lunedì 22 novembre 2010

Non siamo giapponesi

Giappone:Ministro si dimette per aver scherzato sul suo incarico
Tokyo, 22 nov. (Ap) -


Il ministro della Giustizia giapponese Minoru Yanagida si è dimesso per aver scherzato sulla facilità del suo incarico di governo. Il 14 novembre scorso, Yanagida aveva dichiarato che come ministro di giustizia doveva solo ricordare due frasi per rispondere alle domande dei parlamentari: "Non commento su casi specifici" e "Stiamo affrontando la questione in modo appropriato, in base alla legge e ai fatti". La gaffe ha scatenato la dura reazione dei parlamentari, che hanno subito chiesto le sue dimissioni. "E' colpa mia, ho rilasciato queste dichiarazioni imprudenti e scherzose, e me ne rammarico profondamente", ha detto Yanagida nella conferenza stampa in cui ha annunciato le sue dimissioni. Il ministro ha fatto sapere di aver deciso di lasciare l'incarico dopo aver incontrato il premier Naoto Kan, preoccupato per il delicato passaggio parlamentare del pacchetto di stimoli economici varato dal governo, da 61 miliardi di dollari. L'opposizione aveva infatti minacciato di boicottare i lavori. L'addio di Yanagida rischia di erodere ulteriormente il consenso al governo guidato da Kan, già sotto accusa per la sua presunta debolezza nelle recenti controversie diplomatiche con Cina e Russia.

domenica 21 novembre 2010

sabato 20 novembre 2010

Mafia S.p.A.: parla il giudice Imposimato




Lo Stato è "Cosa nostra"

pubblicato da Ferdinando Imposimato su www.lavocedellevoci.it

Molti anni fa una giornalista americana, Judith Harris, del Reader's Digest, mi chiese quale fosse la differenza tra Brigate rosse e mafia. Senza pensarci due volte risposi: le Br sono contro lo Stato, la mafia e' con lo Stato. E spiegai che la capacita' della mafia e' di intessere legami stretti con le istituzioni - politica, magistratura, servizi segreti - a tutti i livelli. Con le buone o le cattive maniere. Chi resiste, come Boris Giuliano, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, viene eliminato, senza pieta'. Collante tra mafia e Stato e' da sempre la massoneria. Questo sistema di legami, che risale alla strage di Portella delle Ginestre, non si e' mai interrotto nel corso degli anni, anzi si e' rafforzato ed e' diventato piu' sofisticato. Ma molti hanno fatto finta che non esistesse. Complice la stampa manovrata da potenti lobbies economiche.

Da qualche tempo e' affiorato, nelle indagini sulle stragi mafiose del 1992, il tema della possibile trattativa avviata da Cosa Nostra tra lo stato e la mafia dopo la strage di Capaci, per indurre le istituzioni ad accettare le richieste mafiose: questo sarebbe il movente della uccisione di Borsellino. Non ho dubbi che le cose siano andate proprio in questo modo. Ma per capire quello che si e' verificato ai primi anni 90, occorre uno sguardo verso il passato. Partendo dall'assassinio di Aldo Moro e da cio' che lo precedette e lo segui'.

Con la riforma del 1977, che istitui' il Sismi ed il Sisde, i primi atti del presidente del consiglio Giulio Andreotti e del ministro dell'interno Francesco Cossiga furono la nomina ai vertici dei servizi segreti di Giuseppe Santovito e Giulio Grassini, due generali affiliati alla P2 di Licio Gelli: che gia' allora era legato a Toto' Riina, il capo di Cosa Nostra. Furono diversi mafiosi a rivelare questo collegamento tra Gelli e Riina.

I servizi segreti di quel tempo non persero tempo: strinsero patti scellerati con Pippo Calo' e la banda della Magliana, contro la quale, senza rendermene conto, fin dal 1975 avevo cominciato ad indagare, assieme al pm Vittorio Occorsio: con lui trattavo alcuni processi per sequestri di persona, tra cui quelli di Amedeo Ortolani, figlio di Umberto, uno dei capi della P2, di Gianni Bulgari e di Angelina Ziaco; sequestri che vedevano coinvolti esponenti della Magliana, della P2 e del terrorismo nero. Tra gli affiliati alla loggia di Gelli c'era un noto avvocato penalista, riciclatore del denaro dei sequestri, che poi venne stranamente assolto dopo che Occorsio aveva dato parere contrario alla sua scarcerazione. Di quella banda facevano parte uomini come Danilo Abbruciati, legati alla mafia ed ai servizi segreti. Occorsio, che aveva scoperto l'intreccio tra la strage di Piazza Fontana, l'eversione nera e la massoneria, venne assassinato l'11 luglio 1976. Per l'attentato fu condannato Pier Luigi Concutelli, che risulto' iscritto alla loggia Camea di Palermo, perquisita da Falcone.

La mia condanna a morte fu pronunciata, probabilmente dalla stessa associazione massonica, subito dopo che fui incaricato di istruire il caso Moro, in cui apparvero uomini della mafia guidati da Calo', i capi dei servizi manovrati dalla banda della Magliana e politici amici di Gelli. A raccontarlo al giudice Otello Lupacchini fu il mafioso Antonio Mancini; costui disse che verso la fine del 1979 o i primi del 1980, avendo fruito di una licenza dalla Casa di lavoro di Soriano del Cimino, non vi aveva fatto rientro; in occasione di un incontro conviviale in un ristorante di Trastevere, l'Antica Pesa o Checco il carrettiere, cui aveva partecipato assieme ad Abbruciati, a Edoardo Toscano, ai fratelli Pellegrinetti, a Maurizio Andreucci e a Claudio Vannicola, mentre si discuteva del controllo del territorio del Tufello per il traffico di stupefacenti, si parlo' <>. <>. Proseguiva Mancini: <>.

In seguito, durante le indagini su Andreotti per l'omicidio di Mino Pecorelli, il procuratore della Repubblica di Perugia accerto' che alla riunione, nel corso della quale si parlo' dell'attentato alla mia persona, avevano partecipato due uomini dei servizi segreti militari italiani di cui Mancini fece i nomi: essi furono incriminati e rinviati a giudizio per favoreggiamento. In seguito i due mi avvicinarono dicendomi che loro <> e che <>. Ovviamente non fui in grado di stabilire chi fossero i due agenti dei servizi. Restava il fatto che c'era stato un summit tra agenti segreti e mafiosi per decidere di eliminare, per ordine della massoneria, un giudice che istruiva due processi "scottanti": quello sulla banda della Magliana e il processo per la strage di via Fani, il sequestro e l'assassinio di Moro. Ne' io potevo occuparmi di una vicenda che mi riguardava in prima persona come obiettivo da colpire.

Ma nessuno - tranne Falcone, che seppe, mi sembra da Antonino Giuffre', che Riina aveva avallato l'assassinio di mio fratello - si preoccupo' di stabilire chi dei servizi avesse partecipato al summit in cui era stato annunciato l'imminente assassinio del giudice che in quel momento si stava occupando del caso Moro. Processo in cui, trenta anni dopo, venne alla luce il ruolo determinante della massoneria, della mafia e della politica.

In quel periodo non mi occupavo solo di sequestri di persona, ma anche del falso sequestro di Michele Sindona, altro uomo della P2, e dell'assassinio di Vittorio Bachelet, dei giudici Girolamo Tartaglione e Riccardo Palma e, naturalmente, del caso Moro; ed avrei accertato, dopo anni, che della gestione del sequestro Moro si erano occupati, nei 55 giorni della prigionia, i vertici dei servizi segreti affiliati alla P2 e legati alla banda della Magliana. Ma tutto questo all'epoca non lo sapevo: la scoperta delle liste di Gelli avvenne nella primavera del 1981. Cio' che e' certo e' che il capo del Sismi, Santovito, piduista, era nelle mani di uomini della Magliana, articolazione della mafia a Roma. E dunque il racconto di Mancini era vero in tutto e per tutto. Qualcuno voleva evitare che la mia istruttoria su Moro e quella sulla banda della Magliana mi portassero a scoprire il complotto politico-massonico che, con la strumentalizzazione di sanguinari ed ottusi brigatisti, aveva decretato l'assassinio di Moro per fini che nulla avevano a che vedere con la linea della fermezza.

Il disegno di costringermi a lasciare il processo sulla Magliana e quello sulla strage di via Fani riusci', ma non secondo il piano dei congiurati. La mia uccisione non ebbe luogo per le precauzioni che riuscii a mettere in atto, ma nel 1983, nel pieno delle indagini su Moro, venne ucciso mio fratello Franco da uomini della mafia manovrati da Calo': gli stessi che avevano eseguito la vergognosa messinscena del 18 aprile 1978, ossia la morte di Moro nel lago della Duchessa. Era evidente come il Sismi, che si era servito del mafioso Antonio Chichiarelli per preparare il falso comunicato, erano tutt'uno con la mafia, della quale si servivano per compiere operazioni sporche di ogni genere, compresa quella del lago della Duchessa, che provoco' una reazione violenta delle Br contro Moro, divenuto "pericoloso".

A distanza di 30 anni dal processo Moro e di 26 anni dall'assassinio di mio fratello Franco - assassinio che mi costrinse a lasciare la magistratura e tutte le mie inchieste - ho avuto la possibilita' di scoprire quali fossero le ragioni del progetto criminale contro di me: impedirmi di conoscere il complotto contro Moro. Non era una trattativa tra Stato e mafia, ma un vero e proprio accordo tra servizi, mafia e massoneria, che, con la benedizione dei politici, sanci' prima la eliminazione di Moro e poi la mia esecuzione: la quale falli', ma si ritorse contro mio fratello Franco, il quale prima di morire, mi chiese di non abbandonare le indagini. Il risultato fu che dopo quel barbaro assassinio fui costretto ad abbandonare tutte le inchieste sulla mafia e sui legami tra mafia, massoneria e stragismo. E nel 1986 dovetti rifugiarmi alle Nazioni Unite.

Durante le indagini che io conducevo a Roma sul falso sequestro Sindona, Falcone a Palermo per associazione mafiosa, e Turone e Colombo a Milano per l'omicidio di Giorgio Ambrosoli, venne fuori a Castiglion Fibocchi, nella villa di Gelli, l'elenco degli iscritti alla P2. Enorme fu la sorpresa degli inquirenti: comprendeva i capi dei servizi segreti italiani e del Cesis, l'organismo che coordinava i servizi, e di quelli che facevano parte del Comitato di crisi del Viminale. Quel comitato che era stato istituito da Cossiga con l'avallo di Andreotti. Dopo la scoperta, venne decisa dal ministro Virginio Rognoni l'epurazione degli uomini di Gelli dai servizi e dal ministero dell'interno; ma di fatto non fu cosi'. La Loggia del Venerabile mantenne il controllo sui servizi segreti, come ebbe modo di accertare la Commissione parlamentare sulla P2; e le deviazioni continuarono, con la complicita' dei vari governi che si susseguirono. La corruzione dei politici di governo, le intercettazioni abusive su avversari politici, giornalisti e magistrati, i ricatti fondati su notizie personali sono stati una costante della vita dei servizi (la vicenda Pollari-Pompa docet) senza che mai i responsabili abbiano pagato per le loro colpe.

