venerdì 21 marzo 2014

La canonizzazione di Enrico.

AI FUNERALI DEL PCI. POSTED BY CANECATTIVO ON 20/03/2014, Di Fulvio Abbate.
Dai, cominciamo dalla tragica fine. Berlinguer, dopo morto, è diventato il Padre Pio di una sinistra che purtroppo o magari per fortuna non esiste più. Ergo, così come un po’ dovunque in Italia c’è modo di appezzare le statue dell’umile frate di Pietrelcina, sarebbe non meno auspicabile che ne fossero collocate altrettante dedicate a colui che nella memoria di molti resta come l’indimenticato segretario generale del Partito comunista italiano scomparso a causa di un ictus trent’anni fa a Padova, dopo un tragico comizio. Il modello del manufatto artistico? Semplice, a Fiano Romano, alle porte di Roma, cittadina che ha visto nascere la simpatizzante Sabrina Ferilli, ce n’è già una, perfetta: un Berlinguer di bronzo, la mazzetta dei giornali sottobraccio, l’Unità in bella vista sugli altri, perfetta rappresentazione del dirigente che sembra raggiungere la sala del Comitato centrale alle Botteghe Oscure. Il Veltroni che adesso gli dedica un film-documentario, Quando c’era Berlinguer (al di là del fatto d’avere dichiarato anni addietro di «non essere mai stato comunista», conquistando così la prima pagina di il manifesto insieme a D’Alema, con tanto di foto giovanili dei due, e il titolo «Facevamo schifo»), diversamente perfino dall’ultimo militante spassionato di allora, non ha mai posseduto neppure uno straccio di pensiero magico rivoluzionario, quello che invece il Pci, nonostante la sua burocrazia, nonostante i “figiciotti” complessati e moralisti come appunto Veltroni, custodiva in un ideale doppiofondo, al punto che, nonostante i mille inviti alla moderazione, ci si aspettava comunque da un momento all’altro il segnale dell’ora X: il lancio di una rivoluzione che instaurasse le premesse di una società socialista benché per “via nazionale”. Oddio, sinceramente parlando in termini di ricorso alle armi, lo stesso Berlinguer qualcosa aveva perfino fatto intuire, soprattutto quando si parlava di trame nere; lo ricordo come fosse ieri durante una tribuna elettorale rivolgersi all’interlocutore missino, forse lo stesso Almirante, e dire che «i comunisti avrebbero fronteggiato una recrudescenza neo-fascista con ogni mezzo», e qui c’era da immaginare i militanti uscire dalle sezioni imbracciando gli Sten per combattere i “fasci”, gli stessi che Gino Galli, in arte Gal, disegnava sui manifesti con i fez del ventennio. Quanto al resto, il palmarès politico di Berlinguer mostra una trafila di brutali sconfitte, fallimentare l’idea stessa del “compromesso storico”, terrificante per la tenuta del suo partito “l’unità nazionale”, con l’ossessione di incontrare le “masse cattoliche” (leggi: i gruppi dirigenti della Dc), e poi, in quel 1977, dopo la cacciata del capo del sindacato operaio della Cgil Lama dall’università di Roma e i fatti di Bologna, con i carri armati fra le Due Torri, ecco Berlinguer perfino inimicarsi le masse giovanili, accusando gli studenti di essere “untorelli”, senza contare il non rendersi conto che il discorso dei “sacrifici” era puro delirio in anni in cui proprio a sinistra si affermavano le “teorie dei bisogni”, perfino indotti, ma pur sempre bisogni, come spiegava Agnes Heller, l’allieva di Lukács, e invece Berlinguer lì, al teatro Eliseo di Roma, a chiedere l’Austerità, affermando che «la classe operaia dovesse farsene carico in quanto critica dell’esistente», per non dire dell’opposizione alla televisione a colori insieme ai repubblicani di Ugo La Malfa, ma qui il discorso si sta facendo fin troppo serio ed è meglio andare avanti, oltre, non prima di aver detto che con i socialisti di Craxi proprio non ci poteva essere intesa, assodato il carattere clientelare e paramafioso, al Sud e non soltanto, di quel partito ormai svuotato della sua anima nenniana. Ma il discorso sul Pci di Berlinguer potrebbe andare perfino oltre nell’elenco dell’incapacità del sistema Pci a comprendere i nuovi tempi; come non ripensare anche al moralismo bigotto che si respirava nelle sezioni ancora nei primi anni Settanta (sia detto da uno che a quel mondo ha