giovedì 15 dicembre 2011

dov'è la sinistra?


di Serge Halimi, da Le Monde Diplomatique

Gli americani che manifestano contro Wall Street
protestano anche contro i suoi raccordi in seno
al partito democratico e alla Casa bianca. E certo
ignorano che i socialisti francesi continuano a invocare
l’esempio di Barack Obama, sostenendo che contrariamente
a Nicolas Sarkozy, il presidente Usa si sia dimostrato capace
di agire contro le banche. Ma è davvero solo un abbaglio?
Chi non vuole (o non può) puntare il dito contro i capisaldi
dell’ordine liberista (finanziarizzazione, globalizzazione
dei flussi di capitali e merci) cade facilmente nella tentazione
di personalizzare la catastrofe, imputando la crisi del capitalismo
agli errori di concezione o di gestione dell’avversario
interno di turno. In Francia la colpa sarà di Sarkozy, in
Italia di Berlusconi, in Germania della Merkel. D’accordo.
Ma altrove? Nelle altre realtà – e non solo in quella degli
Stati uniti –, anche i leader politici presentati a lungo come
capofila della sinistra moderata si ritrovano a fronteggiare i
cortei degli indignati. In Grecia George Papandreou, presidente
dell’internazionale socialista, ha attuato una drastica
politica d’austerità, che oltre alle privatizzazioni massicce
e alla soppressione di posti nel pubblico impiego comporta
la consegna della sovranità economica e sociale del suo
paese a una «troika» ultraliberista (1). Come ci ricordano
anche i governi di Spagna, Portogallo e Slovenia, il termine
di «sinistra» è ormai talmente svalutato da non essere più
associato a un contenuto politico particolare.
Si dà il caso che uno dei maggiori responsabili del vicolo
cieco in cui si trova la socialdemocrazia europea sia il portavoce…
del partito socialista (Ps) francese. «In seno all’Unione
europea – nota Benoît Hamon nel suo ultimo libro – il Partito
socialista europeo (Pse) è storicamente associato, grazie
al compromesso che lo lega alla democrazia cristiana, alla
strategia di liberalizzazione del mercato interno e alle sue
conseguenze sui diritti sociali e sui servizi pubblici. Sono
stati i governi socialisti a negoziare i piani d’austerità voluti
dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale
(Fmi). In Spagna, in Portogallo e in Grecia la contestazione
dei piani di austerità è ovviamente rivolta non solo contro
l’Fmi e la Commissione europea, ma anche contro i governi
socialisti nazionali. (...) Una parte della sinistra europea non
contesta più le tesi della destra sulla necessità di sacrificare
lo stato-provvidenza per ristabilire l’equilibrio di bilancio e
lusingare i mercati. (...) In varie realtà del pianeta siamo stati
un ostacolo al progresso. A questo non mi rassegno (2)».

Tormenta economica, impasse democratica.

