venerdì 15 ottobre 2010

L'altra metà del cielo

Storie di violenza quotidiana
14/10/2010 14:37


Fonte: www.deltanews.net

Roma - Donne uccise in famiglia nel 2007: : 107

Donne uccise in famiglia nel 2006: 101

Donne uccise in famiglia nel 2008: 112

Donne uccise in famiglia nel 2009: 119

Totale donne uccise in famiglia in Italia 2006 – 2009: 439

La storia dell’omicidio di Sarah suscita emozioni di pancia, di indignazione e di stupore. Io invece non mi meraviglio né mi stupisco ma assisto solo all’ennesima violenza consumata tra le mura domestiche.

Non è la minigonna di una tristemente nota sentenza della Cassazione a “provocare” la violenza, anche perché la violenza non è provocata ma agita da un soggetto nei confronti di un altro. Anzi poiché parliamo di “violenza di genere” è la violenza agita da un sesso, quello maschile, nei confronti di un altro, quello femminile.

Non è la strada buia o il parco della Caffarella il teatro delle violenze, ma è la famiglia, il posto in cui più che altrove il rapporto tra i sessi è connotato come rapporto di potere.

Sarah viene uccisa perché rifiutava le avance dello zio, come M. è stata violentata tutti i giorni dal marito, come F. ha subito la violenza da parte del padre, come P. è stata minacciata con la pistola dal marito, come L. è stata costretta dal compagno a prostituirsi, come S. ogni giorno viene chiamata “puttana” dal marito, come N. che è riuscita a scappare dal marito che ha tentato di ucciderla mentre era in gravidanza.

La storia di Sarah è purtroppo una storia tra tante, una storia ennesima di violenza domestica.

Come mi ha detto un amico qualche tempo fa, “fare la fidanzata o la moglie è il lavoro più pericoloso che c’è per le donne” ed in effetti come dargli torto visto che, in Italia, il 70% delle violenze alle donne avvengono tra le mura domestiche e che la violenza alle donne è nel mondo la prima causa di morte e di invalidità delle donne, ancor più del cancro, degli incidenti stradali e perfino della guerra.

Sono dati che dovrebbero allarmarci, inquietarci o almeno incuriosirci e invece no. Rimangono lì, confinati in un posto segreto e inaccessibile, sottratto allo sguardo pubblico, che preferisce concentrarsi su particolari morbosi, indignarsi per qualche ora, creare inutili gruppi di facebook (ma a cosa servono? a riconoscersi? a contare lo sdegno? a dare numeri al dolore?) e, dulcis in fundo, a fare trasmissioni in cui si guarda il dolore.

In questo modo ci illudiamo di guardare il dolore, la violenza da vicino ma lo facciamo solo per potercene allontanare. “Facciamo sempre più fatica”, scrive Barbara Duden “a distinguere tra ciò che è certamente visibile e la concretezza simulata di affascinanti ipotesi. Vediamo sempre più quello che ci viene mostrato. Ci siamo abituati a farci mostrare qualsiasi cosa e crediamo, in questo modo, di vedere “illimitatamente”. Questa tendenza alla visualizzazione presuppone una tendenza ad attribuire lo status di realtà solo a ciò che può essere registrato strumentalmente”. Quello che vediamo, anzi quello che ci facciamo raccontare diventa ciò che vogliamo vedere, l’unica realtà possibile, l’unica realtà accettabile, posizionata però su un piano falsato, non autentico. E quello che “vediamo” sono allora storie di “straordinaria follia”, storie che chiedono al nostro sguardo di essere viste come eclatanti, assurde, straordinarie.

Ma se potessimo guardare meglio, più da vicino, scopriremmo che sono storie del tutto “ordinarie”, comuni anche banali, come banale sa essere solo il male. Sono storie di donne che incontrano un uomo violento e la violenza ha mille modi per manifestarsi: può essere la violenza lenta e quotidiana di chi ti dice che non vai bene così e per te, donna da millenni abituata, anzi indotta, ad aver bisogno dello sguardo maschile, dell’approvazione maschile questo è già qualcosa che si incastra alla perfezione come il tassello di un pericoloso mosaico. Sono storie di donne che subiscono una violenza, a tutti i livelli, sia psicologico che fisico, e nemmeno riescono a nominarla come tale. “Mi marido me pega lo normal”, come il titolo di un bel libro di Miguel Lorente Acosta.

