venerdì 30 aprile 2010

CALMA... Mantieni la calma, rallenta il ritmo del tuo cuore mettendo a tacere la tua mente. Trova la calma delle montagne. Rompi la tensione dei nervi e dei muscoli con la dolce musica dei ruscelli che vivono nella tua memoria. Vivi intensamente la pace del sogno. Impara a prendere vacanze di un minuto, a fermarti a guardare un fiore, a parlare con un amico, a contemplare un'alba o a leggere qualche riga di un buon libro. Ricorda ogni giorno la favola della lepre e della tartaruga, perché tu sappia che vivere più intensamente non vuol dire vivere più rapidamente e che la vita è ben più che aumentare la velocità. Osserva i rami della quercia che fiorisce e comprendi che è diventata grande e forte perché è cresciuta lentamente e bene. Mantieni la calma, rallenta il passo e getta le tue radici nella terra buona di ciò che realmente vale, per far crescere così le stelle.

(H. Keller- Scrittrice statunitense, sordo-cieca dall'età di 19 mesi

Buon Primomaggio a tutti







Hasta la victoria, siempre.

Finalmente, Nichi


Apriamo gli Stati Generali dell'alternativa

di Matteo Bartocci

Sab, 24/04/2010 - 13:38

«Ma cos’altro deve succedere perche' tutti i protagonisti dell’alternativa tornino a discutere in un luogo plurale e aperto?» Osservando la devastazione di Pd e Pdl, Nichi Vendola suona la sveglia al centrosinistra: «Dobbiamo convocare al piu' presto gli stati generali dell’alternativa. Aperti a movimenti e associazioni perche' ormai e' chiaro che i partiti da soli non ce la fanno». Pensi che la rottura nel Pdl acceleri la fine della legislatura? Fare previsioni e' difficile. Di certo la frattura nel Pdl e' profonda e non ricomponibile. E’ evidente che esistono due destre. C’e' una destra «americana», liberista ma non liberale in cui Berlusconi e' il garante del carisma populista e la Lega del radicamento territoriale. < Una destra garantista con i «garantiti» e giustizialista con i «giustiziati». E c’e' invece un’altra destra che propone un partito conservatore di tipo europeo. E’ perfino piu' liberista dell’altra: Fini critica da destra il municipalismo della Lega, le pensioni e la privatizzazione dei servizi locali, pero' e'liberale nel senso che almeno rispetta l’habeas corpus, vuole l’inclusione, aspira ai diritti civili e alla laicita' della politica. Tra queste due destre si e' aperta una partita brutale e di lungo periodo.
E il centrosinistra?
Se pensa di schierarsi esclusivamente secondo il dibattito del Pdl fa un suicidio preventivo. Le nostre identita' non possono dipendere dal posizionamento sulla scacchiera del Pdl. Faccio una critica sommessa: ho capito lo scontro che c’e' in quello che fino a ieri era definito il «partito di plastica», ma se dovessi dire invece qual e'stata la contesa nel Pd io non lo saprei dire.
Questi due partiti, Pd e Pdl, sono nati due anni fa con ambizioni enormi: la vocazione maggioritaria di Veltroni e il sogno di Berlusconi di rappresentare il 51% degli italiani. Progetti falliti?
Questo bipolarismo e'il prodotto del velleitarismo del Palazzo. Una camicia di forza che ha provato a imbrigliare la transizione senza indirizzarla verso una democrazia più matura. L’Italia vive da troppo tempo in uno stato di crisi permanente e di paralisi. E il deficit di «alternativita'» del centrosinistra manda in corto circuito tutto il sistema. La rimozione della sconfitta elettorale operata dal Pd e'clamorosa. Tanto clamorosa che sembra perfino che il Pd abbia introiettato la sconfitta come un destino. Ne e'un esempio la formazione delle nuove giunte regionali.
Cioe'?
Sembra che il Pd non abbia piu' il problema di «fare politica» ma sia solo un ceto politico che si arrocca. Ma come, abbiamo discusso per un anno sulla latitudine destra-sinistra delle alleanze e oggi non se ne parla piu'?
La liquefazione dei partiti prelude al «big bang» suggestivo evocato da Bertinotti oppure e'solo normale dialettica?
Non so se prelude a niente. So che l’inadeguatezza di tutto il centrosinistra e'segnalata da due fatti clamorosi: una sconfitta cocente e la rimozione della sconfitta. Insomma, il cantiere non c’e' proprio. Quei problemi «fondativi», di linguaggio e di vocabolario su un’idea di mondo che ho provato a segnalare da una postazione che mi e'preziosa e cara come Sinistra Ecologia Liberta' sono rimasti una traccia. Anche giusta. Ma senza conseguenze significative. Ma perche' il Pd raccoglie le firme per l’acqua pubblica e non aderisce al referendum? Perche' sceglie di stare nella dimensione ideologica e un po' comica per cui l’acqua e' pubblica e la brocca e' privata? Ti cadono le braccia. Come sulla laicitAa'. O si viene chiamati a una crociata contro la Chiesa oppure si fa finta di niente. La politica viene cancellata e diventa solo un posizionamento puramente simbolico. Che non ha mai conseguenze. Ma lo vogliamo capire che ci sono idee, temi e analisi su cui si deve o-s-a-r-e?

Che effetto ti fa essere l’unica persona di sinistra evocata alla direzione del Pdl? E non come il «comunista» Vendola ma il «governatore» Vendola.
E’ molto gratificante. Tremonti non si misura mai sulle cose reali. Il suo disco incantato e'stato respinto dai pugliesi. Proprio il manifesto ha scritto che in tutta Italia il centrosinistra perde 15 punti rispetto alle europee mentre in Puglia ne guadagna 10. La mia vittoria ha trascinato il centrosinistra.
Chissa', magari era un riconoscimento tra due candidati premier alle prossime elezioni?
Questa e' un’estremizzazione e una stilizzazione. Io e Tremonti litighiamo su una cosa di cui non si occupa nessuno e cioe' il gigantesco trasferimento di risorse dal Sud al Nord. L’egemonia leghista ormai e' tanto diffusa che la vulgata secondo cui il Sud vive alle spalle del Nord non viene piu' falsificata nella contesa politica. Neanche quando si basa su dati fasulli. Lo ha ricordato anche Fini: le multe delle quote latte sono state pagate con i soldi del Sud.
Forse Fini lo poteva dire prima. Per te stavolta e' un problema doppio: sei l’unico governatore del Sud e di sinistra che dovra' misurarsi con il federalismo.
Mi divertira' molto vedere i presidenti di Campania e Calabria accorgersi - come ha fatto il presidente della Sicilia Lombardo - del sequestro quotidiano di risorse del Sud operato da questo governo. Si accorgeranno presto che tutti gli ammortizzatori sociali d’Italia e il terremoto in Abruzzo sono stati finanziati con i fondi per il Mezzogiorno.
Secondo Tremonti le «fabbriche di Nichi» sono i tuoi centri sociali...
Tremonti proprio non capisce. Forse perché la cifra dei partiti è la competizione. Nelle «fabbriche» invece si sperimenta la cooperazione e un nuovo civismo: li' il tema e' «che cosa facciamo insieme». Erano 150 dopo le elezioni, oggi sono 230. Sono un punto di contatto tra la Piazza e la Rete che merita un interesse approfondito, se non di Tremonti almeno della sinistra.

C’è però qualche ambiguità sul loro rapporto con Sel...
Per cortesia, le «fabbriche» sono autonome dai partiti e anche da Sel. Ma e' una sciocchezza pensare che io voglia liberarmi di Sel per fare il «partito delle fabbriche». Le fabbriche sono una lievitazione di cose nuove. Sel e' una formazione che vuole essere la coscienza critica del centrosinistra. Dobbiamo renderla piu' solida e piu' organizzata con il congresso di ottobre per rendere piu' autorevole il nostro discorso sull’alternativa al berlusconismo.
La giunta in Puglia e' una sfida su cui sarai subito giudicato.
Spero di presentarla martedi'. Il punto per me piu' significativo e' la parità di genere: 7 assessori uomini, 7 donne. In Puglia le elette sono solo 3. Di sicuro continueremo sulla strada del «riformismo radicale»: difesa dei diritti e dei beni comuni e lotta contro la poverta' come strumento di riforma sociale.

E intanto dovrai governare con il consiglio regionale con piu' imprenditori d’Italia. Come pensi di riuscirci?
La prima cosa che faremo sara' una legge sul conflitto di interessi. E poi ho accolto la proposta dei radicali dell’anagrafe degli eletti, cioe' l’elenco pubblico di redditi e proprieta' di ciascun eletto e di ciascun nominato.

mercoledì 28 aprile 2010

Gramsci il maestro

La sinistra non ha linguaggio e programma

Rossana Rossanda: "La sinistra non ha linguaggio e programma"

«Subalternità della sinistra all’impresa privata», mancanza di un «suo» linguaggio e persino rinuncia «a difendere fino in fondo l’impianto della Costituzione repubblicana». Disamina tagliente e venata di forte pessimismo quella che Rossana Rossanda ci consegna dalla sua casa di Parigi. In una conversazione fatta di risposte stringate e nette («Non amo le interviste telefoniche...»). Ma almeno il succo è chiaro. Dice per esempio Rossanda: «Non capisco le zuffe tra Bersani, Franceschini e Veltroni. Pure questioni personali o in ballo c’è dell’altro: che società e che economia vogliono?». Oppure: «La verità è che si è smarrito il fondamento delle idee di sinistra. Ci si accapiglia su sostituzioni e sovrastrutture, regole, valori, “narrazioni”, ma non si parla dell’essenziale: i soggetti in conflitto, gli interessi, la natura sociale del potere...». E ancora: «Almeno il Pci certe cose ce le aveva chiare in testa e ben per questo dall’opposizione aveva costruito un tessuto forte nella società che ancora resiste al centro italia, come ho potuto constatare di recente nel Pisano. Strano che debba dirlo io, che nel 1969 venni radiata...». Insomma Rossanda, «vuole andare al cuore delle cose», che per lei «ragazza del secolo scorso» coincide con le domande sull’identità: che cosa significa essere ancora comunisti? Una serie di domande (e risposte) che Rossanda ha rivolto a se stessa di recente a Pisa, in una lezione universitaria. E che qui ritorna in parte. Sentiamo.

Rossanda, malgrado la sua crisi e la quasi scissione di Fini, il berlusconismo resiste. Al contempo la sinistra appare un po’ afasica e incapace di incidere nel blocco avversario. Come mai?

«Il berlusconismo resiste appunto perché la sinistra è afasica. E lo è da quando si è persuasa che la sola figura sociale legittimata a una egemonia sulla società moderna è quella dell’imprenditore della piccola e media e grande impresa, o aspirante tale. E che ogni progetto di egemonia dei lavoratori, materiali e immateriali, per un ordine sociale diverso, è stato un’ illusione, quando non un crimine, dei socialisti e dei comunisti del Novecento. Il discorso di Berlusconi, imprenditore per eccellenza, appare quindi giusto ed è attaccato soltanto per gli eccessi di volgarità, di personalismo e le infrazioni al codice civile. Il Pd non sostiene alcuna alternativa di sistema, non diversamente dalla Idv».

Un paese stanco e depresso, si dice. In piena decadenza morale. Con una destra senza alternativa al momento. È accaduto qualcosa di irreversibile nell’antropologia degli italiani, ormai fortemente cristallizata a destra?
«Un’Italia repubblicana e democratica esiste soltanto dal 1946, e la sua Costituzione, socialmente avanzata, soltanto dal 1948. Inoltre dall’’89 in poi questa Costituzione, mai del tutto realizzata, oltre a essere esplicitamente attaccata da destra, viene considerata discutibile anche alla sinistra, che quando era al governo la ha perfino modificata. Perché la gente dovrebbe considerarla un valore inalienabile, dal quale non arretrare?».

Dall’accettazione del mercato alla subalternità agli imperativi sistemici di mercato e impresa, come lei dice. Dunque sta qui tutta la crisi della sinistra?
«Il mercato è per sua natura “sistemico”. Esso non ha né compiti ne doveri sociali, scambia merci e tende a ridurre tutto a merce. Una sinistra che non tenti di abolirlo, come il comunismo nel 1917, o vigorosamente limitarlo, come Roosevelt o Keynes dopo la crisi del 1929 e i fascismi, cede ad esso ogni sua priorità e di fatto si dimette. In quanto a “ferrivecchi” il liberismo è venerando, è stato limitato soltanto dalle lotte operaie, e Von Hayek e von Mises vengono prima del “neoliberismo” di Reagan e Thatcher».

Eppure nonostante l’incapacità del capitalismo globale di autoregolarsi e la riscoperta della statualità, negli Usa e in Europa, il capitalismo continua ad essere reputato eterno e al più arginabile. È un ferro vecchio novecentesco anche la sola critica del capitalismo?
«La regola del capitalismo è fare profitto e riprodursi, anche affondando questo o quel capitalista, questa quella tecnica. Non puo avere altre regole, e perche dovrebbe? Lo abbiamo visto nel G20,a Copenhagen e nelle fatiche e i compromessi di Obama. Per il resto - rinuncia della sinistra criticare il capitalismo etc,- mi pare di aver già risposto».

Ritieni che il Pd sia riformabile «da sinistra», oppure come sostiene Pietro Ingrao, esso è irrimediabilmente un partito di centro anche dal suo punto di vista?
«Il centro non è una categoria sociale ma di pura geografia parlamentare. Il Pd si propone un capitalismo un poco corretto, e delegittima ogni conflittualità. Il Pci ne aveva assunto alcune pratiche da un pezzo, in parte obbligato dalla collocazione internazionale, in parte per vocazione moderata di molti del suo gruppo dirigente».

La riscossa dei socialisti francesi smentisce le campane a morto sul socialismo europeo, così come la crescita di consensi della Linke tedesca. Può ripartire in Europa una spinta di sinistra, o la sinistra abita ormai solo in America Latina?
«I socialisti francesi sono appena rosei, hanno radice essenzialmente nelle assemblee estive locali, si tengono a mezza strada fra un prudente riformismo e il “centro” di Bayrou, che da noi piace a Casini e Rutelli. Del resto il prossimo candidato all’Eliseo rischia di essere Strauss-Kahn. La Linke è piu a sinistra, ma sostanzialmente sindacalista all’ovest, nostalgica all’est. In America Latina non definirei socialisti né Chavez né Morales né Lula: sono progressisti, che è altra cosa, e antimperialisti».

C’è un rischio reale di regime plebiscitario in Italia, oppure la quasi scissione di Fini ha fugato il pericolo?
«Non credo a un ritorno al fascismo puro e duro, senza libertà di associazione (e quindi senza elezioni, partiti e sindacati) né di parola (quindi senza stampa) nazionalista e antisemita. Il limite accettabile per l’Europa a moneta unica è quello della maggioranza attuale – un liberismo socialmente crudele e nazionalmente velleitario. Fini ne fa parte, il trattato europeo gli va benissimo e viceversa, mentre Bossi e Berlusconi fingono di attaccarlo e stanno diventando imbarazzanti. Fini ha davvero la forza di andarsene? Non lo credo. Comunque, dinanzi a una crisi del centrodestra temo che sarebbe terribile, una coalizione tipo Cln con dentro Montezemolo, Casini, Fini e Bersani. Dinanzi a questa eventualità la sinistra dovrebbe riscoprire un alternativa programmatica di modello, fondata almeno su un rilancio keynesiano dell’economia. Magari in chiave non troppo lontana da quel che sta cercando di fare Obama negli Usa».

Susanna Tamaro sul «Corsera» ha accusato il femminismo di aver reso le donne più sole e omologate alla società dominante. Predica reazionaria o c’è qualcosa di vero nella predica?
«Il femminismo, nelle sue diverse anime, resta il solo tentativo di rivoluzionamento del costume tentato e durato dagli anni ’60 agli 80. Per questo la ex sinistra, dopo un breve flirt, lo ha mollato, gli altri partiti lo abominano e la stampa alquanto vigliaccamente lo deride. Non ho letto Tamaro, ma posso immaginare dove la porta il cuore».

28 aprile 2010

martedì 27 aprile 2010

Ecco la Casta: la maggioranza vota no ai soldi per i lavoratori

di Andrea Carugati

Eccola qui la Casta, nel senso più deteriore del termine. Martedì pomeriggio, Camera dei deputati. Aula piena, si votano «misure straordinarie per il sostegno del reddito e la tutela di determinate categorie di lavoratori». Il gruppo Omega, ad esempio, quello che comprende i dipendenti dell’ex Eutelia: migliaia di lavoratori da mesi senza stipendio, e senza neppure la cassa integrazione. E invece niente, il centrodestra ha detto no. Niente soldi per i lavoratori, che a gennaio avevano fatto un sit-in bloccando per ore via del Corso, davanti a palazzo Chigi, e ricevendo vaghe promesse.

