domenica 7 agosto 2011

Ancora per cercare di capire il tourbillon finanziario in corso




SPECULATORI DI TUTTO IL MONDO PENTITEVI!

di Ronny Mazzocchi, dalla pagina finanziaria dell'Unità


Quando giornali e tv denunciano gli speculatori che affondano le borse, deprimono i titoli di stato, destabilizzano le monete e persino i governi, quando anche Silvio Berlusconi accusa una «speculazione speciale» che si starebbe accanendo contro l’Italia, allora uno s’immagina pirati, predatori, golpisti della finanza internazionale, tutti insieme ad aggredire e a spartirsi mercati e profitti. Ma i signori che comandano i capitali, spostando somme enormi da un punto all’altro del mondo senza vincoli e controlli, senza rendere conto a governi e istituzioni, non sono hooligans impresentabili.

Così come la speculazione non è qualche cosa di estraneo al mercato, non è la parte negativa di un corpo invece sano. Semplicemente gli speculatori non fanno altro che cercare e creare le condizioni sui mercati per realizzare profitti. E questo sistema, piaccia o no, si chiama capitalismo. George Soros, ad esempio, l’investitore che per almeno un paio di decenni è stato considerato il “re” mondiale degli speculatori, è un distinto miliardario, capace di grandi slanci di generosità, di sostenere con fondi enormi le battaglie democratiche nell’Est europeo e nel Nord Africa. Pochi giorni fa si è pentito.

L’uomo che all’inizio degli anni Novanta spezzò la resistenza della Banca d’Inghilterra e affondò la lira ha chiesto scusa e ha annunciato il suo ritiro, anche se è la terza o quarta volta che lo fa. Soros è uno degli storici attori dei mercati, ma la scena internazionale oggi è occupata da protagonisti esperti e da altri nuovissimi, da banche d’affari che prestano i propri uomini ai governi occidentali e da fondi di investimento planetari, da fondi sovrani, anche da fondi pensione ricchissimi che cercano di difendere i risparmi, la sanità, la previdenza di milioni di iscritti.

Chi pensa di controllare o di limitare gli hedge funds, i fondi di copertura del rischio e tutti gli altri strumenti derivati spesso proposti al pubblico con acronimi inquietanti, deve pensare di scatenare una guerra mondiale dove le fila del “nemico” si ingrossano giorno dopo giorno perchè si alimentano dei nostri soldi, delle ricchezze e dei debiti delle nazioni. I vecchi investitori come Soros o come “l’oracolo di Omaha” Warren Buffett e persino il Gordon Gekko in bretelle del film “Wall street”, a ben vedere, fanno quasi tenerezza di fronte all’aggressività, alla forza dei fondi ad alto rischio, all’abilità combinata con la totale incoscienza degli interessi generali della collettività dei nuovi protagonisti della finanza mondiale. Difficile, spesso impossibile distinguere i buoni e i cattivi.

Prendiamo, ad esempio, un nome prestigioso come la Goldman Sachs, tanto influente nella storia, nell’economia e nella politica americana da essere chiamata “Governement Sachs”. Non c’è fenomeno di Borsa che non sia stato governato da Goldman Sachs, dal boom delle New Economy alla speculazione sulle materie prime fino ai mutui, e negli ultimi mesi la Sec, l’Autorità di controllo del mercato e la Borsa, ha svelato un tentativo della banca di creare una nuova moda di mercato sfruttando il progetto della green economy della Casa Bianca. Tre anni fa le banche, le compagnie di assicurazione Usa sono state salvate dai soldi opubblici di Obama, la Lehman Brothers è fallita, mentre Goldman Sachs è viva, in salute e ancora più ricca. Cose normali, si dirà, in un sistema come quello americano.

Certo, ma fa, invece, una certa impressione la proliferazione, dopo la morte di centinaia di fondi dopo la crisi del 2008, di altri soggetti, di strumenti di investimento ad alto rischio. Avanzano volti freschi come Raymond Dalio, creatore di Bridgewater associates il più grande hedge fund del mondo con un “portafoglio” pari a circa 90 miliardi di dollari. Oppure Kenneth Griffin, capo operativo di Citadel che gestisce una decina di miliardi di dollari. Questi sono fondi un po’ birichini, mentre più strutturati, istituzionali sono i maggiori investitori internazionali, quasi tutti di origine anglosassone, come, ad esempio, il gruppo BlackRock, il primo al mondo per capacità di investimento, analisi, consulenza.