Oggi e' riesplosa sulla stampa, per pochi giorni, la storia legata alla morte di Borsellino, subito silenziata dai mass media. La magistratura di Caltanissetta ha riaperto un vecchio processo che collega la sua tragica morte a moventi inconfessabili legati a menti raffinate delle stesse istituzioni. L'ipotesi investigativa prospetta la possibilita' che Borsellino sia rimasto schiacciato nell'ingranaggio micidiale messo in moto da Cosa Nostra e da una parte dello Stato in sintonia con la mafia, allo scopo di trattare la fine della violenta stagione stragista in cambio di concessioni ai mafiosi responsabili di crimini efferati come la strage di Capaci. Si trattava di una vergogna, un'offesa alla memoria di Falcone ed ai cinque poliziotti coraggiosi morti per proteggerlo. Salvatore Borsellino dice che le prove di questa ricostruzione erano nell'agenda rossa sparita del fratello Paolo, il quale, informato di questa infame proposta, probabilmente ha reagito con sdegno e rabbia: sapeva che lo Stato voleva scendere a patti con gli assassini. Di qui la decisione di accelerare la sua fine.

Ricordo che in quel tragico luglio del 1992, poco prima della strage di via D'Amelio, ero alla Camera dei deputati dove le forze contigue alla mafia erano ancora prevalenti e rifiutavano di approvare la norma voluta da Falcone, da me e da molti altri magistrati antimafia: la legge sui pentiti e il 41 bis. Nonostante la morte di Falcone, non c'era la maggioranza. Fu necessaria la morte di Borsellino per il suo varo. E oggi la si vuole abrogare.

L'aspetto piu' inquietante riguarda il ruolo di un ufficio situato a Palermo nei locali del Castello Utveggio, riconducibile ad attivita' sotto copertura del Sisde, entrato nelle indagini per la stage di via D'Amelio dopo la rivelazione della sua esistenza avvenuta durante il processo di Caltanissetta ad opera di Gioacchino Genchi. Al numero di quell'ufficio dei servizi giunse la telefonata partita dal cellulare di Gaetano Scotto, uno degli esecutori materiali della strage di via D'Amelio. Mi pare ce ne sia abbastanza per ritenere certo il coinvolgimento di apparati dello Stato.

Mafia S.p.A.: il nano con le spalle al muro



Il premier sotto ricatto

di GIUSEPPE D'AVANZO, da Repubblica 20/11/2010

Inaspettatamente in un solo giorno, anzi in poche ore, emergono dal passato e dal presente le relazioni pericolose di Silvio Berlusconi con le mafie. La liaison allontana da lui anche la fedele e fidata Mara Carfagna. Annuncia altri sismi per il suo governo. Apre nuove crepe nella già compromessa affidabilità del capo del governo. Le cose, a quanto pare, vanno così.

Infuriati per la nomina a commissario per i rifiuti di Stefano Caldoro, governatore della Campania, decisa dal Consiglio dei ministri, due politici indagati per mafia Nicola Cosentino e Mario Landolfi si presentano a Palazzo Grazioli. Affrontano Silvio Berlusconi a brutto muso minacciandolo di non votare la fiducia se non avesse annullato il decreto legge che, assegnando alla Campania 150 milioni di euro, consente al governatore anche l'adozione di "misure che prevedono poteri sostitutivi" nei confronti degli enti inadempienti. Il capo di governo che, entro il 14 dicembre, ha bisogno di voti in Parlamento come dell'aria che respira li rassicura. Promette una rapida retromarcia. La notizia si diffonde e il ministro Mara Carfagna - molto si è data da fare per quel decreto legge che sottrae l'emergenza all'opacità dei potentati locali - annuncia che, dopo la fiducia, lascerà il governo e il partito del presidente.

Così dunque stanno le cose. La ricattabilità del premier è di assoluta evidenza. La sua debolezza politica - e ormai di leadership - lo espone a ogni pressione, alle più imbarazzanti coercizioni, a umilianti

inchini dinanzi a personaggi non solo discussi, ma decisamente pericolosi.

È imbarazzante l'imposizione che il capo del governo subisce da Nicola Cosentino, 51 anni, da Casal di Principe, salvato dall'arresto per mafia solo dal voto della maggioranza. L'uomo ha il controllo pieno di quattro delle cinque Province campane (Napoli, Caserta, Salerno, Avellino). Sono queste istituzioni che amministrano i flussi della spazzatura e governano le società di gestione che hanno sostituito i consorzi infiltrati da ogni genere di illegalità, malaffare, prepotenza criminale (il consorzio di Caserta è costato fino all'aprile scorso, 6,5 milioni di euro al mese). Tutta la parabola politica di Cosentino si può spiegare e raccontare dentro l'emergenza rifiuti. Quelle crisi - indotte e cicliche - hanno convogliato in quella disgraziata regione un fiume di denaro (dal 2001 al 2009 tre miliardi e 546 milioni di euro) e proprio nei consorzi - e oggi nelle società di gestione - la politica ha incontrato il potere mafioso e ha messo a punto la distribuzione di benefici, rendite, utili, organizzando un "sistema della catastrofe" che, da quella rovina, ha spremuto influenza, consenso e ricchezza. A farla da padrone la camorra, a cominciare dalla camorra dei Casalesi. Hanno guadagnato e guadagnano sull'affitto delle aree destinate a discarica e dei terreni dove vengono stoccate le ecoballe. Lucrano sul noleggio dei mezzi e soprattutto nei trasporti.

Nicola Cosentino rappresenta il punto di equilibrio - oscuro e ambiguissimo - di questo "sistema" che oggi appare sfidato, dentro il Popolo della Libertà, dall'asse Caldoro-Carfagna e, dentro la maggioranza, da Futuro e Libertà, in Campania diretto da Italo Bocchino. Il decreto legge che assegna al governatore poteri commissariali può essere considerato il successo di questo schieramento. Il passo indietro di Berlusconi ripristina ora le gerarchie di un "sistema" che ha in Cosentino il leader e nel potere intimidatorio della camorra la sua forza. Si sapeva che l'uomo di Casale di Principe ha sempre avuto un'arma da puntare alla tempia del governo. In qualsiasi momento poteva far saltare gli equilibri che hanno permesso a Berlusconi di rivendicare le capacità tecnocratiche di eliminare i rifiuti dalla Campania con un miracolo che ha liquidato quella disgrazia con una magia. L'illusionismo manipolatorio aveva in Cosentino il suo garante. Un garante di cui oggi Berlusconi non può liberarsi. Per due motivi: Cosentino gli farebbe mancare i suoi voti il 14 dicembre e, peggio, nella prossima e vicina campagna elettorale seppellirebbe l'immagine del Cavaliere sotto l'immondizia e i miasmi.

Come non può fare oggi a meno di Cosentino, il Cavaliere non ha potuto liberarsi in passato di quel Marcello Dell'Utri che, si legge nelle motivazioni della Corte d'Appello che lo ha condannato a sette anni di reclusione, fu "mediatore" e "specifico canale di collegamento" tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Dell'Utri, scrivono i giudici, è l'uomo che ha consentito ai mafiosi delle "famiglie" di Palermo di "agganciare" "una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico".

È questa allora la scena che abbiamo sotto gli occhi. Un capo del governo che, nella sua avventura imprenditoriale, è stato accompagnato - per lo meno fino al 1992 - dalla presenza degli uomini di Cosa Nostra e, oggi, per proteggere la maggioranza che sostiene il governo deve chinare il capo dinanzi alle pretese del politico considerato dalla magistratura il più compromesso con gli interessi dei Casalesi. È uno stato di dipendenza, di oscurità, di minorità politica che nessun arresto di latitante, confisca di bene miliardario, statistica e classifica di successi dello Stato potrà ribaltare. Le vittorie dello Stato contro le mafie non riescono a diventare il riscatto personale di Berlusconi - e della sua storia - da quei poteri criminali con cui egli si è intrattenuto negli anni della sua impresa economica e ancora oggi si deve tener vicino per sopravvivere nel suo crepuscolo politico.

Mafia S.p.A.: intervista a Saviano



Sì, la 'ndrangheta corteggia la lega. e investe in lombardia. ma c'è un fenomeno più inquietante di cui dovrebbe occupardi Maroni: le mafie puntano su un'italia divisa. Così Roberto Saviano risponde al ministro (...quello con la carta bollata sempre pronta in mano...)

La 'ndrangheta al Nord?


di Gianluca De Feo - l'Espresso

Certo, cerca di interloquire con la Lega, ma le inchieste mostrano come in tutte le Regioni si stia manifestando un fenomeno molto più inquietante. Quello sì che dovrebbe indignare il ministro dell'Interno: le mafie scommettono sul federalismo". Roberto Saviano non è per niente pentito del monologo di "Vieni via con me" che ha segnato il record di ascolti, anzi a sorprenderlo è la veemenza della reazione di Roberto Maroni: "Quello che ho detto è documentato. L'incontro tra il consigliere regionale leghista e gli uomini delle cosche è negli atti dei pm Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone. E ricordo al ministro che l'unico direttore di una Asl arrestato per 'ndrangheta è quello di Pavia, dove comune, provincia e regione sono amministrati anche dal suo partito: stiamo parlando di una Asl che gestisce strutture di eccellenza e fa girare 700 milioni di euro l'anno. E ricordo che l'ultimo sindaco arrestato in un procedimento per collusioni con le cosche calabresi è quello di Borgarello: un paese alle porte di Pavia, non una cittadina della Locride.

Il ministro Maroni sostiene che l'incontro tra il consigliere leghista e le persone poi arrestate per 'ndrangheta non ha nessuna rilevanza penale. E nel centrodestra c'è chi ritiene che accostare la Lega alle cosche su questa base equivalga a usare gli stessi metodi della macchina del fango che lei ha denunciato
.

La mia frase era chiara, chiunque può riascoltarla: "La 'ndrangheta al Nord, come al Sud, cerca il potere della politica e al Nord interloquisce con la Lega". Non si tratta di illazioni, ma di elementi concreti che emergono dalle indagini e che devono essere sottoposti all'attenzione dell'opinione pubblica: in Lombardia la Lega è forza di governo e oggi gli uomini delle cosche calabresi, attivi nella regione da decenni, puntano a investire i loro capitali nei cantieri dell'Expo 2015. È un'analisi della Superprocura Antimafia, lungamente discussa nella commissione parlamentare proprio perché per entrare negli appalti loro hanno bisogno della politica e soprattutto della politica che controlla la spesa sul territorio. Per questo tutta la criminalità organizzata guarda con favore a una riforma federalista del Paese: vogliono centri di costo alla loro portata.

Alle mafie piace il federalismo?

Piace un certa idea di federalismo, quella che potrebbe consegnargli gran parte del Sud. In passato Cosa nostra l'ha cavalcata per contrastare la prospettiva di un potere centrale troppo forte: meglio la secessione dell'isola che dovere fare i conti con uno Stato deciso a cancellare la mafia. E la stessa istanza è stata riproposta dall'ala dura dei corleonesi negli anni delle stragi, quando di fronte al crollo della prima Repubblica Gianfranco Miglio, il "padre nobile" della Lega, benediceva la nascita al Sud di tanti partitini autonomisti intrisi di massoneria e amici degli amici: sono fatti acclarati, non illazioni. Oggi la prospettiva è semplice: la mentalità delle mafie è essenzialmente predatoria, puntano a divorare le risorse ed è molto più facile farlo nelle capitali regionali che non a Roma: possono fare pesare il loro controllo del territorio, la loro violenza, i loro voti e i loro soldi. Per questo con il livello di infiltrazione che c'è nelle regioni del meridione, il federalismo potrebbe finire con l'essere un regalo e far diventare Campania, Calabria e Sicilia davvero "cose nostre", un nome che non è stato scelto a caso. Perché oggi la forza delle mafie non è più nella capacità di usare la violenza ma nella disponibilità quasi illimitata di capitali, affidati a facce pulite e capaci di condizionare la politica soprattutto a livello locale.

E questi capitali sembrano muoversi verso Nord. Una rotta indicata da oltre venti anni con gli investimenti in aziende venete, lombarde e piemontesi e la penetrazione nei cantieri di tutte le grandi opere: quelle di ieri e quelle di domani, come svelato nell'inchiesta de "L'espresso" citata durante la trasmissione. Non è un caso se il più importante pentito di 'ndrangheta operava a Milano, alternando attività manageriali a omicidi.

