lunedì 26 dicembre 2011

Flores D'Arcais, Scalfari e Natalia Aspesi per Giorgio Bocca




Per me Giorgio Bocca era il giornalismo

di Paolo Flores D'Arcais, da Il Fatto Quotidiano


Giorgio Bocca è stato il più grande giornalista italiano del suo tempo. Ne ero già convinto quando lo conobbi la prima volta nel 1976, avevo consegnato il mio primo articolo per l’Espresso al direttore Livio Zanetti, che mi chiese se ero libero per cena, che lui si vedeva con Giorgio Bocca e potevo andare anche io. E’ uno dei ricordi emozionanti della mia vita (per questo forse non ho dimenticato il nome del ristorante, “Il Foghèr”, non lontano dalla storica redazione di via Po), perché per me Bocca era IL giornalismo.

Col passare degli anni e dei decenni ho continuato a pensarla così: il più grande giornalista dell’Italia del dopoguerra. Odiato da tanti, tantissimi, che ora magari millanteranno forme di affetto “ruvide” e scriveranno finti elogi, facendo passare per faziosità simile alla loro l’impegno civile di Giorgio, la sua passione per le modeste “verità di fatto”. E invece no. Bocca è stato partigiano, prima in montagna e poi sulla macchina da scrivere, come è stato nella Resistenza Albert Camus, editorialista a “Combat”: dalla parte della giustizia e della libertà, come endiadi inseparabile, e dunque anche delle “verità di fatto”, che sono trama e ordito del giornalismo degno di questo nome.

Bocca aveva i suoi difetti, che ammetteva e perfino esagerava (ad esempio la venalità, su cui ironizzava, benché avesse generosità sconosciute a molti altri, meno scrittori di lui, pronti a invocare l’avidità del proprio “agente”). Gli dobbiamo la lucidità nella cronaca, la fulminante precisione delle domande in interviste che hanno fatto epoca, e la capacità di dissenso contro quasi tutti i conformismi che hanno avvelenato il Paese. Nel giornalismo dovrebbe essere la normalità, è stato invece un caso eccezionale.

Per denigrarlo si è arrivati a dire: “prima fascista poi antifascista”, come se un giovane cresciuto nel fascismo, e che poco più che ventenne rompe con l’unica ideologia che impregna l’orizzonte, e sceglie la montagna e il rischio della vita dalla parte della libertà, sia testimonianza di ambiguità anziché di radicalità e coerenza nelle supreme decisioni morali. La verità è che Giorgio Bocca è sempre stato detestato dai più, quelli che hanno accesso ai media, intendiamo, quelli corrivi con l’establishment, la gente di potere e d’ipocrisia che sempre più saldamente sta soffocando l’Italia. Le anime vili, le anime della “morta gora”, che si vanno moltiplicando tra tanti suoi “colleghi” che invecchiano malamente, e che ora gli concederanno qualche riconoscimento “peloso” solo perché la sua voce che non si piega e la sua critica senza compromessi non potranno risuonare più.

Dieci, cento, mille Giorgio Bocca, e il giornalismo sarebbe giornalismo, e l’Italia sarebbe un Paese finalmente civile di giustizia e libertà. Sarebbe un’altra Italia, quella che il suo comandante Duccio Galimberti e i suoi compagni della “Repubblica partigiana” speravano di contribuire a far nascere, anche a costo della vita. Speranze che i padroni del denaro, della disinformazione e della fede hanno calpestato e calpestano, instancabilmente.

Ad alcuni – comunque troppo pochi – Giorgio Bocca mancherà davvero.


L'ultimo incontro di Eugenio Scalfari. per La Repubblica


È stata l´ultima volta che l´ho visto, era il 6 dicembre scorso, le 11 del mattino e lui stava seduto alla sua scrivania, pallidissimo, il volto scavato con le ossa della fronte, degli zigomi e delle mascelle coperte dalla pelle e gli occhi fissi davanti a sé che guardavano il vuoto.


