giovedì 29 dicembre 2011

La crisi dell'Euro vista da George Soros



George Soros per "la Repubblica"

La difficilissima situazione economica in cui si è trovato il mondo ricco nel 2011 è dovuta in gran parte alle politiche adottate (o trascurate) dai leader mondiali. L´unanimità degli inizi è scomparsa; ora impazzano faide burocratiche e visioni errate. In più, le linee di faglia politiche coincidono spesso con le frontiere nazionali: il portabandiera del rigorismo è la Germania, mentre i Paesi anglosassoni restano inclini a politiche keynesiane.


I dubbi sulla sostenibilità dei debiti sovrani degli Stati europei coinvolgono l´euro al punto che ci si chiede apertamente se la moneta unica sopravviverà. Ma l´euro è una moneta incompleta fin dal principio. Il trattato di Maastricht istituì un´unione monetaria senza un´unione politica, una Banca centrale comune senza un Tesoro comune. L´euro fu costruito sul presupposto che i mercati siano in grado di correggere da soli i propri eccessi, e che gli squilibri nascano dal settore pubblico. Invece alcuni degli squilibri più importanti sono nati nel settore privato, e l´introduzione dell´euro ne è indirettamente responsabile.
euro troba dollaroeuro troba dollaro

In particolare, i titoli di Stato di tutti i Paesi dell´Eurozona erano giudicati sicuri: le riserve di liquidità che le banche dovevano conservare a fronte dei titoli di Stato dei Paesi membri in loro possesso erano limitatissime, e la Banca centrale europea (Bce) accettava questi titoli alla pari, attraverso il suo sportello di sconto. I Paesi membri potevano ottenere soldi in prestito quasi allo stesso tasso di interesse della Germania, e le banche erano ben felici di guadagnare qualche soldarello in più imbottendosi di buoni del Tesoro emessi dalle economie più deboli dell´Eurozona.


Invece della convergenza prescritta dal trattato di Maastricht, la radicale riduzione dei differenziali fra i tassi d´interesse ha generato divergenze nell´andamento dell´economia. Paesi come Spagna, Grecia e Irlanda hanno visto esplodere bolle immobiliari, aumentare la crescita, e hanno sviluppato disavanzi commerciali con il resto di Eurolandia, mentre la Germania, zavorrata dai costi della riunificazione, teneva a freno il costo del lavoro, diventava più competitiva e sviluppava un´eccedenza commerciale cronica.


La convergenza dei tassi di interesse è andata in pezzi quando la Grecia rivelò il vero deficit accumulato. Le autorità europee furono lente a reagire. La Germania, traumatizzata dall´iperinflazione degli anni ‘20 e dalle sue terrificanti conseguenze politiche, era contraria a ogni salvataggio. La crisi si è incancrenita e i costi del salvataggio sono cresciuti. Il fatto di non poter stampare moneta ha relegato i membri dell´Eurozona allo status di Paesi scarsamente sviluppati, costretti a indebitarsi in valuta estera.


I premi di rischio sono cresciuti. Le autorità, non vedendo soluzioni, hanno menato il can per l´aia. Le misure della Bce sono servite ad alleviare i problemi di liquidità delle banche, ma nulla è stato fatto per ridurre gli spread troppo alti. Un default greco potrebbe provocare un collasso del sistema finanziario globale.

Il vertice di Bruxelles ha sventato un simile scenario per il 2012, ma ha gettato i semi di conflitti futuri, con l´ipotesi di un´Europa «a due velocità» e una falsa dottrina economica, che impone austerità e minaccia di precipitare l´Eurozona in una deflazione da indebitamento da cui sarebbe tutt´altro che facile uscire.


L´autore è un finanziere internazionale
Traduzione di Fabio Galimberti

Nuovi accordi monetari fra Cina e Giappone



Francesco Sisci per "Il Sole 24 Ore"


Come in tutte le occasioni importanti non conta tanto chi c'è ma chi manca. Così ieri tra le migliaia di nordcoreani piangenti che sfilavano per l'ultimo saluto davanti alla salma del "Caro leader" Kim Jong-il e una manciata di ospiti stranieri, spiccava l'assenza di grandi dignitari di tutti i Paesi vicini, preoccupati per il futuro di Pyongyang. C'era un alto dirigente cinese, il vice premier Zhang Dejiang, che parla coreano, ma non gli altissimi leader che invece qualche ora prima, nei giorni di Natale e Santo Stefano, a Pechino avevano siglato un importante accordo monetario.

I due Paesi, mettendo da parte le cocenti controversie sul confine marittimo delle isole Senkaku e i giacimenti di gas, hanno concluso un'intesa di scambio diretto yuan cinese contro yen giapponese. Lo yuan non è pienamente convertibile e in precedenza gli scambi avvenivano attraverso un passaggio per dollari americani. Inoltre i due Paesi si sono accordati per lasciare apprezzare le rispettive valute contro il dollaro e l'euro. Infine il Giappone si è dichiarato disposto ad acquistare debito cinese, anche se Pechino non ne ha bisogno.


Tutti questi elementi sono molto importanti nel breve e nel lungo periodo. Nel breve un apprezzamento delle monete della seconda e terza economia del mondo significano uno sforzo dei due Paesi ad aiutare l'America e l'Europa oggi più in difficoltà. Le esportazioni cinesi e giapponesi dovrebbero avere più difficoltà e quelle americane ed europee essere facilitate. Ciò in concreto dovrebbe essere un danno sostenibile per le esportazioni dei due Paesi, ma dovrebbe invece aiutare le importazioni di prodotti stranieri. Più a lungo termine l'accordo rafforza il ruolo internazionale dello yuan ed è un passo molto importante per il libero scambio della moneta cinese.


La Cina ha già accordi di scambio valutario con una dozzina di Paesi, ma il Giappone è il suo secondo partner commerciale e quindi l'impatto globale di questo accordo è molto più importante. Manca a questo punto solo un'intesa di scambio con l'area euro per affermare il nuovo pieno spazio globale dello yuan. Questo significa certo un passo indietro globale per il dollaro, ma ciò avviene con la rivalutazione dello yuan, cosa su cui Washington premeva, e poi senza sganciare lo yuan dalla banda di oscillazione bilaterale.


C'è comunque un risvolto politico. L'accordo lega molto i destini dei due Paesi e quindi limita le tensioni che si erano accumulate negli ultimi mesi, come conferma il rinvio del vertice bilaterale previsto inizialmente per il 12-13 dicembre. La morte di Kim Jong-il invece sembra sia stato un catalizzatore dei rapporti. Per motivi paralleli Cina e Giappone sono entrambi preoccupati che un nuovo disordine possa emergere nella regione dopo la scomparsa di Kim, risucchiandola in un buco nero di tensione. Ma sono anche preoccupati dalla prospettiva di una Corea riunificata, molto nazionalista e con contese politiche e territoriali verso Cina e Giappone, che ospitano significative minoranze coreane.


L'accordo economico diventa così una piattaforma per una convergenza politica. Un riavvicinamento delle due diplomazie significa trovare nel concreto un modo di seguire e auspicabilmente anche pilotare le pericolose evoluzioni della penisola. Se ciò avvenisse intorno alle prospettive future della Corea del Nord, potrebbe costruirsi un nuovo ordine regionale e la Cina potrebbe trovare nel Giappone, allineato con l'America (che qui ha ottenuto nell'ultimo decennio successi significativi) un partner importante. Viceversa, nelle prossime settimane dovremmo aspettarci un'impennata di tensioni politiche ed economiche su scala globale.

Contro l'abolizione dei treni notte




INDIGNIAMOCI!



Egregi ministri e amministratore delegato,

sono indignata nell'assistere nel 150 ° anno dell'Unità nazionale alla divisione "ferroviaria" dell'Italia creata con l'eliminazione dei collegamenti ferroviari notturni diretti Nord/Sud/Nord, per colpa dei tagli dei treni notturni e del ridimensionamento dei servizi cuccette sui convogli.

Tutto ciò si traduce nella divisione dell'Italia in due, nel l'eliminazione di un servizio universale e nella perdita del lavoro per 800 lavoratori.

Non è mica possibile per tutti prendere gli aerei, come ha affermato l'amministratore delegato nè far attraversare l'Italia, lunga, stretta e montagnosa dall'alta velocità, tralasciando tutti gli aspetti di sostenibilità ambientale.

Chiediamo di ripristinare i collegamenti notturni diretti da/per il Sud per ricollegare l'Italia, assicurare a tutti la possibilità di muoversi liberamente a costi accessibili e sostenibili e salvaguardare il lavoro agli 800 lavoratori che dall'11 dicembre lottano per il posto di lavoro.

Silvia Imperiale

SCRIVETE!

segreteria.passera@mit.gov.it>,
,

SE SOLO LO SI CAPISSE, SAREBBE UN OTTIMO 2012

Nessun futuro per questo modello economico

di Maurizio Pallante, da Il Fatto Quotidiano

Ridurre gli sprechi, coibentare degli edifici per ridurne le dispersioni termiche e l’installazione di impianti energetici a fonti rinnovabili fanno crescere il Pil inizialmente, ma in seguito i risparmi lo fanno decrescere. La decrescita selettiva del Pil, riduce gli sprechi e l’impronta ecologica, migliora il benessere e la qualità della vita, crea occupazione utile. Solo la decrescita selettiva del Pil può risolvere sia la crisi economica che quella ambientale, senza far crescere il debito pubblico né deprimere le attività produttive.

Se si ragionasse in termini qualitativi anziché quantitativi, si capirebbe che il bisogno insoddisfatto nel settore dell’edilizia, ad esempio, è la riduzione delle dispersioni energetiche degli edifici esistenti: mediamente in Italia per il riscaldamento si consuma il triplo delle peggiori case tedesche. Di quanto lavoro ci sarebbe bisogno per ristrutturare energeticamente il nostro patrimonio edilizio e soddisfare con fonti rinnovabili il fabbisogno residuo? La riduzione del Pil che ne deriverebbe offrirebbe i vantaggi economici, occupazionali e ambientali non altrimenti ottenibili.

Per potersi salvare occorre sganciarsi dal sistema economico e produttivo fondato sulla crescita della produzione di merci, organizzando reti di economia, di produzione e di socialità alternative, in grado di funzionare autonomamente e di rispondere ai bisogni fondamentali della vita con le risorse dei territori.

Si annuncia un periodo di transizione inevitabilmente drammatico. Sui patrimoni dei saperi e del saper fare accumulati e implementati nel corso delle generazioni, sulla capacità di trasformare con rispetto, efficienza e intelligenza le risorse della natura, sulla capacità di costruire rapporti improntati al rispetto reciproco, è possibile riavviare una nuova fase della storia umana.

Perché la portata della crisi in atto è storica e non congiunturale. È la crisi di un modello economico che non ha più futuro, che non può essere riorganizzato e migliorato, ma deve essere sostituito.

martedì 27 dicembre 2011

Il governo di Banca Intesa




Il Governo Monti è come una cipolla. Lo strato esterno, quello più visibile, è la BCE. Governo della UE quindi. Ricordate? Soltanto un mese fa l’Italia rischiava di far implodere l’Europa, gli Stati Uniti, la Cina, il mondo intero, se lo spread avesse superato i 500 punti con il bund e gli interessi sui titoli di Stato il 7%. Cose che sono puntualmente successe anche con Monti, il bocconiano, l’uomo del Colle, ma senza conseguenze a parte le tasse. Governo dei bocconiani quindi. Il terzo strato sono le banche, italiane e straniere, che rischiavano di veder diventare carta straccia le decine di miliardi di euro di titoli italiani acquistati. Governo delle banche allora, in particolare quelle francesi, dopate di Btp. Il quarto strato della cipolla è Banca Intesa, la più grande del Paese. Governo di Banca Intesa infine, con due esponenti di primissimo piano come Passera e la Fornero. Entrambi con un curriculum di tutto rispetto a favore dei lavoratori. Si è passati dal governo delle televisioni private di Mediaset a quello di Banca Intesa. Nulla è cambiato, tranne i beneficiari diretti.
Beppe Scienza ci spiega nel suo Passaparola chi sono Passera e la Fornero (detta Frignero).