Nel momento in cui il capitalismo attraversa la più
grave delle sue crisi dopo quella degli anni '30, i
principali partiti di sinistra rimangono muti e imbarazzati.
Nel migliore dei casi promettono di rabberciare
il sistema, ma più spesso cercano di dar
prova di senso di responsabilità raccomandando
a loro volta purghe liberiste. Quanto potrà durare
questa blindatura del sistema politico, mentre la
rabbia sociale continua a salire?
Indipendente da ogni decisione democratica, la Banca
centrale europea doveva incarnare la stabilità monetaria.
Invece ha portato l’eurozona quasi ad esplodere.
Eppure, la crisi ha tanto rafforzato il suo potere da far
sembrare a volte che la sorte dei lavoratori del Vecchio
continente si giochi a Francoforte.
Per altri questa trasformazione è invece irreversibile, in quanto
originata dall’imborghesimento dei socialisti europei, ormai lontani
dal mondo operaio. In Brasile il Partito dei lavoratori (Pt), pure
abbastanza moderato, ritiene che la sinistra latinoamericana debba
prendere il posto di quella del Vecchio continente, divenuta troppo
capitalista e atlantista per poter difendere legittimamente gli interessi
popolari: «È in atto oggi uno spostamento geografico della direzione
ideologica della sinistra nel mondo», sosteneva nel settembre scorso
un documento preparatorio del congresso del Pt. «Il Sudamerica si
distingue in questo contesto. (...) La sinistra dei paesi europei, che
tanto ha influenzato, fin dal XIX secolo, la sinistra nel mondo, non
ha saputo dare risposte adeguate alla crisi, e sembra capitolare di
fronte al dominio del neoliberismo (3)». Forse il declino dell’Europa
è anche il crepuscolo dell’influenza ideologica del continente che
vide nascere il sindacalismo, il socialismo e il comunismo, e sembra
oggi più disposto di altri a rassegnarsi alla loro scomparsa.
Vuol dire allora che la partita è persa? Gli elettori e i militanti di
sinistra tuttora più legati ai contenuti che a etichette fittizie possono
sperare, anche nei paesi occidentali, di combattere la destra a fianco
di compagni conquistati dal liberismo, ma tuttora egemoni sul piano
elettorale? Di fatto, il balletto è ormai rituale: per la durata di una
campagna elettorale, la sinistra riformista si distingue dai conservatori
solo grazie a un effetto ottico. Dopo di che, non appena ne ha
l’occasione, si mette d’impegno a governare come farebbero i suoi
avversari, badando a non turbare l’ordine economico e a proteggere
l’argenteria dei signori del castello.
La trasformazione sociale, di cui la maggior parte dei candidati di
sinistra alle prese con le responsabilità di governo, proclama la necessità,
anzi l’urgenza, richiede evidentemente qualcosa di più della
retorica elettorale. Ma anche l’accesso al potere. Ed è proprio su
questo punto che la sinistra moderata impartisce lezioni ai «radicali»
e agli altri «indignati», proclamando che non può starsene ad aspettare
«le grand soir» (leggere alle pagg. 14-15 il dibattito tra Samuel
Gompers e Morris Hillquit); e neppure sognare di sottrarsi alle impurità
del mondo trincerandosi in una contro-società popolata di esseri
eccezionali (leggere a pag. 16 l’articolo di Franck Poupeau). Per
riprendere i termini usati cinque anni fa da François Hollande, non
intende «bloccare, ma fare; vuole agire, non frenare; conquistare
piuttosto che resistere». E pensa che «non battere la destra vuol dire
mantenerla al potere, e quindi sceglierla (4)». Mentre a suo parere
la sinistra radicale preferisce «cavalcare qualunque tipo di rabbia»,
pur di non fare «la scelta del realismo (5)».
La sinistra di governo – ed è questo il suo principale asso nella manica
– dispone «qui e ora» di truppe elettorali e di quadri impazienti,
che le permetterebbero di assicurare l’alternanza. Ma l’impegno a
«battere la destra» non può di per sé sostituire un programma o una
prospettiva. Una volta vinte le elezioni, c’è il rischio che le strutture
esistenti – nazionali, europee, internazionali – oppongano uno sbarramento
alla volontà di cambiamento espressa durante la campagna
elettorale. Di fatto, negli Stati uniti Barack Obama ha potuto sostenere
che le lobby dell’industria e l’ostruzionismo parlamentare repubblicano
abbiano minato il suo volontarismo e ottimismo («Yes, we
can»), pure sostenuti da un’ampia maggioranza popolare. Altrove, i
governi di sinistra si sono scusati della loro prudenza – o pusillanimità
– accusando i «vincoli» e i problemi «ereditati» (assenza di competitività
internazionale del settore produttivo, livello del debito ecc.)
di aver ristretto i loro margini di manovra. «La nostra vita pubblica è
dominata da una strana dicotomia – aveva detto, fin dal 1992, Lionel
Jospin. Da un lato si imputa al potere [socialista] la disoccupazione,
il malessere delle banlieue, le frustrazioni sociali, l’estremismo di
destra, la mancanza di prospettive della sinistra. Dall’altro gli si comanda
di rimanere nell’alveo di una politica economico-finanziaria
che rende assai difficile affrontare questi problemi (6)».
A vent’anni di distanza, la formulazione di questa contraddizione
non ha neppure una ruga. I socialisti sostengono che, in generale, una
sconfitta elettorale della sinistra scatena la messa in opera da parte
della destra di una bordata di «riforme» liberiste – privatizzazioni,
restrizioni dei diritti sindacali, amputazione dei proventi pubblici –
che distruggeranno gli strumenti di un’eventuale politica di segno
diverso. E quindi invitano al «voto utile» in loro favore. Ma una
sconfitta socialista può anche portare vantaggi pedagogici. Come
ammette Benoît Hamon, ad esempio in Germania «l’esito delle elezioni
legislative [del settembre 2009], che ha valso all’Spd il suo peggior
risultato [il 23% dei suffragi] da oltre un secolo, ha convinto la
direzione del partito della necessità di cambiare orientamento (7)».

