sabato 6 agosto 2011

Parla Nichi






Partiamo dal recente dibattito parlamentare sulla crisi: che idea si è fatto da spettatore?

Credo siamo giunti ad un dislivello davvero inquietante tra ciò che c’è sulla scena pubblica, tra l’andamento galoppante della crisi e la svagatezza della classe dirigente.

Mi pare di capire che il pacato discorso di Berlusconi, Tremonti e Letta non l’ha per nulla persuasa…

Il discorso di Berlusconi, di colui che è stato il grande esorcista che ha cercato in tutti i modi, con le sue formule pubblicitarie, di rendere invisibile una crisi che invece andava crescendo nelle viscere delle nostra economia, è stato contemporaneamente un tentativo di improvvisare un galateo politico-istituzionale - che è abbastanza contronatura per lui - , una convocazione di questa responsabilità nazionale che lui ha sistematicamente calpestato e nello stesso tempo, ancora una volta, di rimozione della natura reale della crisi e del fatto che essa ha anche a che fare con un quindicennio di politiche economiche profondamente inique.

Certo anche le opposizioni, da Bersani a Di Pietro, passando per Casini, che hanno parlato tre lingue diverse, non hanno dato una gran prova di sé…

Peccato che mancasse una lingua limpidamente di sinistra e che si è sciupata una occasione per mettere a fuoco il berlusconismo e il suo ciclo politico-economico. Un’analisi strutturale, non superficiale consente di capire cosa è accaduto nella società italiana, di vedere i punti di forza e di debolezza della poderosa macchina del consenso costruita dal premier e pure di intendere la ragione di quel principio di sfasamento del centrodestra, che non può essere letto solo in chiave di contese interne al ceto politico.

Quindi la sua chiave di lettura della crisi del berlusconismo quale è?

Credo che la crisi sia legata al fatto che la miscela esplosiva di liberismo e populismo, che è stata la caratteristica della destra italiana, non funziona più. I mercati hanno bisogno di rigore liberista e non hanno più bisogno di calore populista.


Mi spieghi perchè il dibattito è stato un’occasione persa per il centrosinistra
.

Sarebbe stato importante mettere a fuoco tutto questo, capire e far comprendere proprio l’operazione di egemonia compiuta in questi anni attraverso il sistematico smontaggio di tutto ciò che appartiene alla sfera dei beni comuni, dell‘idea che lo Stato è luogo che regola la preminenza dell’interesse collettivo rispetto agli interessi privati; capire e far capire che negli anni del berlusconismo è stata realizzata la più gigantesca redistribuzione delle risorse verso l’alto di tutta la storia italiana e che il profilo sociale del paese oggi è segnato dal drammatico smottamento dei ceti medi verso una complessa geografia della povertà. Ciò mentre l’operazione denominata “non metter le mani nelle tasche degli italiani” è stata una truffaldina forma di legittimazione della evasione fiscale.

Va bene. Ma l’opposizione cosa avrebbe dovuto fare?

Ebbene, se la storia e l’attualità del berlusconismo ha rappresentato quanto ho appena detto e le manovre di Tremonti sono una strozzatura fatale alla nostra economia perchè producono una drastica perdita del potere d’acquisto, una contrazione dei redditi reali del settore sociale medio basso; se siamo ad un punto di rottura delle reti di protezione sociale, ad un vero e proprio congedo dall’età del welfare, il centrosinistra avrebbe dovuto non solo raccontare il disegno di feroce ingiustizia sociale che c’è in tutta questa parabola nel suo esito catastrofico, ma avrebbe dovuto dire all’unisono che non ci sono formule magiche per salvare l’Italia, che non c’è possibile compromissione con settori di questa destra che possa lenire il dolore di questo paese, che i governi tecnici-istituzionali sono solo una coda avvelenata della storia del trasformismo italiano e che occorre rapidamente interrompere questa stagione malata, chiudere anticipatamente la legislatura, fare come in Spagna, perché la poca credibilità di questa compagine di governo determina tra l’altro la assoluta vulnerabilità del nostro Paese rispetto all’assalto degli speculatori.

Anche se fosse stata ancora in campo l’ipotesi di Tremonti?