È stato fondato solo nel 1988, oggi è il primo singolo azionista di Apple, col 5,5% del capitale, che vale oltre 15 miliardi di dollari. BlackRock opera in sessanta Paesi e possiede un “giardinetto” di investimenti in Italia. Ha il 3% della Fiat, e quote simili in Eni, Enel e Assicurazioni Generali, cioè nelle più importanti imprese italiane. La potenza di questi soggetti finanziari è difficilmente controllabile, di solito i poteri pubblici se ne accorgono solo quando esplodono scandali o fallimenti.

La creazione di questi mostri, tuttavia, non è stata alimentata solo dai capitali e dalla voracità degli investitori, ma la loro nascita e il loro successo sono stati favoriti dai processi di de-regolazione della finanza che ha liberato una massa enorme di risparnio, e poi di strumenti finanziari come i derivati «armi di distruzione di massa» secondo il vecchio Buffett, che risulta priva di controllo e che ha trasformato il sistema finanziario da strumento per lo sviluppo dell’economia a suo padrone. Difficile cambiare questo sistema se uno con un clic sul computer può spostare miliardi da un punto all’altro del mondo. Non ci sono neanche più i comunisti, che almeno avrebbero provato ad opporsi.


Così all'Fmi la politica «truccava» i dati

di Ronny Mazzocchi

L’attacco dei mercati finanziari a molti paesi europei, insieme alla giustificata apprensione delle classi dirigenti, ha riportato al centro del dibattito l’idea che sia necessaria una netta separazione tra politica ed economia. Passato il periodo iniziale della crisi, in cui era il mondofinanziario ad invocare l’intervento della politica per sopravvivere ad un tracollo che sembrava inevitabile, sembra che l’orologio si sia improvvisamente riposizionato a quegli ultimi mesi del 1989, quando Francis Fukuyama annunciava la «fine della storia», si dichiaravano morte tutte le ideologie e il mondo intero celebrava l’indiscutibile superiorità del mercato come istituzione capace di regolare i rapporti economici e sociali, relegando la politica al ruolo sempre più marginale di arbitro imparziale se non addirittura di spettatore indesiderato. Fu proprio nel clima eccitato di quei giorni che l’economista John Williamson coniò il termine «Washington Consensus» per descrivere quella serie di riforme liberiste che, inizialmente disegnate per i paesi del Sud America, divennero poi nell’immaginario collettivo il ricettario economico dell’era post-ideologica.

Nella realtà, però, l’ideologia continuò a farla da padrona, anche forse più di prima, ridisegnando non solo i rapporti di forza nei paesi e fra aree geografiche, ma anche influenzando sensibilmente l’attività di grandi istituzioni globalicomeil Fondo Monetario Internazionale (FMI). A dirlo non sono più solamente gli indignati saggi del Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz o la voce degli ultimi eredi del cosiddetto movimento di Seattle. A confermarlo stavolta è addirittura lo stesso FMI attraverso rapporto dell’Independent Evaluation Office (IEO) sulla qualità, la rilevanza e il profilo della ricerca nel periodo compreso fra il 1999 e il 2008.

Le 52 pagine del documento spaziano dall’inadeguato coinvolgimento dei singoli Stati beneficiari degli aiuti nelle scelte di politica economica, alla qualità della ricerca e all’impatto che questa ha avuto sul dibattito scientifico sia a livello accademico che nella pratica politica.Maa colpire è proprio l’ammissione che buona parte dell’attività di ricerca del Fondo monetario ha subito in quegli anni un fortissimo condizionamento politico con il risultato di renderla funzionale alle direttive che i vari direttori generali avevano stabilito e che coincidevano proprio con il Washington Consensus.

L’IEO ha ascoltato sia il parere dei molti tecnici in servizio presso i governi nazionali sia la voce di economisti attivi presso le più prestigiose università mondiali e i principali think tank economici. Ne è uscito un quadro tutt’altro che edificante. Secondo la metà delle autorità nazionali «la ricerca del Fondo era altamente prevedibile e non permetteva l’emergere di prospettive alternative». Un giudizio molto netto che investe «tutta l’attività di ricerca condotta dal FMI» e che diventa ancora più duro quando a parlare sono i rappresentanti dei governi dei paesi in via di sviluppo, che maggiormente hanno fatto ricorso alle attività di assistenza e aiuto del FMI. L’impressione generale che se ne trae è che «la ricerca del FMI partisse da posizioni già predefinite e che spesso le raccomandazioni di politica economica non seguissero le analisi condotte».

