venerdì 9 dicembre 2011

FINANZA PADRONA DEI GOVERNI e delle nostre vite


La bolla dell’insubordinazione



Di Christian Marazzi

La crisi del capitalismo finanziario che si è imposto negli ultimi trent’anni è speculare alla crisi del rapporto tra capitale e lavoro che ha siglato la fine del regime fordista d’accumulazione e la transizione verso un capitalismo caratterizzato dalla centralità della rendita rispetto alle variabili «reali» dell’economia, ossia salario, prezzo e profitto. La finanziarizzazione dell’economia prende avvio negli anni Settanta con la deregolamentazione dei mercati dei cambi che ha fatto seguito alla rottura degli accordi di Bretton Woods, si sviluppa con la deregolamentazione dei mercati finanziari con la nascita dei mercati obbligazionari ai quali gli Stati si rivolgono per finanziare i propri debiti pubblici, si espande ulteriormente alla fine degli anni Ottanta con lo sviluppo dei mercati dei prodotti derivati e, dalla metà degli anni Novanta a oggi, con la globalizzazione dei mercati monetari e finanziari. «Ma l’elemento più impressionante – scrive François Morin nel suo Un mondo senza Wall Street? – è senza alcun dubbio la rapidità con la quale i mercati di copertura si sono sviluppati. Nel 1987, sui mercati delle opzioni e dei futures il volume degli scambi era pari a 1,7 teradollari (T$), mentre alla fine 2009 aveva raggiunto i 426,7 T$. Se si eccettuano i Cds che sono passati da 0,9 T$ nel 2001 a 62,1 T$ nel 2007, prima di calare di nuovo a 30,4 T$ nel 2009, questa folgorante espansione non è stata arrestata dalla crisi». La creazione di liquidità, in altre parole, è praticamente illimitata e lubrifica una finanza di mercato in cui i rischi legati ai più diversi prodotti finanziari sono tra loro tutti correlati, dando origine a processi contagiosi che alimentano una bolla dopo l’altra, dalla bolla internet a quella dei subprime alla bolla dei debiti sovrani. È infatti nella natura stessa dei mercati finanziari il fatto di essere intrinsecamente instabili, soggetti cioè a processi autoreferenziali, tali per cui l’aumento del prezzo di un attivo finanziario non provoca la riduzione della sua domanda, bensì l’opposto, ossia un ulteriore aumento della domanda, facilitato dall’accesso al credito.

L’autonomizzazione della finanza dall’economia reale è l’altra faccia dell’autonomizzazione del capitale dal rapporto diretto tra capitale e lavoro salariato, quel processo che vede il capitale colonizzare sempre nuove «terre vergini», sussumendo prima il lavoro salariato alla finanza e al debito, poi i beni comuni di intere popolazioni attraverso la privatizzazione dei debiti pubblici e, infine, la stessa sovranità degli Stati. È un processo sincopatico, fatto di alternanza tra espansione e contrazione, che nel corso degli ultimi decenni ha visto la biforcazione tra tassi di profitto e tassi di accumulazione, con i primi in costante aumento e i secondi stagnanti, se non regressivi. Gli aumenti dei profitti si effettuano attraverso tagli di salari e occupazione, flessibilizzazione del lavoro e esternalizzazione dei processi di estrazione/appropriazione del valore prodotto nella sfera della circolazione del capitale. In questo movimento espansivo del capitale i beni comuni vengono «recintati», ossia privatizzati, generando esclusione e povertà. L’accumulazione del capitale si effettua a mezzo di esclusione, di sfruttamento non remunerato della vita, di «disoccupazione attiva». Si effettua attraverso la generalizzazione dei rapporti di debito/credito all’intero ciclo di vita del capitale e della forza-lavoro. Di fatto, il capitalismo finanziario è, come ha scritto Maurizio Lazzarato, una vera e propria «fabbrica dell’uomo indebitato».