Gli chiesi se avesse dolore in qualche parte del corpo, rispose «No, nessun dolore». «Questo è un buon segno - gli dissi mentendo - ma come ti senti?», mi guardava senza alcuna espressione, poi la bocca accennò un sorriso. La risposta fu «non ci sono». La moglie Silvia si era seduta accanto a lui, gli carezzò lievemente la guancia e quasi per cambiar discorso disse: «Per pranzo gli ho preparato la luganiga, gli piacciono quelle salsicce cotte nel vino». «Ma le può mangiare?», «Le assaggia».


Gli domandai se leggeva i giornali. Rispose: «Non c´è niente da leggere». Insistei: «La politica ti interessa sempre?». Rispose: «Non c´è politica».

Poi fu lui a chiedermi: «Tu come fai a scrivere ancora?». Risposi che il mestiere, se lo hai imparato fin da ragazzo, è lui che ti porta sulle spalle e tu vai avanti senza fatica. Lui commentò «per me il mestiere non c´è più, se n´è andato prima di me ma l´attesa ormai sarà breve». Poi si voltò verso Silvia e lei mi disse che era stanco. Mi alzai, andai verso di lui e ci baciammo. «Tornerò presto». «Non mi troverai, non venire, sarebbe inutile».


Sono uscito con una grande tristezza in cuore. Ora l´amica del destino è arrivata all´appuntamento e ha portato via la sua spoglia ma l´anima se n´era già andata e lui me l´aveva detto: non ci sono più. Per quanto mi riguarda continuerà a vivere finché vivrò. La memoria serve anche a questo: tiene vive le persone che ci sono state compagne di vita, di pensiero, di progetti e con le quali abbiamo discusso, litigato, gioito, sperato.


Giorgio è stato un grande giornalista, un grande cronista e un grande scrittore. Non era un letterato ma uno scrittore sì, dei vezzi letterari non aveva bisogno, era la fantasia a muovergli la mano e la penna. Vedeva i fatti, i luoghi, i personaggi e li raccontava, ma la fantasia li associava ad altri personaggi, ad altri luoghi e ad altri fatti.

Passava da un tempo ad un altro e da un luogo ad un altro luogo senza separarli neppure con un "a capo", neppure con un punto, al massimo una virgola. La fantasia fa di questi miracoli e lui, sotto la maschera del contadino e del provinciale, sentiva e raccontava l´avventura delle persone, poi all´improvviso alzava gli occhi verso il cielo e descriveva le stelle come intermezzo e poi tornava a raccontare la storia d´un bandito o d´un corruttore, d´un mondo dove i leoni avevano lasciato il posto alle volpi e alle faine.


Io gli ho voluto molto bene. Lui non so, era burbero nei modi e anche chiuso in sé quanto io ero aperto. «Tu vuoi sedurre la gente - mi diceva - e capisco che questo è il tuo mestiere». Un giorno mi disse che ero un cinico. Un altro giorno che la mia presenza gli dava sicurezza. Era insicuro e timido, Giorgio Bocca, ma puro come il diamante. A vederlo da fuori tutto avresti pensato fuorché fosse impastato di fantasia, che avesse un mondo fantastico dentro di sé e invece era proprio così e basta leggere le prime pagine del "Provinciale" - forse il più bello dei suoi libri - per capirlo.


Tra le mille inchieste, interviste, cronache di guerra e di dolorosa pace, ricordi di vita partigiana che Giorgio ha pubblicato in libri e giornali, dall´Europeo al Giorno, e poi su Repubblica, è difficile scegliere.

Da noi venne fin dal primo giorno della fondazione e c´è rimasto fino a ieri, è durato 36 anni questo sodalizio. È incredibile la sua scrittura. Per la professione che faccio ho letto migliaia di articoli e le firme di chi vi scriveva sono state tra le più pregiate. I confronti sarebbero impropri, ognuno aveva la sua cifra, il suo stile, ognuno la sua visione della vita e del Paese. Ma quello di Bocca è stato unico. Pensava, vedeva, raccontava, si indignava, si innamorava dei personaggi, li faceva rivivere e vivere sulla pagina.