(dal blog di Beppe Grillo)


Intervento di Beppe Scienza, matematico ed economista,



Sono Beppe Scienza, insegno al dipartimento di matematica dell’Università di Torino e da un po’ di anni, anzi un po’ di decenni mi occupo di risparmio e di previdenza integrativa.

Questo governo, presentato un po’ come il governo dei bocconiani sui quali ce ne sarebbe da dire parecchie perché in realtà proprio sul tema del risparmio e della previdenza integrativai bocconiani tengono bordone ai peggiori prodotti e ai peggiori soggetti nel settore, in effetti più che un governo di bocconiani, ha l’aspetto di in essere un governo di banchieri e addirittura, visti due soggetti come Corrado Passera e Elsa Fornero, di Banca Intesa. Mi domando se le riunioni vengono fatte a Palazzo Chigi o direttamente alla sede milanese di Banca Intesa San Paolo, ma questo è un fatto normale, le riunioni si possono fare da qualunque parte, è la politica che preoccupa veramente e preoccupa per il futuro, perché questi soggetti Corrado Passera e Elsa Fornero, hanno un passato che promette male e già hanno preso alcune decisioni, mi limito a trattare gli argomenti del risparmio e della previdenza integrativa, che non sembrano proprio nell’ottica dei cittadini. Su Corrado Passera mi viene da dire qualcosa, non tanto sulla vicenda di Alitalia dove ha tenuto sicuramente le parti del Governo Berlusconi, ma fare un piccolo passo indietro, lui fu messo a capo delle Poste nel 1998, ci rimase fino al 2002, sicuramente sanò il bilancio delle Poste, questo è vero, Passera non era uno stupido, lo assicuro, però come lo sanò? Creando Banco Posta. Gli uffici postali… se uno entra vede più sportelli finanziari che sportelli per i prodotti postali, anzi finisce che chi vuole fare una raccomandata o inviare un pacco si trova un po’ come un pesce fuor d’acqua. Banco Posta ha trasformato le Poste in un bazar di prodotti finanziari, in genere pessimi o comunque cattivi, sicuramente mediocri, soppiantando in gran parte i buoni fruttiferi postali e aumentando certamente i ricavi delle Poste, ma giocando sulla fiducia che la gente aveva nelle Poste perché abituata ai buoni fruttiferi postali con cui non poteva perdere niente. Tutt’ora non può perdere nulla, perché saranno una cosa un po’ polverosa, poco entusiasmante, però i buoni fruttiferi postali continuano a essere l’unico prodotto insieme ai conti correnti e ai depositi bancari, dove uno non ci rimette mai quello che ha messo e può ritirarlo in qualunque giorno.
Invece sono stati soppiantati. Di tutto e di peggio cioè obbligazioni strutturate, fondi pensione, fondi comuni, polizze vita, tutto questo vendono adesso le Poste, grazie all’opera di Corrado Passera e alla sua creazione di Banco Posta per cui già questo passato non è bello. Nel 2002 Passera lascia le Poste e va a Intesa San Paolo. Intesa San Paolo, prima banca italiana per numero di sportelli, forse non peggio delle altre, ma certamente specializzata nel rifilare ai propri clienti prodotti di risparmio e previdenziali studiati per far guadagnare la banca, non certo il cliente, tra cui alcune cose tremende, come delle polizze vita che intrappolano uno per un anno. Uno ha dei soldi disponibili, sottoscrive la polizza vita e per un anno i soldi sono bloccati, bello, carino questo, sono prodotti di Intesa San Paolo e anche di altre banche.
Quindi da dove viene Passera? La cosa crea qualche perplessità e prospettiva che viene confermata da una delle prime cose, sbandierata come una norma antievasione della lotta al contante. Qual è la lotta al contante? È un vecchio cavallo di battaglia delle banche italiane, da un po’ di anni, 7/8 anni, che continuano a dire che in Italia circolano troppi contanti, bisogna pagare con moneta elettronica o simile. Tutte queste cose vengono ripetute dai giornalisti economici che come i pappagalli, qualunque idiozia dica l’ufficio stampa di una banca, lo ripetono nella loro pagina.
Per cominciare, questo non è vero perché anche all’estero, per esempio in Germania, l’uso del contante è molto alto. Da uno studio recente dell’anno scorso della Deutsche Bundesbank, della banca centrale tedesca, risulta che i tedeschi, l’82% degli acquisti fatti dai tedeschi, viene fatto con moneta contante. La banca nazionale tedesca non trova niente di male in questo, anzi lo trova logico, dice “E’ logico che per piccoli importi, per varie cose ci voglia il contante, lo trova logico, no qui no!”. Siamo arrivati al punto che questo Governo ha deciso, poi adesso si sta rimangiando in parte, che le pensioni oltre i 500 Euro vanno pagate non in contanti, ma in forma di accredito su conto corrente. Pensare che il pensionato che ha 700 Euro di pensione e ritira alle Poste 730 Euro con questi soldi ricicli denaro sporco è un po’ strana.
Perché questa lotta ai contanti? Ma perché le banche ci guadagnano in tutti i pagamenti elettronici, ci guadagnano in due sensi: 1) quello più immediato, le commissioni che prendono, le commissioni anche sul Bancomat, le commissioni sulle Carte di Credito che arrivano anche al 4% e di fatti la Confcommercio è contraria a questo divieto di pagare in contanti, perché ogni volta che il commerciante incassa con la carta di credito o in altra maniera, una parte viene lasciata lì alle banche. Poi c’è un altro punto: che alla banca fa gioco che restino soldi sui conti correnti e non nei portafogli in banconote, perché così ha un finanziamento che non paga nulla, perché sui vostri conti correnti non dà nulla di interesse e le banche hanno fame di soldi in questo momento di crisi, e difficoltà a averli perché tra l’altro non si fidano a prestare i soldi l’una all’altra.


La Fornero vuol dire fiducia nei fondi pensione


Il punto è che quando io pago in contanti in un negozio, in questo pagamento la banca non ci guadagna nulla, prendo le banconote, le do al commerciante, ritiro la merce. La banca vuole guadagnarci anche su questo! Ora prendiamo un altro soggetto di questo governo, Elsa Fornero, la quale adesso a quanto pare oltre che ministra, vuole anche dedicarsi a altre attività, fare l’attrice, specializzata in scene di pianto recitate anche un po’ male!
Elsa Fornero viene anche lei da Banca Intesa dove era nel Consiglio di sorveglianza, prima era stata nella Compagnia San Paolo, fondazione bancaria e un suo prodotto è il Cerp , centro di ricerca sulle pensioni, vicino a Torino, finanziato anche esso dalla Compagnia di San Paolo. Per adesso la Fornero si occupa di massacrare un po’ le pensioni e i pensionati, quello che mi aspetto, purtroppo, è un attacco pesante al Tfr e un aiuto all’industria parassitaria della previdenza integrativa, perché anche qui abbiamo dei precedenti, i precedenti sono vari articoli di costei e in particolare la posizione che assunse nello sciagurato semestre del 2007 in cui se uno stava zitto, il suo Tfr finiva nei fondi pensione. Ebbene, in un’intervista radiofonica Elsa Fornero il 19 gennaio 2007, si esibisce in questa affermazione riguardo ai fondi pensione e al dare i propri Tfr ai gestori: “La cosa importante è che noi abbiamo un buon mercato che funziona bene, che ha operatori professionali, che ha una buona legge sul risparmio, ha trasparenza, ha anche professionalità e correttezza” dopo tutto quello che è capitato in Italia, Argentina, Sirio, Parmalat, fondi comuni che fanno perdere soldi dal 1984 da quando esistono, abbiamo un buon mercato che funziona bene, che ha professionalità e correttezza, ma non è finita! Perché poi riguardo alle perplessità di qualche ascoltatore sul fatto che magari mettere il Tfr nei fondi pensione poteva anche essere rischioso, la grande economista si esibisce in un’invocazione accorata che è anche una profonda analisi della situazione, la sua affermazione è “Ci vuole anche un po’ di fiducia” siamo a livello del noto slogan di Carosello degli anni 60 “Galbani vuole dire fiducia”!
Da questi ministri provenienti da Banca Intesa, io mi aspetto purtroppo il peggio per i risparmiatori e per quanto riguarda il Tfr per i lavoratori italiani! Da una persona come Elsa Fornero mi aspetto interventi a danno del Tfr e a favore di quella strana alleanza spuria che è fatta da sindacati, associazioni di categoria padronali, banche, assicuratori e gestori che tutti in un modo o nell’altro, succhiando soldi ai lavoratori, guadagnano sulla previdenza integrativa, costringendo i lavoratori stessi a giocarsi il proprio Tfr alla roulette dei mercati finanziari!
Albert Einstein, nel maggio 1949: «Il capitale privato tende a concentrarsi nelle mani di pochi, in parte a causa della competizione tra capitalisti e in parte perché lo sviluppo tecnologico e la divisione crescente del lavoro incoraggiano la formazione di unità di produzione più grandi a scapito di quelle più piccole. Il risultato di questi sviluppi è un'oligarchia di capitale privato, il cui potere esorbitante non può effettivamente essere controllato neanche da una società il cui sistema politico è democratico»

lunedì 26 dicembre 2011

La lucidità di Valentino Parlato


Natale nero,salari da paura

di Valentino Parlato, dal Manifesto
24.12.2011

Le analisi sullo stato reale del nostro Paese ci dicono che la «salvezza» si allontana. Siamo in recessione e ci resteremo ancora, mentre il potere d'acquisto dei salari continua a scendere.

Camera e Senato hanno approvato la manovra «salva Italia», ma le analisi sullo stato reale del nostro Paese ci dicono che la «salvezza» si allontana. Siamo in recessione e ci resteremo ancora. Gli ultimi dati dell'Istat mostrano come a un incremento delle retribuzioni (su base annua) dell'1,5% (la crescita tendenziale più bassa dal 1910) ha corrisposto un aumento dell'inflazione pari al 3,3%. Questi dati ci dicono che c'è una riduzione del potere d'acquisto dei salari e quindi che siamo di fronte a un calo dei consumi e della domanda complessiva. I lavoratori salariati sono più poveri, ma anche le imprese di produzione e di commercio subiranno un calo nelle vendite dei loro prodotti. L'Istat ci dice che siamo al divario salari-prezzi più alto dal 1977. Salari così mettono paura per l'avvenire.
In corrispondenza a questo calo del potere d'acquisto dei salari, sempre secondo l'Istat, l'indice della fiducia dei consumatori scende da 96,1 a 91,6, il livello più basso dal 1996. In sostanza siamo a un aggravarsi della recessione e a un peggioramento delle prospettive per i lavoratori in primis e anche per le imprese. Il calo della domanda blocca tutto il sistema. In queste condizioni sembra evidente che l'impegno a saldare il debito pubblico è destinato a fallire e, per di più, aggraverà la recessione e la crisi del paese.
La necessità di una svolta è evidente. Se continuiamo così andremo sempre al peggio per tutti e soprattutto per i lavoratori salariati. È questa realtà che richiede una svolta radicale. Per sanare il debito sovrano non possiamo crepare. Ci vuole una svolta che questo governo, se non vuole la rovina, dovrebbe affrontare: sarebbe la vera manovra «salva Italia». Proprio perché siamo in questa situazione l'attuale governo dovrebbe sforzarsi di ricordare che Roosevelt affrontò la tremenda crisi del '29 con il new deal.
La gravità della crisi chiede una risposta forte. Questo va detto all'attuale governo, ma anche alle forze di sinistra. Al Pd innanzitutto, che dovrebbe capire che un peggioramento della situazione, nel silenzio della sinistra, avrebbe anche conseguenze elettorali pesanti. Il populismo di destra crescerebbe, come così tante volte si è verificato nel passato.
La sinistra che c'è ancora (forse) si deve dare una mossa. Deve chiedere e ottenere una manovra che promuova un aumento dei salari e, quindi, della domanda e che definisca e imponga un piano di investimenti produttivi. Altrimenti, se tutto resta così, solo il peggio è di fronte a noi.