Guardi, Tremonti, come dimostra quanto ha detto anche ieri nella conferenza stampa congiunta con Berlusconi, altro non è che la variante “più liberista” del premier, ma non ne è l’alternativa.

Suona strano, in questo contesto, che lei voglia lasciare la politica. Ma è vero?

Assolutamente no. Non c’è nessun annuncio di ritiro a vita privata. Ci sono altre considerazioni. La prima è che io non sto giocando la carta della carriera personale, in questo quadro vedo non soltanto elementi di assoluto degrado della politica, ma anche, guardandomi attorno, mettendo gli occhi fuori dal Consiglio regionale, la velocità e vorticosità del cambiamento d’epoca che viviamo. E penso che oggi la politica e la cultura siano entrambe convocate non già a reiterare i propri abracadabra, ma a un poderoso lavoro di ricerca e ad un grande coraggio intellettuale. Oggi considero stucchevole la contesa ideologica tra riformisti e radicali, mentre penso sia indispensabile andare a ridefinire con coraggio, alla luce dei dilemmi e delle risorse del mondo odierno, un progetto di cambiamento. Penso che una grande sinistra post-ideologica possa porsi il problema del governo, immaginando quello non come il terreno della proprietà-nazione o del paradossale capovolgimento di tutte le attese che la parola sinistra evoca.


Insomma un progetto politico non indifferente, e fortemente critico rispetto alla parabola del centro-sinistra italiano degli ultimi decenni.


Questa è un’ipotesi di lavoro a cui sto dedicando anni della mia vita. Ovviamente le ipotesi di lavoro possono essere sconfitte sul campo. Io lavoro per questo, perché possa nascere il vocabolario della sinistra del 21° secolo.

Dunque, per mettere un punto: Vendola rimarrà sulla scena ancora a lungo?

Se fosse per la mia vita, preferirei coltivare un mio spazio privato rispetto allo spazio pubblico, mi piacerebbe fare tante cose che non posso fare. Non nascondo nello stesso tempo un elemento di disgusto nei confronti della condizione di mucillagine istituzionale in cui versa il Paese, nel quale la macchina del fango è l’unica macchina pubblica che funziona veramente bene. Questo mette un po’ di tristezza e ogni tanto viene voglia di fuggire via da un Paese così, dove la pochezza dei pensieri e degli ideali è sostituita dalla violenza dei rumori, delle urla, delle contumelie, degli insulti, dei fanatismi.

Detta così, sembra che la voglia di lasciare prevalga.

Non c’è solo frustrazione, c’è anche un elemento di gratificazione quando l’impegno politico si incarna nelle esperienze delle primarie, delle elezioni amministrative, così come quando incrocia il popolo dei referendum. Da questa ondata sono emersi dei punti di conferma molto importanti. Il popolo dei referendum ha preso il popolo dei riformisti italiani e lo ha travolto: ora non c’è più nessuno che si alza in piedi a difendere l’opzione del nucleare o la privatizzazione degli acquedotti. Io sono contento di questo e per questo ci vuole, per così dire, l’allargamento della platea degli attori della politica.

La sinistra dovrebbe insomma divenire stabile interlocutore di questo popolo?

Il grosso della sinistra ha interpretato il risultato dei referendum in chiave di sconfitta di Berlusconi perché immediatamente dopo, spiazzata dagli esiti, ne ha subito derubricato i temi. Invece fa male, perché è vero che è stata la prima vera sconfitta del berlusconismo, realizzata fuori dal palazzo, ma è indiscutibile che la vittoria è maturata perchè nei temi del referendum al centro c’era la difesa dei beni comuni, in contrapposizione all’ipotesi di loro privatizzazione e scardinamento. Perfino la giustizia diviene terreno di scorrerie privatistiche (leggi ad personam, ndr). È un peccato che la sinistra non colga fino in fondo il significato politico di ciò che è accaduto nella stagione referendaria, perché là c’è la chiave per comprendere quanto sia forte la domanda radicale dell’alternativa.

Poi però bisogna anche governare, fare compromessi, scelte di equilibrio. Nel centro-sinistra c’è chi sembra più attento alla necessità di parlare anche ai moderati.