“Mio marito non è un uomo violento come quelli che sento alla televisione”, come se la televisione fosse ormai diventato il metro per valutare le nostre sensazioni, per riconoscere loro legittimità. Quello che ci mostrano diventa reale, più reale della realtà che è sotto i nostri occhi, più reale di quell’uomo che ogni giorno ci chiama “puttana” come se niente fosse come se fosse normale, di quell’uomo che ci annienta e che ci violenta, come se niente fosse come se fosse normale.

Allora tutto diventa normale, semplicemente perché succede. Una “anormale normalità” che si finge di non vedere, come la polvere che si nasconde sotto il tappeto. Solo che quando poi il tappeto viene spostato e viene fuori tutta la polvere che poco per volta abbiamo accumulato, ci meravigliamo, ci stupiamo, ci indigniamo e soprattutto ci dimentichiamo che siamo stati noi stessi a nascondere la polvere sotto il tappeto per non vederla. La violenza contro le donne è la storia di questa polvere nascosta, una polvere che è fatta di violenze quotidiane, violenze della porta accanto. Non violenze di maniaci, stranieri, devianti, ma, molto semplicemente, violenze di uomini contro le donne. Le storie di quotidiano orrore di queste donne sono storie fatte di polvere quotidianamente rimossa, nascosta, granello dopo granello, giorno dopo giorno. Storie nascoste in quella quotidianità che non fa notizia e finché non verranno uccise nessuno ne parlerà e quindi “non esisteranno”. Queste donne e la loro storia di quotidiana violenza inizieranno ad “esistere” solo da morte, solo da morte verranno “guardate”, “mostrate”, persino esibite. In una parola: esisteranno. Ma anche in questo caso esisteranno non solo su un piano falsato, quello che scegliamo di guardare (senza vedere), ma esisteranno anche per poco tempo, giusto quello che serve per smaltire l’onda emotiva.

Da vive la loro storia è invisibile, invisibile come solo le cose che sono sotto i nostri occhi ogni giorno possono esserlo, invisibile come le cose che non vogliamo vedere o che non possiamo vedere, invisibile come tutte le cose scomode da guardare. E allora continuiamo a guardarle da morte queste donne. Lascio a chi vuole farlo il commuoversi guardando i filmati e le foto di Sarah (o di tutte le altre donne uccise), a me interessa altro, interessa prima di tutto capire perché succede.

Vogliamo parlare di questo o vogliamo continuare a stupirci che succedano storie come quella di Sarah, come quella di M., come quella di T., come quella di P., come quella di F., come quella di S., come quella di N.?

Non è la furia omicida né il gesto folle di un maniaco né è qualcosa che appartiene allo “straniero”, non è nemmeno una questione da ridurre a meri dati biologici, ma soprattutto la violenza contro le donne non è un problema di ordine pubblico, anzi, al contrario è di ordine strettamente “privato”, proprio quel privato sottratto allo sguardo pubblico, quel privato delle nostre case, dei nostri condomini, delle stanze dei pranzi della domenica.

La violenza contro le donne non è nelle strade di periferia né al parco della Caffarella: la violenza contro le donne è un dato strutturale di questa società e di questa cultura e questo vuole anche dire che, invece che distogliere lo sguardo, potremmo fare molto per cambiarla.

“Ci sono momenti nella vita nei quali diventa assolutamente necessario sapere se è possibile pensare in modo diverso da come si pensa, percepire in modo diverso da come si vede, perché senza questa distanza non sarebbe più possibile vedere e riflettere oltre. Senza questa curiosità, la ricerca non è altro che una legittimazione di ciò che già si sa. Soltanto così si può osare scoprire fino a che punto sarebbe stato possibile pensare e percepire in modo diverso” (Foucault)

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