di elettricità) allora le riduzioni devono essere molto più marcate e devono essere realizzate molto prima. Per avere almeno una possibilità del 50% di colpire il bersaglio dei 2 gradi (che essi e molti altri avvertono comportare già una serie di impatti climatici enormemente dannosi) i paesi industrializzati devono cominciare a tagliare le loro emissioni di gas serra di qualcosa come il 10 per cento l’anno, e devono cominciare ora. Ma Anderson e Bows si spingono più in là, segnalando che questo bersaglio può non essere raggiunto con la serie di modesti prezzi del carbonio o con le soluzioni della tecnologia verde solitamente promossi dai gruppi verdi. Queste misure indubbiamente contribuiranno, è un fatto, ma semplicemente non sono sufficienti: una riduzione delle emissioni del 10 per cento, anno dopo anno, è qualcosa virtualmente senza precedenti da quando abbiamo cominciato a fornire energia alle nostre economie con il carbone. In realtà tagli superiori all’1 per cento annuo “sono stati storicamente associati solo a recessioni o sconvolgimenti economici”, come ha detto l’economista Nicholas Stern nel suo rapporto del 2006 per il governo britannico. Persino dopo il crollo dell’Unione Sovietica non si sono verificate riduzioni di tale durata e portata (i paesi ex sovietici hanno sperimentato riduzioni medie annue di circa il 5 per cento in un periodo di dieci anni). Non si sono verificate dopo il crollo di Wall Street nel 2008 (i paesi ricchi hanno sperimentato un calo di circa il 7 per cento tra il 2008 e il 2008, ma le loro emissioni di CO2 sono rimbalzate con gusto nel 2010 e le emissioni in Cina e in India hanno continuato a crescere). Solo immediatamente dopo il grande crollo dei mercati nel 1929 gli Stati Uniti, ad esempio, hanno visto calare le loro emissioni per molti anni consecutivi di più del 10 per cento l’anno, secondo dati storici del Centro di Analisi delle Informazioni sull’Anidride Carbonica. Ma quella fu la peggior crisi economica dei tempi moderni. Se dobbiamo evitare quel tipo di carneficina nel conseguire i nostri obiettivi di emissioni basati sulla scienza, la riduzione del carbonio deve essere gestita con attenzione mediante quelle che Anderson e Bows descrivono come “strategie radicali e immediate di decrescita negli Stati Uniti, nella UE e in altri paesi ricchi”. Il che va bene, solo che capita che noi abbiamo un sistema economico che fa della crescita del PIL un feticcio sopra tutto il resto, indipendentemente dalle conseguenze umane o ecologiche, e in cui la classe politica neoliberale ha totalmente abdicato dalle sue responsabilità di gestire qualcosa (poiché il mercato è il genio invisibile cui tutto deve essere affidato). Così, quello che Anderson e Bows stanno dicendo in realtà è che c’è ancora tempo per evitare un riscaldamento catastrofico ma non mantenendo le regole del capitalismo come sono costruite attualmente. Il che può essere l’argomento migliore che abbiamo mai avuto per cambiare tali regole. In un saggio del 2012 apparso sull’influente rivista scientifica Nature Climate Change Anderson e Bows hanno lanciato una specie di guanto di sfida, accusando molti dei loro colleghi scienziati di non dire la verità sul genere di cambiamenti che il cambiamento climatico esige dall’umanità. Al riguardo val la pena di citare la coppia per esteso: … negli scenari di sviluppo delle emissioni gli scienziati minimizzano ripetutamente e gravemente le implicazioni delle loro analisi. Quando si tratta di evitare un aumento di due gradi, “impossibile” è tradotto in “difficile ma fattibile”, mentre “urgente e radicale” emerge come “impegnativo”, tutto per compiacere il dio dell’economia (o, più precisamente, della finanza). Ad esempio, per evitare di superare il tasso massimo di riduzione delle emissioni imposto dagli economisti, sono presupposti picchi iniziali “impossibili” di emissioni, assieme a nozioni ingenue su “grandi” ingegnerie e sui tassi di sviluppo delle infrastrutture a basso carbonio. In modo più inquietante, col ridursi dei budget delle emissioni, la geoingegneria è sempre più proposta come garanzia che il diktat degli economisti resti fuori discussione. In altre parole, al fine di apparire ragionevoli nei circoli