Next stop: Iran.



Quando Al Qaeda è nostra alleata.

di Giulietto Chiesa, da Il Fatto Quotidiano


Se scoppiava una bomba terrorista in una capitale occidentale era sicuramente Al Qaeda. Se la rivendicava Al Qaeda ci credevamo subito. Se non la rivendicava nessuno, allora era sicuramente Al Qaeda, perché non poteva essere altrimenti. Era come in “1984” di Orwell: qualunque cosa di gramo accadesse era colpa del nemico. E, poiché il nemico era Al Qaeda, non potevano esserci dubbi. E cominciava la geremiade di turno: come sono cattivi gli islamici, come sono feroci, come sono fanatici. Eccetera.

Poi succede – sempre più spesso dopo la guerra di Libia - che Al Qaeda si mette contro i dittatori che devono essere abbattuti in nome della democrazia e dei diritti umani violati. Infatti, qualcuno se lo è dimenticato, ma Al Qaeda è nata appunto per difendere gli afghani contro gli invasori sovietici. Dunque prosegue , dopo la nera parentesi dell’11 settembre 2001, il ruolo umanitario di Al Qaeda.

Così Al Qaeda è dentro il Governo provvisorio di Libia, in attesa di guidare la nuova Libia democratica. E dunque i suoi rappresentanti girano in Europa a stringere mani e a firmare contratti petroliferi, con i quali s’impegnano a risarcire i paesi occidentali che svolgono e svolgeranno opera di aiuto umanitario ai nuovi poveri libici.

Infine scoppiano bombe terroristiche a Damasco di Siria e fanno decine di morti. “Sono i kamikaze di Al Qaeda”, gridano le fonti ufficiali di Assad. Ma Assad è un dittatore che deve essere abbattuto. Dunque i nostri bravi inviati speciali a Gerusalemme si trasformano per un attimo in complottisti di complemento. E sollevano dei dubbi (sì, anche i nostri bravi inviati speciali qualche volta si fanno venire dei dubbi, per quanto strano possa apparire). In questo caso – dicono – non è probabile che sia Al Qaeda. Più probabile si tratti di un complotto ordito da Assad.

Ovvio il perché: per fare la vittima, facendo credere che c’è la mano di Al Qaeda. Non bisogna dunque credergli.

Insomma: una grande confusione regna sotto il cielo. Al Qaeda, come nemico, non vale più un granché. E’ giunto il momento di costruirne un altro. Suggerisco l’Iran, anche se il mio suggerimento arriva tardi. Già ci hanno pensato.

Flores D'Arcais, Scalfari e Natalia Aspesi per Giorgio Bocca




Per me Giorgio Bocca era il giornalismo

di Paolo Flores D'Arcais, da Il Fatto Quotidiano


Giorgio Bocca è stato il più grande giornalista italiano del suo tempo. Ne ero già convinto quando lo conobbi la prima volta nel 1976, avevo consegnato il mio primo articolo per l’Espresso al direttore Livio Zanetti, che mi chiese se ero libero per cena, che lui si vedeva con Giorgio Bocca e potevo andare anche io. E’ uno dei ricordi emozionanti della mia vita (per questo forse non ho dimenticato il nome del ristorante, “Il Foghèr”, non lontano dalla storica redazione di via Po), perché per me Bocca era IL giornalismo.

Col passare degli anni e dei decenni ho continuato a pensarla così: il più grande giornalista dell’Italia del dopoguerra. Odiato da tanti, tantissimi, che ora magari millanteranno forme di affetto “ruvide” e scriveranno finti elogi, facendo passare per faziosità simile alla loro l’impegno civile di Giorgio, la sua passione per le modeste “verità di fatto”. E invece no. Bocca è stato partigiano, prima in montagna e poi sulla macchina da scrivere, come è stato nella Resistenza Albert Camus, editorialista a “Combat”: dalla parte della giustizia e della libertà, come endiadi inseparabile, e dunque anche delle “verità di fatto”, che sono trama e ordito del giornalismo degno di questo nome.

Bocca aveva i suoi difetti, che ammetteva e perfino esagerava (ad esempio la venalità, su cui ironizzava, benché avesse generosità sconosciute a molti altri, meno scrittori di lui, pronti a invocare l’avidità del proprio “agente”). Gli dobbiamo la lucidità nella cronaca, la fulminante precisione delle domande in interviste che hanno fatto epoca, e la capacità di dissenso contro quasi tutti i conformismi che hanno avvelenato il Paese. Nel giornalismo dovrebbe essere la normalità, è stato invece un caso eccezionale.

Per denigrarlo si è arrivati a dire: “prima fascista poi antifascista”, come se un giovane cresciuto nel fascismo, e che poco più che ventenne rompe con l’unica ideologia che impregna l’orizzonte, e sceglie la montagna e il rischio della vita dalla parte della libertà, sia testimonianza di ambiguità anziché di radicalità e coerenza nelle supreme decisioni morali. La verità è che Giorgio Bocca è sempre stato detestato dai più, quelli che hanno accesso ai media, intendiamo, quelli corrivi con l’establishment, la gente di potere e d’ipocrisia che sempre più saldamente sta soffocando l’Italia. Le anime vili, le anime della “morta gora”, che si vanno moltiplicando tra tanti suoi “colleghi” che invecchiano malamente, e che ora gli concederanno qualche riconoscimento “peloso” solo perché la sua voce che non si piega e la sua critica senza compromessi non potranno risuonare più.

Dieci, cento, mille Giorgio Bocca, e il giornalismo sarebbe giornalismo, e l’Italia sarebbe un Paese finalmente civile di giustizia e libertà. Sarebbe un’altra Italia, quella che il suo comandante Duccio Galimberti e i suoi compagni della “Repubblica partigiana” speravano di contribuire a far nascere, anche a costo della vita. Speranze che i padroni del denaro, della disinformazione e della fede hanno calpestato e calpestano, instancabilmente.

Ad alcuni – comunque troppo pochi – Giorgio Bocca mancherà davvero.


L'ultimo incontro di Eugenio Scalfari. per La Repubblica


È stata l´ultima volta che l´ho visto, era il 6 dicembre scorso, le 11 del mattino e lui stava seduto alla sua scrivania, pallidissimo, il volto scavato con le ossa della fronte, degli zigomi e delle mascelle coperte dalla pelle e gli occhi fissi davanti a sé che guardavano il vuoto.


Gli chiesi se avesse dolore in qualche parte del corpo, rispose «No, nessun dolore». «Questo è un buon segno - gli dissi mentendo - ma come ti senti?», mi guardava senza alcuna espressione, poi la bocca accennò un sorriso. La risposta fu «non ci sono». La moglie Silvia si era seduta accanto a lui, gli carezzò lievemente la guancia e quasi per cambiar discorso disse: «Per pranzo gli ho preparato la luganiga, gli piacciono quelle salsicce cotte nel vino». «Ma le può mangiare?», «Le assaggia».


Gli domandai se leggeva i giornali. Rispose: «Non c´è niente da leggere». Insistei: «La politica ti interessa sempre?». Rispose: «Non c´è politica».

Poi fu lui a chiedermi: «Tu come fai a scrivere ancora?». Risposi che il mestiere, se lo hai imparato fin da ragazzo, è lui che ti porta sulle spalle e tu vai avanti senza fatica. Lui commentò «per me il mestiere non c´è più, se n´è andato prima di me ma l´attesa ormai sarà breve». Poi si voltò verso Silvia e lei mi disse che era stanco. Mi alzai, andai verso di lui e ci baciammo. «Tornerò presto». «Non mi troverai, non venire, sarebbe inutile».


Sono uscito con una grande tristezza in cuore. Ora l´amica del destino è arrivata all´appuntamento e ha portato via la sua spoglia ma l´anima se n´era già andata e lui me l´aveva detto: non ci sono più. Per quanto mi riguarda continuerà a vivere finché vivrò. La memoria serve anche a questo: tiene vive le persone che ci sono state compagne di vita, di pensiero, di progetti e con le quali abbiamo discusso, litigato, gioito, sperato.


Giorgio è stato un grande giornalista, un grande cronista e un grande scrittore. Non era un letterato ma uno scrittore sì, dei vezzi letterari non aveva bisogno, era la fantasia a muovergli la mano e la penna. Vedeva i fatti, i luoghi, i personaggi e li raccontava, ma la fantasia li associava ad altri personaggi, ad altri luoghi e ad altri fatti.

Passava da un tempo ad un altro e da un luogo ad un altro luogo senza separarli neppure con un "a capo", neppure con un punto, al massimo una virgola. La fantasia fa di questi miracoli e lui, sotto la maschera del contadino e del provinciale, sentiva e raccontava l´avventura delle persone, poi all´improvviso alzava gli occhi verso il cielo e descriveva le stelle come intermezzo e poi tornava a raccontare la storia d´un bandito o d´un corruttore, d´un mondo dove i leoni avevano lasciato il posto alle volpi e alle faine.


Io gli ho voluto molto bene. Lui non so, era burbero nei modi e anche chiuso in sé quanto io ero aperto. «Tu vuoi sedurre la gente - mi diceva - e capisco che questo è il tuo mestiere». Un giorno mi disse che ero un cinico. Un altro giorno che la mia presenza gli dava sicurezza. Era insicuro e timido, Giorgio Bocca, ma puro come il diamante. A vederlo da fuori tutto avresti pensato fuorché fosse impastato di fantasia, che avesse un mondo fantastico dentro di sé e invece era proprio così e basta leggere le prime pagine del "Provinciale" - forse il più bello dei suoi libri - per capirlo.


Tra le mille inchieste, interviste, cronache di guerra e di dolorosa pace, ricordi di vita partigiana che Giorgio ha pubblicato in libri e giornali, dall´Europeo al Giorno, e poi su Repubblica, è difficile scegliere.

Da noi venne fin dal primo giorno della fondazione e c´è rimasto fino a ieri, è durato 36 anni questo sodalizio. È incredibile la sua scrittura. Per la professione che faccio ho letto migliaia di articoli e le firme di chi vi scriveva sono state tra le più pregiate. I confronti sarebbero impropri, ognuno aveva la sua cifra, il suo stile, ognuno la sua visione della vita e del Paese. Ma quello di Bocca è stato unico. Pensava, vedeva, raccontava, si indignava, si innamorava dei personaggi, li faceva rivivere e vivere sulla pagina.


Tra i tanti luoghi che ha visto il Sud è stato una passione. Aveva in testa racconti di banditi, liturgie di iniziazione alla mafia e alle "´ndrine", violenze, soprusi, corruzione, ma anche gli antichi insediamenti della Magna Grecia, Sibari, Crotone, Agrigento, Locri e Ulisse, il mare azzurro di Scilla e Cariddi, le coste ioniche, Pitagora, il ratto di Proserpina, gli aranceti, le spiagge a perdita d´occhio. E il cielo. Un cielo blu da Croce del Sud che invece era quello dell´Orsa Maggiore e delle costellazioni di questa parte del pianeta, le Pleiadi, Orione, Andromeda.

Quel cielo blu sopra di lui gli ispirava il ricordo di Omero e di Odisseo che naviga tra l´isola di Circe e quella di Calipso. Ma poi lasciava all´improvviso quel mondo di fantasia, s´arrampicava per i sentieri dell´Aspromonte e raccontava i mafiosi, le donne matriarcali, i pastori, la cosca di Mommo Piromalli e infine i bronzi di Riace, apollinei nelle loro posture guerriere.