Quelli che vanno ad incontrare il consigliere leghista non indossano coppola e lupara: sono un imprenditore e un manager pubblico, che al telefono parlano come killer ed evocano "di far saltare con le bombe quelli che non vogliono capire" e si vantano "di essere primitivi, come in Calabria". Ma sono persone che sanno muoversi negli uffici del Pirellone.

Oggi le indagini sulla capacità dei clan di infiltrare le amministrazioni regionali del Sud mostrano situazioni raccapriccianti. Lei ha raccontato come i casalesi avessero interlocutori nella maggioranza di Bassolino. In Calabria è stato assassinato il vicepresidente Francesco Fortugno e come mandante del delitto è stato arrestato un altro consigliere regionale di centrosinistra. In Sicilia il governatore Totò Cuffaro si è dovuto dimettere per i processi di mafia e il suo successore Raffaele Lombardo, leader di un movimento autonomista che ricalca alcune delle istanze di Umberto Bossi, è sotto inchiesta. Questo dimostra che il Sud non è maturo per il federalismo?

Il federalismo, a partire da quello fiscale, potrebbe anche dimostrarsi un'occasione, un punto di partenza per una rinascita del Sud. Ma a due condizioni, e cito l'analisi del magistrato Raffaele Cantone: creare controlli rigorosi sulle uscite di denaro pubblico e fare una selezione sulla classe dirigente politica e burocratica. Le istituzioni regionali dovrebbero rispondere in prima persona del denaro, che oggi invece alimenta consorterie, sprechi e arricchisce le nuove mafie, che - come evidenziano le indagini condotte in Calabria, in Sicilia ma anche quelle sulle infiltrazioni dei clan a Milano - stanno spostando il cuore del loro business dai cantieri alla sanità. Oggi però il quadro generale è desolante: si amplificano le retate e i sequestri di beni, presentandoli come la panacea contro la criminalità organizzata mentre non c'è nessuna strategia per contrastare il dilagare di questa nuova imprenditoria mafiosa, che investe i suoi capitali soprattutto al Nord. Credo che questa dovrebbe essere la preoccupazione di Maroni, leader di un partito che fa del progetto federalista la sua ragione d'essere: creare un sistema di controlli che prevenga questa minaccia, emersa con chiarezza nelle inchieste dei magistrati e nelle analisi delle forze dell'ordine che rispondono al suo dicastero.

Lei però proprio nella prima puntata di "Vieni via con me" impugnando il tricolore nazionale ha duramente criticato le "balle che racconta la Lega quando chiama il suo centro di ricerche Carlo Cattaneo".

Quanto è lontano il federalismo di Cattaneo dagli slogan di Pontida? Cattaneo sognava un federalismo solidale, un federalismo che unisse l'Italia: non voleva una secessione che abbandonasse il Sud al suo destino. La sua visione e quella degli altri pensatori federalisti risorgimentali voleva fare delle diversità italiane una ricchezza: renderle cerniera tra Mediterraneo e Mitteleuropa. Come si fa a credere che spaccare il Paese serva a renderlo più forte? Un'ideologia del genere per me è miope e insostenibile, perché farà sì che a decidere il nostro futuro saranno altri. E se la Padania rischia di tornare ad essere la periferia di altre potenze, come lo erano il NordOvest sabaudo nei confronti della Francia e il Lombardo-Veneto dominato dall'Austria, invece il Mezzogiorno potrebbe precipitare nel baratro di un'economia in mano ai capitali di mafie che si trasformerebbero in potere legale. Un incubo, la tomba di un sogno di emancipazione e di giustizia nato centocinquanta anni fa con l'Unità d'Italia.

E a quel punto, per restare nel tema della trasmissione che lei ha creato assieme a Fabio Fazio, l'unica scelta sarebbe andarsene via?

Io non mi arrendo. Il risultato di pubblico di "Vieni via con me" mi ha stupito e convinto di quanto sia importante continuare su questa strada. La gente vuole sapere, è avida di informazione, domanda verità ma non trova risposte dalla televisione e si abbandona nella sfiducia che è l'elemento di cui si compone la palude in cui il Paese rischia di affondare: fango, solo fango, niente altro che fango.

(di Gianluca De Feo - l'Espresso)

giovedì 18 novembre 2010

Il papello

Update sulla finanza


"Grazie Zio Sam,hai salvato gli Usa"

Warren Buffett è uno dei finanzieri di maggior successo degli Usa, un vero guru del settore, simpatizzante di Obama. E' tempo di capire che è il momento della Cina come nuovo leader mondiale. Spero solo la smettano di mangiarsi i cani e di scuoiarli vivi.

Lettera aperta di Buffett al governo

di GLAUCO MAGGI, da La Stampa

NEW YORK - Caro zio Sam, grazie di cuore di aver salvato l’America. E, in particolare, grazie all’ex presidente George Bush. Firmato, il tuo nipote Warren Buffett. In una opinione apparsa sul New York Times di ieri, il finanziere più ricco e famoso degli Stati Uniti ha voluto rendere omaggio al governo di Washington, che intervenne provvidenzialmente due anni fa nel momento del panico. Buffett ha ricostruito le vicende dell’autunno 2008: «Fannie Mae e Freddie Mac, i pilastri che sostengono il nostro sistema di mutui, furono commissariate. Molte tra le nostre maggiori banche commerciali erano vacillanti. Uno dei giganti di Wall Street era fallito, altri tre erano sulla stessa strada e Aig, la più famosa assicurazione al mondo, era sulla soglia della morte».

C’era solo una forza che potesse contrastare la crisi, «e questa forza eri tu, zio Sam», scrive Buffett. «Sì, spesso sei stato impacciato, anche inetto... ma quando gli imprenditori e la gente in tutto il mondo correvano in cerca di liquidità, tu eri la sola controparte con le risorse in grado di prendere posizione. Quando la crisi esplose, sentivo che avresti capito il ruolo che dovevi giocare... ma tu non sei famoso per essere spedito... e io temevo che il muro delle sorprese ti avrebbe disorientato....».

La sfida era enorme e in molti pensavano che non eri all’altezza, continua Buffett. «Bene, zio Sam, ce l’hai fatta. Ci sarà chi malignerà su specifiche decisioni... ma tutto sommato le tue azioni furono efficaci in modo rimarchevole. Io avevo una postazione piuttosto buona mentre gli eventi si succedevano, e vorrei dare un riconoscimento ad alcuni nostri soldati. Nei giorni più cupi, Ben Bernanke (Fed), Hank Paulson (ministro del Tesoro), Tim Geithner (capo della Fed di New York), Sheila Bair (capo del fondo di garanzia delle banche Fdic), afferrarono la gravità della situazione e agirono con coraggio e prontezza». Poi l’affondo inatteso, il tributo a George Bush: «Sebbene non l’abbia mai votato gli do grande credito per aver fatto da leader, mentre il Congresso si metteva in posa e bisticciava».

Se Buffett, informale consigliere e simpatizzante di Obama, ha stupito per il riconoscimento a Bush, non meno sorprendente è stata l’uscita di un altro grosso calibro della finanza globale, George Soros. Celebre profugo dal mondo comunista, sostenitore per anni dei movimenti di liberazione nei paesi dell’Est Europa, e finanziatore delle campagne dei Democratici in America, compresa quella per Obama presidente, Soros ha tessuto ieri le lodi della Cina e sminuito gli Stati Uniti e il loro governo. «E’ veramente notevole il rapido cambio di potere e influenza dagli Usa alla Cina», ha detto paragonando la caduta dell’America a quella della Gran Bretagna dopo la seconda guerra mondiale. «Oggi la Cina non ha solo una economia più vigorosa, ma in verità un governo che funziona meglio di quello degli Stati Uniti. La Cina è cresciuta molto rapidamente badando ai propri interessi, e ora deve accettare la responsabilità per l’ordine nel mondo e anche per gli interessi degli altri popoli».

Lombroso ci aiuta nella decodifica

mercoledì 17 novembre 2010

La lucidità di Barbara Spinelli

L'italia del sottosuolo

di BARBARA SPINELLI, da Repubblica 17/11/2010


Sono settimane ormai che l'annuncio è nell'aria: il governo Berlusconi sta finendo, anzi è già finito. Il suo regno, la sua epoca, sono morti. È sempre lì sul palcoscenico, come nelle opere liriche dove le regine ci mettono un sacco di tempo a fare quel che cantano, ma il sipario dovrà pur cadere. Anche i giornali stranieri assistono al funerale, nei modi con cui da sempre osservano l'Italia: il feeling, scrive l'Economist, la sensazione, è che la commedia sia finita. Burlesquoni è un brutto scherzo di ieri.

In realtà c'è poco da ridere, e il ventennio che abbiamo alle spalle è infinitamente più serio. Non siamo all'epilogo dei Pagliacci, e non basta un feeling per spodestare chi è sul trono non grazie a sentimenti ma a una macchina di guerra ben oleata. Per uscire dalla storia lunga che abbiamo vissuto - non 16 anni, ma un quarto di secolo che ha visto poteri nati antipolitici assumere poi il comando - bisogna, di questo potere, averne capito la forza, la stoffa, gli ingredienti. Non è un clown che si congeda, né l'antropologia dell'uomo solitario aiuta a capire. I misteri di un'opera sono nell'opera, non nell'autore, Proust lo sapeva: "Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella società, nei nostri vizi". Sicché è l'opera che va guardata in faccia, per liberarsene senza rompersi ancora una volta le ossa.
Chi vagheggia governi tecnici o elezioni subito, a sinistra, parla di regime ma ne sottovaluta le risorse, la penetrazione dei cervelli.

Un regime fondato sull'antipolitica - o meglio sulla sostituzione della politica con poteri estranei o ostili alla politica, anche malavitosi - può esser superato solo da chi è stato detronizzato. Nessun tecnico potrà resuscitare le istituzioni offese. Può farlo solo la politica, e solo se essa si dà del tempo prima del voto. Capire il regime vuol dire liberare quello che esso ha calpestato, e quindi non solo mutare la legge elettorale. Non è quest'ultima a rendere anomala l'Italia: se così fosse, basterebbe un gesto breve, secco. Quel che l'ha resa anomala è l'ascesa irresistibile di un uomo che fa politica come magnate mediatico. Berlusconi ha conquistato e retto il potere non malgrado il conflitto d'interessi, ma grazie ad esso. Il conflitto non è sabbia ma olio del suo ingranaggio, droga del suo carisma. La porcata più vera, anche se tabuizzata, è qui. La privatizzazione della politica e dei suoi simboli (non si governa più a Palazzo Chigi ma nel privato di Palazzo Grazioli) è divenuta la caratteristica dell'Italia.

Proviamo allora a esaminare i passati decenni, oltre l'avventura iniziata nel '94. L'avventura è il risultato di un'opera vasta, finanziata torbidamente e cominciata con l'idea di una nuova pòlis, un'altra civiltà. Un progetto - è Confalonieri a dirlo - che "ha contribuito a cambiare il clima grigio e penitenziale degli anni '70, ed è stato un elemento di liberazione. Ha portato più America e più consumi, più allegria e meno bigottismo". Più America, consumi, allegria: la civiltà-modello per l'Italia divenne Milano2, una gated community abitata da consumatori ansiosi di proteggersi dal brutto mondo esterno, di sentirsi più liberi che cittadini. E al suo centro una televisione a circuito chiuso, che intrattenendo distrae, occulta, manipola: nel '74 si chiama Milano-2, diverrà l'impero Mediaset. Quando andrà al potere, il Cavaliere controllerà tutte le reti: le personali e le pubbliche.
Tutto questo non è senza conseguenze: cadendo, il Premier non lascia dietro di sé una società sbriciolata. Il paese in briciole è stato da principio sua forza, sua linfa. Non si tratta di profittare di subitanei sbriciolamenti, ma di far capire agli italiani che su questo sfaldamento Berlusconi ha edificato la sua politica. Che su questo ha costruito: sul maciullamento delle menti, non sull'individualismo. Su un'Italia che somiglia all'Uomo del sottosuolo di Dostojevski: un'Italia che rifiuta di vedere la realtà; che "segue i propri capricci prendendoli per interessi"; che giudica intollerabile che 2+2 faccia 4. Un'Italia che "vive un freddo e disperato stato di mezza disperazione e mezza fede, contenta di rintanarsi nel sottosuolo". Un'Italia arrabbiata contro chiunque vorrebbe illuminarla (la stampa, o Marchionne, o i magistrati) così come l'America arrabbiata del Tea Party il cui ossessivo bersaglio è la stampa indipendente.