economici neoliberali, gli scienziati hanno comunicato in modo enormemente addolcito le implicazioni delle loro ricerche. Arrivati all’agosto 2013, Anderson ha voluto essere ancora netto, scrivendo che la barca del cambiamento graduale se n’era partita. “Forse all’epoca del Vertice della Terra del 1992, o anche al volgere del millennio, il livello di mitigazione di due gradi centigradi avrebbe potuto essere raggiunto mediante significativi cambiamenti evolutivi nella egemonia politica ed economica. Ma il cambiamento climatico è un problema di accumulo! Oggi, nel 2013, noi delle nazioni (post) industriali ad alte emissioni abbiamo di fronte una prospettiva molto differente. La nostra continua e collettiva sconsideratezza riguardo al carbonio ha dilapidato ogni opportunità di un “cambiamento evolutivo” consentito dal nostro precedente (e più ampio) budget del carbonio di due gradi centigradi. Oggi, dopo due decenni di finzioni e menzogne, il restante budget di due gradi impone un cambiamento rivoluzionario della egemonia politica ed economica.” (evidenziazioni dell’autore). Probabilmente non dovrebbe sorprenderci che alcuni scienziati del clima siano un po’ spaventati dalle implicazioni radicali delle loro stesse ricerche. La maggior parte di loro faceva tranquillamente il proprio lavoro misurando lo spessore dei ghiacci, elaborando modelli climatici globali e studiando l’acidificazione degli oceani solo per scoprire, come dice l’esperto australiano del clima e giornalista Clive Hamilton, che “stavano inconsapevolmente destabilizzando l’ordine politico e sociale”. Ma ci sono molti che sono ben consapevoli della natura rivoluzionaria della scienza del clima. E’ per questo che i governi che hanno deciso di abbandonare i loro impegni sul clima a favore dell’estrazione di altro carbonio hanno dovuto trovare modi sempre più aggressivi per far tacere e intimidire gli scienziati delle loro nazioni. In Gran Bretagna questa strategia sta diventando più trasparente, con Ian Boyd, il consigliere scientifico capo presso il Dipartimento dell’Ambiente, dell’Alimentazione e degli Affari Rurali, che di recente ha scritto che gli scienziati dovrebbero evitare “di suggerire che le politiche sono giuste o sbagliate” e dovrebbero esprimere le loro idee “collaborando con i consiglieri inseriti (come me) ed essendo la voce della ragione, piuttosto che del dissenso, nell’arena pubblica”. Se volete sapere dove porta tutto questo, controllate che cosa sta succedendo in Canda, dove io vivo. Il governo conservatore di Stephen Harper ha fatto un lavoro così efficace nell’imbavagliare gli scienziati e nel chiudere programmi critici di ricerca che, nel luglio del 2012, un paio di migliaia di scienziati e sostenitori ha tenuto un finto funerale all’esterno della sede del Parlamento a Ottawa, in lutto per “la morte delle prove”. I loro cartelli dicevano: “Niente scienza, niente prove, niente verità”. Ma la verità sta emergendo comunque. Il fatto che continuare come al solito a perseguire profitti e crescita stia destabilizzando la vita sulla terra non è più qualcosa di cui dobbiamo leggere nelle riviste scientifiche. I primi segnali si stanno mostrando sotto i nostri occhi. E un numero crescente di noi sta reagendo di conseguenza: bloccando l’attività di fratturazione idraulica, interferendo con i preparativi per le trivellazioni in acque russe (con enormi costi personali), portando in tribunale gli operatori delle sabbie bituminose per aver violato la sovranità indigena e con innumerevoli altre iniziative di resistenza grandi e piccole. Nel modello al computer di Brad Werner questa è la “frizione” necessaria per rallentare le forze della destabilizzazione; il grande attivista del clima Bill McKibben li definisce gli “anticorpi” che si schierano a combattere l’”impennata di febbre” del pianeta. Non è una rivoluzione, ma è un inizio. E potrebbe garantirci semplicemente tempo sufficiente a ideare un modo di vivere su questo pianeta che sia decisamente meno fott….o. . Naomi Klein, autrice di “La dottrina dei disastri” e di “No Logo”, sta lavorando a un libro e a un film sul potere rivoluzionario del cambiamento del clima. Potete seguirle su Twitter a @naomiaklein . Fonte: Z Net Italy .