Tavoli su tavoli, ma neanche una lira. Tutti rossi, ieri pomeriggio, i pulsanti sui banchi del centrodestra: 261 no, tra chi leggeva le pagine sportive dei giornali, chi stava al cellulare, chi rideva e chiacchierava in capannelli. No anche all’allungamento della cassa integrazione ordinaria da 12 a 18 mesi, per dare fiato alle aziende in crisi: altri 261 no, senza una crepa tra i banchi della maggioranza, niente finiani dissidenti stavolta. Erano i due emendamenti che il Pd aveva portato in aula (si è riusciti a votarli solo dopo che Fini ha accolto la richiesta di Franceschini, la maggioranza avrebbe voluto insabbiare la legge in Commissione) per salvare le due proposte, che fino alla settimana scorsa erano state pazientemente cucite riuscendo ad avere l’ok del centrodestra. Poi il dietrofront: «Non ci sono le coperture», hanno spiegato i berluscones, su mandato di Sacconi e Tremonti. «Falso», secondo i democratici, che hanno proposto di mettere mano «al fondo per gli straordinari, che è dormiente, visto che da quando è iniziata la crisi non se ne fanno più», come ha spiegato Cesare Damiano. «Si poteva anche tassare del 2% i redditi sopra i 200mila euro».

BERSANI: UNA VERGOGNA «Una vergogna, davvero scandaloso che il governo si arrampichi sui vetri per non dare risposte vere a chi ha ammortizzatori in scadenza e chi è da tempo senza protezione», dice Bersani, in aula come tutti i big del Pd. E Franceschini: «Quando sono nei loro territori chiedono interventi per i lavoratori, poi vengono qui e votano contro...». Sui banchi del governo il sottosegretario al Welfare Viespoli, che sulla cig rimanda alla «riforma organica» e sull’Eutelia dice: «Da tempo è aperto un tavolo a palazzo Chigi...». «E cosa mangia la gente, i tavoli?», gli risponde Bersani. Mentre Fabrizio Potetti, che segue la vicenda per la Fiom, spiega: «Da gennaio il tavolo non è più stato convocato, almeno 1200 persone sono senza stipendio da novembre e per avere materialmente in tasca la cassa integrazione passeranno altri mesi. Quella norma poteva dare un po’ di sollievo». Poteva, appunto, ma il centrodestra ha detto no. Non sono serviti i numerosi appelli dai banchi delle opposizioni (unitissime, in questa occasione), dal moderato Udc Delfino («Altro che tavoli, il governo dovrebbe aprire i cordoni della borsa)», fino a Barbato dell’Idv che ha parlato di un «governo da rincorrere in piazza con i forconi». Nel mezzo tanti deputati Pd, tutti a ricordare i mutui di quelle famiglie che non arrivano a fine mese, a chiedere alla maggioranza «un gesto di civiltà».

L’IMBARAZZO DEI LEGHISTI In imbarazzo il relatore Cazzola (Pdl), che aveva lavorato all’intesa col Pd e poi si è rimesso in riga: «Mi assumo la mia parte di responsabilità». E anche i leghisti, tanto che il governatore e capogruppo Cota, dice Bersani, «è uscito è dall’aula al momento del voto sull’Eutelia». E replica piccato al leader Pd: «Stia zitto, entro lunedì saremo in grado come Regione Piemonte di provvedere con la cassa integrazione in deroga per Eutelia». E Sacconi: «Tutto un problema creato sul nulla, trovatemi un solo cassintegrato che avrà danni da questa norma».

28 aprile 2010

ACQUA BENE COMUNE





Niente business sulla sete, l'acqua dev'essere pubblica

di Stefano Rodotà, il manifesto, 27 aprile 2010

Cari compagni del manifesto, poiché sono convinto che il vostro giornale possa e debba avere un ruolo importante nella vicenda referendaria sul diritto all'acqua, e poiché in questa vicenda ho deciso di starci, vorrei segnalare alcune questioni che dovrebbero essere tenute presenti nella campagna appena iniziata e che ci accompagnerà nei mesi prossimi. Con una premessa.

L'avvio è stato straordinario: centomila firme raccolte in due giorni sui quesiti referendari. Questo significa almeno quattro cose: esistono grandi temi sui quali è possibile mobilitare le persone; la disaffezione per la politica è l'effetto di una politica drammaticamente impoverita; è possibile modificare l'agenda politica con iniziative mirate e fondate sull'azione collettiva; la leadership, pure nel tempo dell'immagine trionfante, non si identifica necessariamente con la personalizzazione o con il carisma, vero o presunto che sia.

Nessun trionfalismo, d'accordo. È stata imboccata una strada difficile, e molti e forti interessi sono già in campo per bloccare questo cammino. Ma un risultato politico è già davanti a noi. Un tema nascosto nelle pieghe di un decreto è divenuto oggetto di grande discussione pubblica. I partiti cominciano a muoversi e, anche quando lo fanno in modo sgangherato, danno la conferma che siamo di fronte a un tema ormai ineludibile.
Un tema davvero globale che, senza retorica, riguarda il governo del mondo. Guerre dell'acqua minacciano il nostro futuro. Un grande studioso, Karl Wittfogel, ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una «società idraulica», che consentiva un controllo autoritario dell'economia e delle persone.

Questa vicenda storica ci ricorda che il tema dell'acqua è sempre stato intrecciato con quello del potere, e proprio con poteri assai forti si devono ora fare i conti: questo referendum si distingue da tutti quelli che l'hanno preceduto perché riguarda l'assetto e la distribuzione del potere in una materia decisiva per la vita delle persone.
Ma, proprio perché stiamo parlando di un potere concreto, non ci si deve impantanare in una guerriglia ideologica. Bisogna smontare gli argomenti usati per difendere l'assetto attuale e quello progettato, con precisione e senza trascurare i dettagli, seguendo il metodo indicato da Corrado Oddi nel suo intervento di domenica su questo giornale. E allora:

a) sottolineiamo che non siamo di fronte alla tradizionale alternativa tra proprietà pubblica e proprietà privata. L'acqua appartiene ai beni comuni, che sono caratterizzati dal fatto di essere «a titolarità e tutela diffusa», il che vuol dire che sono le persone e i loro bisogni che individuano gli interessi da garantire: per l'acqua è necessario un regime giuridico coerente con questa sua natura. Questa non è una posizione astratta, ma si ritrova in disegni di legge presentati al Senato dalla Regione Piemonte e dal gruppo del Pd, dove viene proposta appunto una nuova classificazione dei beni. Questo è il mutamento qualitativo che il referendum vuole realizzare, indicando un orizzonte nel quale compaiono altri beni comuni, dall'aria alla conoscenza;

b) ricordiamo al ministro Ronchi che significa poco o nulla insistere sul fatto che la proprietà formale dell'acqua rimane in mano pubblica. Fin dalla grande ricerca degli anni Trenta di Berle e Means sulla scissione tra proprietà e controllo e dai contributi dei giuristi italiani sulla distinzione tra proprietà formale e sostanziale, è un punto acquisito che il potere sta nelle mani di chi ha l'effettivo governo del bene;

c) contestiamo che gli indubbi limiti di molte gestioni pubbliche obblighino a concludere che l'unica soluzione stia nel privato. A parte le smentite venute anche dalle privatizzazioni italiane, quando si è di fronte a un bene comune bisogna ripensare il pubblico non rifugiarsi nel privato. I quesiti referendari sono strutturati proprio in modo da indicare questa via, partendo dalla esclusione del profitto e considerando nuove modalità di gestione del bene, andando oltre l'ottica di uno Stato regolatore che si rifugia nella creazione di una nuova autorità indipendente;

d) prepariamo e diffondiamo materiali che trasformino ogni quesito referendario in una formula sintetica immediatamente comprensibile; che forniscano i dati sul costo dell'affidamento ai privati, con riferimento puntuale all'aumento delle tariffe; che analizzino casi concreti come quello di Aprilia; che indichino le soluzioni possibili, da aziende pubbliche rinnovate a modelli riconducibili alla logica delle comunità di lavoratori e utenti di cui parla l'art. 43 della Costituzione;

e) evitiamo l'ennesima puntata delle polemiche interne alla sinistra: quali che siano le posizioni ufficiali assunte più o meno strumentalmente dai partiti di opposizione, i primi due giorni di raccolta delle firme hanno anche mostrato una grande adesione degli iscritti a quei partiti. Il tema dell'acqua, come tutti i grandi temi, ha l'effetto benefico di rendere autonome le scelte politiche. Non immiseriamo questa occasione in inutili ripicche;

f) parliamo più di Bernard Delanoe, e della pubblicizzazione dell'acqua nella vicina Parigi, e meno di Evo Morales, con tutto il rispetto per la sua azione;

g) dobbiamo essere consapevoli che una battaglia è stata già vinta, che la campagna per la raccolta delle firme e poi quella referendaria produrranno una mobilitazione che, quale che sia l'esito finale, non lascerà le cose come prima.

Auguri a tutti noi.

(27 aprile 2010)

L'alternativa di Giulietto

E' interessante che finalmente qualcuno torni ai contenuti, parli di Gramsci e di analisi della struttura e sovrastruttura in politica come in economia, in un contesto in cui la politica sembra coincidere solo con lo star system.




Risposta ad alcuni temi del dibattito di e su Alternativa

di Giulietto Chiesa


Leggo con attenzione quello che emerge dalla discussione sul mio sito. Comincio a rispondere ai punti più essenziali.




Intanto: riceverete oggi stesso o domani, tutti (gli iscritti) un'informazione sui primi cambiamenti del sito. Essa contiene anche nei fatti, alcune risposte pratiche allle richieste formulate da alcuni di voi. Mi direte se le ritenete soddisfacenti o meno. Comincia la discussione operativa.

Secondo (risposta a Maurizio Zaffarano)

In cosa mi differenzio da Grillo? Basta leggere i punti qualificanti della mia relazione del 17 aprile per vederlo. Sui temi dell’informazione mi differenzio da lui in modo radicale. Alternativa nasce per porre la questione della democrazia nei media in modo assai diverso da quello che Grillo (e molti altri con lui) propugnano. Ho detto che ci sono almeno quattro questioni in cui Alternativa è necessaria, perché nessuno degli altri affronta le questioni che io metto al centro, oppure le affronta male, o malissimo.

Tra queste il tema della pace e della guerra (cioe’ la visione della profondita’ della crisi mondiale). In Grillo questi aspetti o mancano o latitano, o sono elementarmente affrontati. Oppure sono affrontati in modo sbagliato. Se non si “vede” la crisi mondiale e non la si capisce, e’ come rimanere a mezz’aria. Poi si cade. Sempre.

E sono due. Il terzo e’ il tema della democrazia. E dell’uso della Rete come risposta a questo. Alternativa e’ altra cosa. Credo si veda bene nelle questioni che ho posto, sempre nella relazione.

Il quarto e’ che io parto da Gramsci e mi propongo una riforma intellettuale e morale dell’Italia. E per fare questo ritengo che bisogna essere severi con noi stessi, con tutti. Dobbiamo tornare a essere cittadini e non piu’ consumatori. Anche i blog sono una forma di consumo. Interamente chiusa dentro il pensiero unico. Io ho un’altra filosofia rispetto a quella di Beppe. A cui dobbiamo essere grati per quello che ha fatto e fa. Con il quale convergiamo su molti punti programmatici (non tutti, per esempio sui finanziamenti pubblici all’editoria democratica, e in genere sul ruolo dello Stato, che Grillo non affronta mai). Grillo non ha (e come potrebbe senza una organizzazione?) una visione generale del governo dell’Italia e del mondo . Lui non vuole sentire parlare di ideologie, ma mi domando come e’ possibile costruire un modello di azione politica, in un mondo che va a picco, senza una visione generale, senza uno schema intepretativo.

Ovvio che la discussione e’ aperta e io non la rifiuto. Ma ho gia’ sperimentato personalmente che il modello democratico che Grillo costruisce ha molti e gravi buchi e serie debolezze, appunto democratiche.

A Giancarlo Villa rispondo in merito alla questione di Alternativa come soggetto giuridico. Ho posto il problema nella relazione. Potevo risolverlo io , da solo, prima di cominciare? Mi avrebbe obiettato qualcuno (e giustamente) perche’ non avevo atteso una discussione con gli iscritti. Che non essendoci ancora, non potevano rispondermi. La questione non e’ tecnica. Alternativa e’ in questo momento “associazione di fatto” . I partiti politici italiani sono anch’essi associazioni di fatto. Ma hanno tutti degli statuti (che ovviamente non rispettano) e, per ricevere i rimborsi elettorali, devono avere una partita IVA etc. Noi come dobbiamo procedere? Le risposte che daremo sono tutte politiche, e di alta valenza. Da come le daremo ne risultera’ una o un’altra fisionomia di Alternativa. Per esempio una o un’altra forma di vita interna. Per esempio una o un’altra forma di tesseramento, di finanziamento e autofinanziamento.

Per questo propongo un Forum specifico di discussione su questi punti (come vedrete dalla prima lettera organizzativa che vi invio). Parallelamente alla nostra discussione io ho proposto ai soci di Megachip, di cui sono presidente, di discutere e votare il suo scioglimento in quanto associazione e la sua confluenza in Alternativa. Se la risposta sara’ positiva, noi potremmo, per esempio, almeno transitoriamente, avvalerci del piccolo bilancio di Megachip e del suo conto corrente, cosi’ come del sito Megachip-Democrazia nella Comunicazione). Così, nel frattempo, possiamo evitare di aprire conti correnti, partite Iva e altre incombenze che ci farebbero perdere tempo. Dandoci il tempo di impostare le questioni organizzative di fondo per arrivare a una decisione finale condivisa e meditata.

Del resto già emergono, perfino in questa discussione, diversi approcci (legittimi) alla questione.

Come decidere? Come riunirci? Quali strutture territoriali costruire? Se costruirle, oppure, come Umberto Batticciotto ritiene, non costruirle del tutto e, al contrario, fare tutto attraverso la Rete?

Dico subito che su questo ho idee chiarissime. Non sto pensando a future candidature. Ma sto pensando a una selezione di quadri, di persone concrete, alle quali affidare compiti. Non tutti quelli che scrivono bene sono dei buoni organizzatori, dei buoni dirigenti. E viceversa, se qualcuno fa errori di scrittura non significa che non è un ottimo dirigente potenziale. Quando si è davanti a un computer si è diversi da come si è nella vita. Io non ho bisogno di cento centurie di Avatar. Non mi servono per far diventare Alternativa una forza “politica” dotata di una massa critica tale da costringere “gli altri” soggetti politici e sociali – chiunque siano, a cominciare dal sistema informativo e comunicativo - a fare i conti con essa.

Qualcuno storce il naso quando sente parlare di “dirigenti”, lo so benissimo. Ma io non voglio nascondermi dietro a un dito e fare finta di non avere dirigenti. Anche Grillo li ha i suoi dirigenti periferici. Ed esercita un controllo su di essi. Solo che non li chiama in questo modo. Io invece chiamo le cose con i loro nomi. Non esiste movimento politico senza una organizzazione, senza quadri che si assumano responsabilita’, che siano scelti democraticamente, ovvio, ma che sono capaci di alzarsi dal computer e andare a parlare con la gente guardandola in faccia e sentendo, se necessario, il suo odore.

Si può fare, tutto questo, in Rete? Io penso che non lo si possa fare. Anche se sono bene intenzionato a usare tutte le potenzialita’ della rete. Quelle che conoscamo e quelle che si affacciano adesso e che dovremo imparare a usare. Tutto quello che Grillo ha fatto in questa direzione e’ utile e dovremo imparare anche noi. Essendo chiaro – per me lo e’ – che c’e’ bisogno assoluto di competenze, di luoghi in cui si elaborano e si condividono piattaforme politiche. In cui si studia e si parla insieme. Non possono esistere luoghi, per quanto alti, da cui la sapienza distillata “scende sulle masse”, alle quali spetta il compito di applaudire e, niente affatto democraticamente, rispondere se e’ d’accordo oppure no.

Questa non è la democrazia che ho in mente.

Ecco perché ritengo che le organizzazioni territoriali debbano formarsi, e avere una loro vita autonoma, le loro esperienze. Debbano definire i loro quadri, cui fare riferimento. Devono vedere loro, sul terreno, quali sono gl’interlocutori buoni e utili e quelli cattivi e/o inutili. Saranno i nostri occhi e le nostre orecchie dappertutto. Proporranno, ma anche eseguiranno, perché ci saranno decisioni nazionali importanti da attuare, tutti insieme. E non solo in Italia, perche’ Alternativa nasce come progetto europeo e mondiale. Non potrebbe essere altrimenti visto che tutte le questioni fondamentali che la caratterizzano hanno carattere mondiale.