Correggendo solo la legge elettorale si banalizza la patologia. Altre misure s'impongono, che permettano agli italiani di comprendere quanto sono stati intossicati. Esse riguardano il controllo di Berlusconi sull'informazione e il conflitto d'interessi. La profonda diffidenza verso una società bene informata (per Kant è l'essenza dei Lumi) caratterizza il suo regime. "Non leggete i giornali!" - "Non guardate certi programmi Tv!": ripete. Gli italiani devono restare nel sottosuolo, eternamente incattiviti. Altro che allegria. È sulla loro parte oscura, triste, che scommette. Qualsiasi governo che non si proponga di portar luce, di riequilibrare il mercato dell'informazione, fallirà.

Per questo è importante un governo di alleanza costituzionale che raggiusti le istituzioni prima del voto, e un ruolo prioritario è riservato non solo a Fini ma alle opposizioni. Fini farà cadere il Premier ma l'intransigenza sul conflitto d'interessi spetta alla sinistra, nonostante gli ostacoli esistenti nel suo stesso seno. Del regime, infatti, il Pd non è incolpevole. Fu lui a consolidarlo con un patto preciso: la conquista di suoi spazi nella Rai, in cambio del potere mediatico del Cavaliere. Tutti hanno rovinato la tv, pur sapendo che il 69,3 per cento degli italiani decide come votare guardandola (dati Censis).

A partire dal momento in cui fu data a Berlusconi l'assicurazione che l'impero non sarebbe stato toccato, si è rinunciato a considerare anomali la sua ascesa, il conflitto d'interessi. E i responsabili sono tanti, a sinistra, cominciando da D'Alema quando assicurò, visitando Mediaset nel '96: "Non ci sarà nessun Day After, avremo la serenità per trovare intese. Mediaset è un patrimonio di tutta l'Italia". La verità l'ha detta Luciano Violante, il giorno che si discusse la legge Frattini sul conflitto d'interessi alla Camera, il 28-2-02: "L'on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena - non adesso, nel '94 quando ci fu il cambio di governo - che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l'on. Letta... Voi ci avete accusato nonostante non avessimo fatto la legge sul conflitto d'interessi e dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni... Durante i governi di centrosinistra il fatturato Mediaset è aumentato di 25 volte!". Il programma dell'Ulivo promise di eliminare conflitto e duopolio tv, nel '96. Non successe nulla. Nel luglio '96, la legge Maccanico ignorò la sentenza della Consulta (Fininvest deve scendere da tre a due tv). Lo stesso dicasi per l'indipendenza Rai. È il centrosinistra che blocca, nell'ultimo governo Prodi, i piani che la sganciano dal potere partitico. A luglio Bersani ha presentato un disegno di legge che chiede alla politica di "fare un passo indietro". Non è detto che nel Pd tutti lo sostengano. Una BBC italiana è invisa a tanti.

Se davvero si vuol uscire dall'anomalia, è all'idea di Sylos Labini che urge tornare: all'ineleggibilità di chi è titolare di una concessione pubblica, secondo la legge del 30 marzo '57. D'altronde non fu Sylos a dire che l'ineleggibilità è la sola soluzione. Il primo fu Confalonieri, il 25-6-2000 in un'intervista a Curzio Maltese sulla Repubblica. Sostiene Confalonieri che l'Italia, non essendo l'Inghilterra della Magna Charta, non può permettersi di applicare le proprie leggi. Forse perché il paese è sprezzato molto. Forse perché c'è chi lo ritiene incapace di uscire dal sottosuolo, dopo una generazione.

lunedì 15 novembre 2010

Il punto sul genere, un interessante compendio

Quando la costante reinvenzione diventa pratica politica che parte dall'esperienza

12/11/2010 11:55

Fonte: www.womenews.net

Se è vero che l’entrata massiccia delle donne nel Mercato del lavoro ha segnato una linea di demarcazione nelle discussioni del movimento femminista, il lavoro collettivo, curato dalla Libera Università delle donne, ben rappresenta i tentativi che lo stesso femminismo ha portato avanti nello sforzo di evidenziare elementi, caratteristiche e modificazioni che la sfera della cosiddetta produttività retribuita si è trovata a vivere negli ultimi dieci anni.

Come lo stesso titolo introduce, la risposta femminista ai cambiamenti imposti da un’ economia globalizzata non ha saputo intravedere i rischi e le insalutari conseguenze della pratica emancipazionista.
“L’emancipazione malata” osserva l’universo Lavoro da più punti di vista e, attraverso angolazioni diverse, in cui si intrecciano temi forti della discussione femminista, degli ultimi venti anni con i cambiamenti legislativi che, dalla fine degli anni ’90, sono stati apportati alla sfera organizzativa e normativa del lavoro.

La visione di Melandri rispetto allo spazio pubblico come luogo di lotta negli anni 70, introduce uno spunto di riflessione sull’attuale speculazione che viene fatta con i corpi delle donne, e sul “ruolo ancellare” che le donne si trovano ad interpretare nei contesti di lavoro precario-ruolo che non sembra mai riguardare, nell’analisi di Melandri, gli uomini.
Una parcellizzazione delle proprie competenze in cui quelle cosiddette “trasversali” rappresentano uno dei valori aggiunti e maggiormente richiesti nella attuale società post-capitalistica.

La donna, sempre nel contributo di Melandri, è investita di capacità ultra terrene che la portano a gestire una “femminile onnipotenza” per occupare spazi il cui accesso è codificato da un maschile che detta le regole e che norma le entrate alle alte sfere del potere.

Anche Campari, nel suo contributo, affronta il tema delle competenze trasversali delle donne e lo fa attraverso un’ ampia rassegna di ciò che è stato definito, negli anni del boom delle politiche di conciliazione fra uomini e donne (fine anni ’90 inizi 2000), il diversity managment, ovvero la capacità delle aziende di “sfruttare” le competenze di cura della donna a favore della propria produttività.

I casi di studio che Campari ci riporta, invitano a riflettere sugli errori compiuti e sulle scelte fatte. Offrono, inoltre, uno spaccato del valore storico e politico delle lotte sindacali e di come le scelte fatte all’interno delle fabbriche, da donne e da uomini, rappresentino una delle conseguenze della attuale precarizzazione femminile del lavoro.

Le conclusioni di Campari mostrano uno scenario di “economia canaglia” in cui, nel disegno del potere capitalista, il dividi et impera ha portato i suoi frutti e di cui a questo punto, a nostro avviso, sia uomini che donne pagano le conseguenze.

Cristina Morini fa luce su tutte quelle linee di ombra che delimitano gli spazi affettivi, relazionali e professionali dei precari della conoscenza, soffermandosi su quei diritti negati che sono alla base delle dinamiche del lavoro oggi: straordinari pretesi e non retribuiti, impiego di conoscenze e di competenze non riconosciute e alto investimento emotivo.
Lo scenario tracciato da Morini evidenzia l’individualismo esasperante in cui i giovani, e non solo, si trovano a lavorare, in cui la consapevolezza della propria condizione diventa un requisito essenziale per agire un cambiamento e per rivendicare il diritto alla condivisione.

L’attenta analisi di Cirillo sul fenomeno della “femminilizzazione” del lavoro e dei cambiamenti che la sfera dei servizi di cura ha apportato al mercato del lavoro con l’introduzione del concetto di Welfare, introduce il tema dei nuovi ruoli stereotipati che l’economia globalizzata produce.

I tanti quesiti che Cirillo pone ai lettori e alle lettrici aprono dubbi e perplessità sulle responsabilità delle donne che, in tali ambiti di lavoro -terzo settore e servizi– occupano posizioni di potere a discapito di altre donne, le quali, ingabbiate nel ruolo di cura, rappresentano una nuova femminilizzazione del lavoro fino ad ora ben poco considerata.

E se Cirillo con la sua visione di un “futuro dal ventre antico” pone l’accento sulla debolezza del potere delle donne di dare risposta alla nuova economia globalizzata, Melchiori offre una disegno di ampio respiro sulla situazione attuale delle donne e sui risvolti che, a livello internazionale, gli appuntamenti quale il Forum delle donne di Pechino o la conferenza internazionale sull’ambiente a Rio, hanno avuto nelle pratiche e politiche del decennio successivo.
La sua puntuale e critica lettura favoriscono la comprensione di dinamiche e scelte politiche che sembrano essere distanti dal quotidiano, ma che invece dominano l’oggi dell’economia globalizzata. Se organismi come la Banca Mondiale producono documenti e rapporti che sembrano essere stati scritti da vere e proprie teoriche del femminismo, risulta difficile contrastare meccanismi che ingabbiano le donne a ruoli diretti dalla regia dei poteri forti.

Il breve intervento di Calderazzi sulla rete come pratica delle donne, offre un’utile rassegna dei network che si sono creati, in America Latina e non solo, all’indomani di alcuni appuntamenti transnazionali in ambito economico e sociale.

Secondo Ornella Bolzani, l’instabilità professionale vissuta dalle donne deriva, almeno in parte, da una loro condizione esistenziale precaria maturata e sedimentata nel tempo all’ombra dei potenti stereotipi di genere che ne plasmano l’identità. La sfera lavorativa femminile è intrinsecamente marginale, secondo l’autrice, definita in opposizione e sempre per difetto rispetto al ruolo principale di madre/moglie.

Questa lettura, che descrive le donne come capaci di superare procedimenti pubblici di allocazione professionale, ma allo stesso tempo impossibilitate ad ostacolare le dinamiche patriarcali del fare carriera, offre una visione secondo noi limitata delle tante sfumature e caratteristiche dell’essere donna oggi nel mondo del lavoro- della molteplicità delle differenze che costellano l’esistenza degli individui.
E nonostante Bolzani introduca i temi del conflitto (spazio pubblico/sfera privata, ruolo professionale/famigliare) e degli spazi di (mancata) resistenza da esso aperti, ci sembra non riesca a sottrarre la sua analisi al pensiero binario e a portare a termine il racconto di quel che accaduto “nonostante le aspettative e le promesse del femminismo”.

La conclusione sul tema del corpo delle donne quale strumento di accesso o di pura merce di scambio, risulta quindi privo di prospettiva storica: per cui si perdono i possibili collegamenti con le dinamiche che lo slogan “’io sono mia” degli anni ’70 potrebbe aver generato nel corso degli ultimi 40 anni.

Nell’intervista a Paola Tabet fatta da Mathieu Trachman, questa molteplicità di intersezioni è invece centrale. Il corpo delle donne e dello “scambio sessuo-economico” tra donne e uomini, spiega l’autrice, non riguarda soltanto il sex work, i rapporti di prostituzione, ma si riferisce ad un insieme di relazioni che vanno dal matrimonio alla mercificazione più evidente del corpo della donna. E’in questo continuum di infiniti piani relazionali diversi che la sessualità femminile – la sua negazione, compravendita, repressione, liberazione- diventa il luogo in cui sperimentare azioni e reazioni di resistenze, individuali e collettive.