Naturalmente nel centrosinistra non tutti sono innamorati di un’idea vera di alternativa. C’è chi pensa che si tratti semplicemente di costruire un ricambio di classi dirigenti. Io credo che si tratti di dar vita ad una alternativa radicale, di politica sociale, di politica economica, di politiche formative, ambientali. Penso che la storia ci stia chiamando ad atteggiamenti di grande coraggio, non con la prosopopea tecnocratica di chi si ritiene buon amministratore di condominio. Voglio dire che non possiamo immaginare un buon galleggiamento nel mare che abbiamo trovato, dobbiamo capire come si riforma radicalmente lo Stato, il welfare, come si ricostruiscono i diritti di cittadinanza, come si abbattono le barriere, come si mette al centro dell’organizzazione dello Stato la domanda di giustizia sociale, come si capovolge il segno di classe.

C’è però una precondizione perché tutto ciò sia possibile: che lei, Bersani, Di Pietro vi chiariate rispetto ai compagni di questo viaggio.

Invece di continuare a discutere del “con chi“, discutiamo del “per che cosa“. Sul per che cosa io voglio offrire un contributo e credo che chiunque voglia dare un contributo è benvenuto. Non bisogna mettere paletti, esercitare veti. Per un’Italia migliore io voglio allargare molto la partecipazione e l’arricchimento che viene da culture e sensibilità diverse. Non bisogna avere paura, la paura non è mai una buona consigliera, non è mai una politica razionale. La paura è l’incubatrice di politiche di destra. Bisogna imparare ad affidarsi reciprocamente gli uni gli altri, avere un elemento di solidarietà nel campo largo di chi immagina appunto un’Italia migliore di questa.

Ultimo tema: l’etica della responsabilità in politica. Sta emergendo una nuova questione morale?

Indubbiamente sì ed essa è l’indice della debolezza della politica. Quando la politica cede il comando all’economia, al mercato, al sistema di impresa transnazionale e quando i politici sono non la casta ma le sentinelle che difendono gli interessi delle vere caste, allora è chiaro che se tutto è mercato anche la politica diventa un mercato e avremo pure il Transatlantico trasformato in mercato dove si comprano e si vendono i parlamentari. Dunque dal mio punto di vista l’antidoto alla dilagante immoralità pubblica, ad una corruzione che sta diventando persino fisiologica in questo Paese, ripristinare il primato della politica. Il che significa scolpire il primato del bene comune che non può mai essere assoggettato alle lobby ed alle corporazioni. Poi questione morale, dal mio punto di vista, significa la definizione di una malattia, la cui cura si fa con una medicina: democrazia. Che non è solo esercizio del diritto di voto,ma esercizio del diritto di ingerenza, esercizio del controllo sociale. Abbiamo bisogno di sapere che la democrazia non consiste in un esercizio di pedagogia autoritaria, più il voto una tantum; soprattutto di fronte ai cicli complessi del nostro tempo è necessario che circolino anche le competenze che ci sono nelle comunità e nei territori.

Forse le vicende giudiziarie che hanno avuto come protagonisti importanti esponenti politici di sinistra mettono definitivamente in discussione una presunta diversità della sua parte politica: lei che idea si è fatto in merito, anche alla luce del caso Penati?

Il centrosinistra deve essere spietato con se stesso perché io so che c’è una differenza tra noi e la destra: da noi chi viene trovato con le mani nella marmellata, viene accompagnato sull’uscio di casa. Nel centrodestra chi viene beccato con le mani nel sacco diventa Ministro. Questa è una differenza di fondo, tuttavia noi non possiamo mai minimizzare e sottovalutare fatti che sono anche evocativi di una livida e drammatica omologazione nei comportamenti. Non si può essere geneticamente diversi, non c’è una diversità antropologica della sinistra, ma se scompare l’orizzonte del cambiamento, se viene cancellato il riferimento della vita pubblica a quel principio che Ernst Block chiamava “principio della speranza”, il rischio dell’omologazione in quel luogo che per metà è teatrino e per metà è mercato, è davvero molto elevato.



Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/il-centrosinistra-perde-tempo-e-ora-di-andare-votare#ixzz1UFKU6da6

Nessun commento:

Posta un commento