giovedì 22 aprile 2010

Un dio dispotico e la fragilità umana

IL VULCANO D'ISLANDA

di Francesco Cassano, dal manifesto del 21 aprile


Un dio dispotico e la fragilità umana

Ieri Il manifesto parlando della nuvola che si aggira minacciosa per l'Europa, come accadeva ad uno spettro di centocinquanta anni fa, titolava: «Apriti cielo». Diciamo subito che non c'è da preoccuparsi, il cielo si richiuderà, e tutti noi torneremo alle nostre abitudini. I giornali sussulteranno per altre notizie e l'annuncio dell'apocalisse prima passerà verso le pagine interne poi scomparirà. Riprenderanno i voli, ognuno di noi tornerà al suo stile di vita, ai suoi appuntamenti, ai suoi progetti. Eppure per alcuni giorni il vulcano islandese ci ha buttato in faccia la bruta verità, il fatto che viviamo su un piccolo pianeta periferico la cui formazione precede da millenni la formazione della vita e delle civiltà umane.
Ma questa verità sulla nostra reale condizione è, come si sa, insostenibile, come ci ha insegnato a suo tempo Giacomo Leopardi, che non a caso intitolò una delle sue Operette morali Dialogo della Natura e di un Islandese. In quel dialogo la Natura, rispondendo alle rimostranze dell'uomo, candidamente affermava: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?»
In effetti l'uomo ha cercato a lungo di rimuovere o di proteggersi da questa «verità». La prima forma di protezione l'ha trovata nelle religioni, che a lungo gli hanno rinviato l'immagine che egli fosse prediletto da Dio e da lui posto al centro dell'Universo, oggetto filiale della sua cura e del suo controllo. Poi quando, con l'avvento della modernità, questi grandi racconti hanno incominciato a perdere la loro presa, una nuova forma del tutto moderna di protezione è stata offerta dall'incessante sviluppo della tecnica. Ciò che prima discendeva dalla benevolenza di un dio, adesso dipende dall'orgoglio umano, dalle scoperte e dalle applicazioni che nascono dal progresso. Attraverso la forza che deriva dalla sua intelligenza, l'uomo è riuscito a subordinare la natura ai suoi bisogni, a farne un momento del suo metabolismo (Marx) oppure un fondo di risorse a sua disposizione (Heidegger).
In altre parole è riuscito a diventare il padrone assoluto di un pianeta sul quale egli in realtà è solo un ospite di passaggio, ha mutato la propria condizione originaria, rovesciando la sua condizione di figlio di straordinarie combinazioni di processi naturali in padrone indiscutibile di essi. Intendiamoci: nessuno vuole sminuire il valore straordinario della tecnica, la lunga fila di vantaggi che essa è riuscita ad assicurare all'uomo, l'enorme miglioramento delle condizioni di vita che gli ha assicurato. E nessuno può mettere in correlazione diretta l'eruzione del vulcano con gli sviluppi della tecnologia. Del resto, si sa, i vulcani, con le loro eruzioni, hanno seminato morti e disastri anche quando l'uomo non aveva ancora dissestato il ciclo naturale.
La catastrofe che viene dai cieli islandesi è cosa diversa da quegli avvelenamenti del mare che sono stati prodotti dalla rottura di una piattaforma petrolifera o dal rovesciamento del carico di una nave. E la diversità del messaggio che arriva da questa eruzione non va trascurata. Con i loro improvvisi sommovimenti, i vulcani, come anche molti terremoti, sembrano solo ripetere a voce altissima agli uomini: «Voi non siete i padroni, ricordatevi che la natura è straordinariamente più forte di voi. Non illudetevi con sogni di potenza, voi umani rimanete sempre e soltanto una piccola forma di vita fragile e presuntuosa» in un universo che ignora la vostra esistenza e probabilmente, come dice sempre Leopardi, tornerà a chiudersi dopo il vostro passaggio, quando «un silenzio nuovo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso».
Ma si dirà: che cosa c'entra tutto questo con la politica? C'entra eccome, e ci si consenta di affidarci anche in conclusione all'autore che abbiamo più volte citato. Ogni vulcano è un dio dispotico e capriccioso, che ci rinvia, proprio come il Vesuvio di Leopardi, l'immagine di una natura matrigna e della nostra fragilità. Ma questa contrapposizione tra la nostra condizione e una natura che è indifferente ad essa, ci indica anche una prospettiva. L'unica risposta seria alla scoperta della nostra fragilità sarebbe quella di federarsi in «social catena», superando le divisioni e le contrapposizioni che hanno attraversato ed attraversano la storia. Il genere umano dovrebbe ritrovare, sotto la spinta di questa minaccia, la percezione del proprio bene comune, il comunismo necessario.
Ma non temano gli avversari del comunismo: tutto sta tornando alla normalità, ognuno di noi potrà abbandonare le riflessioni scomode e tornare al proprio progetto privato, prenotare voli, accorciare le distanze, riempire le agende, consumare in mille modi il pianeta, adagiarsi sulla confortante convinzione che la natura è sempre sotto il nostro controllo. Potremo tutti voltare la testa dall'altra parte, lasciare all'Islanda i suoi vulcani, rimuovendo disinvoltamente la circostanza che tutti stiamo edificando le nostre case proprio sulle falde di uno di essi.

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