Il tema dello spazio privato/pubblico ritorna nell’articolo di Liliana Moro, che si sofferma sulla complicità delle donne nell’accettare il ruolo di dispensatrici di cura, vissuto ancora come capacità personale, surplus di valore che esse investono e producono- come, non ultimo, fondamento di una identità femminile.

E’ invece necessario, secondo Moro, ridefinire il “prendersi cura di”, sottraendo il suo significato profondo all’esclusività femminile/materna e restituendolo come “valore culturale collettivo”. E’ infatti la relazione il centro di questo spazio allargato, non la maternità, né tanto meno la donna: la relazione come semplicemente costitutiva della vita, in opposizione all’isolamento, che è la sua negazione.

“Non di sola madre”, appunto. Il tema del conflitto torna nella riflessione di Buonapace sul lato oscuro della maternità- sulla relazione di potere che essa sempre crea e riproduce. E’ la poetica del materno, indaga l’autrice, che copre e omette, con la complicità delle donne, il conflitto, la contraddittorietà dei sentimenti, le dinamiche di potere insiti nella relazione materna e nel lavoro di cura.

Ed è nel rapporto con le proprie madri che si tramanda la costruzione sociale e culturale della cura vissuta come valore intrinseco delle donne, possibilità di costruzione identitaria. Laddove Buonapace riesce a rendere chiaramente la sua posizione rispetto alla necessità di opporsi ad un destino femminile predefinito, che ne limita e imbavaglia infiniti altri possibili, manca invece, a nostro avviso, di approfondire il discorso del materno nella relazione complessa e ancora non risolta fra donne di diverse generazioni. Stare nella zona d’ombra di questa relazione diventa essenziale per noi donne nate a cavallo degli anni ’70, che nel tentativo di dialogare con le madri del femminismo a fatica riusciamo a condividere gli spazi, le modalità e le parole di cui le nostre esistenze sono fatte.

Manuela Cartosio disvela quella che lei definisce la “rimozione della badante”, il non-detto del lavoro di cura, la “presenza invisibile” e per questo inquietante, che Buonapace attribuisce al materno. Il ruolo della badante diventa funzionale ad un sistema economico, sociale e culturale che ancora non affronta, ma rimuove, i nodi cruciali del lavoro, dell’uguaglianza, del riconoscimento e della distribuzione dei ruoli sociali. Il silenzio delle donne italiane sulle condizioni di vita delle badanti e sul rapporto che si crea con loro dice tante cose, secondo Cartosio.
Dice innanzitutto molto sul rapporto che le donne hanno con il potere, e sulle modalità con cui il dominio viene gestito dalle donne: rimosso, travestito d’altro, imbellettato di alibi e luoghi comuni- mai (o mal)-nominato. L’altro nodo irrisolto che ci sembra centrale nell’analisi di Cartosio è quello privato e pubblico dell’emancipazione femminile.

Da un lato, il lavoro di cura viene semplicemente trasferito alla badante in nome di un bisogno di liberazione da parte delle donne autoctone, più istruite, impiegate fuori dalla famiglia, emancipate, che , acriticamente, fanno scivolare al loro posto altre donne- ma scivolare in basso, in una posizione ancora più segregata, vulnerabile, ricattabile: lo spazio privato spesso diventa clandestino.

Dall’altro, questa istanza di emancipazione resta incompiuta: le donne italiane impiegano più badanti della media EU, ci dicono le statistiche ufficiali, ma fanno meno figli e occupano meno posizioni di lavoro retribuito al di fuori della famiglia. Hanno occupazioni precarie, il doppio rispetto agli uomini.
Ci sembra molto interessante, infine, il modo in cui Cartosio riesce ad aprire il conflitto tra il silenzio che riempie il dibattito politico delle donne sulle badanti, da un lato, e sul precariato dall’altro, laddove invece si fa un gran parlare di “eccellenze”- in un mondo in cui, sempre di più, chi manda avanti le cose, nel quotidiano, lo fa sulla propria pelle, rinunciando anche solo alla prospettiva di garanzie sindacali minime- di più, di un qualsiasi tipo di riconoscimento formale.

Ne “ Il corpo e il lavoro ” vengono raccolti gli interventi di Judith Revel e Cristina Morini, insieme a quelli dei/delle partecipanti al seminario che porta lo stesso titolo.

Il testo raccoglie alcuni dei nodi concettuali trattati nel lavoro collettivo della Libera università delle donne e ci aiuta ad individuare alcuni dei temi cardine dei femminismi, passati e presenti. Il tema della femminilizzazione del lavoro e della precarietà sempre più diffusa che colloca al centro la tensione fra potenzialità naturali e altrettanti diritti e opportunità.
Laddove, da un lato, si trovano le nostre esistenze sempre più precarie, flessibili e colme di insicurezze e dall’altro invece prendono forma i molti tentativi di normalizzarle, oggettivarle, fissarle in affermazioni esasperate di noi stesse nella sfera professionale come in quella privata.

Torna il tema del corpo, in tutta la sua evidenza e centralità: il nostro corpo, inteso come progetto immanente, materiale di vita, è immerso in questa precarietà, ne viene condizionato, stravolto, modificato.

Torna, infine, il tema del potere nelle relazioni in cui siamo tutti/e immersi. Noi siamo il prodotto delle relazioni di potere, ribadisce Revel, ma è al loro interno che ci sono spazi di libertà: la lotta, la resistenza continua, è “uno spostamento in avanti, uno scavare i rapporti e un riacquistare determinazione, autonomia. E questo accade “reinventando se stessi”, dove la costante reinvenzione diventa pratica politica che parte dall’esperienza: dove ciò che ci accade, continuamente ci trasforma.

Ancora sui mariti assassini,la banalità del male



Ammazzare la moglie con sessanta coltellate e farla franca
15/11/2010 16:10


Fonte: www.femminismo-a-sud.noblogs.org

La cassazione lo condanna a dieci anni di ospedale psichiatrico giudiziario per incapacià di intendere e di volere.

Il Corriere pubblica di una sua ipotetica assoluzione. Forse al Corriere sfugge che se una persona viene assolta non è costretta a restare rinchiusa in un ospedale psichiatrico giudiziario per dieci anni. Ma se davvero un assassino è stato assolto allora si apre un capitolo nuovo della giurisprudenza italiana. Anzi vecchio. Risale al tempo in cui dopo l’abrogazione del delitto d’onore quasi tutti gli assassini di donne venivano assolti con la stessa formula “incapacità di intendere e volere” per un tacito accordo tra tribunali e assassini, dove la psichiatria, come accade spesso tutt’ora, andava in soccorso ai carnefici per imprimere invece un controllo sociale sulle persone più deboli, donne in primo luogo.

Volendo dunque propendere per la buona fede del titolista diciamo che il messaggio che così viene dato è che se sei “depresso”, ipotesi avanzata come attenuante dalla stampa in qualunque occasione, e accoltelli tua moglie sessanta volte puoi farla franca. Te la cavi con poco. Giusto un contentino da dare alla società per dire che degli assassini la giustizia in qualche modo si prende “cura”.

E la deriva della pietà per l’assassino malato è una cosa costruita sapientemente a partire dai processi mediatici. Spesso e volentieri si dice che sia stata lei a fare impazzire lui e dunque ad essersi in qualche modo meritata la morte.

In realtà troppi di questi uomini ammazzano le donne che vogliono andare altrove, non vogliono più restare con loro, vogliono fare scelte autonome, vogliono lasciarli. E se il femminicidio viene interpretato come conseguenza di una patologia clinica allora si può anche dire che di questa particolare patologia soffrono in troppi: si chiamano misogini, maschilisti, patriarchi, padri padroni e sono culturalmente e socialmente legittimati ad essere quello che sono. Quindi possiamo dire che si tratta di una patologia sociale o di un modello culturale costruito dagli uomini che nelle aule di giustizia si sono creati una scappatoia giuridica per ottenere una punizione minima?

Sul senso delle punizioni potremmo parlare a lungo ma quello che per ora serve dire è che se questo è il parametro attraverso il quale si affronta una emergenza così ampia come quella che colpisce direttamente troppe donne ogni giorno si può proprio dire che non c’è alcuna forma di giustizia interessata a prevenire la loro morte.

Viviamo tutti in un manicomio sociale che protegge i carnefici e infligge punizioni atroci sulle vittime. E tutto questo non è affatto giusto perchè le donne hanno il diritto di restare vive ed è è un diritto che a loro viene negato troppe volte.

La privatizzazione globale della formazione

Scarti di college

di Tiziana Terranova, dal Manifesto 16/11/2010



Le immagini degli studenti che irrompono nella sede del partito conservatore hanno fatto il giro del mondo. E come spesso accade la discussione si è concentrata sulla presenza di provocatori o sulla legittimità o meno di azioni dirette talvolta violente. Poco o nulla è stato detto che le proposte di riforma del sistema di finanziamento pubblico alle università inglese rischia di cancellare corsi di laurea e di impoverire l'offerta formativa. In Inghilterra, come in Italia, la cultura e la formazione devono essere funzionali allo sviluppo economico, altrimenti sono da cancellare perché superflue. E oltre Manica come in Italia, la strada scelta dai governi dei due paesi è la stessa: una progressiva privatizzazione della formazione.
La strada imboccata risolutamente dal governo conservatore e liberale inglese ha avuto però come apripista le politiche di Tony Blair e dei laburisti. Se negli anni Novanta la retorica sull'industria creativa ha sempre messo l'accento sul fatto che la cultura doveva diventare una risorsa economica, innovando profondamente i modelli di organizzazione del lavoro e proiettare l'Inghilterra nel futuro, dal 2008 in poi i laburisti hanno definito le linee di una riforma dei finanziamenti pubblici all'università che prevedeva aumenti delle tasse universitarie e una loro forte riduzione.
È attorno a questi temi che si è sviluppata l'intervista a Jussi Parikka, docente di origine finlandese e attento ricercatore sulle tendenze della «cultura digitale» e dei nuovi «social media». L'incontro è avvenuto a Londra, proprio quando la mobilitazione degli studenti stava organizzando la manifestazione che ha portato all'assalto della sede del partito conservatore.


Da alcuni anni, in Italia assistiamo a forti tagli dei finanziamenti statali alla scuola e all'università pubblica. Il risultato è una deliberata svalutazione ed impoverimento della formazione e della ricerca pubblica - con licenziamenti, blocco delle assunzioni, taglio dei corsi, classi sempre più affollate, meno ore di didattica e così via. Anche il settore della cultura più in generale (teatri, musei, musica, editoria) ha subito drastici tagli dei finanziamenti pubblici. Un fenomeno tuttavia non solo italiano, ma elemento costitutivo della ristrutturazione economico-politica che ha seguito la crisi finanziaria del 2008. Nel Regno Unito, la «politica del rigore fiscale» ha determinato una riduzione drastica, talvolta del 100 per cento, alla didattica dei corsi di laurea nelle arti, nelle scienze umane e sociali. Come ti spieghi questa riduzione massiccia dei finanziamenti pubblici alla cultura e alla formazione sociologica, artistica e umanistica, specialmente dopo anni in cui la cosiddetta «economia creativa» è stata celebrata come il motore dello sviluppo economico?