Tra i tanti luoghi che ha visto il Sud è stato una passione. Aveva in testa racconti di banditi, liturgie di iniziazione alla mafia e alle "´ndrine", violenze, soprusi, corruzione, ma anche gli antichi insediamenti della Magna Grecia, Sibari, Crotone, Agrigento, Locri e Ulisse, il mare azzurro di Scilla e Cariddi, le coste ioniche, Pitagora, il ratto di Proserpina, gli aranceti, le spiagge a perdita d´occhio. E il cielo. Un cielo blu da Croce del Sud che invece era quello dell´Orsa Maggiore e delle costellazioni di questa parte del pianeta, le Pleiadi, Orione, Andromeda.

Quel cielo blu sopra di lui gli ispirava il ricordo di Omero e di Odisseo che naviga tra l´isola di Circe e quella di Calipso. Ma poi lasciava all´improvviso quel mondo di fantasia, s´arrampicava per i sentieri dell´Aspromonte e raccontava i mafiosi, le donne matriarcali, i pastori, la cosca di Mommo Piromalli e infine i bronzi di Riace, apollinei nelle loro posture guerriere.


Ho riletto, proprio dopo il nostro ultimo incontro di Milano, alcune delle sue inchieste tra le quali quelle che intitolammo "Aspra Calabria", scritta oltre vent´anni fa. L´inizio è sbalorditivo. È in Calabria e deve raccontare per i nostri lettori che cosa è l´Aspromonte, i suoi borghi arrampicati, le tane dove sono imprigionati per mesi e anni i rapiti. E invece comincia così: «Nel 1968 a Saigon, Vietnam, alloggiavo all´hotel Metropole, in una stanza liberty color avorio, solo il geco incollato sul muro mi ricordava che ero nel lontano sudest asiatico. Nella sala da pranzo camerieri in giacca bianca servivano "tournedos" alla Rossini e volendo lo chef ci faceva le "crepes" alla fiamma. Poi uscivo e a duecento metri passavo lungo la caserma dei rangers vietnamiti, con le porte e le finestre murate perché non si vedessero e non si sentissero i prigionieri vietcong chiusi nelle gabbie di bambù, corpi martoriati dalle torture sotto i pigiami neri».


Ma che cosa scrive? È matto? È andato a raccontare l´Aspromonte e descrive l´hotel Metropole e le gabbie dei vietcong.
Ah, non conoscete Giorgio Bocca. Va a capo e scrive: «Oggi, 1992, sono in un hotel della Locride e posso vedere di qui l´Aspromonte» e continua «in questi boschi c´è un uomo, il giovane Celadon, che da due anni sta in una tana alta mezzo metro e quando lo fanno uscire deve star lì, sulla buca della tana, legato a una gamba con una catena come un maiale».


E da lettore ormai sei avvinto da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo, ti sembra di leggere un romanzo di uomini d´avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece stai leggendo il "reportage" d´un giornalista che s´è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro, poi risalirà di nuovo sulla montagna e intanto fruga nella memoria e rivede Saigon e una guerra spaventosa, ma quella guerra è finita e Saigon è ora una città moderna e ricca, ma qui questa guerra primitiva non finisce mai.

Ieri leggevate Bocca, oggi leggete Saviano. Mafia, ‘ndangheta, camorra sono sempre là da un secolo e mezzo. Solo che oggi da Platì e dagli altri borghi-rifugio gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kosovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. Il volume degli affari supera i 200 miliardi l´anno.


Ma i capi vivono ancora nei tuguri sulla montagna o scontano il carcere duro e continuano a mandare ordini, a comandare, a governare il commercio insieme a tutte le mafie del mondo, mentre i figli e i nipoti parlano le lingue, sono seguiti da uno stuolo di avvocati e discutono di fidi e di prestiti con le banche e le fondazioni nei Caraibi, nel Liechtenstein, a Zurigo e a Miami.

Dopo due anni da quella sua inchiesta arrivò un altro tsunami, sembrava un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell´Utri, Previti, il partito dell´amore, il contratto con gli italiani, le televisioni, le paillettes e le escort.

I Piromalli e i Macrì sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca "money money money", un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria "meno male che Silvio c´è". Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà un mistero gaudioso.
Così è stato e finalmente quella cricca ha fatto le valigie, cacciata dagli italiani di buona volontà ma anche da una tempesta che minaccia di travolgere un Paese impreparato ad affrontarla.


