martedì 23 agosto 2011

Incognita Libia


Mustafa Abdel Jalil, capo del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT)

Capitribù, jihadisti e voltagabbana. La rissosa armata dei nuovi padroni



Opposizione divisa su tutto: a succedere al raiss sarà chi ha saputo tradire al momento giusto

MIMMO CÁNDITO, da La Stampa

DAL CONFINE TUNISINO
Scrutata nel buio di questo polveroso, e inquieto, posto di frontiera, con la Tunisia dolce e morbida che si allontana alle spalle, e di fronte lo spazio aperto della Libia, le montagne ruvide del Jebel Nafusa a destra e, poi, il pianoro, fin laggiù dove si allunga il deserto vuoto di Sebha perduto dentro l’oscurità della notte che scende rapida, la geografia di questa Libia sfasciata assomiglia drammaticamente alla storia politica che l’attende, ora che Gheddafi è una pagina amara del passato. Vallate aperte e verdi, pianure che occhieggiano il mare, il deserto infinito giù a Sud, e monti, alti e aspri come i berberi che li abitano, tutto segna l’orografia di una complessità e di una contraddizione che - nel dopo Gheddafi segnerà indecisa, e probabilmente caotica, la costruzione di un Paese, il Nation Building, nel quale si sono sempre affossati i progetti e le speranze dell’Occidente, quando hanno voluto ficcare il naso in faccende che spettavano ad altri popoli.

È un «naso» che questa volta non è arrivato fino a calpestare con gli stivali il terreno di combattimento, anche se i bombardamenti della Nato sono stati nettamente lo strumento con il quale si è squinternata la macchina repressiva del regime e la sua armata di giannizzeri e di mercenari. Tuttavia, ora che si tratta di fare i conti con il futuro, si accende l’inquietudine di come impedire che questo futuro sia un altro dei teatri di destabilizzazione nei quali pare inevitabilmente precipitare il mondo, dopo il crollo delle Torri, giusto dieci anni fa.

E la più forte delle inquietudini è certamente il ruolo che probabilmente giocherà nei nuovi equilibri il fondamentalismo islamico. Gheddafi aveva voluto una Libia laica, dove lo spazio della religione e gli ipersensibili processi di autoidentificazione che accompagnano l’Islam nella quotidianità delle società musulmane erano stati tenuti sotto rigido controllo, con quella stessa, feroce, indifferenza repressiva che il Colonnello riservava a tutte le forme di opposizione possibile. Era stato, il suo, un lavoro metodico, e niente affatto facile, ricordando che a Derna, nella Cirenaica che sta dall’altra parte di questa frontiera, sul confine egiziano, sorgeva uno dei centri religiosi più rigidamente integralisti dell’intero Maghreb (è da Derna che arrivavano quasi tutti i libici che Al Qaeda ha impegnato nelle sue operazioni in Afghanistan e nel Golfo, e anzi i terroristi libici costituivano - rispetto alle ridotte dimensioni demografiche della Libia - la componente nazionale più numerosa).

Molti di questi jihadisti sono stati ammazzati nelle guerre dove lavoravano, ma molti sono tuttora vivi e sono anche rientrati in patria. Quale sarà il loro ruolo nel Nation Building nessuno, tuttora, può dirlo: ma certamente conteranno, e anche molto, se la Cia fin dall’inizio della sollevazione di Bengasi, in un febbraio che oggi appare lontano quanto un anno luce, esortava il dipartimento di Stato e la signora Clinton, a usare molta, molta cautela nel riconoscere la legittimità politica del nuovo governo insorto, il Cnt.

E ai jihadisti si attribuisce anche, da qualcuno, la responsabilità dell’assassinio del generale Younis, comandante generale delle forze armate ribelli, fatto fuori più o meno misteriosamente qualche settimana fa, per via di una possibile vendetta consumata a causa del ruolo che egli aveva avuto nella repressione del fondamentalismo religioso, quando era ancora compagno di merenda di Gheddafi. Altri attribuiscono questa vendetta a uomini appartenenti a clan e tribù che furono duramente repressi da Younis, allora ministro degli Interni del Colonnello.

L’una spiegazione può valere l’altra. Ma ciò che è certo è che il Nation Building dovrà inevitabilmente misurarsi con una catena sanguinosa di vendette che la vittoria legittimerà contro quanti avevano goduto di potere e di forza, e di violenza, nel regime che è appena finito. Sarà difficile districarsi da questa catena, consapevoli tutti che più della metà dei componenti del Cnt trionfatore è fatto comunque di uomini che nel vecchio regime avevano onori e responsabilità ufficiali (lo stesso leader Jalil era ministro della Giustizia di Gheddafi, nel momento in cui ha abbandonato il Colonnello ed è passato con gli insorti).

Questi «disertori» si spalleggeranno a vicenda avendo tutti un passato comune poco commendevole. Ma tra di loro si incuneerà anche l’identità tribale, cioè l’appartenenza a famiglie e clan che hanno una lunga storia identitaria nella vita delle terre che hanno fatto la Libia (la Cirenaica a Est, la Tripolitania a Ovest il Fezzan a Sud). L’identità tribale comporta il riconoscimento e il forte valore connotativo dell’appartenenza che è un fattore che la realtà metropolitana tende a diluire ma che conserva tuttora una sua forte qualità solidaristica nella Libia allo sbando dell’oggi post-gheddafiano.

Terza incognita dunque di questo Nation Building assegnato ai vincitori è il valore dell’appartenenza, che è poi uno dei fattori che hanno deciso la sconfitta finale di Gheddafi, per il ruolo assunto dalle tribù ribelli del Jebel quando hanno deciso di rompere ogni relazione con il Colonnello e cedere alle sollecitazioni e agli impegni che arrivavano dagli emissari clandestini dell’Occidente. Resta infine la componente liberale di questo complesso, contraddittorio, confuso, e forse anche inquietante, nuovo governo libico. Sono, queste, figure che hanno vissuto all’interno del regime, in una condizione di quieta accettazione, senza identificarsi troppo e però anche senza mai prendere le distanze.

Questa componente è la più vicina alla cultura europea, ed è stata ampiamente influenzata dai ripetuti contatti con l’Occidente, soprattutto con l’Italia. Per tutti loro vale quanto mi diceva qualche mese fa a Bengasi il professor Gerber, costituzionalista dell’università di Tripoli e anche docente all’università di Tor Vergata a Roma: «Abbiamo preparato il progetto per la nuova carta costituzionale. Il primo punto riconosce l’eguaglianza di tutti, senza distinzioni di sesso, di razza, o di religione. C’è stato un lungo e aspro dibattito tra i 21 membri della mia commissione. Ho avuto qualche difficoltà a farlo approvare; spero che verrà mantenuto nel documento finale della nostra Costituzione». E guarda fuori dalla finestra, verso il verde delle terre della Cirenaica. Ma la Libia ha una orografia complessa, come vedo da questo confuso posto di frontiera perduto nel buio della notte.

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