Ovvio che non potremo (neanche se volessimo, specie in questa fase di costruzione) viaggiare in tutta Italia. Quelli che sono venuti il 17 lo hanno fatto a spese proprie, con sacrificio anche economico. Ma noi avremo bisogno di quadri che si muovono sul territorio, vanno a parlare e ad ascoltare. Anche chi (la stragrande maggioranza) in Rete non ci va mai e non sa neppure come funziona un computer. Come la raggiungiamo la maggioranza se restiamo degli Avatar?

E infine: noi viviamo nella politica come spettacolo. Ma noi dobbiamo sapere che la politica non e’ spettacolo. Noi sappiamo che la narrazione spettacolare della politica e’ un inganno. Noi non possiamo fare assemblee come spettacoli, perche’ altrimenti, senza volerlo, ci collocheremmo all’interno di una narrazione falsa.

Questo implica risposte precise in termini di indipendenza, anche economica. Ciascuno darà cio’ che può? Io penso che questo sia giusto. Ma penso anche che tutti devono dare qualche cosa. Questo qualche cosa è da definire. Altrimenti cadiamo nel pietismo (autoconcolatorio e anche insincero) di chi non ha i denari, di chi “ha problemi”. Tutti hanno problemi. E, lasciando al “buon cuore”, nessuno darebbe niente.

E non va bene neanche l’idea che, se chiediamo un contributo in denaro, dovremmo fornire servizi. Questo – mi permetto di rilevarlo a chi l’ha formulato – e’ qualcosa di molto simile ai rapporti di mercato, in cui anche un’organizzazione politica diventa veicolo di mercificazione. Alternativa, se riuscira’ a nascere sul serio, dara’ ai suoi associati molto di più che un servizio. Gli darà delle idee. E, se diverra’ forte, li aiutera’ a difendersi. E, anzi, io penso che dovremmo concepire Alternativa come una proprieta’ comune. Come? Lo vedremo insieme. Si contribuira’ a far vivere un organismo collettivo che produce una visione della vita diversa da quella in cui viviamo tutti i giorni. Non so se questo sia definibile come un “servizio”. Se lo si definira’ cosi’, sara comunque un servizio molto alto e molto raro con i tempi che corrono. Dunque molto pregiato.

E concludo questa lunga nota con l’intervento di D'Andrea. Avrei voluto scrivere io le cose che ha scritto lui. Condivido fino all'ultima virgola. E’ un piccolo manuale di militanza, e per il proselitismo. Ecco cose da fare in quelle sette ore, anche senza aspettare l’input di un blog. Dovremo usarlo e riprodurlo. Ecco una proposta di lavoro: scriverlo proprio come un manuale di istruzione. E poi pubblicarlo sul sito. E farne oggetto di riflessione e di "scuola". Così si costruisce una forza.

Giulietto

Nord e Sud uniti nella lotta contro ogni legalità

Mafia, calcestruzzo senza cemento Indagato Pesenti, 14 arresti a Palermo

Mafia: arrestate 14 persone per calcestruzzo senza cemento



Boss e colletti bianchi di un'azienda di Bergamo presi da carabinieri e Gdf

da: La Stampa.it

PALERMO

Vendeva calcestruzzo povero di cemento con l'aiuto della mafia, cui cedeva parte dei maggiori profitti realizzati frodando i propri clienti. Si sa: se nel calcestruzzo c'è poco cemento, palazzi e ponti perdono stabilità, non stanno in piedi come dovrebbero. Così, è finita sotto accusa un'azienda di Bergamo, una società per azioni da oltre due anni sotto amministrazione giudiziaria. Sono stati notificati due avvisi di garanzia a Carlo Pesenti, in qualità di legale rappresentante pro tempore della Italcementi Spa e a Mario Colombini, ex amministratore delegato della Calcestruzzi Spa, arrestato il 30 gennaio 2008.

In una vasta operazione denominata «Doppio colpo», che ha interessato Sicilia, Lombardia, Lazio e Abruzzo, carabinieri e Guardia di Finanza dei comandi provinciali di Caltanissetta hanno arrestato 14 persone e sequestrato sette aziende siciliane operanti nel settore del movimento terra.

Tra gli arrestati, alcuni boss mafiosi accusati di associazione mafiosa e illecita concorrenza con violenza e minaccia, e dirigenti della Calcestruzzi Spa di Bergamo, ai quali sono stati contestati i reati di associazione per delinquere e frode in pubbliche forniture.

Le indagini hanno appurato che esponenti di spicco delle cosche nissena e catanese imponevano la fornitura del calcestruzzo prodotto dall'azienda di Bergamo alle imprese aggiudicatarie di appalti pubblici o privati, eliminando scomode concorrenze e consentendo l’espansione dell’azienda bergamasca in Sicilia.

L'inchiesta ha anche consentito anche di porre sotto sequestro preventivo sette aziende siciliane dedite al movimento terra, che avevano rapporti di lavoro con la spa di Bergamo. I provvedimenti restrittivi sono stati notificati in carcere al capomafia Giuseppe ’Piddù Madonia, 64 anni, al boss Francesco La Rocca, 72 anni, e a Giuseppe Giovanni Laurino, 53 anni, esponente di spicco del clan Cammarata di Riesi. Carabinieri e guardia di finanza hanno invece posto agli arresti domiciliari gli imprenditori Salvatore Rizza, 78 anni, Santo David e Gandolfo David, 71 e 77 anni; il consulente esterno e l’amministratore del sistema informatico della Calcestruzzi Spa, Gianni Cavallini, 48 anni di Ravenna e Alvis Alessandro Trotta, 41 anni, di Milano; il responsabile del controllo gestione della stessa società, Carlo Angelo Bossi, 41 anni, di Induno (Milano), e due ex dipendenti, Mario De Luca, 47 anni, di Napoli, e Nunzio Anello, 42 anni, di Mazzarino (Caltanissetta); e il consulente esterno dell’Italcementi, Giancarlo Bianchi, 54 anni, di Brignano Gero D’Adda.

Sono stati invece condotti in carcere gli imprenditori Francesco Lo Cicero, 56 anni, di Campobello di Licata (Agrigento) e Vincenzo Arnone, 47 anni, di Serradifalco (Caltanissetta). Lo Cicero, Arnone e i due imprenditori David sono indagati per associazione mafiosa; La Rocca, Madonia, Rizza, Lauria, Lo Cicero, Arnone e gli stessi David sono accusati di illecita concorrenza con violenza e minaccia, aggravato dall’avere avvantaggiato Cosa nostra; a Cavallini, Trotta, Bossi, De Luca, Anello e Bianchi è contestato il reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di frodi in pubbliche forniture; e De Luca e Anello sono anche indagati per truffa.

Eternit, il racconto dell'anziano operaio malato




"Così buttavamo l'amianto nel Po"

Deposizione di Ezio Buffa, entrato in Eternit nel 1954


Eternit, il racconto dell'anziano operaio malato: prassi per decenni

di Alberto Gaino, da La Stampa.it
Torino


«Ha voglia - sbotta l’anziano operaio nel testimoniare - altro che carriole, buttavamo nel Po scarti di amianto in grado di riempire autobotti. A ogni fine turno si puliva il pavimento del reparto con la gomma dell’acqua, la polvere della lavorazione delle lastre in fibrocemento la si spingeva, con l’acqua, nel canale che finiva nel fiume. Poi, al sabato, si scaricavano le vasche di contenimento degli scarti. Si ammorbidiva l’amianto con l’acqua e ne se ne faceva lo stesso uso: il Po. Quando non si riusciva a scioglierlo c’era il motocarro che andava su e giù, dallo stabilimento al greto».

Ezio Buffa, entrato in Eternit, a Casale Monferrato, nel 1954 a 19 anni, è uno dei spravvissuti più longevi. Ricorda ancora di aver visto «le molazze con cui si spappolava l’amianto, manovrandole a mano». Respira con fatica - «per l’asbestosi, quando scoprirono che ce l’avevo, nel 1970, era al 21%, ora è al 76%» - e i ricordi vanno e vengono. Ma è nitido quello delle pulizie. Più gli chiedono di precisare, più s’infervora: «Era dal 1907 che si faceva così. Prima con le scope di saggina, poi con le pompe: c’erano questi canali di scolo, si spazzavano gli scarti dopo aver bagnato i pavimenti. Il greto del fiume, davanti allo stabilimento, ne era pieno».

L’inquinamento del Po era stato trascurato negli scorsi decenni e rivalutato con le testimonianze raccolte nel corso delle indagini per disastro doloso. Guariniello conferma: «Abbiamo acquisito foto aree scattate dal 1975 al 1986, verificando le variazioni morfologiche sulla sponda destra del Po. Mostreremo in aula nella prossima udienza (citata Bresso, forse Cota) come il greto del fiume fosse diventato una discarica di detriti d’amianto: il Po li drenava e continuamente veniva rialimentata con materiale di scarto». L’inquinamento ambientale è un fattore amplificatore del disastro.

In aula Bruno Pesce, storico segretario della Camera del lavoro, rammenta come la bonifica dello stabilimento - «a causa di ricorsi di ditte che avevano perso l’appalto» - sia stata effettuata solo tra il 2000 e il 2004. Pesce ricostruisce: «Il Comune si era mosso prima, vietò nel 1987 che l’amianto circolasse nel proprio territorio e due anni dopo stabilì l’incentivo di 4 mila lire al metro quadro di amianto rimosso. L’assessore regionale Paolo Ferraris, casalese, fece arrivare i primi soldi per la bonifica della città, 3 miliardi di lire, e morì di mesotelioma pochi anni dopo, nel 1997».

Nei racconti dei testimoni i morti ritornano con nomi e cognomi, il maestro di scuola, il giovane bancario che faceva sport, intere famiglie che nemmeno abitavano vicino all’Eternit, operai e dirigenti, una strage ignorata a lungo.
Racconta Pesce: «Dovemmo fare causa all’Inail (ora parte civile) perché prendeva per buoni i dati dell’azienda, e mandare Trentin dal ministro Vassalli perché si potesse fare il processo di Casale. L’Eternit ci faceva spiare da una giornalista locale, Cristina Bruno, che si era infilata fra noi e continuamente ci chiedeva delle nuove iniziative». Sono state sequestrate le sue relazioni alla multinazionale: «La cultura dell’Eternit è stata a lungo dominante».

La finanza mondiale sequestrata dagli uomini di Goldmann Sachs

L'euro diventa scudo di vetro

di TITO BOERI, da Repubblica.it

La crisi d'insolvenza della Grecia è diventata nelle ultime due settimane una crisi di liquidità. È un'accelerazione e insieme un salto di qualità della crisi, di cui l'Europa porta una responsabilità non irrilevante. Intervenendo subito si sarebbe potuto evitare questa nuova escalation, pagando un costo molto più contenuto per uscirne. Non è più solo una crisi di insolvenza. Nelle ultime due settimane il mercato dei Cds, Credit Default Swaps, le assicurazioni contro il rischio di ripudio del debito è rimasto relativamente tranquillo. Ma sono schizzati verso l'alto i rendimenti dei titoli di stato. Il governo greco fatica sempre più a trovare qualcuno disposto a comprarli. Oggi è costretto ad offrire tassi vicini al 10 per cento. Si tratta di più di 10 euro all'anno in termini di potere d'acquisto per ogni cento investiti, dato che i prezzi in Grecia stanno calando.

Quando si pagano interessi così alti su un debito pari al 125 per cento del prodotto interno lordo, è impossibile stabilizzare il rapporto fra debito pubblico e pil. Per farlo bisognerebbe varare una manovra correttiva (più tasse e meno spese) pari a un quinto del reddito nazionale e sperare che in questo contesto l'economia non crolli più dell'1 per cento. Mission impossible. Per questo la Grecia ha deciso di chiedere l'aiuto promesso dall'Europa. Non può più farcela da sola.

I margini per evitare un ripudio del debito pubblico greco sono stati fin dall'inizio molto ristretti, Ma adesso è diventata una vera e propria corsa contro il tempo. Questione di giorni non più di mesi. Quando si attraversa una crisi di liquidità non basta più assicurare i mercati sul fatto che ci sarà un intervento esterno. Bisogna che questo intervento si manifesti subito, fornisca prestiti a condizioni meno onerose per evitare che la Grecia si metta su di una spirale esplosiva. Accanto alla fuga dai titoli nelle ultime settimane si è tra l'altro generata anche una fuga dai depositi bancari, con capitali frettolosamente trasferiti all'estero nel timore di un'uscita della Grecia dall'euro.
L'aggravarsi della crisi ha fatto lievitare i costi del salvataggio. Fin quando la Grecia pagava il 6 per cento sul debito pubblico, fino a un mese fa, l'Europa poteva limitarsi a fornire prestiti con agevolazioni del 3 per cento sui tassi di interesse del mercato. Avrebbe comportato al massimo un sussidio pari all'uno per mille del prodotto interno lordo dell'unione monetaria. Coi tassi di mercato attuali, il costo dell'operazione di salvataggio è quasi raddoppiato.

Di fronte alla richiesta esplicita del Governo greco, l'Europa sta però dimostrando in queste ore che l'aiuto europeo era poco più di una promessa. Come riferito in altre pagine di questo giornale, la Germania vuole aspettare il dopo elezioni e poi ci vorranno comunque altri 10 giorni prima di rendere il prestito operativo. Da qui al 19 maggio sono previste emissioni per 9 miliardi di titoli greci, circa tre punti e mezzo di pil. Certo, è difficile per la Merkel convincere i propri concittadini ad aiutare un paese che ha sistematicamente truccato i conti pubblici. Ma gli stessi cittadini non saranno oggi contenti di sapere che dovranno alla fine pagare un conto ancora più salato di quello che avrebbero trovato sul piatto nel caso di un intervento più tempestivo. Erano stati adeguatamente informati di questo rischio? Legittimo nutrire qualche dubbio.

Il nostro paese deve ora prepararsi ad uno scenario in cui lo scudo dell'Euro sarà sempre più tenue. Uno scudo di vetro ora che il Re è Nudo. Per rassicurare i mercati il nostro Paese dovrà ora convincerli che può tornare a crescere, condizione fondamentale per stabilizzare il debito pubblico. Non basta tenere stretti i cordoni della borsa. Bisogna far sì che le previsioni del Fondo Monetario sulla crescita italiana non si avverino. Implicano che il nostro debito salirà a livelli greci (125 per cento del prodotto interno lordo) nel 2015. All'obiettivo di tornare a crescere bisognerebbe consacrare oggi ogni attenzione. Invece si litiga su come redistribuire le sempre minori risorse disponibili fra Nord e Sud.

lunedì 26 aprile 2010

Come finirà la disputa?



...c'è chi dice che ormai gli Usa parlino solo con Fini...

domenica 25 aprile 2010

ORA E SEMPRE RESISTENZA



Cassine, 25 aprile 2010. Aveva 17 anni quando è morto, il giorno del suo compleanno. Non poteva immaginare quanto avrebbe detto un giorno un deficiente della Provincia di Salerno.

venerdì 23 aprile 2010

Lezioni di opposizione




fonte: Micromega

RigenerAzioni - Proposta per un soggetto politico non elettorale (Parte1)

Un interessante documento presentato alla scorsa edizione di "Terrafutura" a Firenze



In questi anni abbiamo assistito a un degrado sempre più vistoso della qualità della vita politica e istituzionale nel nostro Paese, senza sapere come rispondere, frenare e invertire questo fenomeno. A scandali e forme di degenerazione, strumentalizzazione e corruzione sempre più sistematica delle istituzioni si sono alternati momenti di indignazione e ondate di antipolitica che senza modificare il paesaggio della vita pubblica si sono sedimentate in un sentimento diffuso e radicato di sfiducia e in un giudizio cinico e disincantato sulla “casta” e sul funzionamento del processo politico. Anche i movimenti sociali, l’associazionismo e le forze sindacali hanno separato i loro percorsi da quelli della rappresentanza istituzionale che si è andata sempre più inaridendo. In breve, l’Italia è diventata un Paese sempre più fatalista.


