giovedì 6 ottobre 2011

Addio a Steve Jobs

Vorrei ricordare in questo triste giorno per la Apple anche quei meschini
sciagurati operai suicidi della Foxconn (costruttori dell' hardware in Cina, dove Jobs aveva delocalizzato ) indotti al suicidio per i soprusi che subivano in fabbrica.



Un'eredità misteriosa per il capitalismo americano

di FEDERICO RAMPINI, da Repubblica



San FRANCISCO - L'impronta di Steve Jobs nella storia dell'industria americana, il suo lascito all'economia dei nostri tempi, è formidabile ed è indefinibile. Non esiste una "teoria di Steve Jobs", una ricetta. Passerà del tempo prima che sia chiaro se Apple può ripetere gli stessi exploit, prolungare quella corsa forsennata, anche senza di lui: ma non è questo il punto. L'eredità che Jobs ci lascia è misteriosa perché è difficile dire che cosa sia stata Apple sotto la sua guida ispiratrice. Un'impresa informatica? Solo all'origine, con la gamma dei Macintosh e poi degli iMac. Ma venne l'iPod con annesso l'ipermercato virtuale iTunes: così Apple invase e cambiò il business musicale. Poi l'iPhone: è allora una società telefonica? E l'iPad: Jobs come reinventore del mondo dell'informazione e dell'editoria? E gli Apple Store: un gigante della distribuzione? E' stato un po' di tutto, il che spiega il fantastico sorpasso di Borsa sulla Microsoft, il balzo verso il primato mondiale assoluto tra le imprese tecnologiche.

Questo è tanto più sorprendente per un'azienda che fu moribonda, stava letteralmente scomparendo quando Jobs vi fece il suo ritorno dopo un lungo divorzio. A decifrare la vera natura di Jobs forse aiuta la definizione che ne diede John Sculley, sfortunato chief executive dal 1983 al 1993: "La gente parla di tecnologia, ma la verità è che Apple è stata un'azienda di marketing. L'azienda di marketing del decennio". Fuochino fuochino, ma anche questo non basta. Il mondo intero si era talmente abituato ai trionfi di Jobs, che le sue innovazioni ci sembravano perfino scontate. La sua filosofia è stata rivoluzionaria in molti campi, fino a fare scuola: e quindi oggi detta legge e sembra quasi scontato che sia così. Un esempio è il design. Vent'anni fa chi si sognava che un computer dovesse essere "bello"? Ci accontentavamo di scatoloni disegnati col righello, purché funzionassero.

Dopo Steve Jobs, la fusione tra estetica e tecnologia è un obbligo per sopravvivere in quel settore. Il che non significa che i suoi computer fossero solo degli oggetti del desiderio. In fatto di tecnologia, i loro interfaccia grafici conquistarono fin da principio nicchie di utenti sofisticati e in grado d'influenzare altri (grafici, pubblicitari, giornalisti, case editrici). Ecco un'altra costante di Apple: la capacità di sfornare status-symbol, adottati da chi poi detta le mode. Il caso dell'iPod fu forse il più clamoroso esempio di reinvenzione di un prodotto già esistente: gli mp3 per ascoltare musica. Jobs ci aggiunse, oltre al design dell'iPod ben più seducente di ogni altro predecessore, anche la novità di iTunes, magazzino virtuale di tutta la musica umana. E convinse generazioni di "pirati", abituati a copiare gratis i brani musciali, a soggiacere al micro-pagamento di 99 centesimi. Da allora, sembra quasi che la musica digitale l'abbia inventata Apple, perché l'epoca pre-iPod sembra preistoria. Un mistero della fede è anche il modo in cui Steve Jobs gestiva la comunicazione: contravvenendo a tutte le regole.

La sua era per il 99% del tempo non-comunicazione, anti-comunicazione: poche aziende hanno trattato così male i giornalisti come Apple, e nessuna ha ricevuto in cambio così tanta pubblicità gratuita. L'alone di leggendaria segretezza che Jobs imponeva a tutti i suoi collaboratori, la caccia spietata contro i responsabili delle fughe di notizie, costruivano attorno al quartier generale di Cupertino un clima mitico d'impenetrabilità. Ma anziché provocare ostilità o indifferenza, questa strategia alimentava attese parossistiche prima del lancio dei nuovi prodotti. Poi appariva Jobs, il Profeta, osannato dai seguaci come fossero appartenenti a una setta religiosa. Per descrivere l'atteggiamento dei consumatori verso Apple è stato usato spesso il termine "devozione", che noi associamo alla Chiesa. Poche marche nella storia dell'industria moderna hanno saputo conquistarsi un simile patrimonio di fedeltà. Forse la Ferrari o il Rolex ma di certo nessun produttore di beni di massa, venduti a decine o centinaia di milioni di esemplari nel mondo.