Ho riletto, proprio dopo il nostro ultimo incontro di Milano, alcune delle sue inchieste tra le quali quelle che intitolammo "Aspra Calabria", scritta oltre vent´anni fa. L´inizio è sbalorditivo. È in Calabria e deve raccontare per i nostri lettori che cosa è l´Aspromonte, i suoi borghi arrampicati, le tane dove sono imprigionati per mesi e anni i rapiti. E invece comincia così: «Nel 1968 a Saigon, Vietnam, alloggiavo all´hotel Metropole, in una stanza liberty color avorio, solo il geco incollato sul muro mi ricordava che ero nel lontano sudest asiatico. Nella sala da pranzo camerieri in giacca bianca servivano "tournedos" alla Rossini e volendo lo chef ci faceva le "crepes" alla fiamma. Poi uscivo e a duecento metri passavo lungo la caserma dei rangers vietnamiti, con le porte e le finestre murate perché non si vedessero e non si sentissero i prigionieri vietcong chiusi nelle gabbie di bambù, corpi martoriati dalle torture sotto i pigiami neri».


Ma che cosa scrive? È matto? È andato a raccontare l´Aspromonte e descrive l´hotel Metropole e le gabbie dei vietcong.
Ah, non conoscete Giorgio Bocca. Va a capo e scrive: «Oggi, 1992, sono in un hotel della Locride e posso vedere di qui l´Aspromonte» e continua «in questi boschi c´è un uomo, il giovane Celadon, che da due anni sta in una tana alta mezzo metro e quando lo fanno uscire deve star lì, sulla buca della tana, legato a una gamba con una catena come un maiale».


E da lettore ormai sei avvinto da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo, ti sembra di leggere un romanzo di uomini d´avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece stai leggendo il "reportage" d´un giornalista che s´è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro, poi risalirà di nuovo sulla montagna e intanto fruga nella memoria e rivede Saigon e una guerra spaventosa, ma quella guerra è finita e Saigon è ora una città moderna e ricca, ma qui questa guerra primitiva non finisce mai.

Ieri leggevate Bocca, oggi leggete Saviano. Mafia, ‘ndangheta, camorra sono sempre là da un secolo e mezzo. Solo che oggi da Platì e dagli altri borghi-rifugio gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kosovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. Il volume degli affari supera i 200 miliardi l´anno.


Ma i capi vivono ancora nei tuguri sulla montagna o scontano il carcere duro e continuano a mandare ordini, a comandare, a governare il commercio insieme a tutte le mafie del mondo, mentre i figli e i nipoti parlano le lingue, sono seguiti da uno stuolo di avvocati e discutono di fidi e di prestiti con le banche e le fondazioni nei Caraibi, nel Liechtenstein, a Zurigo e a Miami.

Dopo due anni da quella sua inchiesta arrivò un altro tsunami, sembrava un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell´Utri, Previti, il partito dell´amore, il contratto con gli italiani, le televisioni, le paillettes e le escort.

I Piromalli e i Macrì sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca "money money money", un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria "meno male che Silvio c´è". Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà un mistero gaudioso.
Così è stato e finalmente quella cricca ha fatto le valigie, cacciata dagli italiani di buona volontà ma anche da una tempesta che minaccia di travolgere un Paese impreparato ad affrontarla.


Giorgio Bocca s´è battuto per tutti questi anni affinché l´Italia si rialzasse dal letamaio ed ha anche visto il finale di quella drammatica farsa. Poi se n´è andato anche lui che si considerava un anti-italiano perché detestava l´Italia che aveva sotto gli occhi.
Io ti ricorderò sempre, caro amico e compagno, tu la tua guerra partigiana non hai cessato mai di combatterla e ora hai il diritto di riposare in pace.




SALOTTI, AMORI, BORGHESIA COSÌ HA RACCONTATO MILANO


di Natalia Aspesi, da Repubblica


Non è passato neppure un mese da quando la sua firma è apparsa l´ultima volta sull´Espresso, in cui teneva da anni la rubrica settimanale "L´antitaliano". La sua uscita di scena è stata veloce, la sentenza della sua fine era arrivata a metà novembre, con una serie di esami dai risultati tragici (metastasi al fegato), che gli erano stati tenuti nascosti: quando aveva letto che Rossana Podestà non aveva detto all´amatissimo compagno Walter Bonatti la gravità della sua malattia, Giorgio Bocca aveva commentato, «Ha fatto bene, meglio non saperlo».


Sino a tre giorni prima di Natale, ha continuato ad alzarsi tutte le mattine e a mettersi alla scrivania a leggere i giornali, con poca voglia però di scrivere, come se gli pesasse raccogliere le idee, gli sfuggisse la concentrazione, e come se quell´indignazione contro i troppi orrori del mondo che nutriva la sua scrittura, si fosse spenta in altri pensieri intimi, angosciosi.

Ricorda sua moglie: «E´ stato coraggioso sino all´ultimo, con l´accettazione di un saggio patriarca; diceva, ho scritto tanto, per me anche troppo, e con questa malattia avrò la scusa per smettere. Poi si incupiva e diceva, mi sparerei, e io gli rispondevo, ma il revolver non ce l´hai. Ho voluto che il nostro rapporto continuasse come sempre, cioè discutendo e contraddicendoci, come abbiamo fatto dal primo giorno in cui ci siamo incontrati».


Giorgio Bocca ed io siamo entrati al ‘'Giorno'' quasi contemporaneamente, mi pare nel 1961, poi insieme a tanti altri colleghi di quel quotidiano che era stato grande, nel 1976 fummo chiamati alla ‘'Repubblica''. Lavoravamo negli stessi giornali, ma sin da subito a livelli diversi, io al Festival di Sanremo, lui a Gerusalemme a scrivere articoli memorabili sul processo al nazista Eichmann.

Non so chi ebbe l´idea antipatica di farci lavorare una volta insieme in una inchiesta sulle periferie milanesi: lui intervistava politici, sindacalisti, amministratori e in un baleno gli veniva un articolo esemplare, pieno di notizie, io andavo per supermercati, case popolari e ospizi e faticavo moltissimo anche perché allora ero timida, ma all´ombra dei suoi pezzi anche i miei diventavano accettabili.


Come qualunque giornalista ansioso di rubargli il mestiere leggevo e sottolineavo la sua prosa lucida e avvincente (l´ho sempre fatto), e di lui avevo, ho sempre avuto molta soggezione. Sentivo il suo scarso apprezzamento delle donne che cominciavano in quegli anni a entrare nei quotidiani, come fossero dei corpi estranei, inadatti a un mestiere considerato particolarmente virile (che poi si rivelò particolarmente femminile).

Lo irritava soprattutto come mi vestivo, e certamente aveva ragione, visto che osavo portare i famosi hot pants d´epoca. Ci incontravano in case milanesi cosiddette intelligenti (ma non troppo), di signore alla moda e quindi socialiste, a un certo punto però passate di colpo da Craxi a Formentini, del resto come lui, ma per ragioni completamente diverse: per Bocca la Lega dava la voce a chi non l´aveva mai avuta, mandava all´aria le troppe ruberie, per molte signore, purtroppo a ragione, era un mutamento che non cambiava niente, tranne gli ospiti alle cene.


Ai tempi di Craxi e degli hot pants mi consigliava di vestirmi come la Silvia, diventata la sua seconda moglie, cioè con quelle gonne di tweed di gran classe che a me stavano malissimo. Ai tempi di Formentini cominciò a consigliarmi di far correggere i miei pezzi (sempre dalla Silvia) per migliorare almeno la sintassi.

Solo poco tempo fa, incontrandolo al ricco premio "E´ giornalismo" di cui era il giudice più severo (dopo la scomparsa di Montanelli e Biagi che lo avevano affiancato) mi ha confessato, forse per gentilezza, che pur non apprezzando le donne giornaliste, del mio lavoro era geloso, al punto di leggermi.


Ai tempi di "Milano da Bere" Giorgio Bocca era una star dei cosiddetti salotti, in cui arrivava con le sue brutte giacche, i modi rustici, i giudizi feroci e uno sguardo buonissimo. Le signore lo corteggiavano con insistenza, e lui che pure veniva giudicato un Don Giovanni, non sapeva come cavarsela, perché venuto a Milano dalla provincia piemontese ed essendo del 1920, come dice adesso sua moglie, concepiva i rapporti non tra donna e uomo, ma tra femmina e maschio e si sa che al maschio fa paura la femmina intraprendente.


Fu comunque in uno di quei salotti che incontrò la Silvia, lui abbandonato dalla prima moglie, lei dal primo marito: mettendosi subito a discutere su una di lui rubrica che lei giudicava bruttissima, ma apprezzandone il lauto compenso, non si lasciarono più, continuando a litigare per più di 40 anni.

Con Milano Bocca ha sempre avuto un rapporto strano, l´amava, dicono i suoi amici, senza riuscire a capirla, e ne scriveva in continuazione, scavando nei suoi misteri, contraddizioni, contrasti, lussi e crimini, proprio per arrivare a sentirla sua.

Ma, dicono, Bocca non è stato né milanese né cuneese, ma un uomo solitario le cui sole radici vere, di cui non ha mai smesso di parlare e di amare, di sentire come sola patria, sono stati i luoghi della vita partigiana, i boschi, le valli, le cascine.


Intanto, mentre i salotti cambiavano ancora colore, naufragando nel berlusconismo, Bocca si ritirava da quella classe padrona che lui, figlio di maestri e legato col cuore e il cervello alla gente dalla vita difficile, cominciò a bastonare duramente, diventano un nemico, come la Camilla Cederna, l´unica giornalista che come lui era stata una impareggiabile cronista degli anni di piombo e della Milano borghese.

Lui stesso ha ricordato come all´Europeo, nel ‘54, si era «a scuola dalla Camilla Cederna, che era una gran signora milanese, una donna elegante e curiosa, senza un´ombra di stanchezza, testimone attenta con il gusto di raccontare». Via le brutte giacche, Giorgio Bocca accettava ormai da tempo pochi inviti, badando soprattutto alla qualità del cibo.


Quindi sì alle cene di Inge Feltrinelli, tutto cucinato in casa e ospiti con cui parlar male dei tempi sempre più grami, sì alla festa per i suoi novant´anni a Villadeati, previa assicurazione che ai tanti ospiti sarebbe stata ammannita una colazione sull´erba di provenienza piemontese, sì anche negli ultimi giorni di vita al cotechino mandatogli da un amico parmigiano, però subito giudicato non all´altezza di quelli di Cuneo.
Giulio AnselmiGiulio Anselmi

Anche ultimamente c´era chi gli rimproverava di aver lavorato, del resto prima che Berlusconi scendesse in politica, nelle sue televisioni, e di aver avuto una infatuazione per la Lega. «Accettammo un invito ad Arcore e si litigò subito - racconta Silvia - , tanto che finimmo col chiamarlo Berluscotti e Veronica si complimentò con noi per avergli risposto malamente come non era mai successo. Quanto a Bossi venne anche a casa nostra in golfino rosso, e non ne disse una giusta, e quindi Giorgio si ricordò della sua mamma, che faceva la custode di una fabbrica di abbigliamento dove noi anni prima andavamo per i saldi, che sospirava scuotendo la testa, su quel figlio, "l´Umberto, che passa tutta la giornata a leggere fumetti"».

Un De Benedetti molto preoccupato (e la relativa decodifica)



DA FRANCOFORTE UN COLPO A SALVE

di Carlo De Benedetti per Il Sole 24 Ore

Anche l'ennesimo cannone ha sparato a salve. Il D-day è passato e ormai possiamo dire che l'operazione di liquidità a tre anni effettuata dalla Bce è passata senza alcun effetto sui mercati. Le Borse sono sempre lì, gli spread sono sempre più in tensione, il cambio euro/dollaro è fermo, l'oro è fermo: in sostanza un non event.