È stato uno shock, nel senso identificato da Naomi Klein come parte della dottrina del «capitalismo dei disastri». I recenti eventi che riguardano l'università inglese, ma anche altre settori del servizio pubblico, sono così terrificanti che la reazione ha smontato l'effetto sorpresa dell'annuncio da parte del governo. Va in primo luogo ricordato che la crisi del 2008 non ha aperto la strada a un'era keynesiana di investimenti pubblici, ma ad una ulteriore privatizzazione di beni pubblici fondamentali. Per quello che riguarda le università inglesi, i tagli erano già previsti dal precedente governo laburista. Prima ancora che le elezioni portassero al governo i Conservatori e i Liberali, la commissione Browne, il cui mandato è stato quello di formulare le linee politiche della riforma dei finanziamenti all'università nel Regno Unito, era stata promossa dai laburisti. Ed erano stati i laburisti, già con Peter Mandelsson, che avevano trasferito le università al «Department of Business, Innovation and Skills» e che avevano ipotizzato l'aumento delle tasse universitarie. Il nuovo governo non ha fatto altro che riprendere l'ordine del discorso laburista, annunciando prima una riduzione dei finanziamenti del 20 per cento e poi del 40 per cento. Allo stesso tempo ha stabilito che solo alcune discipline del sapere erano degne del finanziamento pubblico: quelle scientifiche, tecnologiche, l'ingegneria e la matematica, lasciando fuori più o meno tutti i corsi di laurea in discipline umanistiche, sociali e artistiche.



TONY BLAIR, L'ISPIRATORE


Nell'arco di alcuni mesi, l'«economia culturale» e le industrie creative non hanno avuto più nessun ruolo nella cosiddetta «cool britannia», creativa e postfordista. Era un modo di concepire lo sviluppo economico che ha avuto, negli anni Novanta, il suo massimo ispiratore in Tony Blair. Per alcuni, questa idea aveva protetto gli studi culturali e le arti giustificando in qualche modo la loro esistenza. I significati, le rappresentazioni, le pratiche artistiche potevano essere integrati in questo nuovo e benevolo «capitalismo creativo» inglese, nel quale la cultura - gli stili di vita, le abitudini, le arti, le creazioni digitali dalla musica all'editoria - avrebbero dovuto esserne il cuore pulsante. Invece, durante gli ultimi due anni, tutto il discorso sulle industrie creative è stato sostituito pian piano con quello dell'«economia digitale». Sembrerebbe un cambiamento apparentemente minimo dalle industrie creative a una versione più orientata verso l'informatica. Il «Digital Economy Bill» e tutte le iniziative governative successive così come la discussione pubblica si sono invece concentrati su progetti come l'infrastruttura digitale, che dovrebbero garantire la banda larga ad alta velocità. Si è cioè privilegiata la tecnologia: tecnologia nel senso di infrastruttura e di soluzioni scientifiche in grado di fornire flussi di reddito più affidabili rispetto al modello vago di creatività dell'industria dei servizi. E così, nonostante le statistiche che testimoniano l'enorme contributo delle arti e delle scienze umane alla creazione di ricchezza, la cultura è diventata l'ancella superflua e ridondante dell'economia digitale.


Il passaggio dall'economia creativa a quella digitale ha significato che solo la scienza e l'ingegneria possano essere meritevoli del sostegno pubblico in quanto produttrici di valore economico. Da ricercatore nel campo dei nuovi media, come vedi questo cambiamento? E che ne pensi della posizione di Jaron Lanier, secondo il quale i nuovi media quali Internet e in particolare il web 2.0 sarebbero responsabili della svalutazione del lavoro cognitivo?

Parto dal presupposto che le «industrie creative» producono anch'esse ricchezza. Uno sguardo veloce alle statistiche economiche del «National Archive» testimonia il fatto che questo settore è cresciuto approssimativamente del 5% tra il 1997 e il 2007, molto più di quanto non sia cresciuta l'insieme dell'economia. Allo stesso tempo settori quali il software, i videogiochi e l'editoria elettronica sono cresciuti persino del 9%!
Per continuare con le statistiche, un recente rapporto sulle università del Regno Unito fornisce dati simili: le industrie creative e quelle del software, dei videogiochi e dell'editoria elettronica producono enormi quantità di valore economico, con ricavi di 17 miliardi di sterline solo nel 2003/2004: ricavi maggiori di tutto il settore farmaceutico in questo paese. C'è inoltre da dire che per ogni milione di sterline prodotte dalle università, quello stesso rapporto dice che ci sono altri 1.52 milioni di sterline in settori collegati, e in termini di occupazione abbiamo una storia molto simile con 100 lavoratori a tempo pieno nelle università che sostengono l'esistenza di altri 100 lavoratori.
Quindi è chiaro che si tratta di qualcos'altro rispetto ad una pura razionalità economica e si è veramente tentati dal leggere tutto ciò in termini di un cambiamento importante della percezione e riorganizzazione del lavoro. Questa si chiamava ideologia, o perlomeno parte di un incanalamento meticoloso e molto sottile di desideri, la relazione con il tempo, con la produzione, la creatività e la partecipazione. La flessibilità è stata imposta come lo stato di normalità per il «lavoratore creativo», inclusi i docenti, ed è su questo modello che formiamo i nostri studenti dal primo giorno; sopporta i cambiamenti, vivi flessibilmente, e non pretendere quell'orizzonte stabile che chiamavamo futuro.



L'ETICA HACKER DEL LAVORO



I modelli di lavoro che sostenevano tanta economia creativa e Internet erano in verità basati sull'investimento psichico. Entusiasmo, volontariato, dare una mano - per molto tempo questa è stata la base del lavoro universitario. Eppure ciò che fino a ieri, negli anni Novanta, era celebrato come l'«etica hacker del lavoro» si è dimostrata un completo fallimento nel contrastare l'appropriazione privato di valore del lavoro cosiddetto creativo e della cooperazione sociale a cui accennavo.
I modelli di lavoro della cultura digitale non sono così facilmente riconducibile a una logica puramente economica. Quello che i pessimisti culturali vedono come uno sviluppo pericoloso causato da culture partecipative è parte di una più ampia ascesa di reti cooperative, di una nuova era di produttori e consumatori attivi. Caratteristiche che non possiamo liquidare come cattive, dopo che per anni abbiamo assistito a una grande concentrazione capitalista dei media.
Per anni, forti delle riflessioni di Theodore W. Adorno sull'industria culturale, abbiamo criticato la manipolazione delle coscienze da parte dei media. E tuttavia rispetto al «grande caos» delle reti telematiche e della cultura digitale non possiamo certo tornare a forme elitarie di produzione e di accesso alla cultura. Per alcuni studiosi, come forse per Jaron Lanier, criticano l'ascesa di una banale cultura di dilettanti. Ma sono propenso a credere che la critica elitaria alla cultura digitale cerchi di tornare al centro della scena pubblica forte di una cornice politica e economica neoliberale. In Gran Bretagna, ad esempio, le vecchie università d'elite si stanno trasformando in corporation globali della formazione, facendo leva sui vecchi legami coloniali dell'Inghilterra, proponendo forme neo-coloniale di offerta formativa.
Le industrie creative sono riconosciute simbolicamente importanti, ma devono essere autosufficienti, cioè devono basarsi sull'investimento (incluso l'investimento psichico di energia ed entusiasmo) piuttosto che essere sostenute da finanziamenti pubblici. La retorica pubblica dice che i corsi di laurea in scienza ed ingegneria si meritano questo sostegno, perché sono molto costosi in termini di attrezzature da laboratorio, macchinari. Allo stesso tempo, è dominante la visione in base alla quelle il sostentamento dei docenti, dei ricercatori impegnati nelle facoltà umanistiche si arrangino, mentre quelli che lavorano nelle industrie creative si autorganizzino. In fondo, gli uomini e le donne costano molto alle corporation e se lo stato riesce a trovare un modello dove fanno lo stesso lavoro per metà del prezzo, ha risolto un grande problema per quelle stesse corporation.

La sferzata critica di Giulietto Chiesa


Visioni europee per l'alternativa



Lunedì 15 Novembre 2010 23:24


Intervista di Ivan Basile a Giulietto Chiesa - progressonline.it.

Osteggiato a destra come a sinistra, Giulietto Chiesa con il movimento politico-culturale “Alternativa” si fa portavoce di una prospettiva autonoma, con una presa di posizione equidistante dai vari partiti presenti nel panorama politico italiano.

Giulietto Chiesa si è candidato in Lettonia per difendere i diritti umani delle minoranze russe. Nel libro “Il candidato lettone” ripercorre, tramite racconti e aneddoti, l'esperienza inedita di un alieno in Europa. Il suo libro-reportage è uno spunto per una riflessione generale sull'Unione Europea, sui suoi difetti congeniti, sul suo futuro.

C'è qualcosa che potremmo importare dal sistema politico lettone nel nostro Paese?
“L'unica cosa che mi pare interessante è il modo in cui i lettoni votano: con un proporzionale puro, a cui sono favorevole, con la possibilità non solo di esprimere preferenze ma anche di cancellare, nelle schede di voto, i candidati presenti nella lista ed esercitare, così, quel diritto di critica sacrosanto nei confronti del partito per cui si vota.
Un'altra cosa positiva – in comune con l'est europeo e con la cultura slava e russa – è il fatto di aver mantenuto un forte radicamento con la cultura del proprio passato. Ad esempio in occasione dell'anniversario per la vittoria sul nazismo - cui ho preso parte, come racconto nel libro - a Daugavpils, la seconda città lettone, ho assistito ad un concerto in piazza di cori patriottici. Vecchi e giovani cantano insieme agli artisti sul palco e conoscono a memoria tutte le parole delle canzoni e la cosa mia ha colpito molto. A differenza dell'Italia e dell'Europa occidentale, in cui spesso i giovani sanno poco di quel passato, ci tengono a conservare la memoria storica del proprio paese, intesa come patrimonio del loro popolo”.

La questione degli apolidi è legata ad un uso poco intelligente della memoria collettiva di una nazione, in questo caso della Lettonia nei confronti dell'ex Unione Sovietica. Una situazione anomala che in Lettonia coinvolge ben 400mila persone, il 17% della popolazione, rinchiusi nella condizione che lei nel libro definisce “Alien”, persone senza Stato.
“Perché un ragazzo nato dopo il 1991 non può essere cittadino del proprio paese in quanto figlio di russi? Come si fa a scaricare su di lui le colpe dei suoi genitori? E' una situazione scandalosa che bisognerebbe gridare nelle piazze d'Europa e nel Parlamento europeo. Quest'ultimo invece, si riempie la bocca con i diritti umani ma poi permette nel proprio territorio situazioni del genere. Sono soltanto chiacchiere: ci vorrà un'intera generazione per sanare un problema messo in atto per mantenere vive e fomentare le tensioni sociali contro la Russia”.

Ma perché il Parlamento europeo ha un atteggiamento così pilatesco, come da lei definito, cioè vede-non vede e si volta dall'altra parte. Perché non fa nulla per sancire il diritto di queste minoranze?
Perché il Parlamento Europeo è dominato da una maggioranza filo-americana. Alcuni paesi europei sono stati messi in piedi dagli Usa e quindi siccome devono essere riconoscenti ad essi, preferiscono voltarsi dall'altra parte piuttosto che aprirsi ad un atteggiamento positivo nei confronti della Russia. Sia in Europa che a Washington ci sono molte forze interessate a mantenere alta la tensione con la Russia, così si propagano le schegge della guerra fredda, con l'obiettivo imperiale degli Usa di mantenere una posizione di predominio nel mondo e che considera la Russia ancora come un nemico.

Il suo libro invita anche ad una riflessione più generale sull'Europa: il processo di formazione della cittadinanza europea sembra lungi dall'essersi compiuto. Come si spiegano tutte queste difficoltà, riusciremo mai a diventare gli Stati Uniti d'Europa?
L'ipotesi di Stati uniti d'Europa – in cui credo - richiede un grande balzo culturale e diventerà realtà soltanto quando l'Europa comincerà a ragionare autonomamente, con una visione dell'economia differente dal modello americano, che ha creato problemi ovunque abbia attecchito, in Russia, Cina, Europa e nella stessa America. Finché gli interessi europei coincideranno con quelli americani, e non con quelli delle popolazioni, nulla di tutto ciò sarà possibile.