dedicato un romanzo, Zero maggio a Palermo) così come paradossalmente era stato annunciato perfino dall’ottuso del fronte opposto, Guareschi, in Don Camillo e i giovani d’oggi, nel senso che con l’arrivo dei beat, come fai a tenere l’attenzione dei ragazzi con l’epica della Resistenza e della cospirazione antifascista e della lotta per l’occupazione delle terre? Non per nulla, sempre in quei giorni, le ragazze migliori, le più libere, le più scafate, ai coetanei della Fgci e del Pci, cioè ai Veltroni, non la davano affatto, preferendo scopare con quelli dei gruppi extraparlamentari, a scelta tra Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia eccetera. Questo nodo desiderante l’ha spiegato assai bene nel 1978 in un suo libro Mauro Rostagno: «C’è una specie di ossessione all’interno della sinistra italiana su tutto quello che non rientra nei programmi stabiliti trent’anni fa. Per cui i giovani devono andare alla casa del popolo, andare a fare i bagni, studiare, fare dimostrazioni quando Lama e Berlinguer o gli altri stabiliscono che quelle sono le scadenze fondamentali della vita nazionale. Tutto quello che non è compreso nel perbenismo – continuava Rostagno – nel buon senso è un nemico potenziale. Il ‘diverso da noi’ è infernale.» Tra i ricordi più crudeli e insieme toccanti di quegli anni? I compagni Minichini che sostenevano d’avere ospite in casa un guerrigliero cubano che era stato nella Sierra con Fidel e Che Guevara, e a me, che li imploravo di farmelo salutare, rispondevano: «Non si può, sta riposando». E poi “l’internazionalismo proletario” per il Vietnam, il Cile, e slogan come “IRA- feddayd-tupamaros-vietcong”, e ancora il pensiero ai compagni dell’ERP laggiù in Argentina, un infuocato immaginario concesso più per inerzia che altro. Più nulla è rimasto. E quanto all’Urss, le timidezze di Berlinguer sono un dato evidente – «La spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre si è esaurita» visto che era davvero troppo poco considerando che appena 5 anni dopo la sua morte il sistema del Patto di Varsavia collasserà. La pagina più “operaia” di Berlinguer, ossia la sua presenza a Mirafiori nei primi anni Ottanta, cui seguirà la sconfitta con la marcia dei quarantamila, viene sempre indicata come un errore politico da parte degli stessi esegeti del nostro. Il Pci in ogni caso era molto più di Berlinguer. Berlinguer muore nel suo momento di minor consenso, è bene ricordarlo, nello stesso frangente in cui nel Pci si pensa già a una successione, assodato il bilancio fallimentare dei suoi passi politici, e quel funerale cui il sottoscritto, in piedi tra la Scala Santa e via di Santa Croce in Gerusalemme, ha partecipato, non è altro che il funerale del Pci, in prospettiva di una sinistra che paradossalmente non ha saputo regalare la rivoluzione ai suoi sognatori. Forse, sarebbe stato molto meglio girare Quando c’era Luigi Longo, con le immagini di questi, giovane, in divisa di commissario politico delle Brigate internazionali sul fronte di Madrid, guerra di Spagna, 1936. Perfino Venedikt Erofeev, il meraviglioso Bukowski sovietico, lo cita in Mosca sulla vodka, sognando di venire in Italia per andare a dormire a casa sua. Lì, con Longo, almeno c’è un vero pensiero magico. Berlinguer è diventato il Padre Pio della defunta sinistra italiana, la più moralista, la meno erotica, la meno testosteronica. Jovanotti che nel film spiega Berlinguer parlando di “leggerezza” e di “ossa piccole” è la dimostrazione che la squadra del cretino ha vinto sulla non meno inadeguata équipe del resto del mondo. L’esistenza, anzi, la persistenza dei Veltroni ne è la controprova. Molti di coloro che in questi giorni hanno commentato il film e il politico davano la sensazione di parlare di Berlinguer e del Pci come se stessero trattando di un ellepi inedito di John Lennon feat. Fabrizio De André e gli Squallor. P.S. Per andare oltre, suggerisco la lettura del mio pamphlet Sul conformismo di sinistra (Gaffi editore, 2005), scaricabile gratuitamente in Rete da questo link. PP. SS. Nella foto, il militante comunista Fulvio Abbate, al Primo Maggio del 1972, Portella della Ginestra, Palermo.