Non meno netto è il parere che è arrivato dagli economisti accademici secondo i quali la ricerca condotta nel Fondo monetario – sia quella più tecnica sia quella predisposta per fornire un supporto alle discussioni fra il FMI e le singole autorità nazionali - era «fissata su certi messaggi e non prendeva in considerazione visioni alternative». Una parte dei ricercatori interpellati ha addirittura dichiarato che questo era vero anche per le parti analitiche del World Economic Outlook (WEO), forse la più influente pubblicazione periodica del FMI di cui anche i mass-media forniscono solitamente un dettagliato resoconto.

Ma a rendere ancora più interessante il rapporto di autovalutazione è che ad esprimere un giudizio estremamente negativo sull’attività di ricerca sono soprattutto coloro che la realizzavano materialmente. Interpellati dall’IEO attraverso un questionario anonimo, il 62%dei ricercatori ha ammesso di aver avvertito la necessità di allineare le conclusioni dei propri lavori a quelle del FMI. Più della metà haaffermato di conoscere dei casi in cui i risultati delle ricerche condotte sono stati modificati per ricalcare la visione istituzionale del FMI.

L’aspetto forse più inquietante è l’ammissione che le raccomandazioni di politica economica contenute negli articoli non erano il risultato dell’attività di ricerca, ma tendevano a seguire le linee già stabilite dal Fondo monetario. Un comportamento che trovava la sua massima espressione proprio nelle principali pubblicazioni dell’organizzazione - fra cui il già citato WEOe il Global Financial Stability Report – mentre maggiori spazi di libertà sembravano essere concessi ai ricercatori solamente nella assai poco influente raccolta di working papers.

Se formalmente il FMI dichiarava che l’attività di ricerca costituiva un elemento imprescindibile per sostenere gli indirizzi di politica economica e i programmi concreti di azione, il rapporto dello IEOsembra riconsegnarciuna realtà radicalmente diversa. Nel periodopreso in esame l’attività di ricerca, più che partecipare alla definizione delle linee guida dell’attività del Fondo, ha invece finito per essere pesantemente indirizzata da esse.

È sembrato che, fissati gli obiettivi di politica economica e spesso addirittura gli strumenti, ai ricercatori del Fondo non restasse altro compito che elaborare dei modelli che conducessero esattamente a quei risultati. Disciplina fiscale, tagli alla spesa pubblica, riduzione delle aliquote marginali sui redditi, liberalizzazioni dei mercati dei capitali, privatizzazioni e deregulation costituivano una agenda di politica economica a cui la ricerca si doveva attenere quasi totalmente, con pochissime eccezioni che venivano ammesse solo nelle pubblicazioni meno prestigiose.

Il risultato è che spesso le indicazioni di policy finivano per essere in contrasto con i risultati degli stessi modelli e questa autentica schizofrenia – come riconosce lo stesso rapporto dell’IEO – ha finito per danneggiare «la qualità e la credibilità degli studi, riducendo anche la loro possibile utilizzazione».

Fortunatamente la situazione sembraessere radicalmente cambiata con l’arrivo di Dominique Strauss Kahn al vertice del FMI. L’ormai ex-direttore generale aveva infatti subito provveduto a nominare come capo del dipartimento della ricerca Olivier Blanchard, un eminente economista francese da molti anni professore al Massachussets Institute of Technology.

Sotto la guida di Blanchard il Fondo monetario sta vivendo uno dei periodi di elaborazione teorica e analitica più proficui che la storia ricordi. C’è da sperare che questa nuovastagione possa continuare anche sotto la direzione di Christine Lagarde e che il FMI sappia porre miglior argine al prepotente ritorno dell’ideologia del libero mercato e alla retorica sulla separazione fra politica ed economia rispetto a quanto sembrano riuscire a fare i singoli governi nazionali europei. 6 agosto 2011

Nessun commento:

Posta un commento