I socialisti greci si congratulano con se stessi per aver agito piùrapidamente di Margaret Thatcher…

Un riassestamento dottrinale di portata altrettanto
modesta, è intervenuto in Francia dopo la sconfitta dei
socialisti alle legislative del 1993, e nel Regno unito in seguito alla
vittoria del partito conservatore nel 2010. E senza alcun dubbio si
potranno constatare tra non molto sviluppi identici in Spagna e in
Grecia. In effetti, è difficile che i governanti socialisti di quei paesi
possano imputare la loro sconfitta prossima ventura a una politica
esageratamente rivoluzionaria… Per sostenere la causa di Papandreou,
la deputata socialista Elena Panaritis si è persino azzardata
a ricorrere a un paragone sconcertante: «Margaret Thatcher ha
impiegato undici anni a realizzare la sue riforme, in un paese con
problemi strutturali meno gravi [dei nostri]. Il nostro programma
è stato varato in soli quattordici mesi (8)!» In sintesi, «Papandreou
meglio della Thatcher!». Non si esce da questo intrico senza stabilire
un elenco delle condizioni preliminari per richiamare all’ordine
la globalizzazione finanziaria. Ma subito sorge un problema: tenuto
conto dell’abbondanza e della sofisticazione dei dispositivi che da
trent’anni hanno ordito l’incastro tra sviluppo economico degli stati
e speculazione capitalista, d’ora in poi qualunque programma di riforme,
anche relativamente morbido (meno ingiustizia fiscale, difesa
del bilancio per la scuola, moderato incremento del potere d’acquisto
dei salari ecc.) impone tutta una serie di rotture, non solo con l’attuale
ordine europeo ma anche con le politiche finora fatte proprie dai
socialisti (9).


VISTO DA DESTRA
«Dopo tutto, quello che i socialisti inglesi hanno fatto dieci anni
fa, forse la destra francese può farlo ora.»
Nicolas Sarkozy, università estiva del Movimento delle imprese di
Francia (Medef), 30 agosto 2007.
«Quando sento Gerhard Schröder in Germania parlarmi del suo
progetto di sospendere le indennità di disoccupazione dopo un
anno e Tony Blair della privatizzazione degli ospedali, non mi
sento il meno a sinistra dei tre.»
Jean-Pierre Raffarin, citato da Le Monde, 27 febbraio 2004
«La socialdemocrazia è l’accettazione del liberalismo sfrenato
con, in più, qualche parola di rammarico.»
Philippe Séguin, Acteurs de l’économie, n° 49, Lione, novembre
2004.
«Il punto più vulnerabile della sinistra – quello essenziale – è
che non è di sinistra! Questa constatazione critica, segretamente
condivisa da molti elettori e simpatizzanti di sinistra, esaspera
e disorienta l’attuale maggioranza [socialista]. Solo la verità fa
male. La sinistra governativa ha cattiva coscienza. Sa bene che
la sua gestione economica è tagliata sull’economia di mercato
e il capitalismo globalizzato; sa bene di non poter offrire
un’alternativa seria. (…) Più il numero delle privatizzazioni
aumenta (France télécom, Crédit lyonnais, Thomson, Cic,
Gan, Aérospatiale, Air France...) più la Borsa sale (quasi il
100% in tre anni), più si allargano i campi della concorrenza
(telecomunicazioni, energia, settori bancari, assicurazioni), più ci
viene spiegato che tutto ciò si iscrive in una dimensione socialista
e umanistica.»
François Fillon, Libération, Parigi, 7 marzo 2000, a proposito del
governo guidato da Lionel Jospin.






(1) Composta dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea (Bce)
e dal Fondo monetario internazionale (Fmi).
(2) Benoît Hamon, Tourner la page. Reprenons la marche du progrès social,
Flammarion, Parigi, 2011, p. 14-19
3) Agenzia France-presse, 4 settembre 2011.
(4) François Hollande, Devoirs de vérité, Stock, Parigi, 2006, pp. 91 e 206.
(5) Ibid, pp. 51 e 43.
(6) Lionel Jospin, «Reconstruire la gauche », Le Monde, 11 aprile 1992.
(7) Benoît Hamon, op. cit., p. 180.
(8) Citato da Alain Salles, «L’odyssée de Papandréou», Le Monde, 16 settembre 2011.
(9) Leggere «Il referendum per un’Europa diversa e solidale », Le Monde diplomatique/
il manifesto, giugno 2005.

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