Nella configurazione odierna del capitalismo finanziario i margini di riforma, di «riregolamentazione[ dei mercati, di ristrutturazione del debito privato e sovrano, sono estremamente ridotti. La rivendicazione del «diritto all’insolvenza» ha infatti senso come obiettivo di uscita dal capitalismo, come processo di insubordinazione dal basso che deve trovare in sé le forme della propria autodeterminazione. La posta in palio non è il fallimento di un paese o di un altro, dato che la finanziarizzazione ha ormai raggiunto un tale livello di interdipendenza da rendere pressoché impossibile qualsiasi riduzione del debito senza effetti devastanti per tutti. La posta in palio è la costruzione di un contro-potere costituente interno ai processi di mobilitazione sociale.

Contributo di Christian Marazzi sul debito


Pubblicato in Precarietà e reddito da Cantiere Martedì 13 Settembre 2011

Quando si analizza la finanziarizzazione degli ultimi 25 anni si tende a contrapporre l’economia cosiddetta reale a quella finanziaria dove nella prima si producono merci, beni e servizi secondo lo schema classico denaro merce denaro-primo (D-M-D1) mentre nella seconda si produce denaro a mezzo di denaro (D1-D2). Tuttavia oggi vi è aumento dei profitti perché sono stati tenuti bassi i salari reali con le varie misure di precarizzazione, di delocalizzazione, di ricorso all’outsourcing, ma anche grazie a un meccanismo di produzione di denaro a mezzo di denaro. La finanziarizzazione non si situa più soltanto alla fine del ciclo degli affari, come scelta di utilizzo dei profitti come investimento sui mercati finanziari, ma si spalma lungo tutto il circuito del capitale. General Motors e General Electrics, come qualsiasi altra impresa, hanno sviluppato un servizio di credito agli acquirenti in modo tale da rendere possibile la vendita stessa. Assistiamo da alcuni anni ad un vero e proprio processo di esternalizzazione della produzione stessa di valore, lo abbiamo visto con i lavoratori autonomi di seconda generazione, con i processi di outsourcing, con i modelli tipo IKEA e Google che tendono a fare del consumatore un produttore di valore, con risparmio notevole per le aziende. Questo mi porta a dire che è scorretto continuare a ragionare nei termini di contrapposizione fra economia reale “buona” perché produce merci, salario e occupazione e una economia cattiva, finanziaria, che sottrae risorse all’economia reale. In realtà questa sottrazione di risorse all’economia reale riflette una metamorfosi del processo di accumulazione (..) tanto è vero che è un processo oramai trentennale che non ha compromesso la crescita. La finanziarizzazione è riflesso della biforcazione tra tasso di accumulazione quasi piatto (il tasso di investimento in forza lavoro - capitale variabile- e in mezzi di produzione -capitale costante) e profitti. In questo processo si è ampliata la distanza tra ricchi e poveri nella misura in cui i salari sono rimasti bassi nel contesto di sistemi economici che sono cresciuti. A questa polarizzazione tra la ricchezza e l’impoverimento dovuto al venir meno della leva salariale come motore della crescita della domanda è corrisposto un aumento della rendita finanziaria e un aumento dell’indebitamento delle famiglie o dei singoli. Questo debito da una parte ha contribuito alla crescita con l’aumento della spesa, realizzando le condizioni per le rendite finanziarie e dall’altra parte è stato un modo per compensare la mancanza di reddito. In sintesi la finanziarizzazione ha prodotto rendite finanziarie da una parte e rendite negative cioè debito dall’altra garantendo la realizzazione dei profitti. Il debito privato è diventato quello che in epoca fordista era il debito all’interno del Welfare state, cioè una modalità di creazione di redditi aggiuntivi necessari ad aumentare la domanda effettiva, per realizzare profitti. C’è stata una sorta di privatizzazione del deficit spending. Le famiglie, le economie domestiche, i giovani attraverso le borse di studio, le spese correnti a mezzo di debito persino per garantirsi la riproduzione pura e semplice sono diventate centri di