I. Partiti politici e movimenti sociali. Tra autoreferenzialità e impotenza

Il fatto è che una così bassa visione della politica produce una bassa motivazione al coinvolgimento in prima persona; contemporaneamente una partecipazione sporadica e di scarsa qualità al processo politico produce uno scarso impegno che a sua volta si “autogiustifica” in una spirale di passività, insofferenza e rifiuto.
Non mancano i segni di questa trasformazione. In Italia, come in molte democrazie storiche, è cresciuta la sfiducia verso le istituzioni e verso una ormai autoreferenziale classe politica. In quasi tutti i Paesi europei la fiducia nei politici e nelle istituzioni è andata declinando in maniera piuttosto netta negli ultimi decenni. Il dato sull’astensione nelle ultime elezioni europee del giugno 2009 è davvero impressionante: in media la non partecipazione al voto in Europa è stata poco sotto il 57%. Contemporaneamente gli iscritti ai partiti tendono a scemare ovunque. In Italia nell’ultimo decennio i partiti hanno perso oltre due milioni di iscritti. Più in generale i partiti si presentano oggi come strutture organizzative ridotte con un livello sempre più scarso di democrazia interna e una centralità crescente del leader. La stessa la progressiva spettacolarizzazione della politica ha modificato drasticamente il ruolo e l’importanza delle organizzazioni politiche di tipo tradizionale.
Certamente, a fianco di questo, abbiamo visto negli ultimi anni anche manifestarsi un impegno sociale e politico in senso più ampio da parte di uomini e donne attivi/e in circoli, associazioni, Ong, centri sociali, movimenti. Secondo Pawl Hawken, che ha avviato un impressionante lavoro di censimento, esistono al momento più di un milione di organizzazioni che operano per la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale. E certamente queste realtà hanno avuto un ruolo importante – che non va assolutamente sottovalutato - nel determinare rilevanti trasformazioni politiche, sociali e culturali o nell’arrestare, almeno in parte, il degrado sociale, culturale e politico. Questo non ha frenato tuttavia nei cittadini la crescente sensazione che le decisioni che contano siano prese sopra la propria testa e talvolta contro la propria opinione e contro i propri interessi.
Nel contesto italiano, un momento chiave nell’emersione di questa contraddizione, si è avuta nel corso del 2003 quando nonostante la maggioranza della popolazione avesse espresso nei sondaggi e nelle strade la propria contrarietà alla guerra in Iraq il governo ha proceduto nel suo appoggio all’operazione militare senza tener minimamente conto del sentimento popolare.
Questo ci fa capire quanto la politica istituzionale sia divenuta sempre più autoreferenziale e – perlomeno in certi casi – impermeabile all’opinione pubblica. Tuttavia non si può evitare di riconoscere come ci sia stata una sottovalutazione nell’attività di controllo, vigilanza e giudizio sull’operato delle istituzioni e un oggettiva debolezza rispetto alla capacità di intervento in quei processi decisionali generali che riguardano la nostra vita e le sorti del nostro Paese, a partire da una delle scelte più importanti, quali la decisione di partecipare a una guerra.
A questo si aggiunge una semplificazione del quadro politico istituzionale con una deriva forzata verso forme di bipolarismo, di presidenzialismo, di spettacolarizzazione della politica, con crescenti aree di delusione e non partecipazione al voto e la scomparsa delle aggregazioni politiche ambientaliste e di sinistra radicale dall’arco parlamentare.
Questi pochi accenni bastano per ricordare la gravità del momento e per suggerire la consapevolezza che i tradizionali schemi dualistici che parlavano di “politica dal basso e politica dall’alto” diffusi tra pacifisti, no-global e alter-mondialisti, o quello “politica prima/politica seconda” avanzato da una parte del femminismo, pur avendo svolto in passato una importante funzione critica, non siano più adeguati per interpretare le esigenze e le sfide del momento attuale.
In altre parole, a prescindere dal declino sempre più evidente dei partiti tradizionali, quello che è mancato ai movimenti politici e sociali è una riflessione consapevole sull’importanza cruciale del momento “istituente” della politica, inteso sia come istituzione di significati (Cornelius Castoriadis) che come creazione di forme istituzionali che incorporino e riflettano coerentemente questi significati. Quello che è necessario dunque è una sperimentazione creativa che non si rinchiuda né nell’antagonismo verso le istituzioni né nella sottovalutazione dei processi istituzionali ma che si metta al centro del processo politico rinnovandolo alla radice nelle sue diverse dimensioni di relazione, di confronto, di autoeducazione, di conflitto, di riconoscimento, di solidarietà, di decisione.


II. Vecchi e nuovi cleavages: la trasformazione del sistema politico

Una seconda questione riguarda la difficoltà di riuscire a far entrare questioni preminenti come quelle della crisi ecologica, del riscaldamento globale, della tutela della biodiversità e dei beni comuni, della conservazione del territorio, della critica allo sviluppo, della decrescita, del governo della finalità della produzione, della rilocalizzazione della produzione e del consumo, ma anche questioni antiche e sempre riemergenti quali i fenomeni migratori, le diversità culturali e la differenza sessuale e le relazioni tra i sessi, all’interno dei programmi dei partiti e al centro dell’attività di un governo.
Ci sono probabilmente diverse spiegazioni a questa difficoltà, ma tra le altre si può prestare attenzione a un fatto. Questi temi non trovano rappresentazione non solo a causa di una sordità individuale dei politici o delle dirigenze dei partiti ma perché il sistema politico e i partiti corrispondenti sono nati storicamente attorno ad altri conflitti o cleavages che pur indeboliti continuano a stabilire i confini del confronto politico.
Il termine cleavages, usato per primo dal politologo norvegese Stein Rokkan, sta a indicare le linee di frattura, ovvero le opposizioni fondamentali che strutturano un sistema politico. Secondo Rokkan i sistemi politici europei si sono andati costruendo attorno a quattro fondamentali fratture: le prime due, nate dai processi di unificazione nazionale, sono l’opposizione centro/periferia e l’opposizione Stato/Chiesa; le altre due sono nate in seguito ai processi di industrializzazione capitalista e riguardano l’opposizione campagna/città (gli interessi legati all’agricoltura e quelli legati all’industria), e infine quella tra capitale/salariati.
Oggi queste rigide opposizioni sono sempre più inadatte a dar conto del mutamento sociale, mentre i nuovi conflitti emersi nella seconda modernità, a partire dai processi di globalizzazione, non trovano adeguata rappresentazione nello spazio politico attuale.
Quello che sosteniamo è che processi quali la globalizzazione, la crisi ecologica, i fenomeni migratori, l’informatizzazione, la trasformazione e la svalorizzazione del lavoro, la precarizzazione, la fine del patriarcato, la libertà e il protagonismo delle donne (e le resistenze che incontrano) nel lavoro e nella società, stanno creando un nuovo quadro politico che vede definirsi – seppure ancora in modo confuso - nuovi soggetti, nuove identità, nuovi valori, nuovi spazi pubblici, nuove forme di organizzazione, nuove pratiche di azione e soprattutto nuove richieste.
Da questo punto di vista il processo attuale va letto come lenta formalizzazione di nuovi cleavages, nuove fratture o opposizioni fondamentali che spingerebbero a ridisegnare gli attuali sistemi politici delle democrazie occidentali che ovviamente cercano di resistere o ritardare questo cambiamento. Oggi più di ieri una parte di questa resistenza è dovuta alla crescente ignoranza di ciò che sta davvero accadendo. Mai come oggi le classi che si auto-definiscono dirigenti sono disinformate su ciò che si muove sul terreno economico, ecologico, scientifico e persino politico-sociale, incapaci di collocare le conseguenze delle loro decisioni (o delle loro rimozioni) in una prospettiva storica o sociale più ampia, seppur tutto sommato ravvicinata.
Diventa sempre più chiaro, per esempio, il conflitto tra globale e locale, tra flussi e luoghi, tra crescita e sostenibilità, tra soggetti che vengono contrapposti e messi in competizione nel mercato del lavoro, tra generazioni attuali e generazioni future, tra le logiche della produzione e logiche della riproduzione e della rigenerazione. Queste opposizioni si mostrano talvolta attraverso soggetti definiti. Da una parte abbiamo delle élites economiche e politiche globalizzate, che si appoggiano a organizzazioni e istituzioni precise (corporations, istituzioni internazionali, WTO, BM, FMI, governi liberisti) e dall’altra le comunità locali: gente comune che è radicata nei territori e nelle città, lavoratori e lavoratrici immigrati/e o precari/e in lotta per il diritto al lavoro, ma anche lavoratori e lavoratrici della terra e soggetti economici legati alle specificità locali, movimenti di consumatori che portano avanti la tutela della qualità dei prodotti rispetto alle logiche dell’economia industriale, gruppi ambientalisti e femministi impegnati nella salvaguardia della biodiversità assieme a comunità indigene e di villaggio legate in maniera profonda all’ambiente naturale in cui vivono. In questa frattura sono in gioco interessi diversi, legati all’uso e alla distribuzione dei beni naturali, che attraversano non solo le relazioni tra Paesi ma anche il rapporto tra élites nazionali “sviluppiste” e comunità locali legate alla terra e alla conservazione del patrimonio locale o all’uso equilibrato della natura. La frattura si conferma anche sul piano dell’integrazione e della costruzione di legami. Mentre le élites globali spingono per una strutturazione di barriere materiali o immateriali – le nuove enclosures - che regolino attraverso l’accesso economico la definizione di chi è dentro e di chi è fuori, molti soggetti locali invece lottano per la conservazione di spazi e beni comuni – nuovi commons materiali e immateriali – accessibili a tutti e coltivati assieme per il bene della comunità intera. Infine la frattura definisce anche uno scontro culturale che oppone da una parte la competizione individualistica, il primato delle merci e la creazione di ricchezza economica per una minoranza e dall’altra i legami di solidarietà e cooperazione, il primato delle persone e la creazione di ricchezza sociale collettiva. Con questo non si vuole naturalmente rimuovere il fatto che questa frattura attraversa le nostre vite e noi stessi e che occorre per questo anche un processo collettivo che ci sostenga e ci accompagni nell’affrontare quotidianamente e coraggiosamente la necessaria trasformazione delle nostre abitudini e dei nostri stili di vita.
Ora nei sistemi politici attuali partiti e schieramenti sono rappresentanti dei clevages storici che pur contando ancora hanno tuttavia fortemente diminuito la loro significatività. Non trovano invece posto forze politiche che assumano esplicitamente e radicalmente l’opposizione tra gli interessi delle popolazioni locali e quelli del capitale globale. Il problema maggiore è che questa nuova frattura non si aggiunge semplicemente alle altre, ma taglia trasversalmente tutte le appartenenze tradizionali e implica in questo senso una riconfigurazione completa dei sistemi politici nazionali e un superamento dello spazio politico, sindacale e culturale tradizionale.
Del resto molte delle categorie tradizionali per identificare gli schieramenti destra/sinistra sono oramai ambigue e fuorvianti. Ha ancora valore, per esempio, la distinzione conservatori e progressisti e rispetto a che cosa? Le nostalgie identitarie non colpiscono entrambi gli estremi? L’idolatria del nuovo e la continua obsolescenza del nostro patrimonio materiale e tecnologico a quale schieramento vanno imputati? Chi è a favore del libero mercato e chi dell’intervento statale? Dove collocare i difensori della crescita e dello sviluppo e coloro che parlano di decrescita e di sostenibilità? Chi difende la guerra e chi la nonviolenza? L’universalismo è di sinistra e il relativismo è di destra o viceversa? Siamo per l’uguaglianza o per il rispetto delle differenze? Siamo materialisti o post-materialisti? Fanaticamente antireligiosi o laicamente dubbiosi e curiosi? E infine, intendiamo affidare acriticamente le scelte sul nostro futuro alla presunta razionalità degli scienziati oppure visto che «i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le decisioni urgenti» pretendiamo - nell’ottica di quella che è stata definita “scienza postnormale” – che anche i non tecnici, i cittadini interessati, possano partecipare alla raccolta delle informazioni, al controllo delle valutazioni, all'assunzione di decisioni in nome non di un’“indiscutibile verità” ma più prudentemente di una possibile “saggezza”?
Sarebbe facile continuare con queste domande, ma forse sono sufficienti per ricordarci che l’attuale paesaggio politico è complesso e articolato e le categorie e le opposizioni classiche non ci aiutano granché o solo fino ad un certo punto. Per quanto cerchiamo di farci stare dentro la realtà, c’è molto, troppo, che resiste ai tradizionali schematismi. Crediamo che nuove istanze possono coagularsi e farsi spazio soltanto rompendo vecchi schemi, scindendo vecchie unità e creandone di nuove, e spesso non per contiguità ma per rimescolamenti.
Non si tratta dunque di ancorarsi a una difesa assiologica dei valori della sinistra né d’altra parte di rassegnarsi a una liquidazione e omogeinizzazione di questi valori nel senso di un adattamento pragmatico a un contesto post-ideologico (o presunto tale), ma al contrario di lottare per ridefinire il campo e la cornice che solo può dare senso a nuove opposizioni e conflitti.
Inoltre rimane da esplorare la connessione tra il ripensamento dei contenuti fondamentali della politica (quelli che Marco Revelli chiama “meta-valori”) e il ripensamento delle forme organizzative della partecipazione. Siamo convinti che l‘introduzione di questi nuovi temi richieda anche nello stesso tempo una reinvenzione delle forme dello stare insieme, del relazionarsi fra diversi e, più in generale, delle “pratiche politiche”.
Da questo punto di vista crediamo che il vero passo in avanti possa venire dal tentativo di costruire percorsi politici che mettano in discussione le vecchie organizzazioni partitiche e sindacali, non solo sui temi e sulle pratiche ma anche simbolicamente nel delineare un terreno di gioco differente, in cui parole, esperienze, pratiche magari già esistenti acquistino improvvisamente un senso e un’evidenza nuova.

:/SEGUE

giovedì 22 aprile 2010

Un dio dispotico e la fragilità umana

IL VULCANO D'ISLANDA

di Francesco Cassano, dal manifesto del 21 aprile


Un dio dispotico e la fragilità umana

Ieri Il manifesto parlando della nuvola che si aggira minacciosa per l'Europa, come accadeva ad uno spettro di centocinquanta anni fa, titolava: «Apriti cielo». Diciamo subito che non c'è da preoccuparsi, il cielo si richiuderà, e tutti noi torneremo alle nostre abitudini. I giornali sussulteranno per altre notizie e l'annuncio dell'apocalisse prima passerà verso le pagine interne poi scomparirà. Riprenderanno i voli, ognuno di noi tornerà al suo stile di vita, ai suoi appuntamenti, ai suoi progetti. Eppure per alcuni giorni il vulcano islandese ci ha buttato in faccia la bruta verità, il fatto che viviamo su un piccolo pianeta periferico la cui formazione precede da millenni la formazione della vita e delle civiltà umane.
Ma questa verità sulla nostra reale condizione è, come si sa, insostenibile, come ci ha insegnato a suo tempo Giacomo Leopardi, che non a caso intitolò una delle sue Operette morali Dialogo della Natura e di un Islandese. In quel dialogo la Natura, rispondendo alle rimostranze dell'uomo, candidamente affermava: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?»
In effetti l'uomo ha cercato a lungo di rimuovere o di proteggersi da questa «verità». La prima forma di protezione l'ha trovata nelle religioni, che a lungo gli hanno rinviato l'immagine che egli fosse prediletto da Dio e da lui posto al centro dell'Universo, oggetto filiale della sua cura e del suo controllo. Poi quando, con l'avvento della modernità, questi grandi racconti hanno incominciato a perdere la loro presa, una nuova forma del tutto moderna di protezione è stata offerta dall'incessante sviluppo della tecnica. Ciò che prima discendeva dalla benevolenza di un dio, adesso dipende dall'orgoglio umano, dalle scoperte e dalle applicazioni che nascono dal progresso. Attraverso la forza che deriva dalla sua intelligenza, l'uomo è riuscito a subordinare la natura ai suoi bisogni, a farne un momento del suo metabolismo (Marx) oppure un fondo di risorse a sua disposizione (Heidegger).
In altre parole è riuscito a diventare il padrone assoluto di un pianeta sul quale egli in realtà è solo un ospite di passaggio, ha mutato la propria condizione originaria, rovesciando la sua condizione di figlio di straordinarie combinazioni di processi naturali in padrone indiscutibile di essi. Intendiamoci: nessuno vuole sminuire il valore straordinario della tecnica, la lunga fila di vantaggi che essa è riuscita ad assicurare all'uomo, l'enorme miglioramento delle condizioni di vita che gli ha assicurato. E nessuno può mettere in correlazione diretta l'eruzione del vulcano con gli sviluppi della tecnologia. Del resto, si sa, i vulcani, con le loro eruzioni, hanno seminato morti e disastri anche quando l'uomo non aveva ancora dissestato il ciclo naturale.
La catastrofe che viene dai cieli islandesi è cosa diversa da quegli avvelenamenti del mare che sono stati prodotti dalla rottura di una piattaforma petrolifera o dal rovesciamento del carico di una nave. E la diversità del messaggio che arriva da questa eruzione non va trascurata. Con i loro improvvisi sommovimenti, i vulcani, come anche molti terremoti, sembrano solo ripetere a voce altissima agli uomini: «Voi non siete i padroni, ricordatevi che la natura è straordinariamente più forte di voi. Non illudetevi con sogni di potenza, voi umani rimanete sempre e soltanto una piccola forma di vita fragile e presuntuosa» in un universo che ignora la vostra esistenza e probabilmente, come dice sempre Leopardi, tornerà a chiudersi dopo il vostro passaggio, quando «un silenzio nuovo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso».
Ma si dirà: che cosa c'entra tutto questo con la politica? C'entra eccome, e ci si consenta di affidarci anche in conclusione all'autore che abbiamo più volte citato. Ogni vulcano è un dio dispotico e capriccioso, che ci rinvia, proprio come il Vesuvio di Leopardi, l'immagine di una natura matrigna e della nostra fragilità. Ma questa contrapposizione tra la nostra condizione e una natura che è indifferente ad essa, ci indica anche una prospettiva. L'unica risposta seria alla scoperta della nostra fragilità sarebbe quella di federarsi in «social catena», superando le divisioni e le contrapposizioni che hanno attraversato ed attraversano la storia. Il genere umano dovrebbe ritrovare, sotto la spinta di questa minaccia, la percezione del proprio bene comune, il comunismo necessario.
Ma non temano gli avversari del comunismo: tutto sta tornando alla normalità, ognuno di noi potrà abbandonare le riflessioni scomode e tornare al proprio progetto privato, prenotare voli, accorciare le distanze, riempire le agende, consumare in mille modi il pianeta, adagiarsi sulla confortante convinzione che la natura è sempre sotto il nostro controllo. Potremo tutti voltare la testa dall'altra parte, lasciare all'Islanda i suoi vulcani, rimuovendo disinvoltamente la circostanza che tutti stiamo edificando le nostre case proprio sulle falde di uno di essi.

mercoledì 21 aprile 2010

Stigliz: l' Euro resisterà?