L'offerta dell'istituto di Francoforte, 489 miliardi, è stata del resto ripartita in ben 523 istituti, quindi nella media 1 miliardo a banca. Questo era il cannone. Inevitabile che il suo effetto fosse deludente. Tanto più che l'afflusso massiccio delle banche che si sono messe in coda ha contribuito ad evidenziare una volta di più ai mercati la gravità dei problemi del settore bancario.


Non è così che si uscirà da questa crisi di fiducia. Serve ben altro. Serve invertire totalmente l'approccio. Sono sempre più convinto che le misure di austerità che, su impulso tedesco, vengono adottate in Europa per fronteggiare la crisi dei debiti sovrani siano sbagliate.

C'è una autolesionistica tendenza all'avvitamento in una spirale di bassa crescita che rischia di portare guai seri all'euro e all'Europa. Il fantasma di Rudolph Havenstein, il governatore che aveva guidato la Reichsbank fino al 1923 negli anni dell'iperinflazione, aleggia ancora in Europa.

E i tedeschi proprio non riescono a liberarsene. Già all'inizio degli anni 30 il ricordo di quegli anni li indusse a non svalutare, come fecero altri paesi europei, aprendo la strada al nazismo. Lo scorso 18 Novembre Dylan Grice, analista di Société Générale, ha sostenuto questa tesi nel paper dal titolo ‘'Exorcising von Havenstein's ghost''. Una tesi interessante. Che fa capire molto della intransigenza della Germania verso una politica monetaria più accomodante.

Sono similitudini inquietanti. Non c'è un nuovo Hitler alle porte d'Europa. Ma l'avvitamento nella recessione è un'ipotesi più che probabile. Per l'Italia è possibile che l'anno che si apre possa portare a una decrescita fino al 3%. La manovra di Monti è credibile, ma non potrà che aggravare una tendenza che è già in atto da mesi. E non c'è da farsi grandi illusioni dalla spinta che potrà venire dai provvedimenti della cosiddetta "Fase due".

La grande differenza tra Europa e Usa è che gli Usa con il Tarp da 700 miliardi di euro hanno salvato le banche americane in presenza di tassi di rendimento dei treasury quasi nullo; da noi, prima o dopo, ci si potrebbe rendere conto che l'unica cosa da fare è un drastico e ordinato "taglio" di alcuni debiti nazionali tra cui anche quello italiano. Se non si vorrà arrivare a questo punto servirebbe un deciso cambio di strategia.


In Europa, quindi in Germania, e in Italia. In Europa con una politica volta a un quantitative easing massiccio, in grado di svalutare i debiti. Ben venga l'inflazione, se ci aiuterà a uscire da questo avvitamento nella spirale recessiva. Ma temo che il fantasma di Havenstein non permetterà una presa di coscienza da parte dei tedeschi su questo punto.

Ecco allora che toccherà all'Italia provare altre strade. Di certo non nuove manovre. Perché di manovra in manovra il Paese finirà in guai sempre peggiori, bruciando le sue ultime ricchezze. Le misure per la crescita dovranno essere adottate, ma anche su questo fronte non c'è da aspettarsi molto.


Ecco allora che l'unico strumento che potrebbe valer la pena tentare è quello di dare un colpo una tantum massiccio allo stock del debito. Ho letto che sul Sole se ne è cominciato a parlare. Si parla di dismissioni, di fondi immobiliari, di patrimoniali secche. Sono ipotesi che vanno approfondite.

Di certo anche oggi i mercati ci hanno dato il segno che un cambio di rotta, a livello continentale, è necessario. Prima di arrivare a un "consolidamento" del debito di mussoliniana memoria sarebbe il caso di cominciare a rifletterci molto seriamente.



La decodifica di Dagospia




Te lo immagini seduto sulla terrazza dell'Hotel Suvretta a Saint Moritz scrutando gli ultimi capitalisti italiani con le signore vestite come i panda, invece lui, Carletto De Benedetti, l'Ingegnere che a novembre ha compiuto 77 anni, non c'è.


Allora pensi che per colpa della crisi sia rimasto nella sua villa piemontese di Dogliani per farsi confondere le idee da Gad Lerner che monta la guardia alle moleste zanzare da quelle parti, ma anche li' di lui non c'e' nemmeno l'ombra. L'ultimo posto dove trovarlo resta il suo quartier generale di via Ciovassino nel cuore di quella Milano dove lo speck conta piu' dello spread e dove sono rimasti in pochi a meditare sulla crisi che nel 2012 mostrera' per intera la sua faccia diabolica.

Ed e' proprio qui che gli amici piu' intimi di quest'uomo dalla doppia cittadinanza svizzera e italiana dicono d'averlo visto uscire ieri notte con l'aria grave e preoccupata. La conferma del suo stato d'animo non arriva da "Repubblica" che ancora oggi per bocca del vicedirettore preferito Massimo Giannini esprime fieri dubbi sulle ricette del bocconiano Monti, ma da un articolo che Carletto ha scritto di suo pugno per Il Sole24Ore, il giornale di quella Confindustria che non lo appassiona piu' di tanto.


Non e' un articolo qualunque perche' dietro la prosa si sente il peso di una malinconia sotterranea che ha le sue radici nella storia personale della sua famiglia costretta dalla persecuzione nazista a lasciare l'Italia.

Carletto sente avvicinarsi tempi bui per l'Europa e non a caso il suo ragionamento va oltre il pessimismo denunciato nel 2008 quando disse sconsolato "l'Italia non conta piu' nulla, e' un Paese cancellato dai radar del mondo". Adesso la sua analisi parte dal colpo di cannone sparato nei giorni scorsi quando la BCE di Mario Draghi ha offerto 489 miliardi a 523 banche europee, una mossa che Carletto (da sempre amico del Governatore) giudica semplicemente inutile.


E lo dice senza mezzi termini: "Non e' cosi' che si uscira' dalla crisi. Serve ben altro" e aggiunge "serve invertire totalmente l'approccio. Sono sempre piu' convinto che le misure d'austerita', che su impulso tedesco, vengono adottate in Europa siano sbagliate."

A Carletto non piace scippare le parole agli altri, e come ha sempre fatto il suo lessico e' tagliente e non ha l'aria di un sermone, ma questa volta c'è qualcosa di più e di diverso perchè dopo la denuncia del "colpo a salve" sparato dal cannone di Draghi, evoca un fantasma.

E' il fantasma che ha cominciato ad attraversare l'Europa all'inizio degli anni '20 quando l'iperinflazione creò le premesse per la Repubblica di Weimar che spalancò le porte a una terribile recessione e al nazismo.

All'inizio il fantasma ebbe le sembianze di Rudolph Havenstein, il governatore della banca centrale tedesca (Reichbank) che non riuscì ad arginare la crisi del suo Paese. Secondo De Benedetti ancora oggi i tedeschi non riescono a liberarsi di quel fantasma, e per dare più forza alla sua tesi cita un documento scritto nel novembre scorso da un'analista di Société Générale che paragona l'intransigenza della Germania di oggi a quella degli anni '30 quando i tedeschi non svalutarono la loro moneta aprendo la strada al nazismo.

"Sono similitudini inquietanti - scrive Carletto - non c'è un nuovo Hitler alle porte d'Europa. Ma l'avvitamento nella recessione è una ipotesi più che probabile" e per dirla tutta è possibile che per l'Italia si arrivi ad una decrescita fino al 3%. Poi il pessimismo dell'Ingegnere lascia il posto allo scetticismo nei confronti della manovra di Monti e delle illusioni che potranno venire dai provvedimenti della "Fase due".


Per lui che ha sempre coltivato amicizie e affari con l'America, la soluzione migliore sarebbe stata quella di salvare le banche con il Tarp da 700 miliardi di euro, ma questa strada non è quella seguita per il taglio del debito italiano. Ecco allora che per allontanare il fantasma di Havenstein e di Weimar bisogna battere altre strade: "Di certo non nuove manovre, perchè di manovra in manovra il Paese finirà in guai sempre peggiori bruciando le sue ultime ricchezze".


La ricetta che Carletto descrive in maniera poco limpida è un colpo una tantum massiccio allo stock del debito con dismissioni e patrimoniali secche ("sono ipotesi che vanno approfondite"), e per concludere lancia un ultimo appello a cambiare rotta "prima di arrivare a un consolidamento del debito di mussoliniana memoria".

La letterina di Natale dell'Ingegnere, che non accetta la marmellata bipartisan di Monti e le cannonate a salve di Draghi, non contiene soluzioni miracolose e non è nemmeno un capolavoro di chiarezza.

Forse a spingerlo con la memoria dentro le pagine buie della storia è stato soprattutto il fantasma di un'Europa che lui e la sua famiglia hanno conosciuto sulla loro pelle quando le destre al potere e la tecnocrazia dei banchieri furono impotenti a frenare la grande recessione e i peggiori nazionalismi.

domenica 25 dicembre 2011

Ricordando Don Peppe

Vent’anni dopo il messaggio di Don Peppe è ancora attuale”

La parrocchia di Casal di Principe ha deciso di distribuire il documento vergato da Don Diana nel Natale 1991 in cui tuonava contro la politica e le collusioni con la Camorra. Quel testo fu fra le cause della sua uccisione nel marzo 1994
A Natale di vent’anni fa, don Giuseppe Diana pubblicava il documento: “Per amore del mio popolo”. La curia di Casal di Principe lo distribuirà il 25 dicembre prossimo al popolo dei fedeli proprio come quel Natale del 1991. Lo farà per riannodare il filo della memoria con un martire della Chiesa, ma anche per indicare una via d’uscita a quanti ancora oggi sono imbrigliati nella rete dell’illegalità e della violenza. Quel documento, che è di un’attualità straordinaria, fu una delle cause della uccisione di don Diana per mano della Camorra, avvenuta il 19 marzo del 1994. Il parroco della chiesa di San Nicola di Bari di Casal di Principe tuonava contro la politica e le sue collusioni con la camorra. Puntava il dito contro la sua chiesa che non parlava con voce chiara. Denunciava la presenza di un’imprenditoria collusa e corrotta. Ma lo faceva quasi in solitudine, in un clima di violenza diffusa che ha prodotto decine e decine di morti. Don Peppino credeva nella “forza della parola”. La usava per spiegare, convincere e disarmare i giovani che erano affascinati dalla violenza camorristica. Alzava la voce per difendere la parte più debole del suo popolo. L’amore per la sua gente e la sofferenza di tante famiglie lo aveva spinto ad uscire dalla sagrestia per cercare di impedire a tanti giovani di percorrere i sentieri che portavano direttamente alla morte. E per questo era diventato il simbolo del riscatto della propria terra. Non glielo hanno perdonato. Ha pagato con la vita il coraggio di ribellarsi.

“La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Scriveva don Diana in quel documento del 1991. Fotografava la vita nelle contrade del suo territorio con una chiarezza unica: “I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato”. Conosceva fin troppo bene la sofferenza di tante mamme che temevano di vedere distrutte le vite dei propri figli. Perciò scriveva: “Siamo preoccupati. Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra”. Era consapevole che la Chiesa deve svolgere un ruolo di primo piano nel costruire la speranza. Perciò parlò con le parole dei Profeti. Utilizzò le parole di Ezechiele per richiamare la denuncia. Le parole di Isaia per guardare avanti. Le parole di Geremia per richiamare la Giustizia sociale” e la “Genesi” per vivere nella solidarietà.

La politica la metteva sul banco degli accusati: “E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale”. Si appellò soprattutto ai suoi confratelli, ai Cristiani, al popolo di Dio, per aprire un varco nei clan della camorra che nel 1991 apparivano, nonostante le divisioni, come un unico monolite di violenza. Si appellò soprattutto al Popolo di Dio e ai sacerdoti:

“Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. (…) Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

E’ stato ucciso per quello che ha scritto. Ma il suo sangue è stato il seme che ha dato buoni frutti. Ora, il territorio che in tanti conoscevano come il regno della camorra, sta cambiando pelle grazie anche al suo martirio e sta cambiando anche nome: Casal di Principe non è il paese di Sandokan, ma è il paese di don Peppino Diana.