lunedì 3 marzo 2014

Euro e finanza sono il fallimento delle élites.

3 marzo,di ENRICO PEDEMONTE, Lettera 99.
Crisi della delega.Una moneta mal progettata. Una libertà di muovere i capitali che favorisce le rendite e danneggia il lavoro. Una burocrazia europea sempre più lontana. E la sfiducia dilaga Una moneta mal progettata. Una libertà di muovere i capitali che favorisce le rendite e danneggia il lavoro. Una burocrazia europea sempre più lontana. E la sfiducia dilaga Jürgen Habermas lo va ripetendo da mesi: le élites politiche europee (in particolare quella tedesca) hanno fallito e il processo di integrazione politica dell’Europa è arrivato a un punto morto. Il filosofo tedesco lo ha scritto in un lungo saggio pubblicato nel settembre 2013, e lo ha ribadito in articoli e interviste, anche di recente su Le Monde. Parole pesanti le sue: le élites europee stanno mettendo la testa sotto la sabbia, inseguono progetti aristocratici senza coinvolgere i cittadini, hanno perso la legittimazione popolare anche perché in molti casi non sono state elette dal popolo ma solo nominate e questo ha fatto crescere un fossato ormai incolmabile. Un modo per giustificare la crescita dei movimenti populisti in Europa? Al contrario, una scossa per segnalare il problema: i partiti populisti hanno ragione quando dicono che l’Unione europea non ascolta i suoi cittadini. L’inadeguatezza delle élites europee fu la causa che scatenò la prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario quest’anno, dando l’avvio a una tragedia che durò oltre trent’anni. Una dimostrazione di quanto grave sia questo problema è fornita dalla trattativa in corso per la creazione di un’area di libero scambio Europa-Usa. Se i negoziati andranno a buon fine, nel giro di qualche anno esportare merci dall’Italia agli Stati uniti sarà facile come farlo tra due regioni qualunque dell’Europa. Apparentemente un risultato superbo: chi può schierarsi contro l’eliminazione delle barriere doganali? La narrativa che ci viene offerta è che un allargamento del mercato atlantico porterà benessere, aumento del Pil e nuova ricchezza. Oltreché la pace perpetua, naturalmente. Tutti contenti, dunque. Ma allora perché queste trattative procedono in modo rigorosamente riservato tra Bruxelles e Washington, e su di esse circola così poca informazione? Perché Obama si oppone alla richiesta (promossa da Harry Reid, capo dei democratici al Senato) di discutere nel merito di queste norme al Congresso? Si tratta di un'opposizione che probabilmente causerà lo slittamento delle trattative oltre le elezioni di novembre. Un giornale come l'Economist punta il dito contro la debolezza di Obama, che con questo gioco al rinvio causerebbe una perdita di ricchezza, per il mondo, di 600 miliardi di dollari. Ma c'è un'altra faccia della medaglia. Il trattato di libero scambio Usa-Europa avrà un significativo impatto su tutte le imprese, i lavoratori e i consumatori europei, cioè su tutti i cittadini: perché gestire le trattative in gran segreto? O meglio, perché nascondere questa discussione bilaterale agli occhi dei cittadini lasciando che a Bruxelles e a Washington siano le lobby economiche a occuparsene? Perché non è vero che tutte le categorie sociali ne trarranno vantaggio. Alcune ci guadagneranno e altre ci perderanno. Gli esperti dicono che alla fine la somma sarà positiva. Ma quali esperti, e in base a quali considerazioni? Certo, si tratta di un tema delicato di cui discutere in pubblico. Un tema specialistico, complesso, controverso. Ma il compito dei leader, delle élites politico-culturali dovrebbe essere proprio questo: semplificare i grandi temi, identificare gli obiettivi prioritari, mediare tra gli interessi di parte e quelli particolari. In altri termini: impegnarsi in battaglie culturali, e riuscire a vincerle. Invece nulla di tutto ciò avviene. Una trattativa che condizionerà il futuro dell’economia europea, specie quella italiana che dipende in modo rilevante dallo scambio con l’estero, è lasciata alle decisioni private di un gruppo di burocrati europei che non devono rispondere agli elettori. C’è da stupirsi se la credibilità delle istituzioni politiche è ai minimi storici, i movimenti populisti prosperano e il distacco