Nel sondaggio annuo della rivista Fortune, Apple è risultata come l'azienda più ammirata del mondo per tre anni consecutivi, nel 2008, 2009 e 2010. La "filosofia" che Jobs ha portato alle estreme conseguenze per altri aspetti è figlia della Silicon Valley, è una costante di alcune generazioni di imprenditori innovativi radicati nella West Coast degli Stati Uniti: l'organizzazione aziendale "piatta", cioè poco gerarchica, la flessibilità, lo stile ostentatamente ludico e giovanilista dei "campus", il premio ai geni creativi trasgressivi e ribelli, tutto questo fu vero per una fase iniziale alla Microsoft, così come lo è stato per Google e Facebook. Apple ha inventato l'etichettatura "designed in California", restituendo all'America la speranza che la globalizzazione e le delocalizzazioni manifatturiere non impediscano di conservare il ruolo più pregiato: essere il luogo di "concezione, progettazione", la fabbrica delle idee. Jobs diede della cultura californiana un'interpretazione particolare, applicandola con uno stile personale furiosamente autoritario, la determinazione di "spremere" i suoi talenti migliori umiliandoli e mettendoli in competizione fra loro. Praticò un rigore maniacale nello scartare nove progetti prima di approvarne uno, e a quel punto concentrava tutta l'attenzione su quel prodotto nuovo, la sua qualità, la soddisfazione del cliente. Perché è impossibile prevedere oggi se le sue ricette siano ripetibili? Perché alla fine la magìa si accendeva nel momento in cui Jobs saliva sul palco, e l'affabulatore ipnotizzava le masse. Quella non era economia industriale, era arte.


Steve Jobs vive negli affamati e folli

di Federico Mello, da Il Fatto Quotidiano

Stanotte alle due, mi squilla il telefono. È Natangelo, mio amico nonchè vignettista del Fatto. Rispondo preoccupato, visto l’orario. E Mario mi fa soltanto: “E’ morto Steve Jobs”. Siamo rimasti in silenzio alcuni minuti. Non riuscivamo a dire nulla.

E’ quasi un anno che lavoro alla biografia di Jobs: oggi il giorno previsto per andare in stampa. Ne avevo parlato con Mario in lungo e in largo. Lui, così come con altri amici, familiari, colleghi, era stato ammorbato dai miei racconti, dagli episodi della sua vita, dalla sua carica visionaria, dalle sue vicende esempio e guida per le generazioni future.

Un lavoro di questo tipo significa, quasi, vivere con una persona. Scrutarne gli umori, le emozioni, immaginarne le reazioni e le paure. E poi, dal nulla, ti arriva questa notizia. È come se fosse morto un parente, un maestro. Non è facile trovare le parole per raccontare questa sensazione, il rischio del “coccodrillo”, del compianto peloso e postumo, è sempre dietro l’angolo.

È ancora peggio, ora, pensare come oggi capitani d’azienda e falsi innovatori che abbondano in Italia esprimeranno il loro commiato. Loro, vissuti alle spalle dello Stato, sempre paurosi di fronte al rischio, cementatori dell’immobilismo specialità d’esportazione qua in Penisola, diranno che hanno perso un modello, un punto di riferimento.

E invece loro, con Steve Jobs, non c’entrano nulla. Sono l’incarnazione vivente del suo esatto contrario.

La più grande lezione che Steve Jobs ci lascia, il più grande insegnamento per la vita di ogni giorno, è semplice. Non abbiate paura. Non abbiate paura della morte, la destinazione che tutti condividiamo: siamo tutti “già nudi” tutti di fronte a lei. Per questo bisogna vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, bisogna vivere ogni minuto fino in fondo, è imperdonabile vivere la vita di qualcun altro.

Non abbiate paura di sfidare lo status quo, dice anche. Ci ricordiamo Jobs all’apice del suo successo, negli ultimi dieci anni. Ma la sua vita è stata una corsa folle senza nessun rispetto delle convenzioni, una sfida continua contro le regole costituite e i giganti dell’informatica, da Ibm a Microsoft. “Perché andare in Marina se puoi essere un pirata?” il suo insegnamento. “Se hai un’idea devi alzare la voce” il suo invito.

Non abbiate paura – è il grande testamento di Jobs – dei fallimenti. Lui, nel 1985 cacciato dalla Apple che aveva fondato nove anni prima; lui che con la sua Next visse dieci anni nell’ombra; lui che investì a fondo perduto decine di milioni di dollari in Pixar prima che questa, senza che nessuno l’avesse previsto, cambiasse il mondo dell’animazione con Toy Story; lui che dovette aspettare dodici anni prima di tornare ad Apple che andava verso la bancarotta (“Devo scegliere dove portare una nave che ha un’enorme buco sotto lo scafo”) e la trasformò poco tempo nel marchio con il più alto valore al mondo, più di Marlboro e Coca Cola; ci dice proprio questo. Tutti i miei fallimenti, a cominciare dalla cacciata da Apple: “è la cosa migliore che mi sia capitata nella vita”. Se la morte non fa paura, e lo status quo è il tuo nemico, il fallimento è una risorsa, è la molla che ti fa avanzare, che non ti fa sedere mai, che ti dà l’occasione per ricominciare sempre e tenere accesa la fiamma della fame e della follia.

In questo mondo che cambia velocemente, Steve Jobs era un faro al quale fare riferimento nella tempesta. Oggi rimane un guru da interpellare, attraverso gli episodi della sua vita, ogni volta che ci troviamo di fronte a un bivio.

In un mondo, e ancora più in un’Italia, che guarda sempre al passato, Steve Jobs è simbolo del futuro prossimo. Ed non si riesce a pensare oggi che quel futuro se ne sia andato per sempre.

Ma la sua lezione no, il suo testamento è vivo e vegeto. “Solo le persone che vogliono cambiare il mondo lo cambiano davvero” diceva spesso. Gli affamati e folli in giro per il mondo lo ricorderanno per sempre.

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