Giorgio Bocca s´è battuto per tutti questi anni affinché l´Italia si rialzasse dal letamaio ed ha anche visto il finale di quella drammatica farsa. Poi se n´è andato anche lui che si considerava un anti-italiano perché detestava l´Italia che aveva sotto gli occhi.
Io ti ricorderò sempre, caro amico e compagno, tu la tua guerra partigiana non hai cessato mai di combatterla e ora hai il diritto di riposare in pace.




SALOTTI, AMORI, BORGHESIA COSÌ HA RACCONTATO MILANO


di Natalia Aspesi, da Repubblica


Non è passato neppure un mese da quando la sua firma è apparsa l´ultima volta sull´Espresso, in cui teneva da anni la rubrica settimanale "L´antitaliano". La sua uscita di scena è stata veloce, la sentenza della sua fine era arrivata a metà novembre, con una serie di esami dai risultati tragici (metastasi al fegato), che gli erano stati tenuti nascosti: quando aveva letto che Rossana Podestà non aveva detto all´amatissimo compagno Walter Bonatti la gravità della sua malattia, Giorgio Bocca aveva commentato, «Ha fatto bene, meglio non saperlo».


Sino a tre giorni prima di Natale, ha continuato ad alzarsi tutte le mattine e a mettersi alla scrivania a leggere i giornali, con poca voglia però di scrivere, come se gli pesasse raccogliere le idee, gli sfuggisse la concentrazione, e come se quell´indignazione contro i troppi orrori del mondo che nutriva la sua scrittura, si fosse spenta in altri pensieri intimi, angosciosi.

Ricorda sua moglie: «E´ stato coraggioso sino all´ultimo, con l´accettazione di un saggio patriarca; diceva, ho scritto tanto, per me anche troppo, e con questa malattia avrò la scusa per smettere. Poi si incupiva e diceva, mi sparerei, e io gli rispondevo, ma il revolver non ce l´hai. Ho voluto che il nostro rapporto continuasse come sempre, cioè discutendo e contraddicendoci, come abbiamo fatto dal primo giorno in cui ci siamo incontrati».


Giorgio Bocca ed io siamo entrati al ‘'Giorno'' quasi contemporaneamente, mi pare nel 1961, poi insieme a tanti altri colleghi di quel quotidiano che era stato grande, nel 1976 fummo chiamati alla ‘'Repubblica''. Lavoravamo negli stessi giornali, ma sin da subito a livelli diversi, io al Festival di Sanremo, lui a Gerusalemme a scrivere articoli memorabili sul processo al nazista Eichmann.

Non so chi ebbe l´idea antipatica di farci lavorare una volta insieme in una inchiesta sulle periferie milanesi: lui intervistava politici, sindacalisti, amministratori e in un baleno gli veniva un articolo esemplare, pieno di notizie, io andavo per supermercati, case popolari e ospizi e faticavo moltissimo anche perché allora ero timida, ma all´ombra dei suoi pezzi anche i miei diventavano accettabili.


Come qualunque giornalista ansioso di rubargli il mestiere leggevo e sottolineavo la sua prosa lucida e avvincente (l´ho sempre fatto), e di lui avevo, ho sempre avuto molta soggezione. Sentivo il suo scarso apprezzamento delle donne che cominciavano in quegli anni a entrare nei quotidiani, come fossero dei corpi estranei, inadatti a un mestiere considerato particolarmente virile (che poi si rivelò particolarmente femminile).

Lo irritava soprattutto come mi vestivo, e certamente aveva ragione, visto che osavo portare i famosi hot pants d´epoca. Ci incontravano in case milanesi cosiddette intelligenti (ma non troppo), di signore alla moda e quindi socialiste, a un certo punto però passate di colpo da Craxi a Formentini, del resto come lui, ma per ragioni completamente diverse: per Bocca la Lega dava la voce a chi non l´aveva mai avuta, mandava all´aria le troppe ruberie, per molte signore, purtroppo a ragione, era un mutamento che non cambiava niente, tranne gli ospiti alle cene.