A quasi 67 anni, Stiglitz è una delle voci più critiche del FMI e del fondamentalismo del mercato (che per anni sono stati quasi la stessa cosa). Fu assessore di Bill Clinton e da allora si è eretto a martello di George Bush ed ora di Barack Obama, teoricamente più vicino alle sue coordinate ideologiche. “Obama è stato troppo vicino a Wall Street. Fino ad ora ha fatto poco per cambiare il modo di capire il capitalismo che ci ha portato alla debacle. Troppo poco. A volte penso che non abbiamo imparato nulla: stiamo come prima, ed in qualche aspetto, peggio”, sostiene in un’intervista con questo giornale.Stiglitiz, una delle menti meravigliose della Columbia University, è stato implacabile con lo sregolamento finanziario, e uno dei pochi economisti che hanno visto l’arrivo della recessione degli ultimi decenni, che attribuisce principalmente agli eccessi della banca. “I saggi hanno scritto che la memoria finanziaria dura 10 anni; le banche e i mercati ci hanno detto che questo era finito, e dopo hanno affermato che questa era una crisi che capita una volta ogni secolo, quando in realtà è la costatazione che i saggi avevano ragione: le crisi arrivano puntualmente ogni 10 anni”, ha detto.

Etichettato liberista dai suoi critici- che non sono pochi- nel suo ultimo libro, Caduta libera (Taurus), Stiglitiz non ha nessuna pietà verso le banche, lungo le 350 pagine le chiama “sinistri”, “dinosauri”, “speculatori”,di aver “ingannato” molta gente per ottenere dei benefici enormi (come sembra confermare il caso della Goldman Sachs) e si sfoga con una manciata di “cose carine” del genere. Infine, una rarità in scena, quella degli economisti, dove la sfera finanziaria ha guadagnato un protagonismo senza precedenti. Anche se adesso le sue ossessioni sono altre. Basicamente due: come uscire da questa e quali saranno quando la crisi finirà- perché tutte le crisi finiscono- le idee che domineranno la politica e l’economia.

Stiglitiz non è precisamente ottimista: “Non abbiamo preso la strada giusta”. Specialmente in Europa, dove alcuni paese affrontano una pericolosa crisi fiscale. “C'è il rischio di attacco da parte dei mercati se non si interviene, ma c’è un altro rischio ancora peggiore, di cadere nel feticismo del deficit, che porta i Governi a ricreare stimoli e ad alzare le tasse prima del tempo per evitare questi attacchi: questo è molto pericoloso perché può rallentare l’economia e portarla in una complicata spirale. Gli esempi più chiari sono l’Argentina e i paesi del sud-est asiatico che hanno seguito i consigli del FMI alla fine degli anni 90; curiosamente, adesso il FMI raccomanda il contrario: mantenere gli stimoli e lasciare gli aumenti necessari in seguito.

La Spagna, ovviamente, è in quest0 stato d'animo. E il Governo ha deciso di aumentare l’Iva a luglio. “Non c’è una soluzione facile per la Spagna. Se non alza le tasse si espone ad attacchi, ma è anche peggio aumentarli quando il recupero ancora non è arrivato, perché può provocare un rallentamento della crescita per anni, e questo non proteggeda futuri attacchi speculativi”, avvisa.

Se la Grecia è Bear Stearns -la banca d’investimenti che è stata riscattata- il debito può essere Lehman Brothers, che è fallita dopo. “Forse la Spagna”? Il Portogallo?, dice Stiglitiz. E forse la situazione è ancora maggiore soprattutto se non abbiamo imparato le lezioni di questa crisi e di quelle precedenti”.Stiglitz ricorre, in generale, alla crisi asiatica degli anni 90 come ispirazione. La Tailandia è stato il primo paese a cadere. I mercati allora hanno scommesso sulla caduta dell’Indonesia: l’Indonesia è caduta. Dopo hanno puntato sulla Corea: bingo. Hong Kong, Malaysia venivano immediatamente dopo. “Questi due paesi hanno preso delle misure e hanno attaccato chi li attaccava: hanno sofferto, ma hanno avuto la meglio sugli speculatori”. Questa è la lezione che l’Europa deve imparare. E questa è la maggior delusione di questa crisi: non c’è solidarietà”.

L’euro è ferito e “può darsi che non sopravviva, corre il rischio di sparire se non si crea un’ondata di solidarietà, se non si mettono in moto soluzioni istituzionali”, avvisa Stiglitz. “Il problema è evidente, ma la lentezza e la debolezza della risposta mettono in discussione la sopravvivenza dell’euro. I mercati non sono precisamente una fonte di saggezza sono predatori, molte volte stupidi, sono completamente imprevedibili e se la Germania e l’Europa non cercano soluzioni si possono verificare delle stragi”, aggiunge.Stiglitiz è un uomo disteso, abitualmente rilassato, con un’aria sognatrice, ma si smuove su alcune cose: la crisi greca, per esempio. “Il paradosso è che abbiamo dato alle banche un assegno in bianco per salvarle, e adesso l’aiuto si mette a disposizione della Grecia a dei costi eccessivi: non è possibile fare soldi con la tua famiglia, come sembra voler fare l'Europa. Se non ci sono stati dilemmi mortali per salvare le banche, non vedo perché adesso bisogna condannare migliaia di persone per gli eccessi commessi dal precedente Governo greco”.

Il Premio Nobel del 2001 è un outsider a Washington. In generale, mentre in Europa sembra essere una superstar, negli USA non viene quasi considerato. Colmando il divario, ricorda il caso di un tipo che, come lui, è ebreo ed è innamorato di New York: Woody Allen. Stiglitz ride per il paragone, ma assicura che Newsweek ha commesso un errore quando lo ha qualificato come “l’uomo più incompreso d' America”. “Credo che adesso ricevo più attenzione che mai. Le idee che difendo sono sul tavolo: per quanto riguarda la regolamentazione delle banche troppo grandi per fallire, gli incentivi ai banchieri," afferma.

Ma non sembra che Washington si fidi delle sue ricette: una regolazione molto più stretta, che include friggere con tasse le banche perché paghino per ciò che hanno fatto. Dopo alcuni mesi in cui le banche si sono nascoste- precisamente durante i milionari riscatti- il sistema finanziario torna adesso ad acclamare contro quelli che parlano di “servire la bomba”: la prossima bolla sarà il debito pubblico. Stiglitz ancora una volta è in disaccordo con la tesi che difende, per esempio, Kenneth Rogoff. “E’ vero che abitualmente (ma non sempre) dopo una recessione combinata con una crisi finanziaria è frequente che ci siano problemi con il debito pubblico. Ma questo succede nei paesi che non sono ricchi: Europa e USA sono soggetti a forze diverse, hanno un sistema fiscale potente, monete forti, la gente continuerà a comprare il suo debito”. “ Non vedo la bolla: possiamo controllare il debito. Dopo il crash del 1929 era anche trionfato quel feticismo del deficit. portò alla grande Depressione naturalmente. Sarà da vedere se davvero abbiamo imparato qualcosa”, conclude.
Fonte: http://www.insurgente.org/
Tradotto e segnalato per Voci Dalla Strada da VANESA

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Rita Pani colpisce ancora


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Antichi sentimenti, giovani deficienti


Nutro molte speranze sull’avannotto di bossi (quello scemo); lo confesso. In un certo qual modo, a volte mi stupisco di pensare con gioia ai giorni in cui finalmente, spuntata la pinna dorsale, si farà ministro. Non so però se attualmente mi diverta più lui o chi di fronte a lui s’indigna, perdendo l’occasione di rifarsi sul malcapitato, che con un po’ di creatività potrebbe essere ricacciato nello stagno dal quale a tutti i costi si cerca di farlo uscire.

Per esempio, ieri, si è rimasti molto male nell’apprendere che durante i prossimi campionati mondiali di calcio, l’avannotto non tiferà per l’Italia, ma nessuno si è soffermato ad analizzare la motivazione: “Il tricolore, per me, identifica un sentimento di cinquant'anni fa”. Sarebbe bastato questo per ricollocare la larva nello sputo d’acqua dove potrebbe tranquillamente farsi trota.

Sarebbe bastato chiedere all’erede del regno padano: “Perché proprio cinquant’anni?” per vedere le sue branchie aprirsi e chiudersi in modo forsennato. Posto che il tricolore italiano è nato 63 anni fa, perché è un sentimento che ne identifica solo cinquanta? Che ne è stato dei rimanenti 13 anni?

La spiegazione sta nella stupidità del sentimento che identifica il leghista. Esso ha una formazione sub culturale fatta di slogan che non si aggiorna in tempo reale, per cui ormai da 13 anni, sono rimasti fermi al mezzo secolo che hanno combattuto. Per esempio: quando un leghista vuole insultarmi, mi dice spesso che l’Italia – NOI – (comunisti n.d.r.) abbiamo governato per cinquant’anni. Diranno che a Roma i politici rubano da cinquant’anni … insomma, è come se per i leghisti, “cinquant’anni” fosse l’unica misura del tempo conosciuta, e peggio, per loro la storia d’Italia è tutta concentrata in quel breve lasso di tempo. Volendo essere più cattivi ed incisivi, si potrebbe anche dire che: “Il tricolore, per me, identifica un sentimento di cinquant'anni fa”, non vuol dire un cazzo, ma essendo io una signora, e anche magnanima, non lo dirò.

Eh la storia! La storia! Se solo ogni tanto ci si ricordasse della storia che abbiamo pur letto una volta almeno nella vita, saremmo tutti più pronti alla dotta citazione, e al sorriso, soprattutto. Pensate un po’ sempre alle branchie dell’avannotto, se qualcuno gli avesse ricordato che il primo esemplare di tricolore, fece la sua apparizione in Italia (a Milano) nel 1796, come emblema della Guardia Civile Milanese, e che appena l’anno dopo, il tricolore milanese divenne la Bandiera della Repubblica Cispadana …

Ma è pur vero che il problema era un altro: la nazionale di calcio. E in Italia, ci si può incazzare al punto di consigliare l’esilio in altri laghi alla trota scema di bossi, per il pallone; ma non lo si fa quando l’imbecille, per esempio, oltraggia la vita umana di chi muore per disperazione.

Rita Pani (APOLIDE quattro mori)
(La foto di un avannotto non gli avrebbe reso giustizia, meglio un asino)

martedì 20 aprile 2010

L' Alternativa di Giulietto Chiesa








Giulietto Chiesa propone una alternativa ancora poco definita nell'organizzazione, ma centrata su alcune idee forti e radicali che condivido.A partire dallo snodo chiave dell'11 settembre, che Chiesa si sa interpreta come strategia dell'Impero nella fase attuale di esaurimento delle risorse del pianeta.La necessità di crescita infinita del capitalismo si scontra con la finitezza delle risorse del pianeta e rende questa fase storica che stiamo vivendo la più drammatica dalla prima rivoluzione industriale.Se non si supera il capitalismo il futuro non esiste ma le vie d'uscita, al momento, non sono identificabili.