Secondo lei le minoranze etniche che vivono nel nostro paese sono discriminate?
Certo. Siamo invasi da un'immigrazione da cui dipendiamo dal punto di vista economico, eppure siamo impreparati ad accoglierla. Invece di alzare la guardia dovremmo organizzarci al meglio per accogliere queste persone, ma non facciamo nulla in questo senso. A destra come a sinistra, nessuno è stato in grado di pensare ad un programma di integrazione culturale, ad un vero piano strategico con investimenti e dirottamenti di risorse: invece di costruire l'alta velocità, i 20 miliardi potrebbero essere utilizzati per progettare l'accoglienza degli immigrati.
Ma la politica italiana non ci arriva perché è costituita da persone incolte, mal selezionate, incapaci di gestire questi problemi e di fronteggiare un fenomeno che dovrebbe essere previsto, dimostrando di avere una veduta corta, per nulla lungimirante.

Arriviamo alle recenti vicende politiche. Improvvisamente Fini e i suoi hanno scoperto la natura di imbonitore e di piazzista di Berlusconi. Lei ci crede? Ed ha senso oggi, e mi riferisco alla sinistra, rivendicare il fatto di esserci arrivata prima?
“Ma perché la sinistra ci è veramente arrivata prima? Se così fosse non avrebbe consegnato nelle mani di Berlusconi il controllo della mente di 60 milioni di italiani, come invece è accaduto.
Adesso Fini si trova nella situazione sgradevole di spiegare come mai ha portato Berlusconi al potere: la situazione attuale è anche il frutto delle sue decisioni.
Credo che si andrà alle elezioni perché Berlusconi non se ne andrà facilmente. Il risultato finale sarà un governo centrista appoggiato dal Pd che attuerà la macelleria sociale che il governo precedente non è stato capace di fare”.

Nichi Vendola può essere l'uomo nuovo alla guida della sinistra italiana?

“Ma quale sinistra italiana che non esiste più? Il Pd non è sinistra, 'Sinistra, ecologia e libertà' di Vendola va verso il Pd e non la considero sinistra perché non ha una proposta per l'Italia.
Avere una proposta significa cominciare col dire chiaramente chi gestisce il denaro in Europa, come funziona il sistema della finanza internazionale contro cui ci battiamo, che bisogna uscire dalla Nato, cose che non sento da nessuna parte. Una posizione critica che metta in discussione i capisaldi del potere, lo sviluppo continuo e la competitività è impossibile mantenere senza distruggere i diritti umani e sociali dei lavoratori. La sinistra italiana, invece, è 'sviluppista' e non mette minimamente in dubbio l'idea che sia possibile una crescita infinita di una qualsivoglia grandezza all'interno di un sistema finito di risorse. Bisogna andare verso un'altra concezione della società, verso un nuovo partito che rappresenti gli interessi dei lavoratori e che spieghi come prepararsi alla decrescita.
Avevo lanciato Megachip per contrastare l'informazione appannaggio del mainstream, ma sono stato isolato proprio dalla sinistra: Rifondazione Comunista e i Comunisti italiani sono stati i primi a mettermi il bastone tra le ruote. Troppo impegnati a frequentare i salotti di Bruno Vespa hanno permesso la catastrofe. Invece di capire che bisognava mettere a soqquadro quei salotti, prendevano parte allo show ringraziando di essere stati invitati, cosa che continuano a fare anche oggi. Il movimento che abbiamo costituito, 'Alternativa', è l'inizio di un laboratorio politico che pone il ruolo dell'informazione e dei media al centro di tutto. Abbiamo bisogno con urgenza di un'altra comunicazione e un'altra educazione collettiva per rieducare alla democrazia milioni di persone attraverso un sistema mediatico democratico e realmente critico”.

Avanti così, Giuliano




La vera corsa comincia adesso

15 novembre 2010 //0

Ce l’abbiamo fatta. Non so se sono più felice, frastornato, stremato o energico per quello che ci aspetta. Perché la vera corsa, lo sappiamo tutti, comincia adesso. E’ come se finora avessimo scherzato: in fondo, noi, stavamo tutti dalla stessa parte! Però io sono convinto di una cosa: adesso la strada è in discesa, adesso sarà più facile, adesso comincia la marcia vittoriosa di tutti noi per riprenderci Milano. Quel Quarto Stato, insomma. Non ho dubbi, e la prova l’abbiamo avuta ieri, sotto i nostri occhi: mentre noi ci contendevamo ancora voto a voto, decisi a rispettare quale che fosse il risultato delle urne, dall’altra parte Berlusconi, solo lui, incoronava la Moratti. Lo stile fa la differenza; non lo dico perché sono un avvocato, ma la forma è sostanza. Grazie a tutti noi, grazie per essere come siamo: noi non accettiamo che sia un padrone a dirci cosa fare. Democrazia per noi non è solo una parola vuota che pronunciamo. E’ una pratica; magari faticosa, litigiosa, a volte anche aspra. Ma mille di queste asprezze, se sono il prezzo della differenza.
Ieri credo di avere fatto il pieno di emozioni: sono stato al raduno degli stranieri, arrivati da tutte le città d’Italia, sotto la torre di via Imbonati; poi al pranzo sociale dell’Eutelia; poi ad aspettare i risultati, finalmente disteso sul divano. Drammi che sono lo specchio di realtà diverse. Ho visto, in questi quattro mesi, centinaia di situazioni con problemi da risolvere. Servirà essere uniti, per farlo. Perché solo l’unità dà la forza. Ho anche cominciato a fare l’elenco dei libri che ho raccolto in questa campagna elettorale. Il sapere scientifico della scuola, Salvare l’acqua, Il tempio siamo noi, Milano e il suo destino, Il valore dell’alleanza… una volta o l’altra scrivo la lista completa, ne vale la pena, perché ognuno è un pezzetto della realtà che ho conosciuto e che presto governeremo. Ma adesso non voglio parlare di progetti, questo è il momento delle emozioni. Avevo il cuore in gola, quando sono arrivato al mio comitato elettorale: i miei avevano perfino preparato uno striscione con su scritto Grazie Giuliano, credo che qualcuno abbia rubato delle lenzuola a casa, che abbiano comprato delle bombolette, ma quando l’hanno srotolato ho fatto fatica a non commuovermi. Poi c’è stata la festa all’Arci. Al Bellezza, che in questi mesi è diventato la mia seconda casa. E’ stata davvero una grande gioia, la chiusura di una prima cavalcata esaltante.
Dovrei essere felice, questo è l’ultimo post del Diario elettorale per le Primarie e si chiude con un primo, fantastico happy end.
Lo sono, felice.
Però, in fondo, ho già un po’ di nostalgia…

Effetto Nichi



L'armata di Vendola su Internet:dopo Pisapia parte l'assalto al Pd

Le primarie milanesi sono state il banco di prova decisivo: una campagna elettorale fatta di appuntamenti e opinioni lanciate in rete, blog, pagine Facebook. Solo la pagina di Nichi ha oltre 300mila iscritti. E nel mirino ci sono Bologna, Napoli, Torino

di CARMINE SAVIANO, da Repubblica online 15/11/2010


"Una gioiosa e digitale macchina da guerra". La battuta circola nello staff di di Giuliano Pisapia dopo il successo alle primarie milanesi. ma è molto più di una battuta: il successo del candidato milanese è anche la vittoria di un metodo politico che mette al centro le potenzialità della rete. Blog, siti ufficiali e forum, Fabbriche di Nichi e pagine Facebook. Tutto questo e altro, sin dove l'immaginazione politica legata al web può spingersi. Un sistema di propaganda 2.0 a disposizione di Sel e di Vendola, un ingranaggio quasi perfetto messo in piedi in poco più di un anno. Presenza capillare sui social network, videolettere sugli argomenti del giorno, proposte politiche racchiuse in poche battute. Tutto firmato Nichi. E dalla rete i militanti di Sinistra e Libertà lanciano la sfida per le primarie a Bologna, Napoli e Torino. Ma l'obiettivo è oltre: vincere la battaglia campale per la leadership del centrosinistra italiano.

Un filo rosso dalla Puglia a Milano. Su Twitter i primi messaggi che annunciano la vittoria di Pisapia scattano poco dopo le 22 e 30 di domenica, con qualche minuto di anticipo sulle agenzie di stampa. Poi iniziano a riempirsi le bacheche su Facebook. "Non ho mai dubitato, ma vincere è bellissimo" scrive una elettrice sulla pagina ufficiale di Giuliano Pisapia. E ancora: "Finalmente un candidato per cui sarò felice di andare a votare", "ne avevamo proprio bisogno". A mettere ordine e a suggellare il tutto arriva il post
di Nichi Vendola: "Una lezione di buona politica in un Paese sgomento dinanzi allo spettacolo permanente di una politica indecente. Milano regala una buona giornata al centrosinistra e all'Italia migliore".

L'effetto Vendola. Battere il Pd sul suo territorio. Approfittare delle primarie per rovesciare i rapporti di forza e per andare oltre la logica dei numeri. Coinvolgere attraverso la rete chi è lontano dalla politica o stanco del 'Palazzo'. Sembra questa la strategia di Sel. Un modello vincente, la cui ultima incarnazione è la campagna elettorale per Giuliano Pisapia. Gruppi su Facebook e aperitivi, blog e programmi politici. Un modello che sta per essere rilanciato a Napoli, Torino e Bologna, tre dei comuni più importanti in cui si vota alle prossime elezioni amministrative, marzo 2011. A Napoli e Bologna la data per le primarie è fissata per il 23 gennaio, mentre a Torino si vota il 6 febbraio. Nel capoluogo campano, a sinistra si lavora intorno alla possibile candidatura del magistrato Raffaele Cantone, mentre il Pd è spaccato da due candidature, quelle di Umberto Ranieri e Nicola Oddati. A Bologna già si parla di 'effetto Vendola', con i sondaggi che danno Sinistra e Libertà al 12% e la candidata Amelia Frascaroli al 22%. A Torino, dove si sceglie il successore a Sergio Chiamparino, è ancora tutto in alto mare.

Un anno di fabbriche. E la rete di Sinistra e Libertà si diffonde. I 'vendoliani' non sono al lavoro solo nelle grandi città. Anzi, la loro forza sta nelle 516 "Fabbriche di Nichi" diffuse in tutto il Paese. Un'officina del consenso a disposizione del governatore della Puglia, all'opera esattamente da un anno, dal 15 novembre 2009. Nati come comitati elettorali per le primarie in Puglia dello scorso gennaio, le Fabbriche affiancano il lavoro di Sinistra e Libertà, fornendo, durante le primarie, un aiuto cospicuo. Dai materiali per la propaganda online ai gazebo, dai dibattiti agli incontri politici. Una schiera di militanti continuamente mobilitati per diffondere quanto più possibile l'offerta politica di Vendola.

Il nuovo vocabolario. E il campionario digitale a disposizione è vasto. 108 video sul canale YouTube di Vendola, quasi 300 su quello di Sinistra e Libertà. Poi documenti, analisi, appelli. E ogni videolettera di Nichi è condivisa e analizzata per estrarne slogan e parole d'ordine. La "connessione sentimentale", "l'eruzione di buona politica", "l'Italia migliore", diventano parti di un vocabolario che accomuna sempre più persone. Che si ritrovano sulla pagina Facebook di Vendola: 316mila iscritti, il luogo della 'politica digitale' più frequentato in Italia. Con picchi di partecipazione consistenti: 500mila condivisioni per la videolettera in cui Vendola rispondeva al Silvio Berlusconi di "meglio guardare una bella donna che essere gay". E Nichi che ne pensa della sua proizione 2.0? Tutto il bene possibile, ovviamente: "Ho solo il potere di mettere la mia ugola a disposizione dei nostri sogni e dei nostri sentimenti".