Un articolo che piacerebbe al grande Giorgio Bocca


Caro Monti, è uno schifo

di Antonio Padellaro, da Il Fatto Quotidiano

Caro presidente Monti, sappiamo che le lettere aperte ai potenti, in genere, finiscono nei cestini dei suddetti potenti troppo presi dai grandi affari di Stato per dare retta a giornalistici piagnistei.
Ma se ci permettiamo di importunarla è perché nella memorabile conferenza stampa sulla manovra (quella che passerà alla storia più per le lacrime della ministra Fornero che per il sangue spillato a contribuenti e pensionati), Lei annunciò immediati tagli ai costi della politica, poiché si rendeva conto che a un Paese costretto a subire l’arroganza della cosiddetta casta non si poteva chiedere di svenarsi senza prima avere tagliato un po’ le unghie ai rapaci in auto blu.
Non parleremo della strombazzata abolizione delle province, poi rinviata alle calende greche (è solo da mezzo secolo che se ne parla), che attribuiamo al suo candore tecnico.

Il fatto è che ciò che resta dell’Italia tramortita dallo spread viene spolpato allegramente da quei plotoni di cavallette fameliche che prosperano indisturbate nei bassifondi dei Palazzi. Ci domandiamo come Lei e il suo governo possiate rimanere insensibili di fronte a quanto, per esempio, sta accadendo alla Regione Lazio, dove gli onesti amministratori guidati dalla proba Polverini con una mano frugano nelle tasche dei cittadini che dovranno pagare ancora di più benzina, bollo auto e Irpef; mentre con l’altra regalano fior di pensioni e di vitalizi ad assessori “esterni” e consiglieri decaduti, senza dimenticare di arrotondarsi le indennità, cosicché lo stipendio di un consigliere arriva a 10 mila euro più diaria mensile più spese di segreteria.

Caro Presidente, è solo l’esempio più macroscopico e indecente di una casta che ingrassa sulla pelle dei più deboli. Fino a quando saremo costretti a sopportare una tale vergogna, approvata per giunta con tale protervia? Se Lei non ha il potere per intervenire (conosciamo l’obiezione), faccia almeno sentire la sua voce. È così difficile?

Il Fatto Quotidiano, 24 Dicembre 2011

I suoi ultimi articoli



ADDIO A GIORGIO BOCCA



Giorgio Bocca: “Il Pd è come il Psi di Craxi”

di Silvia Truzzi, da Il Fatto Quotidiano

Il giornalista: "In quanto a onestà la sinistra è la stessa cosa della destra. Bersani non dovrebbe fare un passo indietro, ma buttarsi a mare. Il pericolo, ora, è che questa classe dirigente (tutta) faccia un golpe per evitare la galera"

Due squilli e il ricevitore si alza. Poi non fai nemmeno in tempo a concludere una domanda – sulla questione morale a sinistra – che la risposta è questa: “Ma è la solita storia della corruzione politica: tutti i partiti, in tutte le epoche, quando amministrano hanno bisogno di soldi e li rubano. Nulla di nuovo sotto il sole”. Dall’altra parte, l’accento cuneese di Giorgio Bocca, scrittore e firma di Repubblica e dell’Espresso. Che, con il tono mite di un neo 91enne, aggiunge il seguente siluro: “Soprattutto nulla di nuovo rispetto a Craxi”.

Vede analogie tra il Pd e i tempi d’oro del Psi piglia-tutto?
Macché analogie. Vedo un’assoluta identità.
Perché?
Craxi diceva: i mariuoli ci sono ma i soldi servono ai partiti. L’unica cosa che si capisce da questa vicenda è che la sinistra è la stessa cosa della destra, quanto a onestà.
Ce lo spieghi meglio.

C’è poco da spiegare: rubano tutti. Tutti i politici hanno lo stesso interesse: avere il potere e fare soldi. La via è comune.
Nella sua similitudine tra Pd e Psi non torna solo la lungimiranza. Il partito di Craxi fu annientato dagli scandali. Il Pd vuol fare la stessa fine? Non è vero che la storia insegna?
Historia magistra? Mah. Guardi, le dico questo: alla fine della Guerra io e altri partigiani pensavamo che il Partito socialista avrebbe cambiato il modo di fare politica in Italia. Nel giro di pochi anni tutte le persone per bene e oneste sono state cacciate da quel partito. Dove sono rimasti solo i furbi e i ladri. Vuol farmi dire che la politica è cambiata? Non lo penso.
Non voglio farle dire nulla: le chiedo come può la dirigenza del Pd essere così miope.
Non c’è nessun disegno politico, questa è la cosa grave. C’è l’istinto, in chi fa politica, di usare i mezzi più facili.
Quali sono?
Mettere le mani sul denaro e corrompere. Non mi pare si tratti di altro.
Tangentopoli non è servita.
Vista dal punto di vista di uno storico no. Andiamo ancora più indietro. Che ha fatto Giulio Cesare quando aveva consumato il suo patrimonio? S’è fatto mandare in Spagna, dove ha rubato talmente tanto che è tornato a Roma ricchissimo. Ha armato un esercito e si è impadronito del potere. Le dinamiche sono abbastanza chiare.
Bersani dovrebbe fare un passo indietro, considerando i suoi rapporti stretti con Penati?
Altro che far passi indietro. Dovrebbe fare un tuffo nel mare.
Ci sono stati tempi in cui la politica era diversa?
Forse solo nelle grandi emergenze, durante le guerre, si sono visti politici onesti e disposti anche a farsi fucilare per la libertà. Ma quando la politica diventa amministrazione scade, di solito, a un livello bassissimo. Non conosco oggi un politico che sia stimabile come persona privata. Un uomo come me, che a vent’anni comandava una divisione partigiana, aveva tutte le opportunità di impegnarsi in politica. Ma ho capito immediatamente che era un rischio da non correre. E non me ne sono pentito. Mai.
Così non c’è scampo.
Come si fa a sperare? Io non vedo segni di cambiamento.
Non dappertutto è così. Nella maggior parte dei Paesi a regime democratico l’etica pubblica è un valore.
Dove si sono stabilite – almeno in minima parte – le regole del gioco, il codice viene rispettato. Noi le avevamo stabilite, ma le abbiamo anche mandate all’aria. Dopo la guerra partigiana e la Liberazione dell’Italia, l’onestà è stata, per quasi mezzo secolo, un valore condiviso. Allora i partiti rubavano, ma lo facevano con cautela e vergognandosene quando venivano scoperti. Ora si ruba senza nemmeno vergogna.
È una questione statistica. Essere indagati o imputati, per i politici, fa quasi curriculum…
Sì, è un metodo. Un sistema: lo diceva oggi (ieri, ndr) nel suo articolo sul Fatto Nando Dalla Chiesa, una persona che stimo, come del resto stimavo molto suo padre. Però anche lui non scrive a chiare lettere: lì c’è gente che ruba. Con i nomi e i cognomi.
Siamo ancora nella fase delle indagini preliminari. Diventa un reato fare certe affermazioni prima dei processi.
Sì, ma mi ha stupito il tono di Dalla Chiesa, troppo leggero. Oggi è impossibile dire a un politico che ha rubato “hai rubato”. Ma allora cos’è questo giro di affari, soldi, tangenti?
Bersani, all’alba della vicenda Penati, minacciò querele a destra e a manca.
È vero, infatti mi sono ben guardato dallo scrivere articoli sull’argomento. Le querele volano e i giornali nemmeno ti sostengono. Un tempo mi sarei lanciato nella discussione, stavolta non l’ho fatto anche con un senso di paura.
Al di là dell’opportunità, secondo lei dire “faremo una class action contro i giornalisti” è un discorso politico?
La classe politica rivendica il diritto di far paura alla stampa.
Più che politica è arroganza.
I potenti dicono: state zitti perché comandiamo noi.
Non sono comportamenti molto diversi da quelli dei partiti di governo.
Berlusconi è più moderno, ha capito che con il denaro si risolve tutto. La sua calma si legge così: io li compro e tanti saluti. Gli altri, semplicemente, non hanno abbastanza soldi. E hanno delle preoccupazioni d’immagine. Ma come fa Penati a difendersi?
I democratici si sentono – e si professano – molto diversi dal centrodestra.
Certo che si dicono diversi. Lo fanno perché agli occhi della pubblica opinione non vogliono apparire uguali agli altri. Uguali ai ladri.
Vede pericoli?
L’unico pericolo è che questa intera classe dirigente, per non andare in galera, faccia un golpe.
Un loro azzeramento no?
Proveranno a tirare avanti, come han fatto fino a ora. Chi ha i soldi se la cava. Cesare è ricordato come uno dei più grandi uomini politici della romanità ed era uno che confessava candidamente di aver rubato. Però potrebbe arrivare anche un moto d’ira popolare che li manda tutti a casa. Mi trovo di fronte a un’umanità incomprensibile. Un politico che ruba, sa di essere al di fuori dell’etica. Eppure lo fa. Io veramente non li capisco.
Crede che la prudenza dei vertici del partito sulla questione Penati vanificherà il successo delle amministrative e dei referendum?
Mi pare che ci sia un fraintendimento su questo nuovo interessamento alla politica. Lo scambiamo per un cambiamento morale. Ma è più che altro una moda.
Ha compiuto 91 anni tre giorni fa…
… quindi posso dire tutto, anche le sciocchezze?
No, le chiedevo cosa direbbe a un ragazzo italiano di vent’anni.
Gli direi: “Non rubare”. Si vive meglio da onesti. L’onestà è l’unica riserva per sopportare questa vita terrena, che è piena di insidie e porcherie.
Evangelico.
Certo. Sono sempre più cattolico.


L'oscenità in politica


Ripubblichiamo uno degli ultimi articoli pubblicati del giornalista, scomparso oggi a Milano. E' uscito su Repubblica il 23 settembre 2011

LA POLITICA, il parlar di politica come un interminabile, ossessivo fiume di oscenità, come accadeva nella fanciullezza quando ci scambiavamo parole “sporche” persuasi che quello fosse il segno della raggiunta maturità, che eravamo diventati uomini capaci di creare uomini. Giornali e televisioni sembrano dominati dalla foia delle immagini lubriche, dell’umorismo da caserma.

Un uomo, un industriale brianzolo di nome Silvio Berlusconi è il portavoce di questa volgarità plebea che ha ritrovato il coraggio di esporsi in pubblico, anzi vantandosi in pubblico di esistere. Nelle intercettazioni telefoniche di Silvio, dei suoi cortigiani, delle sue prostitute ritrovi lo sfogo carnevalesco della sessualità repressa. La Rai ha trasmesso un' intervista a una delle escort: sembrava la parodia di un inno satanico.

Proterva, sfrenata la signorina recitava la parte del demonio vincente su tutte le ipocrisie, su tutte le viltà. Parlava del ruffiano Tarantini come di un campione della verità e dell' audacia: sia lodato lui che in questo mondo di pecore ha avuto il coraggio di essere ciò che un uomo vincente deve essere, uno che ruba, approfitta, che usa la benevolenza dei potenti viziosi per fare strada. Non solo dei piccoli ricatti, delle modeste tangenti, ma i grandi affari con i monopoli privati di Stato, con la chimica e le meccaniche e il petrolio.

Coraggioso e ingegnoso: qualche bella ragazza mandava nel salotto giusto ed ecco che il furbo Tarantini era diventato un
personaggio chiave della corruzione. La bella escort proseguendo l' intervista non si conteneva più, faceva l'elogio della lascivia che aiuta la furbizia, dell' avidità che è il giusto sentimento di rivalsa dei nati poveri. Irridente, sprezzante di ogni prudenza, di ogni rispetto. Credete a me che queste cose le conosco: hai un fratello disoccupato da sistemare, una madre ammalata da curare, devi pensare al tuo avvenire, a uscire dalla miseria degli stipendi statali.