Prima Assemblea Nazionale di Alternativa.
17 Aprile 2010

Relazione introduttiva al dibattito. Giulietto Chiesa

Per prima cosa vorrei cercare di definire dove ci troviamo.
Lo farò con un piccolo apologo.
Immaginiamo di trovarci su un aereo di linea a 10.000 metri di altezza. Fino a poco fa tutto andava per il meglio, ma da qualche minuto il velivolo ha cominciato a sobbalzare violentemente; sembra precipitare, poi si innalza, poi torna a volare normalmente per qualche attimo, ma sobbalza ancora. I passeggeri gridano di paura, allacciano la cintura. Ma non c'è nessuno che dia informazioni, le hostess sono sparite, il comandante tace, anzi dal microfono vengono strani rumori. Che fare? Vi alzate a fatica e correte verso la cabina di pilotaggio. Forzate la porta chiusa e... scoprite che al posto del pilota c'è una scimmia. Un rapido calcolo vi dice che le probabilità che questo aereo atterri regolarmente sono nulle. Tornereste al vostro posto, tranquilli, stringendo la cintura? No credo. Anche se non sapete guidare l'aereo la prima cosa da fare - e la farete – sarà di cacciare via la scimmia dal posto di guida e provare a guidare l'aereo. Sarà sempre meglio della scimmia.
Ebbene, io credo che noi ci troviamo esattamente in questa situazione: con la scimmia al comando. Se siamo qui riuniti, io credo, è perché pensiamo che, in queste condizioni, un atterraggio morbido è impossibile. Qui c'è già una differenza netta e sostanziale, tra l'approccio di Alternativa e quello della galassia, per ora dispersa, dei gruppi e dei movimenti che cercano di promuovere il cambiamento e che si battono per la giustizia e la democrazia.
Questa differenza concerne l'interpretazione della crisi mondiale. Si può dire subito che la sinistra, mondialmente parlando, è stata completamente spiazzata, in tutte le sue componenti (da quelle socialiste e socialdemocratiche a quelle più radicali) dalla mancata comprensione delle cause profonde della crisi mondiale. Non è in caso se il punto di origine più genuino della critica dello sviluppo capitalistico fu esterno al corpo della sinistra e provenne da un gruppo di scienziati senza connotazioni ideologiche di sorta.
Mi riferisco al Club di Roma. Furono loro a individuare il nucleo di una insanabile contraddizione – che in linguaggio vetero-marxista dovremmo definire oggettiva: la questione dei “limiti dello sviluppo”. Eresia passibile di ogni anatema perché il capitalismo, liberistico o neo-liberistico che sia, è incompatibile strutturalmente con ogni idea di limite. Esso non può che crescere, e crescere esponenzialmente. Quando smette di crescere, collassa. Questo è avvenuto, come sappiamo, ciclicamente nel corso del XX secolo. Il collasso non si è verificato per una serie di cause, diverse e interconnesse (ben spiegate nel libro di Guido Cosenza “La transizione” che vi ho consigliato di leggere non a caso). Queste cause e concause, tra le quali sono da annoverare i sistemi di controllo sociale offerti ai poteri mondiali dalle nuove tecnologie informativo-comunicative, hanno consentito al capitalismo, ogni volta, di rimettere in moto la sua crescita esponenziale. Fino alla fase attuale, che costituisce un capolinea invalicabile. Le rotaie si fermano qui, pressappoco, decennio più, decennio meno. Siamo già in overshooting da circa 40 anni: tutti i limiti si manifestano ora simultaneamente. Energia, clima, acqua, cibo: tutti gli equilibri sono in forse. Quella che emerge è una sentenza definitiva: “una crescita indefinita in un sistema finito di risorse è impossibile”.
Ovvero: una crescita ulteriore in base ai criteri del mercato è insostenibile. Protrarre l'illusione significa preparare una catastrofe certa. È la scimmia al comando. La quale, da ogni finestra comunicativa, ci ripete ossessivamente che possiamo, e dobbiamo, crescere, come stiamo facendo da oltre 200 anni. A questa illusione non si sono sottratti neppure i partiti di massa del secolo XX, neppure quelli a vocazione anti-capitalista. Perché? Perché tutti erano all'interno dell'idea della crescita indefinita. La crescita del Prodotto Interno Lordo ebbe come fratello gemello il Piano Quinquennale sovietico. Entrambi non prevedevano limiti. Nel 1990 è crollata l'Unione Sovietica, gemello più cagionevole. Nel 2010 stiamo assistendo all'inizio del crollo dello sviluppo del PIL. Che, come stiamo vedendo, sarà travagliato e contraddittorio; potrà avere alti temporanei e bassi più o meno prolungati. Si accompagnerà (come vediamo, si accompagna anche adesso) al persistere dell'ideologia precedente, quella del suo trionfo, che verrà ripetuta e ripetuta ossessivamente, fino a che la realtà non l'avrà definitivamente consunta.
E questo aggraverà la catastrofe lasciando milioni di individui impreparati ad affrontarla e ancora conviti di poter continuare come se nulla fosse accaduto: proprio perché nulla sanno di ciò che è già accaduto.
Il crollo e la resa finale della sinistra – che in Italia ha assunto le vesti più miserabili della farsa – ha come punto di origine la mancanza di visione del limite allo sviluppo. Cancellata l'alternativa sovietica, che non era un'alternativa, le sinistre hanno finito per accettare l'unica narrazione rimasta del mondo. E si sono arrese. Una narrazione sempre più potente, sempre più unica. Non intendo ripetere quello che ho già detto nel saggio “Fine della corsa”. Qui voglio solo ribadire quello che Badiale e Bontempelli hanno bene illustrato: la politica di cui dispone la sinistra, i suoi ceti politici, sono l'espressione di dinamiche storiche fondamentali; non sono effetto soltanto di errori politici, o di tradimenti. Sono i frutti di una evoluzione inevitabile. In questo senso sono necessari, funzionali. E, aggiungo, irreversibili. Ecco perchè non possiamo più perdere tempo con queste élites della sinistra. Una volta accettata la narrazione dell'avversario, cioè una volta accettata la subalternità, ne seguono tutti i corollari:
• Cessa ogni ricerca autonoma.
• L'orizzonte culturale e intellettuale si restringe.
Si afferma l'idea della TINA (there is not alternative).
• Si accettano le soluzioni istituzionali dell'Egemone, la prima delle quali dice che la democrazia non è più necessaria, il governo è esecuzione della necessità, come tale non è contestabile.
• Le forme della politica si semplificano e si banalizzano; nuove leggi elettorali; sempre maggioritarie; tutto il potere all'esecutivo; mercantilizzazione della politica; etc...
Ovviamente anche il modello economico dell'avversario viene sussunto come inevitabile. Si privatizza, si liberalizza, si deregola. Si annienta lo stato. Si accetta che il lavoro diventi una variabile disorganizzata delle volontà padronali e perda ogni carattere di continuità etc.Tutte cose deja vue in Italia, su cui ormai è inutile sia piangere che stupirsi. Ma su cui occorre lavorare molto perché molti (anche tra quelli che perseguono scopi di cambiamento, di giustizia, di democrazia) continuano a non capire, a non vedere, ad affidarsi in sostanza alla scimmia più compassionevole. Come se questa potesse sapere come far atterrare l'aereo.
Una delle cartine di tornasole da cui emerge bene questa evoluzione-involuzione è stata rappresentata dal paradigma 11 settembre. Qui si sono viste molte cose importanti.
o L'Egemone sapeva molte più cose di tutti, e in anticipo. Voglio proporvi una citazione assai sorprendente, senza dirvi di chi è, fino alla fine. Ascoltatela, viene dal profondo dei tempi, viene dal 1968: "La nostra epoca non è soltanto epoca rivoluzionaria. Noi siamo entrati nella fase di una nuova metamorfosi della storia umana. Il mondo è sulla soglia di una una trasformazione che, per le sue conseguenze storiche e umane, sarà più drammatica di quelle prodotte dalle rivoluzioni francese e bolscevica (...). Nel 2000 si penserà che Robespierre e Lenin furono dei riformatori moderati." Sono certo che non indovinate chi parlava. Si chiama Zbignew Brzezinski e stava fondando la Trilaterale su incarico di David Rockfeller.
o Le sinistre, che non avevano capito la crisi dei limiti, hanno subìto e taciuto sotto un'offensiva senza precedenti (perché senza precedenti è la crisi).
o Non si è capito che stava realizzandosi un punto di svolta epocale: l'Impero stava forgiando sotto i nostri occhi un nuovo nemico mortale (dopo aver distrutto il comunismo).
Il nuovo nemico mortale era un passaggio necessario che serviva a tre scopi essenziali: compattare in anticipo l'Occidente e il mercato mondiale attorno alla leadership dell'Impero, prima che essa cominciasse a traballare per conto proprio. Così la crisi sarebbe stata facilmente attribuibile al nuovo nemico mortale. In secondo luogo rendere meglio spiegabili, meglio digeribili, le limitazioni delle libertà che saranno comunque indispensabili per gestire la fase successiva della crisi. Sarà la lotta contro il terrorismo internazionale a giustificare ogni abuso, in nome della libertà e dei valori occidentali. Lo scontro di civiltà implica la militarizzazione della democrazie. In terzo luogo occorreva dilazionare la crisi per dare tempo all'Impero di escogitare qualche misura di salvaguardia.
La dilazione ha funzionato per sette anni. Le misure di salvaguardia hanno prodotto circa 1000 trilioni di dollari di ricchezza virtuale, nella più grande truffa di tutti i tempi. Alla quale le sinistre mondiali hanno assistito, ebeti, in silenzio, ammutolite dal pensiero unico. E quelle italiane continuano ad assistere ancora più mute delle altre.
In Italia (ma anche altrove) il silenzio vile sull'11 settembre ha significato la prova che la sinistra (tutta) non era più in condizione di capire e ( quelli che avevano capito) di disturbare. Ecco perché sono rimasti tutti in silenzio, accettando il gioco dell'avversario e, infine, subendone tutti gli effetti devastanti. E, quando questi sono arrivati, sul piano sociale, economico e politico, non sono stati capaci di dire e fare assolutamente nulla: non una proposta, non una analisi. E la ragione di questo silenzio è limpida e inequivocabile: non avevano niente da dire. “Si verba non sequentur” la risposta è ovvia: “rem non tenes”.
Se mi sono soffermato a lungo su questi aspetti è perché voglio dare una prima risposta a coloro che obiettano all'idea di Alternativa perché sarebbe "l'ennesimo gruppetto” tra i tanti, impotenti, che già esistono. Quanto detto fin qui smentisce questa tesi. Noi nasciamo perché, e in quanto, portatori di una visione più ampia della crisi rispetto a quelle che circolano anche al di fuori della casta, e che orientano (male, o poco, quando non disorientano) il grande bacino dei “senza rappresentanza”, quella che nell'ormai lontana (e fallita) serie di riunioni fiorentine di due anni fa, io definii la “grande voragine” che si era aperta tra la politica e il paese reale.
Non mi propongo però né di contribuire alle polemiche né di sottolineare le differenze. Voglio solo spiegare perché Alternativa è e sarà indispensabile, non foss'altro perché parte da una piattaforma diversa e – lo dico senza alcuna iattanza – più solida di altre.
E lo dico anche a coloro che, privatamente, scuotendo la testa come già sconfitti, mi hanno invitato a non tentare questa via, definendola perdente in partenza, e invitandomi a mettere le mie idee al servizio di questo o quel comparto delle sinistre in rotta.
Credo che la nostrami risposta sia – sebbene possa apparire il contrario – più realistica della loro. So quanto sarà difficile, ma so anche che l'alternativa che propongo non potrà farsi strada in quei contesti: ormai troppo asfittici, autolimitantisi. Loro sì destinati alla sconfitta certa, perché inevitabilmente marginalizzati dalle loro stesse tare ideologiche, quando non già irrimediabilmente corrotti dalle logiche di un potere antipopolare e antidemocratico.
Queste considerazioni – che motivano la nascita e la necessità di Alternativa – valgono in particolare per una sua caratteristica peculiare: quella di non essere comunista, né socialista, né di sinistra. Questo ci fa diversi dalla miriade (davvero miriade) di iniziative che zampillano dal vecchio corpo morente della sinistra istituzionale. Ne ho contate, sul web, una trentina solo in questi ultimi due mesi. Ho notato che questo aspetto della mia proposta è stato poco discusso e poco contestato nei commenti arrivati sul sito di Alternativa e nelle lettere che ho ricevuto. Si, ve ne sono state, ma solo alcune, obiezioni. Quasi che questa parte della proposta fosse considerata scontata, oppure strumentale (dice così, ma è una forma di mascheramento... etc...), oppure non centrale.
Così non è. Al contrario questo è un elemento discriminante, che ci distingue e ci distinguerà nettamente dalla miriade di piccole, disperate iniezioni per rimettere in piedi il cadavere. Con tutte le quali, voglio dirlo subito, con la massima chiarezza, noi intendiamo lavorare, cooperare, nelle quali dobbiamo essere presenti, con le quali dobbiamo essere amici e fratelli e compagni.
Perché non essere di sinistra, o comunisti, non significa essere anti-comunisti, o contro la sinistra. Gran parte di quel patrimonio, di solidarietà, di giustizia sociale, è anche mio, come lo è di quasi tutti noi. E poiché non intendo entrare in conflitto con la mia storia personale, con idee e valori che non ho mai abbandonato, non chiedo a nessuno di farlo. Immagino che la stessa cosa valga anche per molti di voi, probabilmente per la maggioranza di coloro che sono qui riuniti e che hanno aderito ad Alternativa, o che si apprestano a farlo. Ma così come nessuno di noi intende rinunciare a se stesso e alla propria storia, altrettanto deve valere per coloro che giungono da altre storie, da altri percorsi. E tanto più dovrà valere per coloro che, perché più giovani, non hanno nessuna storia. Che avvertono l'inaccettabilità della loro condizione, che si guardano attorno in cerca di idee, oltre che di giustizia; di comprensione e di valori (sebbene nessuno si sia curato di proporglieli).
Non si capisce perché dovremmo chiedere loro, o imporglielo, il pedaggio di scegliere preliminarmente di denominarsi “di sinistra”, senza tenere conto che milioni di giovani, in Italia, la sinistra non l'hanno mai incontrata sul loro percorso. E quel poco che ne conoscono è già indelebilmente sporcato dalle pratiche sconcezze che hanno potuto intravedere. In ogni caso queste generazioni sono state e sono sotto l'influsso potente della narrazione nemica, contro la quale al momento non abbiamo ancora antidoti.
In queste condizioni strana davvero è la pretesa di risalire la corrente avversa aggrappati alla simbologia della falce e martello già travolte dalla corrente della storia. La cosa più probabile è quella di finire a valle insieme ai loro frammenti. In altri termini la mia proposta nasce da una precisa valutazione, realistica e non sentimentale, dei non rappresentati. Certo che là dentro, anzi qua dentro, ci sono ancora i pezzi degli “zoccoli duri” degli ex partiti della sinistra. Ma abbiamo visto quanto pesano. E non mi riferisco solo agli ultimi e penultimi risultati elettorali; mi riferisco al peso reale che esercitano nella società italiana: peso che è ormai praticamente inesistente, come lo è la loro visibilità. Non avendo compreso cosa stava succedendo nel nuovo contesto informativo-comunicativo, sono stati cancellati. Cioè anche se esistono, non si vedono.
L'analisi della “voragine” sarà dunque estremamente importante. È questo il secondo punto del nostro ordine del giorno. E anch'esso è una specifica caratteristica di Alternativa (perché questa analisi ancora non c'è e va fatta). E si dovrà fare con la massima cura (ecco uno dei compiti analitici che dovremmo affrontare), calandoci al suo interno. Non è analisi che si possa fare in vitro. Ma certo non la si potrà fare con gli strumenti analitici del passato. Scopriremo che la classe operaia, dopo essere stata triturata dagli sconvolgimenti strutturali della globalizzazione e dal martellamento implacabile della comunicazione , oggi vota in maggioranza per la destra berlusconiana, o per la Lega (che non si sa cosa sia peggio).
E potremmo scoprire che non solo – questa classe operaia – non è affatto rivoluzionaria, ma si prepara a divenire la base di massa per una vandea reazionaria. E allora dovremmo affrontare tutta una serie di messe a punto concettuali se vogliamo trovare – supposto che vi siano – le forze motrici del cambiamento. Senza individuare le quali, è ovvio, nessun cambiamento è possibile. Io ritengo che queste forze vi siano ed è in questo senso che ho proposto la lettura del saggio di Badiale e Bontempelli.
Su cui possiamo discutere, e io stesso ritengo che necessiti di alcune precisazioni, ma che mi è parso, tra le tante chiacchiere insulse che si leggono, uno dei contributi più maturi e interessanti a questa riflessione. Li richiamo sinteticamente qui, entrando nel merito solo di sfuggita, per dire che alle tre aree che loro hanno indicato (area della giustizia sociale, area della legalità e della laicità, area della difesa del territorio) io aggiungerei l'area della pace e contro la guerra. Che non coincide esattamente con nessuna delle tre precedenti, ma che le attraversa. Un'area che si può vedere, investigare, mobilitare solo se si guarda il mondo intero e non solo la provincia italiana. E senza dimenticare che queste aree sono attualmente divise, scarsamente comunicanti tra loro; spesso in contrapposizione. Se riusciamo a fare questa analisi, e a trasformarla in azione pratica tra i movimenti e tra la gente, avremo fatto un passo avanti. Altrimenti staremo fermi. Ma una cosa è ormai certa: affidarsi a qualcuno degli spezzoni della ca sta è pura illusione. Ciascuna delle questioni che noi dobbiamo affrontare implica uno scontro non solo con i potentati locali, ma anche con i colossali poteri mondiali, in primo luogo con quelli della finanza e militari. Pensare che la casta, inclusa la sinistra istituzionale, sia disposta a muovere una qualsivoglia offensiva in quelle direzioni, o anche soltanto a difendere la dignità e la sovranità nazionale, significa perdere tempo: i loro stipendi dipendono dal loro silenzio. Del resto hanno già ampiamente dimostrato che non sanno come si fa e che non vogliono farlo.
Altra cosa è – dopo aver denunciato i vertici della sinistra istituzionale – il dialogo con la gente che ancora la segue e la vota. Questo è un problema che richiede una attenzione particolare. Nella “voragine” non ci sono soltanto i non più rappresentati in questo sistema politico. Ci sono anche i milioni di elettori del PD che continuano a pensare, oltre ogni evidenza in contrario, che quello sia un partito di sinistra. Per molti si tratta di un legame storico difficile da tagliare. Imbambolati dalle parole non si sono accorti di essere stati trasferiti, in blocco, dalla sinistra al centro. E hanno trasferito al centro, in parte, le loro convinzioni. Che però, in altro contesto, considerano ancora “di sinistra”.
L' operazione Veltroniano-D'alemiana ha funzionato perfettamente. L'unico problema è che essa non può durare più a lungo di questa generazione. E lo sgretolamento in atto del patrimonio elettorale che fu de PCI dimostra che la disillusione di molti si fa strada, trasformandosi in non voto o emigrando verso il partito di Di Pietro, oppure a destra verso la Lega, perfino nelle antiche roccaforti del PCI. Ma c'è anche il non piccolo fiume di coloro che pensano ancora di liberarsi dal male maggiore votando o sostenendo il male minore. Come se votare la Bonino nel Lazio, o De Luca in Campania, avesse rappresentato il male minore.
È semplicemente un errore di analisi. Mi ci soffermo perché qui è importantissimo capirsi bene. Ho ricevuto una lettera, molto sensata e molto rivelatrice al tempo stesso, del raggruppamento “Verità e Democrazia”, il cui autore annunciava la sua intenzione di essere presente oggi. Spero che ci sia e che intervenga. Ma intanto provo a rispondergli e a chiarire cosa penso e cosa propongo. Prima di tutto: chi sono i nostri alleati? Sono tanti. Sono quelli che noi qui rappresentiamo, ma ce ne sono di “ potenziali, o quantomeno non nemici”. Chi mi ha scritto non condivide il “rifiuto totale delle formazioni politiche attualmente esistenti” contenuto nel saggio di Badiale e Bontempelli. Io condivido la loro analisi, crudissima ed esatta. Se noi non facciamo chiarezza sulla nostra “diversità” rispetto alla politica ufficiale, questa discussione sarà inutile. Alternativa sarà diversa. La questione è su cosa significa rifiuto e su come attuarlo. Qui entra in questione la politica da costruire e qui ci viene in aiuto l'arte togliattiana della “distinzione”. L'amico di “Verità e Democrazia” condivide “l'analisi di chi parla di finzione a proposito del sistema politico italiano” ma scrive di “fare parte di quelle persone che non ce la fanno proprio ad andare a votare e a mettere sullo stesso piano tutti i candidati e tutte le coalizioni”.
Condivido, in parte. Anch'io, come ho detto pubblicamente, avrei votato Vendola (pur criticando molti aspetti) e non ho votato la Bonino. Distinguo anche io, dunque. E lo faccio per due motivi. Il primo è che anche all'interno delle compagini politiche rimangono persone oneste che può essere opportuno sostenere contro persone disoneste o indecenti. Il secondo è prevalentemente tattico: invitare all'astensionismo può risultare incomprensibile a una grande massa di potenziali alleati, che sono elettori di quei partiti; che non ne sono soddisfatti, ma che non vedono alternative; che ancora considerano (e questo non è un male, affatto) il voto un dovere civico.
Io stesso ho percepito queste difficoltà politiche, psicologiche, umane in molti amici che stimo. E so che queste difficoltà sono presenti anche qui tra noi. È per questa ragione che non ho invitato pubblicamente all'astensione, limitandomi - per onestà e chiarezza – a dire che non avrei votato per la Bonino nel Lazio.
E non credo, personalmente che della linea politica di Alternativa debba far parte la tattica generalizzata dell'astensione, cioè l'astensione come programma. Qui occorrerà saper tenere conto saggiamente anche delle tradizioni e delle sensibilità diverse che albergano nella “voragine” in cui abitiamo. Qui voglio chiarire il mio pensiero anche rispetto al pur pregevolissimo contributo dato da Guido Cosenza. La questione è cruciale e va scandagliata fino alla sua radice.
Noi mettiamo un pilastro centrale a sorreggere tutto l'impianto di Alternativa: la difesa e l'attuazione della Costituzione. Non è una scelta tattica ma strategica. Ma chi difende la Costituzione non può rigettare una forma di organizzazione della politica basata sui partiti. Dove si collocherebbe altrimenti il processo decisionale democratico? Su questa domanda la confusione è grande anche tra i leader dei movimenti e nella “voragine”. Io credo che affermare di essere per la Costituzione e poi rifiutare la rappresentanza siano due cose che si contraddicono.
Certo non questa rappresentanza. Ma di un'altra rappresentanza noi abbiamo un bisogno vitale. Del resto qui non c'è proprio alcuna alternativa. Poiché l'agorà non esiste in una società di massa, ci deve essere un luogo rappresentativo dove prendere le decisioni. Ovvio che noi lo pensiamo come non in contrasto con la società civile, certamente. Ma senza una rappresentanza che quelle istanze appunto rappresenti, si potranno anche elaborare le migliori proposte, ma poi bisognerà affidarne l'esecuzione proprio a coloro che non vorranno nè saranno capaci di attuarle.
Valga per tutti l'esempio dell'acqua: un parlamento di rappresentanti delle istanze popolari e della società civile non avrebbe mai votato la privatizzazione dell'acqua. E questo vale per ogni problema riguardante il patto tra cittadini e loro rappresentanza. E' possibile un parlamento così? Io rispondo: fu possibile un'assemblea costituente che scrisse la nostra Costituzione.
Qui noi non possiamo in alcun senso essere indifferenti al ruolo della rappresentanza. La maniglia che vogliamo costruire per i milioni che la cercano deve servire per realizzare un programma non solo sui libri o nelle piazze, o nei salotti televisivi, ma per i luoghi dove si decide per conto nostro o nell'interesse del Bene Comune.
Ma, ciò detto, non dovremo arretrare su nessuna delle questioni di principio che si presentano e si presenteranno. Sempre per rispondere all'amico di “Verità e Democrazia”, dico che non ho votato Bonino perché la ritengo diretta corresponsabile della prosecuzione della guerra afghana, avendola ascoltata nel Parlamento Europeo sostenere a spada tratta la legittimità delle prime elezioni truffaldine e indecenti che portarono al potere il Quisling Hamid Karzai. Perché la so sostenitrice del neo-liberismo più spinto e, dunque, perché sapevo che non sarebbe stata di alcun giovamento per i “bisogni delle persone in carne ed ossa”, come scrive l'amico di “Verità e Democrazia”. E il fatto che il PD l'abbia candidata, addirittura presentandola come la migliore possibile, conferma la qualità di quel partito come componente integrale del sistema che dobbiamo combattere se vorremo che i nostri figli sopravvivano.
Probabilmente Emma Bonino non ruba, ma questo la qualifica forse per essere la nostra rappresentante nelle istituzioni? E oscura il resto del panorama guerriero e antipopolare che costei rappresenta? Rispondere in un modo o nell'altro a questa domanda significa guardare in un modo o nell'altro alla crisi mondiale. Significa scegliere, qui, nel Lazio tra la pace e la guerra. Ecco una questione di principio per me invalicabile.