creazione di reddito aggiuntivo attraverso il debito. La debt generation non ha un corrispondente salariale ma solo la possibilità di indebitarsi. Il debito è la negazione di un riconoscimento di questa produttività diffusa e sociale che viene catturata dal capitale. Per questo è legittimo pensare di rovesciare il debito privato in quello che si potrebbe chiamare una rendita sociale come remunerazione del lavoro gratuito non riconosciuto della moltitudine. Lottare per il diritto alla bancarotta significa lottare per il riconoscimento di questa natura valorizzante del cittadino che però appunto ha come unico corrispettivo l’indebitamento. Il debito è il terreno di lotta per l’affermazione di questo valore che è stato chiamato il comune perché è l’insieme di attività che accomunano noi tutti che sono un vero e proprio terreno di conquista da parte del capitale e però sono anche un terreno di autodeterminazione e di auto valorizzazione della forza lavoro. Questa fase della finanziarizzazione del Welfare chiama in essere delle lotte di liberazione del comune, lotte di liberazione non più nazionale ovviamente, di liberazione del comune, nella forma dello sviluppo locale del comune. Siamo in un assetto di tipo imperiale dove per imperiale si intende la concorrenza di una pluralità di poli di crescita e di regolazione anche bellica dei rapporti internazionali, dove non c’è più un centro unico funzionale però nella divisione internazionale del lavoro noi abbiamo una sorta di ritorno dell’imperialismo se pensiamo al comune. L’Imperialismo destrutturava l’economia locale fatta di regole sue… ma senza ristrutturarla, creando questa dipendenza a vita rispetto ai paesi capitalistici del nord. Destrutturazione senza ristrutturazione è il binmomio che oggi caratterizza il rapporto capitalistico nei confronti dei “comuni” tale per cui una persona indebitata a vita non ha oggi nessuna possibilità di progettazione della propria vita (sia in senso individuale che collettivo). Pensiamo alla crisi dei subprime, da cui è cominciato tutto. In un certo senso si potrebbe partire da lì per spiegare le stesse sommosse nei paesi del nord africa, del Maghreb etc… è a partire dalla crisi dei subprime che si è innestata una ondata per esempio speculativa sulle materie prime alimentari che ha aggravato la povertà e la disoccupazione nei paesi più poveri. Attraverso il debito si è cooptato una popolazione sempre meno ricca come quella americana all’interno di questo meccanismo di sfruttamento del comune (in questo caso il diritto alla casa). Il meccanismo è imperialistico: la trappola del debito da una parte, ovvero questa creazione di domanda nelle fasce povere della popolazione per permettere di accedere ai prodotti capitalistici come la casa, sostenendo il settore immobiliare e poi la crisi come produzione di povertà, esclusione dal diritto alla casa, da questo comune. E’ lo specifico della crisi finanziaria: un processo di inclusione da una parte e di esclusione dall’altra sottoforma di pauperizzazione che ricorda molto il processo delle recinzioni-enclosures del Seicento dove si è privatizzato il bene comune (la terra) includendolo nel processo di accumulazione capitalistica e si è creato un proletariato privato dell’accesso a questo bene comune. Oggi questo processo avviene sulla casa e ai livelli del lavoro immateriale: i social network contengono un comune che è terra vergine per il capitale, che la vuole colonizzare escludendo l’accesso per coloro che non avranno i soldi sostenerlo. Il debito (come fu per il salario) è una parola utile a produrre processi di ri-composizione di classe. E’ appropriata la definizione di “debt generation” perché, tra l’altro, è la traduzione della crisi della governance. La crisi dell’Europa oggi è la dimostrazione che manca una governance in grado di gestire i rapporti di debito. La crisi di regolazione dell’Europa verte sulla necessità o meno di non pagare il debito. La Grecia cos’è oggi se non questo? Quando si parla di ristrutturazione del debito di solito si tratta del rifiuto di pagarlo.
Christian Marazzi

Nessun commento:

Posta un commento