Speriamo non tornino le bombe



In un paese che frana e dalle prospettive incerte, speriamo che la destabilizzazione del potere berlusconiano non ci infligga altri momenti tragici grazie ai soliti servizi deviati, alle mafie di cui quel potere è espressione, agli amici stranieri pericolosi.


È finita la colla del Cavaliere
di ILVO DIAMANTI

Dietro al declino di Silvio Berlusconi si scorgono una maggioranza a pezzi e un Paese in briciole. Senza colla e senza cornice. Perché Berlusconi era e resta l'unica colla e l'unica cornice per il suo partito, la sua maggioranza.

Per la base sociale che, per tanti anni, si è identificata in lui. La sua maggioranza. È a pezzi. Ormai da tempo. Da quando si è rotta l'intesa - fragile - con Gianfranco Fini. Che non ha mai accettato l'annessione di An. L'ha subìta, facendo buon viso a cattivo gioco. Ma il patto si è spezzato, ormai da mesi. Per ragioni politiche e personali - ormai impossibili da scindere in questa democrazia dell'opinione. Così oggi la maggioranza non ha più una maggioranza. La nascita di Fli, prima come gruppo parlamentare e poi come partito vero e proprio, ha ridotto il Pdl a un ex-partito. Spezzato. La maggioranza di governo: non c'è più. La regge solo la Lega. Finché le conviene. Pochi mesi, poche settimane, pochi giorni. Finché non riterrà la crisi di governo più costosa, politicamente, della mancata riforma federalista. Cioè, ancora per poco, immaginiamo. Ma già ora la Lega agisce come un partito esterno alla maggioranza di Silvio Berlusconi. Non risponde a lui. Non l'ha mai fatto, d'altronde. Ma ora ne prende apertamente le distanze. E non accetta - ci mancherebbe - di vedersi ridimensionata dall'ingresso nel governo dell'Udc. La sua vera antagonista.
È a pezzi anche il Pdl, diviso all'interno. Dove Tremonti è percepito, ormai, come il vero premier. Riferimento per possibili maggioranze alternative. Gradito alla Lega, accettato dai centristi e da una parte del PD.

Ma il Pdl è diviso anche alla base. Nel Nord: soppiantato dalla Lega. Nel Mezzogiorno: incalzato da Fli. E dalle nuove leghe meridionali, soprattutto in Sicilia. Le stime elettorali più recenti (da ultime, quelle dell'Ipsos di Pagnoncelli e dell'Ispo di Mannheimer) sottolineano il declino del Pdl: ormai ben al di sotto del 30%. E suggeriscono che la maggioranza di centrodestra rischierebbe di non essere tale neppure alla prova del voto. PdL e Lega, infatti, non raggiungerebbero il 40%. Mentre i partiti di centro - Udc, Fli, Api, con il rinforzo di Montezemolo - otterrebbero intorno al 18%. Il PD - per quanto in affanno - e l'Idv, alleati alle sinistre, potrebbero perfino prevalere. Alla Camera. Mentre al Senato nessuna maggioranza appare possibile. Motivo che ha spinto Berlusconi ad avanzare la singolare idea, in un sistema a bicameralismo perfetto, di votare solo per la Camera. Tanto per dividere ancora di più le rappresentanze e le istituzioni.

Il fatto è che Berlusconi non è solo il leader di Fi, del Pdl e dell'attuale maggioranza di centrodestra. Ne è l'inventore. E l'unica colla. Senza di lui, questo progetto e questo soggetto politico non stanno insieme. Come non sta insieme l'Italia a cui egli ha dato rappresentanza ed evidenza. Perché Berlusconi, va ribadito, non ha vinto "solo" per merito delle televisioni e della sua capacità di usare - prima e meglio degli altri - il marketing in politica. Ma anche perché ha interpretato il cambiamento sociale - profondo - avvenuto in Italia negli anni Ottanta e Novanta. L'irruzione dei piccoli imprenditori del Nord, veicolata dalla Lega. A cui Berlusconi ha garantito cittadinanza politica e accesso al governo, ancora nel 1994. L'affermazione del capitalismo di "produzione dei beni immateriali" (per citare Arnaldo Bagnasco): finanza, comunicazione, assicurazioni. Queste tendenze che hanno imposto la logica del "mercato" negli stili di vita e nei modelli culturali, promuovendo l'avvento di una società di individui, orientati dai consumi e dai media. Berlusconi, a questa realtà sociale ed economica, ha offerto linguaggio, immagine, ideologia. Luoghi e canali di espressione e di comunicazione. In altri termini: rappresentanza e rappresentazione.

Oggi questa Italia non si riconosce più in lui. Né Berlusconi è in grado di offrirle identità comune. D'altra parte, la crisi globale ha tolto credibilità al sistema del credito e della finanza. Non solo, ne ha acuito il contrasto con i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori. E poi la paura: generale e generalizzata, generata dalla crisi economica e dall'incombere della disoccupazione. La domanda di Stato sociale, di sostegno pubblico. Tutto ciò ha indebolito il ruolo di Berlusconi. La sua offerta di rappresentanza. La sua "ideologia del fare" - peraltro, puntualmente smentita dai fatti. Ha reso impopolare la sua interpretazione festosa e fastosa dell'uomo-che-si-è-fatto-da-sé. Così, si è assistito alla presa di distanza, nei suoi confronti, da parte degli ambienti che lo avevano, fin dall'inizio, guardato con favore. Le associazioni imprenditoriali, alcune organizzazioni di categoria e parte del mondo cattolico. Mentre si è allargato il disincanto sociale, sottolineato dal grado di fiducia verso di lui, sceso - oggi - ai minimi storici. Anche per questo assistiamo a un Paese che si sbriciola. Dove prevalgono i risentimenti sociali. Contro gli statali fannulloni, gli insegnanti impreparati, i baroni senza morale, i medici incapaci (e criminali). Mentre si è logorato il mito dell'italiano in grado di reagire a tutto, maestro dell'arte di arrangiarsi. A cui piace vivere bene, in un ambiente estetizzato da secoli di arte e di cultura. Più che a vivere, oggi, gli italiani - molti italiani - sono impegnati a sopravvivere. Alla crisi economica. I giovani: alla precarietà. In un ambiente che cade a pezzi. Peraltro, mentre si celebrano i 150 dell'unità d'Italia, le tensioni territoriali crescono. Tra Nord, Roma, il Sud. Nel Nord e nel Sud.

A tutto ciò Berlusconi non sa e non riesce più a dare risposte unificanti. Non solo per ragioni "politiche" congiunturali. Anche perché sono in crisi la struttura sociale e il sistema di valori che egli ha interpretato per oltre 15 anni. Il problema è che le alternative - sociali, ma anche politiche - faticano ad emergere. Per cui ci scopriamo spaesati, in un paese sbriciolato. Affollato di individui soli e vulnerabili. L'uscita dal berlusconismo - anche senza Berlusconi - si annuncia lunga e faticosa.

sabato 6 novembre 2010

Il countdown è iniziato, speriamo solo sia celere




La maledizione di Al Pappone

di MARCO TRAVAGLIO



Fa benissimo Al Pappone a preoccuparsi della mafia. Non perché Cosa Nostra ce l’abbia con lui a causa dei “colpi che le stiamo infierendo” (sic): quella è gente seria, sa apprezzare i regali degli amici, tipo lo scudo fiscale o la norma che consente di rivendere all’asta i beni sequestrati o gli attacchi ai pentiti e ai pm antimafia e, soprattutto, sa distinguere tra il lavoro di magistrati e forze dell’ordine e i messaggi di chi beatifica Mangano e demonizza Saviano. Ma, proprio perché sono fra le poche persone serie rimaste in Italia, i mafiosi hanno buona memoria: ricordano gli accordi presi e pretendono che siano rispettati. Se qualcuno li prende per i fondelli con promesse a vanvera, non fanno come gli italiani normali che dimenticano, fischiettano e rivotano: quelli s’incazzano e sparano. Siccome alcuni punti del “papello” restano da realizzare, le mafie guardano con preoccupazione al tramonto dell’impero. E potrebbero partecipare più attivamente al dibattito politico. Per rammentare a chi di dovere che gli impegni vanno onorati. O per presentare il conto a chi verrà dopo. Naturalmente l’idea che Cosa Nostra utilizzi le mignotte per ricattare Al Pappone poteva venire giusto a lui. Ma è significativo che sia venuta a lui. Come osservava l’altra sera Paolo Mieli ad Annozero, la discesa agli inferi del Cavaliere di Hardcore non conosce limiti. Due anni fa il pover’uomo stazionava nel girone delle aspiranti attricette di Raifiction. L’anno scorso precipitò sulla circonvallazione di Casoria alla festa di Noemi e nell’harem di Gianpi Tarantini, piazzista di protesi, coca e altre belle cosette. Ora è sprofondato nei bassifondi delle pornodiscoteche e delle amiche poliglotte di Lele Mora, a sua volta amico di certi bei tipini legati alla ‘ndrangheta. E chissà quale sarà il prossimo gradino dell’abisso senza fondo. Invano i cortigiani recitano il copione dell’anti-moralismo. Vespa partorisce il solito libro su sesso e potere da Vittorio Emanuele II a Garibaldi, da Cavour a Mussolini, come se il guaio fosse che B. ama le donne. Belpietro titola “Santoro crede alle puttane”: ma qui l’unico che crede alle puttane, anche quando – dice lui – gli raccontano di essere le nipoti di Mubarak, è quello che se ne fa recapitare 30 a botta a domicilio. Panorama, dopo averci raccontato che la D’Addario è un’infiltrata dal Comintern nel lettone di Putin (a proposito, che ne è della famosa “Orecchiette Connection”?), titola a tutta copertina sotto le poppe di Ruby e Nadia: “Armi indecenti”. “L’ammucchiata”. “Gli sciacalli dell’antiberlusconismo”. Che sarebbero i giornalisti che danno conto degli scandali, i magistrati che indagano e i politici che criticano. Scusate, colleghi (si fa per dire), ma chi riceveva in casa quelle “armi indecenti” per fare “ammucchiate”? Fini? Di Pietro? Santoro? O il vostro padrone? Zio Tibia Sallusti si domanda: “Chi ha armato e pilotato la nuova stagione delle escort? Chi potrebbe essere l’oscura manina che sta dirigendo le operazioni?”. Risposta: la mafia o Fini o magari tutt’e due. Non si accorgono, questi giallisti della mutua, che più scrivono cose del genere, più confermano l’unico aspetto pubblico dello scandalo: non il sesso senile di Al Pappone, ma la condizione di vulnerabilità e ricattabilità in cui si è cacciato con le sue mani.



Il complotto mafia-escort fa ridere. Ma se il premier è ricattabile dalla mafia è perché si teneva alcuni mafiosi in casa. Se è ricattabile dalle escort è perché le sue case sono piene di escort di cui lui nemmeno conosce l’identità. Sono trent’anni che passa le giornate a fare casini e le nottate a cercare di coprirli con tangenti, depistaggi e leggi ad personam. Dopo una vita trascorsa a fuggire dal suo passato, ora sente che sta per esserne raggiunto. Ricorda l’investigatore C. W. Briggs interpretato da Woody Allen ne La maledizione dello scorpione di Giada: indagava su certe misteriose rapine, poi si scoprì che il rapinatore era lui. Ma Briggs, almeno, agiva sotto ipnosi. Al Pappone pare sia lucido.



http://www.laltranotizia.net/2010/11/la-maledizione-di-al-pappone.html

TRATTO da il FATTO Q. del 6 NOV