E voglio chiarire anche le mie critiche a Vendola, a Claudio Fava, persone rispettabili e di indubbio valore, politico e umano. Ma che sono andati a una sconfitta con Sinistra Arcobaleno, e Sinistra e Libertà nelle politiche e nelle europee perché hanno perduto la bussola e si sono affidati alla narrazione dominante. Il fatto che siano poi cascati nella trappola dell'alleanza con un PD che voleva semplicemente e brutalmente liquidarli è soltanto la ciliegina sulla torta. Errori non innocenti e invece rivelatori di una visione sbagliata della crisi politica italiana e perfino mondiale. Perché un conto è progettare una coalizione con un partito che ti è vicino, se non proprio fratello; un altro conto è consegnarsi mani e piedi a un avversario che ha una visione antitetica alla tua della democrazia, del potere, dello sviluppo, della guerra.
Per questa via, per “senso di responsabilità” verso il governo, a sua volta tributario dell'Impero, l'intera sinistra istituzionale ha votato la guerra irachena e afghana, ha affossato il grande movimento pacifista, e si è infine suicidata, perdendo la faccia e perfino il consenso dei suoi elettori tradizionali.
Grave errore e ripetuto, perché è lo stesso che ti porta ad abbracciare l'inqualificabile De Luca in Campania anche se poi vinci in Puglia. Ma, se ci mettiamo in questa logica rischiamo di trovarci tra due anni con in Vendola che si candida alle primarie del PD o che fa la ruota di scorta di sinistra di un partito che parla americano e che fa la guerra.
È questa l'alternativa di cui abbiamo bisogno? Non lo penso. Mutatis mutandis l'arte della distinzione deve essere applicata a Di Pietro. Partito che non è un partito, ma che oggi difende la Costituzione; partito che sostiene l'alta velocità (motivo per cui, se fossi stato elettore del Piemonte, non avrei votato la Bresso) e che fu contro la Commissione d'inchiesta sui fatti di Genova; partito dai bassifondi infrequentabili ma che ha De Magistris al suo interno, etc...
E che dire del tentativo di De Magistris di un patto tra partiti e movimenti (da IDV a Grillo, al popolo viola, includendo Ferrero e Vendola)? Di nuovo deve venirci in soccorso l'arte della distinzione. Se questa idea punta alla creazione di una coalizione alternativa al PD, è evidente che essa fallirà per le molte insuperabili contraddizioni che contiene e che è perfino inutile elencare. Quindi sposarla equivale a farci trascinare in un ennesimo fallimento. Vuol dire che siamo contrari a ogni forma di convergenza con le forze democratiche interne o tangenziali alla casta?
La mia risposta è no. Potrebbe essere necessario muoversi in questa direzione per fronteggiare l'offensiva anti-costituzionale che si annuncia ormai come certa. Sappiamo che il vertice del PD sta trattando con la destra per modifiche liberticide. E non è nemmeno escluso che patti segreti prevedano anche un accordo parlamentare per escludere il referendum popolare previsto dalla Costituzione vigente. Ci servirà dunque una specie di CLN per fronteggiare l'emergenza democratica e informativa. E dobbiamo sapere che i vertici del Partito Democratico saranno il nemico. E dunque dovremo batterli parlando con tutta la franchezza necessaria al loro elettorato.
Quando, prima delle politiche, scrissi un commento su Megachip intitolato: “Tutti contro il PD o la sinistra muore” fui guardato con astio e perfino incredulità non tanto dal PD (che capiva perfettamente che io avevo capito quello che intendevano fare) quanto da tutti gli spezzoni della sinistra istituzionale, che progettavano ancora una volta una coalizione di governo col PD identica a quella in cui erano già finiti maciullati. E che non si accorgevano che era proprio il PD che stava scavando loro la fossa mentre trattava col nemico. Incredibile errore ripetuto alle ultime europee, quando fu il Pd a sostenere la barriera del 4% (per fare terra bruciata a sinistra) e perfino l'abolizione dei rimborsi elettorali (che avrebbero liquidato e azzerato anche gli apparati dei partitini rimasti). Parlano i dati pubblicati dal Fatto del 10 aprile scorso, in un bell'articolo di Luca Telese, dove si racconta del fallimento di Rinascita e Liberazione, della vendita dei patrimoni immobiliari, della riduzione del numero dei consiglieri regionali da 48 a 16.
Tutto questo per dire alcune cose utili. La disputa, che si è accesa anche nei commenti della pagina di Alternativa, sul votare, astenersi, esprimere voto nullo, è questione secondaria in questo contesto. Temo che, nei prossimi mesi, dovremo andare a votare non per questo o per quel partito, ma per difendere la Costituzione. Perché l'offensiva che è già stata annunciata sarà scatenata e il suo obiettivo sarà di trasformare l'Italia in uno stato autoritario dove la divisione dei poteri sarà abolita e varrà solo la legge del più forte, fuori da ogni patto sociale. E in cui lo scontro – come ha scritto Eugenio Scalfari – sarà su un ring dove in un angolo siederà Berlusconi, pronto a tutto, mentre sull'altro angolo non ci sarà nessuno (neanche il male minore). Al massimo ci sarà Di Pietro. E non ci sarà (a differenza di quello che pensa Scalfari) neanche l'arbitro, perché a forza di firmare leggi incostituzionali si sarà già slogato il polso.
Dunque non è il caso di perdere tempo in diatribe su apparentamenti, coalizioni tra noi e i partiti e partitini morenti. E neppure di convergenza tra leader dei movimenti. Ho ricevuto sollecitazioni in questo senso, certo in buona fede, a cercare contatti in molte direzioni; ad aderire a questo o a quell'altro incontro promosso da questo o quel leader.
Io rispondo così:
a. Alternativa è solo il primo passo e non ha ancora una massa critica per poter essere interessante per chicchessia.
b. Noi dobbiamo andare dovunque si aprano spazi di discussione aperti a convergenze programmatiche
c. Dobbiamo andarci con le nostre idee, via via che riusciamo a precisarle, tenendo presente che noi non siamo alternativi a nessuno, ma vogliamo essere Alternativa di sistema. Esempio: appoggio esplicito e convinto alla battaglia per il referendum contro la privatizzazione dell'acqua. Ma non a quello di Di Pietro che ha offerto un assist al PD (corresponsabile assoluto della privatizzazione, avendola proposta per primo) che lascia aperta la scelta tra gestione pubblica, mista e privata. Ma, altro esempio, portando nel dibattito sull'ambiente, nel grande tema della difesa del territorio, una visione realistica della decrescita, che faccia capire non solo come essa non sarà “felice”, ma soprattutto che essa è incompatibile con il sistema capitalistico e che agitare questa bandiera si può, e si deve, senza però illudersi che essa possa convivere, coesistere pacificamente con esso.
d. Evitando di farci trascinare in iniziative e imprese minoritarie. Il panorama dei movimenti è pieno di gruppi e gruppetti, dove le verità da cercare sono sostituite da dogmi. Certo c'è una spiegazione anche per questo, dopo trent'anni di assenza completa di luoghi dove formare le nuove generazioni - e bisogna essere comprensivi e tolleranti - ma questo non significa che si debba perdere tempo in queste direzioni.
e. Evitando l'errore di rimanere prigionieri della Rete. L'ho scritto sul manifesto preliminare. La Rete va usata perché è indispensabile strumento di organizzazione. Ma la Rete non è il regno della libertà e tanto meno della democrazia. E può trasformarsi nella pericolosissima illusione, o miraggio, di una sostituzione della realtà. Su questo tornerò tra poco, cioè trattando il terzo punto su cui Alternativa si caratterizza rispetto a tutti gli altri laboratori e movimenti e dove potrà portare il proprio peculiare contributo agli altri.
Tutto questo facendoci guidare da una bussola peculiare: la narrazione dominante della società italiana è falsa. Radicalmente falsa. È quella che viene dal mainstream; è parte del “rumore di fondo” che milioni di persone sono costrette ad ascoltare e vedere. È una narrazione che ci descrive un'Italia maggioritariamente berlusconiana, già soggiogata irrimediabilmente. È una narrazione che è stata magistralmente prodotta dal sistema dominante, sotto la forma dell' “eletto dal popolo”. Ma che è stata accettata senza nemmeno tentare di combatterla, dalla cosiddetta opposizione. Si veda il D'Alema che esortava a pensare che l'Italia è un paese naturalmente conservatore. Questa è la prova provata della fine dell'egemonia culturale della sinistra e dell'avvento dell'egemonia della destra, anzi della complicità della sinistra nel favorire l'egemonia della destra.
Fa parte, come sottoinsieme, dei ragionamenti truffaldini tanto amati dai numerosi intellettuali lottizzati di sinistra. I quali si sono affannati a ripetere, da decenni che non è vero che le televisioni influenzano i comportamenti politici degli elettori. Schermo dietro al quale hanno potuto operare impuniti i manipolatori proprietari dei media e i creatori dei contenuti manipolatori. In realtà le televisioni non solo hanno modificato i comportamenti politici contingenti degli elettori, dei cittadini, ma hanno modificato in profondità la percezione della realtà di milioni di persone; hanno riplasmato la psicologia delle masse; hanno provocato quella che Giovanni Sartori ha giustamente definito una “mutazione antropologica”, il cui sbocco è stato la trasformazione finale in consumatore compulsivo dell'ex cittadino, dell'ex operaio, dell'ex impiegato etc.
Eppure c'era stato un pensatore che aveva visto giusto. Pasolini in Italia. E Guy Debord, che propose una interpretazione straordinariamente precisa dei processi che sarebbero avvenuti trent'anni dopo. Anche lui scriveva, alla fine degli anni '70, che "lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine", il frutto dello sviluppo del capitale dove "la merce non è più dotata di una valore d'uso reale, come voleva Marx, ma ha raggiunto un grado di astrazione tale da diventare immagine, rappresentazione". Avete mai sentito parlare di queste cose a sinistra? Non potevate, perchè la sinistra stava da un'altra parte e non si era accorta che la lotta di classe si era trasferita tra i chip dei nuovi media. Per questo fondai Megachip, per cercare di spiegarglielo.
Era ovvio che la politica si sarebbe trasformata in spettacolo e che l'intero processo democratico ne sarebbe uscito sconvolto e le stesse regole della democrazia sarebbero state private dei loro contenuti e trasformate in cerimoniale. E mentre tutto ciò accadeva le sinistre e l'intera coorte degli intellettuali democratici ripetevano in coro che non c'era nulla da fare contro la volontà del popolo. Popolo bue, ma popolo sovrano. Cioè un sovrano bue.
Così mentre la democrazia veniva violentata, l'opinione democratica veniva convinta che ciò era del tutto legittimo. Elezioni truffaldine nella sostanza, venivano derubricate come valide e ineccepibili. E le sinistre vi si adattarono ripromettendosi di usare esse stesse, non appena possibile, le stesse tecniche manipolatorie berlusconiano-americane. Cosa che fecero, in effetti, trasformando la televisione pubblica in una copia fedele e subalterna delle tv commerciali private. Senza neppure avvertire che, in tal modo, moltiplicavano e potenziavano la manipolazione inventata dall'avversario.
Fino a che non c'è stato più alcun avversario – come ha ben scritto Gianni Ferrara – e si è approdati al “monopartitismo disgiunto” in cui ci troviamo oggi, in cui (tra le altre nefandezze che stanno producendo un vero e proprio colpo di stato legale) la destra e il centro-sinistra condividono ormai un unico progetto politico che tende a trasformare, con il presidenzialismo plebiscitario, sia la forma di Stato che quella di governo.
Destra e centro-sinistra omologhi nel comprimere la rappresentanza popolare, in gara tra loro nello spartirsi il potere, concordi nel sottrarlo ai legittimi detentori della sovranità: una marcia cominciata con il trionfale passaggio al sistema maggioritario, promosso dal centro-sinistra, fino alla legge elettorale porcata della Lega, fino alla devolution e alla cosiddetta riforma federale, fino al futuro presidenzialismo plebiscitario.
Se la sinistra avesse letto McLuhan, o Debord, o Neil Postman non avrebbe mandato i suoi leader, a cominciare da Bertinotti, nel salotto dell'Insetto a fare da “pietanza” mentre credevano di essere commensali (citazione da Travaglio). Avessero conosciuto la “Società dello spettacolo” di Debord avrebbero capito quello che stava avvenendo, non solo in Italia ma nel mondo intero, a partire dagli anni '70: e cioè che le tecnologie della comunicazione stavano producendo un salto di qualità, diventando esse stesse parte integrante del nuovo meccanismo di produzione, accumulazione, controllo.
Finiva un'epoca e ne cominciava un'altra, in cui il capitalismo non dominava più soltanto la società ma la ristrutturava, mentre ricomponeva l'intera fisionomia delle classi sociali, trasformandole. È accaduto così che le sinistre, non avendo compreso né studiato i mutamenti, continuarono a ripetere i loro cerimoniali, a figurarsi l'esistenza dei loro antichi referenti sociali, mentre questi si dissolvevano e sparivano. Vedi l'esempio già fatto della classe operaia del nord. Così loro combattono – o credevano di combattere – su un campo, mentre la battaglia vera si combatteva su un altro campo, e veniva vinta senza sforzo perché loro non c'erano proprio, a combatterla.
Questo è ciò che è già avvenuto. Eppure, nonostante questo, la narrazione dominante rimane ugualmente falsa. Almeno in Italia, e in Europa. Non in America dove il dominio del sistema ha già definitivamente prodotto la mutazione antropologica. Perché? Perché in Italia la società civile e democratica realizzata dalla Resistenza, la Costituzione che ha suggellato un patto sociale oltremodo solido, hanno costituito un baluardo per ora invalicato.
Non dico invalicabile, perché esso è ormai in più punti lesionato (e vedremo in questo 2010 o 2011 quanto sia ancora resistente). Ma che ha tenuto, entro certi limiti, contro l'offensiva demolitrice del pensiero unico e del consumo forsennato di tutti i valori democratici. È su questa linea Maginot che dobbiamo costruire la contr'offensiva. Ed è questo il terzo argomento cruciale che giustifica l'esistenza di Alternativa come movimento organizzato.
Perché nessuno ha, fino ad ora affrontato la questione di come combattere sul terreno dove il nemico ha stravinto e la società civile e politica è stata assente. Un terreno ancora inesplorato. Da oltre dieci anni con “Megachip – democrazia nella comunicazione”, cerco, senza grande successo, di spiegare che è sul campo della comunicazione che si deve portare la battaglia.
Ma come combattere sul quel campo ancora non sappiamo. A stento cominciamo a capire che è là che si è compiuta la ristrutturazione della società, che sono mutati i rapporti sociali, che si è trasferito il potere, che si è instaurato il controllo. Al punto che, io credo, nessuna battaglia futura potrà essere affrontata con speranza di successo se non la si porterà sul quel campo. Essendo chiaro, in primo luogo che, senza democrazia nella comunicazione non vi può essere più alcuna democrazia. Che, senza invadere e conquistare la comunicazione, non sarà possibile raggiungere masse critiche di consumatori, con i quali cominciare la indispensabile de-manipolazione.
Come realizzare questi obiettivi è materia di alta complessità, che richiederà una riflessione collettiva. E di alta pericolosità, perché è ormai li che abitano i centri del potere e del controllo. Le forme di lotta, anche, dovranno essere immaginate, progettate, sperimentate, perché al momento sono appena abbozzate e perché la discussione è appena cominciata tra un mare di equivoci.
Quale è il ruolo della televisione? Quali sono le caratteristiche della Rete? Qual è il ruolo dell'educazione di massa alla lettura dei media? Per quanto mi riguarda ho sperimentato diverse possibilità, con successi e insuccessi, con pochi mezzi e piccole squadre: NoWarTv , il film Zero, Pandoratv, l'educazione ai media nelle scuole.
Altri (pochi) hanno fatto analoghi tentativi: Arcoiris per esempio. Fino dell'episodio, assai interessante, di "Rai- per -una- notte". Dovremo proseguire e ritentare, insieme ad altri. Penso a una lettera appello a tutti coloro che hanno fatto esperimenti utili in questa direzione.
Ma dobbiamo anche dotarci di un solido programma per il governo della comunicazione pubblica. Fino ad ora è stata la prateria del potere e nessuno ha messo bocca sulle sue scelte. Il PD e i partiti della sinistra istituzionale (ormai extra parlamentare) si sono accontentati delle briciole. Ma anche i movimenti hanno ignorato la questione. Nessuno ha neppure tentato di affrontare i nodi della pubblicità, del costo-contatto, del ruolo della pubblicità, di quello dell'intrattenimento. Quasi tutti vivono nell'illusione grilliana che la rete risolverà tutto, o quasi: dalla democrazia al controllo degli amministratori pubblici, mentre i controllori del blog di Di Pietro e di Beppe Grillo ci annunciano un futuro a medio termine in cui tutti diventeremo felicemente cittadini di Google: prospettiva perfino più agghiacciante, perché compiutamente orwelliana, di quella in cui ci troviamo attualmente.
Ma questo è terreno di dibattito che dovremmo affrontare, tra noi e all'esterno nei prossimi mesi. Punto di approdo una piattaforma politica di alternativa radicale all'attuale assetto radiotelevisivo pubblico e privato, con cui presentarci al mondo del lavoro, a quello imprenditoriale, ai movimenti, alle forze politiche.
Sarà già tardi quando arriveremo, perché, mentre a migliaia visitiamo facebook e ci trastulliamo su youtube senza avere ancora capito come funzionano, perché esistono, come usarli, il potere disgiunto del monopartitismo ha già privatizzato il digitale e ha messo le sue travi d'acciaio per bloccare i sentieri televisivi dove noi dovremmo passare.
Ma la questione di un programma per il governo democratico della comunicazione è indispensabile risolverla. Ecco – lo ripeto – una delle caratteristiche qualificanti di Alternativa, uno dei nostri obiettivi principali. Su questo tema dobbiamo sviluppare l'iniziativa politica, promuovendo incontri, momenti di chiarificazione, convergenze, alleanze.
Si tratta di approfondire ogni singolo aspetto di una tematica molto complessa e poi produrre proposte: di riforma legislativa degli assetti comunicativi; di lotta per la riconquista della tv pubblica; di lotta per limitare e ridurre l'intensità dei messaggi pubblicitari su tutte le reti televisive, pubbliche e private (sottolineo tutte), definendo regole invalicabili che puntino all'aumento del costo-contatto, mentre dovrebbero privilegiare i produttori nazionali. È un discorso anche questo non ancora tentato, che è destinato nello stesso tempo a colpire al cuore l'interesse dei manipolatori e a migliorare il tenore intellettuale, culturale e etico della maggiore istituzione educativa di un paese moderno; di battaglia culturale per l'educazione ai media; di creazione d strumenti di comunicazione alternativi in grado di fronteggiare l'emergenza che si annuncia a brevissimo termine.
A questo proposito apro un inciso. Riguardante ancora l'evento "Rai- per- una- notte". Qualcuno lo ha definito una “sortita democratica”. Condivido questa definizione. È stata una sortita: bella, imponente, dalla piccola fortezza sbrecciata in cui siamo ridotti.
Milioni di cittadini hanno potuto vedere non tanto ciò che era loro impedito: hanno potuto sperimentare che è possibile (attraverso la multimedialità, in forme di reazione collettiva di una parte importante della società civile) rompere il muro del silenzio imposto dal monopolio della comunicazione in mano al potere.
Fin qui bene, possiamo brindare, ma si è trattato di una sortita, una tantum. Non basta e non ci basterà. Invece l'esperienza di Bologna dice che noi possiamo e dobbiamo fare, tutti insieme, un canale (su più piattaforme, mettendo insieme digitale, reti locali, webtv, blog, streaming) che, ogni sera, anche per un numero limitato di ore, svolga la funzione di agorà per il popolo della democrazia e della Costituzione.
Era questo il progetto di Pandora Tv che non siamo riusciti a realizzare perché non siamo stati capiti e perché non siamo stati capaci. Ma soprattutto perché all'interno della voragine ancora non si è capita la gravità della situazione e i pericoli che corriamo. Ancora non si è capito che, quando scatterà il “nostro 11 settembre” (che potrà assumere forme diverse, non solo quella di un attentato terroristico, ma che sarà l'occasione per l'affossamento finale della democrazia) noi saremo muti , senza strumenti di comunicazione, soverchiati dal frastuono isterico delle televisioni e delle radio di potere. E non ci sarà nessun blog, di Grillo o di qualcun altro, a dirci cosa dobbiamo fare e a spiegarci cosa sta accadendo. Per questo io propongo che, come suo primo atto pubblico, Alternativa stili una proposta chiara, da indirizzare a tutti i soggetti ricettivi del campo democratico, a cominciare ovviamente da coloro che hanno realizzato e sostenuto "Rai -per -una -notte", invitandoli a riunirsi in vista dell'obiettivo di trasformare quella “sortita” in una organizzazione permanente, in un presidio democratico per fronteggiare l'emergenza, tutti i giorni della settimana, fino a che essa non sarà stata debellata.
Ho già parlato molto ma tante erano le cose da dire dopo aver raccolto il ricco, interessante, civile dibattito che si è sviluppato sul sito di Alternativa. Il dibattito non di una nuova setta nascente ma di persone responsabili, consapevoli del momento in cui vivono. Dobbiamo ora formulare su queste basi, sui punti bene riassunti dall'amico Maurizio Zaffarano , un manifesto più organico e completo di quello con cui abbiamo formato la prima centuria.
Su queste basi dobbiamo procedere (non da soli ma, su ogni tema, producendo convergenze e sinergie con altri, sempre nell'intento di non re-inventare la bicicletta ogni volta) a definire un programma di governo dell'emergenza. Poiché noi sappiamo che non ci sarà un ritorno alla normalità.
Su quali basi?
Accenno qui, per punti, un promemoria.
a) è dal lavoro, dalla sua qualità, dal suo valore sociale e umano che si dovrà ripartire per costruire un'ipotesi alternativa al modello trionfante del lavoro umiliato, privato di diritti, precarizzato, variabile dipendente dell'arbitrio. Se non si ferma questa deriva tutto ciò su cui fondiamo la nostra vita, la nostra democrazia, la nostra sicurezza, il nostro territorio, la nostra natura, l'ambiente in cui viviamo, saranno minacciati.
b) è dalla difesa della giustizia sociale che si dovrà ripartire. Tenendo sempre presente che la giustizia non è solo quella che si esercita nelle nostre vicinanze geografiche. Se non c'è giustizia nel mondo, non ci sarà neanche qui (e infatti non c'è). E non possiamo accettare l'inganno che ci sia data un po' di giustizia sociale in cambio del nostro tacito assenso all'ingiustizia che hanno imposto ad altri, che erano più deboli.
c) è dalla difesa del territorio , contro ogni sopruso esercitato in nome dell'abuso della proprietà privata e della ragione di stato. Vale contro l'alta velocità in Val di Susa, contro le basi e le servitù militari, contro le centrali atomiche e le bombe atomiche. Vale per combattere ogni spinta all'uso della natura come merce; contro ogni riapparire dell'idea insensata della crescita illimitata.
d) è dalla riappropriazione pubblica e sociale del denaro e del controllo sulla sua emissione che si dipana la battaglia contro la devastazione della natura. Questo è un tema che la sinistra ha completamente ignorato ed è una delle prove della sua subalternità. La crescita indefinita è figlia carnale della possibilità illimitata di creazione del denaro. Un sistema economico e sociale alternativo al capitalismo finanziario non può non fondarsi sul controllo pubblico e democratico della emissione monetaria.
e) è la parola d'ordine di “più stato e meno mercato” come strumento indispensabile per gestire con traumi minori la decrescita inevitabile e drammatica che si annuncia.
f) è l'introdurre nelle legislazioni dell'idea che i diritti umani non sono altra cosa rispetto ai diritti della natura. Chi colpisce la natura colpisce la vita e il diritto all'esistenza di ogni essere vivente. Cioè commette un reato contro la natura e contro l'uomo.
g) è il rifiuto della guerra, di tutte le guerre. L'attuale architettura internazionale produce guerre. Dobbiamo modificarla. Il sistema di alleanze in cui ci troviamo è produttore di guerre: dobbiamo uscirne.
h) è un sistema democratico di comunicazione e informazione. E lo metto alla fine non perchè lo consideri meno importante degli altri, ma perchè tutti li riassume.
Tutte queste 8 stelle polari sono dentro la nostra attuale Costituzione, se non tutte nella lettera, sicuramente tutte nello spirito.
Da queste stelle polari discenderanno le misure concrete di cui ci faremo portatori. Ne elenco solo alcune, come corollari indispensabili:
o fermare la pratica antipopolare di coprire i deficit di bilancio tassando il lavoro, i redditi fissi, la piccola impresa, il piccolo commerci.