dalle istituzioni europee cresce? In realtà di tratta di un cane che si morde la coda. Più le élites prendono le loro decisioni nel segreto delle loro stanze, a braccetto con le lobby, più aumenta la sfiducia collettiva. La lievitazione del fronte dei No, che blocca centinaia di cantieri in Italia (e non solo), nasce dal generale disprezzo nei confronti del potere costituito, dimostrazione concreta del fallimento delle élites nazionali. E il problema si fa più grave quando ci si sposta al di là dei confini nazionali. Perché negli ultimi decenni, mentre evolvevano i processi di globalizzazione, anche i meccanismi decisionali migravano all’estero, cooptati da organismi internazionali lontani dai cittadini, mai eletti direttamente dai popoli. Sono questi organismi che negli ultimi decenni hanno posto le basi della liberalizzazione dei mercati finanziari, e hanno progettato l’architettura istituzionale su cui è stato costruito il sistema dell’euro. C’è da stupirsi se il fallimento di queste scelte, decise da ristrette aristocrazie, sta portando a una rivolta che talvolta ha il sapore del populismo? Il tema del fallimento delle élites è stato rilanciato con forza (il 14 gennaio) da Martin Wolf, influente giornalista del Financial Times, in un editoriale che ha fatto scalpore. Secondo Wolf si possono citare almeno tre esempi recenti di questo fallimento storico. Il primo è stato l’aver sottovalutato le conseguenze della liberalizzazione del movimento dei capitali e della conseguente finanziarizzazione dell’economia mondiale, un fenomeno che da una parte ha ridotto gli incentivi a investire sul lavoro e dall’altra ha incoraggiato l'espansione del debito. L’incapacità di prevedere il disastro è stata micidiale, fino al paradosso che la crema della finanza ha dovuto chiedere di essere salvata con il denaro pubblico, cioè dalla povera gente. Il secondo fallimento è l’emergere di un’élite economico-finanziaria sempre più potente e sempre più estranea rispetto agli interessi dei paesi di origine. Una plutocrazia che ignora il concetto di cittadinanza e non risponde più né ai cittadini né alla democrazia. Perché salvare i ricchi con i soldi pubblici quando questi condividono così poco delle proprie ricchezze? Il terzo fallimento è costituito dall’euro, nato da una progettazione difettosa, che sta uccidendo le economie deboli ed è causa di migrazioni di massa e di debiti pubblici colossali. Oggi – dice Wolf – all’interno dell’eurozona il potere (oltre che in quelle della Germania) è nelle mani di un trio di burocrazie non elettive, la Commissione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale. Le stesse élites che non hanno previsto gli errori sono ora incaricate di risolverli. In realtà il fallimento delle élites potrebbe non essere un caso fortuito della storia. Recentemente due archistar dell’economia, Daron Acemoglu (del Massachussetts institute of technology) e James A. Robinson (dell’università di Harvard) hanno scritto un saggio (Persistence of Power, Elites and Institutions) nel quale analizzano come le élites, dopo aver visto decrescere il loro potere con la democratizzazione crescente del dopoguerra, si sono impegnate nella creazione di lobby per marcare la loro influenza sui partiti e sui governi e hanno sviluppato strumenti di potere de facto con i quali hanno apposto il loro sigillo sulle legislazioni locali e sulle norme internazionali. Lo stesso impegno è stato messo nel plasmare il sistema dei media perché è proprio attraverso il controllo della cultura collettiva che si manovra il potere. Nessuno si illude che le élites che governano le istituzioni si mobilitino per il benessere esclusivo della povera gente. Ma quando il risultato è il fallimento dell’intero sistema, come è accaduto negli ultimi anni, allora c’è il rischio che l’intero ordinamento politico collassi, esattamente come avvenne con la prima guerra mondiale. Non è un caso se quella guerra ebbe l’effetto immediato di distruggere la principale eredità del XIX secolo: la liberalizzazione degli scambi commerciali, con tutto quello che seguì. «La crisi europeai – dice Wolf – non è solo politica, è anche costituzionale.[…] Le élites devono fare meglio. Altrimenti la rabbia popolare le annienterà».