Ai tempi di Craxi e degli hot pants mi consigliava di vestirmi come la Silvia, diventata la sua seconda moglie, cioè con quelle gonne di tweed di gran classe che a me stavano malissimo. Ai tempi di Formentini cominciò a consigliarmi di far correggere i miei pezzi (sempre dalla Silvia) per migliorare almeno la sintassi.

Solo poco tempo fa, incontrandolo al ricco premio "E´ giornalismo" di cui era il giudice più severo (dopo la scomparsa di Montanelli e Biagi che lo avevano affiancato) mi ha confessato, forse per gentilezza, che pur non apprezzando le donne giornaliste, del mio lavoro era geloso, al punto di leggermi.


Ai tempi di "Milano da Bere" Giorgio Bocca era una star dei cosiddetti salotti, in cui arrivava con le sue brutte giacche, i modi rustici, i giudizi feroci e uno sguardo buonissimo. Le signore lo corteggiavano con insistenza, e lui che pure veniva giudicato un Don Giovanni, non sapeva come cavarsela, perché venuto a Milano dalla provincia piemontese ed essendo del 1920, come dice adesso sua moglie, concepiva i rapporti non tra donna e uomo, ma tra femmina e maschio e si sa che al maschio fa paura la femmina intraprendente.


Fu comunque in uno di quei salotti che incontrò la Silvia, lui abbandonato dalla prima moglie, lei dal primo marito: mettendosi subito a discutere su una di lui rubrica che lei giudicava bruttissima, ma apprezzandone il lauto compenso, non si lasciarono più, continuando a litigare per più di 40 anni.

Con Milano Bocca ha sempre avuto un rapporto strano, l´amava, dicono i suoi amici, senza riuscire a capirla, e ne scriveva in continuazione, scavando nei suoi misteri, contraddizioni, contrasti, lussi e crimini, proprio per arrivare a sentirla sua.

Ma, dicono, Bocca non è stato né milanese né cuneese, ma un uomo solitario le cui sole radici vere, di cui non ha mai smesso di parlare e di amare, di sentire come sola patria, sono stati i luoghi della vita partigiana, i boschi, le valli, le cascine.


Intanto, mentre i salotti cambiavano ancora colore, naufragando nel berlusconismo, Bocca si ritirava da quella classe padrona che lui, figlio di maestri e legato col cuore e il cervello alla gente dalla vita difficile, cominciò a bastonare duramente, diventano un nemico, come la Camilla Cederna, l´unica giornalista che come lui era stata una impareggiabile cronista degli anni di piombo e della Milano borghese.

Lui stesso ha ricordato come all´Europeo, nel ‘54, si era «a scuola dalla Camilla Cederna, che era una gran signora milanese, una donna elegante e curiosa, senza un´ombra di stanchezza, testimone attenta con il gusto di raccontare». Via le brutte giacche, Giorgio Bocca accettava ormai da tempo pochi inviti, badando soprattutto alla qualità del cibo.


Quindi sì alle cene di Inge Feltrinelli, tutto cucinato in casa e ospiti con cui parlar male dei tempi sempre più grami, sì alla festa per i suoi novant´anni a Villadeati, previa assicurazione che ai tanti ospiti sarebbe stata ammannita una colazione sull´erba di provenienza piemontese, sì anche negli ultimi giorni di vita al cotechino mandatogli da un amico parmigiano, però subito giudicato non all´altezza di quelli di Cuneo.
Giulio AnselmiGiulio Anselmi

Anche ultimamente c´era chi gli rimproverava di aver lavorato, del resto prima che Berlusconi scendesse in politica, nelle sue televisioni, e di aver avuto una infatuazione per la Lega. «Accettammo un invito ad Arcore e si litigò subito - racconta Silvia - , tanto che finimmo col chiamarlo Berluscotti e Veronica si complimentò con noi per avergli risposto malamente come non era mai successo. Quanto a Bossi venne anche a casa nostra in golfino rosso, e non ne disse una giusta, e quindi Giorgio si ricordò della sua mamma, che faceva la custode di una fabbrica di abbigliamento dove noi anni prima andavamo per i saldi, che sospirava scuotendo la testa, su quel figlio, "l´Umberto, che passa tutta la giornata a leggere fumetti"».

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