o tassare i grandi patrimoni effetto della speculazione finanziaria e di quella immobiliare.
o abolire tutte le forme di precariato.
o colpire l'evasione fiscale.
o eliminare le missioni militari all'estero e ridurre drasticamente le spese militari.
o colpire la corruzione e intensificare i sequestri alle mafie impedendo la messa all'asta di quelli effettuati.
o tassare la pubblicità e ridurne la quantità.
o finanziare con denaro pubblico la produzione comunicativa e informativa proveniente dalla società civile e dalle istituzioni rappresentative.
o abrogare la privatizzazione dell'acqua.
o cancellare la devolution e attuare rigorosamente la Costituzione nelle parti concernenti i poteri da assegnare alle Regioni. Unificando le leggi elettorali regionali in base ai risultati di una conferenza nazionale delle stesse regioni.
o riduzione drastica del numero dei parlamentari per ognuna delle Camere.
o ritorno al sistema proporzionale nelle elezioni a tutti i livelli.
È solo una illustrazione sintetica di un'agenda di lavoro che dovremo via via completare e precisare.

Quale organizzazione?
I gruppi regionali.
Tutto quanto detto sarà chiacchiera se non ci organizziamo per farlo. Poiché nulla si realizza da sé e ogni cosa richiederà passaggi organizzativi molto concreti.
Sono cose che si devono imparare, o re-imparare.
Per cui Alternativa sarà anche scuola di organizzazione.
Primo: muoversi secondo le forze di cui si dispone. Abbiamo una distribuzione territoriale molto diseguale. Prevalentemente centro-nord. Dovremo perciò dedicare una speciale cura alla ricerca di quadri per formare gruppi nel sud e nelle isole.
Ma intanto costituiamo i gruppi regionali.
Per ogni regione, o gruppi di regioni, bisognerà individuare un responsabile. E prevedere, entro l'estate una o più riunioni collettive di ogni gruppo o inter-gruppo. Dallo schema che è stato distribuito emergono i compiti. Le prime attribuzioni degli incarichi si faranno sulla base della disponibilità individuale. Aspetto auto-candidature, ma credo che ogni gruppo regionale (ogni cellula) dovrà individuare il proprio responsabile, e definire il suo programma.

Il proselitismo
coloro che hanno aderito alla centuria arcobaleno sono 130 circa . Ma basta guardare le cifre sul sito per rendersi conto che il nostro messaggio è arrivato fin'ora soltanto a circa 9000 persone, più o meno. Su questa base è evidente che noi possiamo facilmente moltiplicarci.
Ogni gruppo regionale deve fissare obiettivi e controllarne l'esecuzione. Per esempio raddoppiando i propri effettivi entro la fine di giugno.

Il gruppo centrale
Quando dico centro non intendo Roma. Ma di un gruppo “centrale” non si può fare a meno, nel senso che una direzione di funzioni centrali è indispensabile. Diciamo una segreteria. All'interno della quale dovrà esserci un responsabile dell'organizzazione cioè una persona cui i responsabili delle cellule regionali possano fare riferimento.
Un responsabile delle relazioni pubbliche. Diciamo un portavoce. Ce ne sarà bisogno perché dovremo organizzarci per intervenire e ottenere voce e visibilità. Alla quale io non potrò far fronte da solo per molti, ovvii, motivi, tra cui i numerosi impegni internazionali.
Un responsabile delle finanze (delle entrate di ogni genere), un tesoriere. Alternativa non potrà andare lontano senza prevedere delle entrate. Una forma di tesseramento è indispensabile. Quale forma dobbiamo discutere. Una assemblea come questa, anche a prescindere dal fatto che ognuno di voi è qui a sue spese, costa non poco. Più avanti non potremmo chiedere, a chi di voi assicurerà incarichi, di sobbarcarsi individualmente tutti i costi commessi. Dunque almeno alcune spese dovranno, per forza di cose, essere coperte dall'organizzazione.

I nostri strumenti
Abbiamo, direttamente o indirettamente, accesso a una piccola rete di comunicazione. Il sito giuliettochiesa.it, che in prospettiva dovrà trasformarsi in Alternativa; megachip.info che è, di fatto, e sarà, il nostro “organo di stampa”. PandoraTv che deve diventare (ancora non lo è) la nostra finestra sul web visivo. zerofilm.info che può diventare una fonte di finanziamento. E’ una piccola panoplia, che però è seguita all’incirca da tremila persone ogni giorno.
Due importanti strumenti di moltiplicazione delle nostre tematiche (non nostri, ma vicini) sono Cometa e Antimafia2000.
Occorrerà studiare e organizzare la moltiplicazione multimediale della nostra proiezione esterna. Abbiamo bisogno dunque di un responsabile della comunicazione di Alternativa che dovrà seguire, sviluppare e promuovere le sinergie e, in primo luogo, il rilancio di PandoraTv, ovviamente su basi nuove.
Ovviamente noi siamo una “associazione di fatto” per ora informale. Ma dovremo darci delle regole comuni e condivise.
Non credo che dobbiamo appesantirci troppo, ma un primo passo per definire queste regole mi pare necessario. Alternativa nasce da Giulietto Chiesa ma non deve fermarsi all'atto di nascita. Altri nomi devono emergere in fretta e darle forma e fisionomia. E questo, appunto, richiederà regole democratiche semplici e precise cui attenersi.
Parliamone, e poi al lavoro.