E allora smettila di fare l' elogio delle virtù che ti lasciano povera, dei doveri con i quali non ti compri una T-shirt elegante, credi a me che conosco la catena del successo e della ricchezza, se devi venderti per avere dei bei vestiti venditi, perché solo l'eleganza ti aprirà le prime porte, se vuoi diventare un' attrice, un' indossatrice alle feste di Silvio e dei suoi simili non andartene proprio al momento giusto, quello in cui si fermano le candidate al suo letto, ai suoi amori penosi ma redditizi. Quando le prostitute rivendicano il loro diritto a esserlo, il loro merito a essere uscite dal gregge dei paurosi e dei deboli è troppo tardi per ogni considerazione sociale: siamo alla disperazione senza rimedio di chi sceglie la via delittuosa pur di uscire dalle pene della vita.

A questo punto sei fuori da una vita non diciamo virtuosa, ma onesta, fuori da una socialità corretta o sopportabile, dentro un groviglio di ricatti e di menzogne. Durante l'inchiesta di Mani pulite il procuratore Di Pietro ebbe parole di pietà per i poveracci che erano caduti nella rete infernale, anche loro, disse, hanno dei sentimenti, dei parenti, dei desideri di redenzione. Ma è altrettanto vero che uscire dalle grinfie del demonio non è facile, che non tutti possono resistere alle sue tentazioni.

Si chiede a Berlusconi di fare un passo indietro. Non lo farà. Uomini come lui non sono in grado di farlo, non esistono per loro rifugi in paesi lontani. Se sono al punto in cui sono è perché lo hanno voluto con volontà di distruggersi, prevalente su quella di salvarsi.



Il bel paese dov'è difficile vivere


di Giorgio Bocca, da l'Espresso del 28 ottobre 2011

I vescovi ci invitano ad avere speranza. Ma l'impressione generale è che sia troppo tardi per venir fuori dalla palude. Manca infatti una volontà diffusa di cambiare. E si confida troppo nello "stellone" per uscire dai guai.

Dicono che bisogna credere nel futuro, in un futuro diverso, migliore di questo presente, di questa marmellata di cose, oggetti, bisogni fra cui strisciamo. Non c'è neppure odio per le generazioni che ci hanno condotto in questa palude. Certo hanno mal governato il paese, lo hanno compromesso, hanno lasciato crescere la malavita, hanno dato ai cittadini un'unica morale, un'unica aspettativa: rubare allo Stato dove si può, finché si può.
Che altro vogliono dire i vescovi quando lamentano la mancanza di etica della nostra società, la mancanza di buone regole, di buoni comportamenti? L'impressione generale, scoraggiante, paralizzante è che sia troppo tardi per venirne fuori, le complicità sono troppe, le malversazioni di massa soffocanti, le occasioni di riscatto rare: non c'è un prevedibile 25 luglio per l'arresto del tiranno, non c'è un 8 settembre per l'inizio della guerra partigiana, non c'è un'occupazione straniera di cui liberarsi.

Sono le grandi dimensioni dei nostri attuali vizi, delle nostre pigrizie, delle nostre cattive abitudini a imprigionarci. Questa volta i "mille" del coraggio e dell'avventura sembrano scomparsi.
Ogni sera gli italiani che ancora desiderano vivere in una libera democrazia si chiedono quanto durerà questo decadimento, questa resa al peggio, e se questa rinascita è realmente possibile o un vano desiderio che si rinnova di generazione in generazione. Il capo della polizia borbonica non accoglieva a Napoli il liberatore Garibaldi per disarmarlo, non consegnava la guida dell'ordine pubblico ai capi della camorra? Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa non è l'eterna vittoria dei reazionari?

Nella mia vita ho visto cadere alcuni regimi autoritari, a cominciare da quello fascista, quasi sempre per autodistruzione. Le sedi dei partiti restavano aperte ma vuote, gli iscritti buttavano via le tessere e i distintivi, ritornavano i vecchi partiti guidati dai revenant, dai politici di ritorno.
Ci risiamo? Ogni sera agli italiani si chiedono quando avverrà, come andrà a finire. Che fare? Mandare in galera tutti i ladri? Si organizzerebbero subito come il partito più forte del paese e comunque le prigioni non basterebbero. Fare l'ennesima rivoluzione gattopardesca, cambiare tutto perché nulla cambi? L'ennesima rivoluzione per finta, con i furbi e i ladri lesti a tornare al potere? Sono i grandi numeri, le grandi dimensioni di questa società a impedire che cambi veramente.

Nei primi anni della repubblica un giornalista napoletano di nome Guglielmo Giannini inventò "l'uomo qualunque" un movimento insensato, nemico della politica ma con la pretesa di fare la migliore delle politiche. Arrivò a vendere 700 mila copie e fu ucciso dal suo successo senza sbocco: non aveva un progetto fattibile, scomparve senza lasciare traccia se non nella sua inconsistenza, nella sua volgare utopia.
Il difetto vero degli italiani lo aveva colto Leopardi quando denunciava la mancanza di un'opinione pubblica capace di una scelta etica. L'ultima illusione è stata quella della guerra partigiana: guerra di popolo per la libertà e la giustizia che diede al paese un forte impulso riformatore, durato mezzo secolo, una volontà di diventare finalmente un paese democratico. Quest'ultima illusione sembra davvero consumata.

Il paese è bello, ricco di beni naturali, ma è molto difficile viverci per l'anarchia di chi ci abita. Per l'illusione costante di poter migliorare la società senza disciplina e senza sacrifici, per l'idea assurda che esista uno "stellone", una garanzia di fortuna che spontaneamente risolve i problemi del paese.

Triste Natale,Bocca se n'è andato.






Giorgio Bocca, l’ultimo dei grandi

di Marco Travaglio, da Il Fatto Quotidiano

Quando muore un grandissimo, come Giorgio Bocca, che se n’è andato oggi, giorno di Natale, a 91 anni, tutte le parole sono inutili tranne le sue. Ricordiamoci com’era, che cosa diceva, che cosa scriveva e soprattutto come scriveva. Acquistiamo i suoi libri, leggiamoli. Io vorrei ricordarlo con l’intervista che gli feci per il Fatto Quotidiano nel febbraio 2010, in occasione dell’uscita del suo penultimo libro, Annus Horribilis.

Giorgio Bocca, lei ha appena scritto “Annus Horribilis” (Feltrinelli): ma si riferiva al 2009. Il 2010 si annuncia ancora più horribilis…
Vedremo. Il 2009 mi è sembrato il più orribile per una tendenza irresistibile alla democrazia autoritaria. Più Berlusconi ne combinava di cotte e di crude, più i sondaggi lo premiavano. Ora, con questi ultimi scandali, la gente potrebbe cominciare a stancarsi e capire qualcosa.

Quindi c’è speranza?

Non esageriamo. Qualche barlume. E’ come all’inizio della guerra partigiana, ma allora ero giovane e forte dunque fiducioso. Ora sono vecchio e fragile, mi è più difficile essere ottimista. La cecità degli italiani mi ricorda la Germania all’ascesa di Hitler: tutti potevano vedere che tipo era, Hitler, eppure i tedeschi, e anche gli europei, gli cascarono tra le braccia come trascinati da un vento ineluttabile.

Che cosa la spaventa di più?

Il muro di gomma. Succedono cose terribili, o terribilmente ridicole, e nessuno reagisce. Lanci allarmi, provocazioni anche forti, e non risponde nessuno. Come dicono i giudici dello scandalo Bertolaso? “Sistema gelatinoso”. Ecco, è tutto gelatinoso. Non resta che sperare, come sempre nella nostra storia, in qualche minoranza coraggiosa che cambi la storia.

Che cosa la colpisce di più negli ultimi scandali?

La loro incomprensibilità. Leggo la confessione di questo consigliere comunale di Milano beccato con la tangente in mano: ‘Mi sono rovinato per 5 mila euro’.O è un pazzo incapace di ragionare, o faceva sempre così. Almeno Berlusconi ha le sue giustificazioni: è ricco sfondato, ha ville dappertutto. Almeno Tangentopoli era un sistema di corruzione che portava almeno una parte dei soldi ai partiti: una logica, sia pure perversa e criminale, c’era. Ma qui i partiti non ci sono più. E questi si vendono in cambio di qualche massaggiatrice, di qualche viaggio gratis, di pochi spiccioli… La corruzione dilaga a tal punto che c’è gente che ruba senza nemmeno sapere il perché.

Anche Tangentopoli, 18 anni fa, partì da una mazzettina di 7 milioni a Mario Chiesa.

Andai a intervistare Borrelli e gli domandai perché i magistrati fossero riusciti a scardinare il sistema così tardi. Mi rispose che la magistratura in Italia riesce a incidere nel profondo solo quando nella società c’è un grande allarme, quando si accende una grande luce. Oggi la luce non si accende, non ancora. Ce ne sarebbero tutti i presupposti, la corruzione ci costa decine di miliardi all’anno, siamo in fondo alle classifiche di tutti gli indicatori civili, scavalcati anche da metà del Terzo Mondo, eppure tutto va ben madama la marchesa.

Possibile che, in Italia, le classi dirigenti non riescano a smettere di rubare?

Quando esplose Tangentopoli, a costo di essere frainteso, dissi che i gerarchi fascisti rubavano molto meno dei democristiani e dei socialisti. Arrivai a elogiare i “barbari” della Lega che ce li avevano tolti dai piedi. Ora questi rubano ancor più della Dc e del Psi. E lo fanno alla luce del sole, con trucchetti da ciarlatani: invitiamo i capi del mondo al G8 e buttiamo centinaia di milioni. Ma non possono farsi una telefonata, i capi del mondo?

Paolo Mieli dice che sta per saltare il tappo, come nel ’92.

Eh eh, Mieli è un mielista, furbo ma intelligente. Siamo in attesa della grande luce di Borrelli. Forse Berlusconi finirà per stancare, ma siamo ancora all’accecamento della morale: quegli imprenditori che si fregano le mani per il terremoto dicono che la febbre del denaro è ancora alta. E’ come nella Bibbia: Mosè che scende dal Sinai con le tavole della legge e trova gli ebrei che festeggiano attorno al vitello d’oro. Noi li abbiamo superati.

Che idea si è fatto di Bertolaso?

Non credo che abbia rubato di suo, ma che abbia lasciato rubare gli altri. Quando si vuol fare tutto in fretta, si aboliscono i controlli e succede di tutto. L’ha perduto la vanità: si credeva Superman, uno che va a dare lezioni agli americani… Non era difficile capire cosa succedeva.Se gli italiani fossero raziocinanti gli avrebbero impedito di buttare i soldi in tante opere inutili.

Forse, con più informazione e più opposizione, sarebbe più facile ribellarsi.

La cosa più deprimente è la lettura dei giornali, per non parlare della televisione. La nostra democrazia diventa autoritaria anche perché ci sono giornalisti comprati con prebende e privilegi, ma soprattutto terrorizzati. Incontro colleghi, si finisce per parlare di quel che combina Berlusconi, e quelli cambiano subito discorso. Se diventi nemico, sei segnato. Tu ce l’hai spesso col Corriere: credo che la carta stampata sia rimasta democratica, ma ha paura di lui. Si inventa di tutto, pur di parlar d’altro: chiamano ‘terzismo’ il doppiogiochismo. Dicono persino che, a parlar male di Berlusconi, si fa il suo gioco. Ma a chi la danno a bere?

Lei guarda molta televisione?
Sì, ho il gusto dell’orrido. E’ una galleria di mostri. Non riesco a levarmi l’incubo di Feltri, Belpietro, quel Sallusti… E le facce di Ghedini, di Brunetta… Quando li critichi, ti rispondono che sei un vecchio arteriosclerotico. Ma come si fa a diventare così?

La beatificazione di Craxi, i dossier su Di Pietro e ora l’immunità parlamentare d’accordo col Pd.

Beh, è tutto collegato. E’ la complicità fra colpevoli delle due parti. Di Pietro lo attaccano perché ha il merito di essere l’unica opposizione. Craxi piace tanto a questa destra e a questa sinistra per due motivi: intanto perché era un corrotto, e poi perché, con l’idea della Repubblica presidenziale, ha dato un’ideologia alla democrazia autoritaria che questi selvaggi di oggi inseguono ma non riescono nemmeno a teorizzare. Questa democrazia malata la dobbiamo pure a questa sinistra alla D’Alema che collabora da 15 anni con Berlusconi. Hanno capito che, se non partecipano in qualche modo alla sua greppia, non campano più.

Dicono che non bisogna attaccarlo, che i problemi sono altri.

E quando ne parlano, degli altri problemi?Allora almeno parlino male di un aspirante tiranno, no? Prima avevamo i Bobbio, i Foa, ora che fine han fatto gli intellettuali di sinistra? Possibile che non nascano più persone intelligenti?

Violante si spende molto per l’immunità parlamentare, dice che la magistratura non deve scalare il trono del principe.

Perché lo fa? Boh, vorrà fare carriera anche lui. Che personaggio viscido, non lo sopporto.

Il presidente Napolitano non le pare troppo condiscendente?
Va considerato nella sua biografia. E’ sempre stato un comunista prudente. Vuole durare, e non so se sia un bene o no. Ogni tanto tira un colpetto, ma chiedergli di fare l’eroe è troppo.

Che speranza abbiamo?
Che la gente si accorga del suicidio di farsi governare da uno abilissimo a fare soldi: quello i soldi, invece di darteli, te li porta via. Che gli italiani si vergognino almeno per le sue cadute di stile, tipo gli sghignazzi sulle belle ragazze mentre parla del dramma degli immigrati col presidente albanese. Che capiscano come un minimo di decenza e legalità è meglio di questa anarchia lurida. Non dico la virtù, l’onestà: un po’ di normalità e di civiltà. L’unica bella notizia degli ultimi anni è il popolo viola, spero che le prossime manifestazioni siano ancora più massicce e visibili. Se si ribellano i ragazzi, non tutto è perduto.



Giorgio Bocca: "Non sono uno snob ma odio la gente"


Il giornalista: “Questa Italia è ladra e corrotta. Il popolo sovrano? E’ pronto a tutti i delitti”

di MASSIMO GRAMELLINI, da La Stampa

Il pessimismo allunga la vita. E mantiene dritta la schiena. Quella di Giorgio Bocca è drittissima, e non solo per metafora. All’alba dei novant’anni l’arzillo catastrofista cuneese ha pubblicato un saggio dal titolo molto giorgiobocchesco - Annus Horribilis (Feltrinelli) - scritto in una lingua limpida e densa come i torrenti delle sue valli.

Prima pagina del libro e subito un cittadin per terra: Gianfranco Fini. La sinistra lo adotta e lei gli spara addosso?
«È il tipico carrierista che difende le forme della democrazia, ma nella sostanza permette al sultano di continuare a governare».

Bene, siamo partiti leggeri.

«Chi vuol fare carriera non dovrebbe mai dire quello che pensa. Nel 1948, ero alla Gazzetta del Popolo, mi chiesero per chi avrei votato al referendum. Ma per la Repubblica, risposi io, ingenuo. Stupore assoluto. La Sip, padrona del giornale, sapeva che la sinistra voleva nazionalizzare l'azienda e tifava per i monarchici. Da allora il direttore Caputo mi fece mangiare merda. Ogni notte in tipografia urlava: chi è il coglione che ha passato questa notizia? I colleghi si aprivano come il Mar Rosso e in mezzo rimanevo io… Il mondo è pieno di servi».

Lei se la prende molto con gli urlatori da talk show.

«L’avvocato Ghedini… Ogni volta che lo vedo mi contorco sulla sedia dalla rabbia. Potessi, lo strozzerei. Ti portano via la parola come delle iene. La tv è una rovina per la democrazia. Non insegna ad ascoltare, ma a urlare».

E naturalmente il grande burattinaio dello spettacolo resta Lui.
«Lui è un maestro in queste cose. Ricordo quando intervistai Craxi per le sue tv. Arriva Bettino e mi saluta con tono minaccioso: “Professore, come va?” Berlusconi sparì subito in regia. E guardando l’intervista capii poi il perché. Io ero ripreso sempre di nuca (cominciavo a essere un po’ calvo) e Craxi in primo piano, ridente e sfottente».

Lei ha sempre avuto un debole per il segretario socialista...

«È stato il Machiavelli della corruzione mentale degli italiani. Il suo celebre discorso alla Camera: siccome rubiamo tutti, non ruba nessuno».

I suoi seguaci dicono che ha pagato solo lui, non i capi comunisti.

«I leader del Pci non avevano bisogno di rubare: ricevevano i soldi dall’Urss. E poi per loro rubare era ancora un delitto. Adesso non c’è più differenza, se non che a destra si ruba in grande e a sinistra in piccolo. Non è tanto il denaro che li affascina, ma l'idea di farla franca. Durante il fascismo uno che rubava era fuori dalla società. A rubare erano pochissimi, Ciano, Farinacci. I piccoli gerarchi non rubavano».

La accuseranno di parlar bene dei fascisti, pur di parlar male dei contemporanei.

«Si era onesti perché c’era poco da rubare. La piccola borghesia aveva delle virtù. Poi i soldi hanno corrotto tutto. Conoscevo dei socialisti, a Cuneo, che facevano campagna elettorale in bicicletta. Dopo è arrivato Craxi e ho iniziato a vederli girare in automobile. Prima ai comizi bevevano vino acido. Poi davano banchetti».

Gli ex comunisti sembrano essersi adeguati.

«La fedeltà è una delle virtù civili. Sono un partigiano e resto fedele alla sinistra anche quando fa delle coglionerie. Perché ne fa… Il capolavoro è stata la Puglia. Quel D’Alema… Uno odioso a tutti, un piccolo gerarca. Questa sua fama di intelligenza che consiste nel fare sempre le mosse sbagliate».

E il sindaco della rossa Bologna inguaiato dall’amante?
«Mi sembrano piccoli peccati. Un tempo impensabili, perché c’era il controllo della classe operaia sul candidato. Ma ora la classe operaia non esiste più».

Immagino che il gossip le faccia venire l’orticaria.

«Signorini e Corona sono due personaggi che in una società normale la gente si vergognerebbe di far entrare in casa. Berlusconi ha capito che i peccati sessuali sono un’arma di potere. Fa politica con un giornale di gossip e così riesce a uccidere gli avversari. Guardi quel Boffo come è stato giustiziato».

Lì Signorini non c’entra. È stato «Il Giornale», oggi di Feltri e un tempo del suo amato nemico Montanelli.
«Montanelli era un attore, con tutti i difetti degli attori, ma una brava persona incapace di colpi bassi. Certo, un contaballe… Durante la resistenza, ha raccontato così tante balle sulla sua amicizia con i partigiani che alla fine i fascisti sono stati costretti a metterlo in galera. Però era un uomo dell’Italia onesta che non rubava».

E il suo successore?

«Di Feltri non penso niente, perché mi fa paura».

Giuliano Ferrara?
«Un altro pazzo, ma mi è simpatico. Il Foglio è l’unico giornale culturale che esista in Italia».

I terzisti?
«Fanno i finti tonti. Chi non sta né di qua né di là finisce inevitabilmente per andare di là. Perché non c’è mediazione possibile: i ladri sono ladri».

Nel libro cita una battuta di Confalonieri su Berlusconi. «È come Anteo, se lo butti a terra, moltiplichi le sue forze».
«Berlusconi è pericoloso perché è abile, furbo. Usa tutti i mezzi, anche quelli illeciti come la diffamazione. È un fondatore di imperi, la forza bruta del capitalismo che distruggerà il capitalismo. Dal punto di vista clinico, un megalomane. Quando lavoravo per lui ricordo le telefonate alle otto del mattino, la segretaria che prima di entrare nel suo ufficio mi obbligava a mettere la cravatta che teneva nel cassetto».

I veri tiranni preferiscono essere temuti più che amati.

«I megalomani vogliono essere amati anche dalle persone che atterriscono… Aveva una tale smania di ottimizzare tutto che un ex giocatore di basket lo seguiva con un cronometro manuale e prendeva il tempo delle sue conversazioni. Per cui tu eri lì che parlavi con Berlusconi e quello ogni trenta secondi ci interrompeva: Dottore, sono passati trenta secondi… Dottore, è passato un minuto…».

Si rassegni. Quell’uomo vuol essere amato ed è amato.
«Gli italiani invidiano chi ha un euro più di loro, ma oltre un certo livello di ricchezza l’atteggiamento cambia. Lo straricco è ammirato. Pensi all’Avvocato».

Lei non va matto per «la gente».
«Il popolo sovrano è pronto a tutti i delitti. La storia d’Italia l’hanno fatta le minoranze. I Mille di Garibaldi e della Resistenza, minoranze estreme che muovono un popolo egoista, grigio. È stata la Chiesa a diseducarlo con confessioni e giubilei. Della religione cattolica mi piace la pietas, non il perdono generalizzato».

Diranno che è uno snob.
«L’unico che tenta di esserlo è Sgarbi. Ma l’italiano è il contrario dello snob. Noi siamo melodrammatici».

Come la tv?
«La tv è una Filodrammatica: tutti nella vita recitano come se fossero in tv. La guardo molto. Spesso mi addormento davanti. Ormai è una ripetizione di tutto. Persino il cattivo gusto è diventato difficile da rinnovare».

I comici?
«Questi di Zelig non fanno proprio ridere. Neanche Macario mi faceva ridere. Totò sì, per le mosse da marionetta. E Sordi per il suo cinismo, certo non per l’umorismo. L’umorismo è sconosciuto agli italiani. È una specialità degli ebrei americani».

Cosa guarda, allora?
«Lo sport. Almeno il calcio è autentico».

Sicuro? Girano tanti di quei soldi anche lì.
«Ma almeno i calciatori corrono, si feriscono continuamente. Le partite sono vere».

E la sua Juve?
«Ciro Ferrara! L’allenatore non è il suo mestiere. Questa Juve non ha un gioco. A me piace quello del Genoa, Gasperini».

E Obama le piace? Il 2009 è stato abbastanza horribilis anche per lui.
«Ha una cattiva stampa, ma ce la mette tutta. Forse ha suscitato troppe speranze. È difficile imporre delle novità a un Impero: alla fine lì sono i militari che decidono».

Lo scrittore Martin Amis sostiene che ci sono troppi vecchi al mondo e propone un’eutanasia obbligatoria al compimento dei 70 anni. Lei ormai è fuori pericolo.

«Quell’idea c’era già in un racconto di Buzzati. Magari ci arriveremo. Mi sembra la grande vendetta di Hitler. Il dominio dei più forti sui più deboli».

Lei scrive, legge, si emoziona, si indigna, mangia con appetito. È davvero così terribile diventare vecchi?
«Quando ero giovane e forte avevo coraggio. Se ripenso a quei venti mesi di guerra vissuti come una splendida vacanza… Andavo in giro col mio fucile convinto di essere immortale. Adesso mi sento fragile e ho così paura di tutto che non esco quasi più di casa. La morte è una fregatura, ma l’immortalità non mi attira. La noia è micidiale a 90 anni, figuriamoci a 200».

Ai vecchi saggi si chiede di predire il futuro.
«Il genere umano sta andando verso l’autodistruzione. Siamo troppi e il mondo è troppo piccolo per noi».

In che cosa crede un pessimista universale?
«Nella dignità dell’uomo. I ladri sono degli stupidi che si fregano da soli».

Ci regali almeno una speranza. Anche piccola, la prego.

«Se viene di là, le offrirò l’unica cosa veramente buona che esiste al mondo. Un bicchiere di vino».