domenica 24 ottobre 2010

Focus sull'Europa

Verso un nuovo patto di stabilità europeo?

giovedì 21 ottobre 2010 13:26 -

di Alfonso Gianni, Sinistra Ecologia Libertà

Il punto interrogativo è d’obbligo. Infatti le nebbie non sono ancora diradate, malgrado le oltre 13 ore della riunione dei ministri finanziari a Lussemburgo e il contemporaneo vertice politico a tre, Medvedev, Sarkozy e Merkel, gli ultimi due ritratti a spasso sulla spiaggia di Deaudeville, la stessa del famoso film “Un uomo, una donna” di Lelouch. Tanto è vero che, in attesa di mettere le mani sul rapporto finale preparato dalla task force guidata da Herman Van Rompuy in vista del vertice europeo di fine ottobre, tutti i commenti giornalistici sono assai prudenti e il condizionale regna sovrano. Il più deciso è Tremonti, cui il linguaggio ecclesiale sta in proporzione alle sue manie di grandezza. “Habemus novum pactum” ha proclamato con enfasi, ma gli fa da controcanto Juncker, presidente dell’Eurogruppo, con una frase altrettanto prevedibile “il diavolo sta nei dettagli”, ovvero prima di entusiasmarsi guardiamo bene di cosa si tratta.
In ogni caso, tenendo soprattutto conto della dichiarazione congiunta Sarkozy-Merkel sembra evidente che siamo di fronte a un tra l’acceso rigorismo tedesco ed una inclinazione più morbida voluta dai paesi mediterranei, con a capo la Francia di Sarkozy, feroce in patria quanto malleabile all’estero. In sostanza la riforma del patto di stabilità avverrà lungo due tappe. La prima diventerà operativa nel 2012 e modificherà in senso rigorista la normativa secondaria della Ue. La seconda tappa, invece, prevede la modifica vera e propria dei trattati, almeno su due punti. Il primo concerne la costruzione di un fondo contro i pericoli di default dei paesi dell’Unione, che vedrà anche la “partecipazione del settore privato”. Ma i modi di alimentazione e di funzionamento di questo fondo rimangono del tutto indeterminati. Il secondo prevede addirittura la sospensione del diritto di voto di quei paesi membri incorsi in violazioni gravi del patto di stabilità.

Come si vede la logica del “sorvegliare e punire” resta perfettamente in piedi, con qualche leggero ammorbidimento sulle sanzioni. In particolare sparisce l’obbligo per i paesi il cui debito pubblico supera il 60% del Pil di ridurre la parte eccedente di un ventesimo all’anno, che avrebbe costretto questi paesi ad avanzi primari da record ben difficilmente realizzabili. Il che ha fatto storcere il naso ai rigoristi, come Jurgen Stark, uno dei sei membri del comitato esecutivo della Bce e tra gli estensori dell’originale patto di stabilità negli anni novanta, che considera i risultati della riunione di Lussemburgo molto inferiori alle proposte iniziali della commissione preposta, mentre al contrario assai più morbida è la dichiarazione del ministro delle finanze francese Christine Lagarde che, rispondendo alla metafora del diavolo, replica che non sono i particolari che contano ma l’impianto generale del “nuovo” patto.

Comunque sia la direzione che l’Europa sta prendendo è tutt’altro che positiva. Certamente siamo a una svolta. L’Europa non è più soltanto un’unione monetaria, ma diventa anche economica e fiscale, al punto che le leggi finanziarie dei singoli paesi diventano un’articolazione predeterminata delle decisioni di Bruxelles. Però la cessione di sovranità dei paesi membri non solo avviene in assenza di un’Europa politica e di un sistema di governo della medesima effettivamente democratico, visto che il parlamento eletto con metodo proporzionale conta assai meno della Commissione designata dai governi, ma il contenuto della politica economica che si esprime attraverso queste decisioni segna una decisa svolta a destra di fronte alla crisi. Infatti il rigore finanziario contraddice alla radice la necessità di un corposo intervento del pubblico nell’economia per modificare il modello di sviluppo che attraverso sovrapproduzioni di merci non indispensabili e spaventose bolle finanziarie ci ha trascinato nella più grande crisi dopo il ’29.

In questo quadro anche le cose di buon senso perdono di significato o addirittura ne acquistano uno opposto. Mi riferisco in particolare a ciò che Tremonti vanta come un suo successo, e che in realtà non sarebbe mai stato perseguito senza l’influente mediazione francese. Ossia la considerazione del debito privato oltre che quello pubblico nella valutazione del debito complessivo dei singoli paesi. Era questa una proposta che alcuni di noi avanzarono, sulla scorta di un documento di 85 economisti, che si sono riproposti più numerosi di fronte alla crisi attuale, fin dai tempi del breve governo Prodi, quando le condizioni della economia internazionale erano, o ancora apparivano, ben diverse da quelle attuali. Naturalmente non fummo ascoltati, visto che la linea rigorista di Tommaso Padoa Schioppa prese immediatamente il sopravvento nella compagine di governo. Se così non fosse stato si sarebbe scoperto facilmente che le condizioni dell’Italia non erano poi così tristi da dovere stringere i cordoni della borsa al punto da venire meno alle più elementari esigenze dello sviluppo economico e dello stato sociale, nonché del miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.

Con i valori di oggi, se si tenesse conto del debito privato, si vedrebbe che i paesi decisamente fuori controllo sono l’Irlanda e la Grecia, dove l’indebolimento privato è assai elevato, mentre la Spagna pur stando meglio si troverebbe sull’orlo di un burrone. Italia e Belgio, additati come gli ultimi della classe già nel 1992, quando venne fatto il trattato di Maastricht, sarebbero invece in migliori condizioni. D’altro canto, mentre il prodotto interno lordo, strumento come sappiamo assai rozzo , ma che non è ancora stato sostituito, è un flusso, la ricchezza finanziaria delle famiglie costituisce uno stock. Come osservano diversi economisti è fuori di senso pagare il debito pubblico, che è uno stock, con il Pil, che è un flusso. Infatti la nuova aggressività della Ue nei confronti del debito pubblico italiano rischia di venire risolta con una nuova (s)vendita di beni pubblici, ovvero di stock di patrimonio pubblico. Al contrario bisognerebbe aggredire lo stock rappresentato dalla ricchezza finanziaria delle famiglie. Particolarmente in Italia ove il tasso di patrimonializzazione della ricchezza è tra i più elevati.

In altre parole la nuova finanziaria di Tremonti più che un crimine è un errore, quindi peggio, come avrebbe detto Fouchè. Bisognerebbe al contrario agire sullo spostamento della pressione fiscale sulle rendite, sia aumentando l’aliquota almeno al 20 per cento, sia introducendo una patrimoniale (con le dovute franchigie in entrambi i casi per tutelare il piccolo risparmio e la piccola proprietà) che permetta un’impennata di flussi nelle entrate dello stato da spendere per aumentare la domanda interna di consumi e di investimenti, non tanto quantitativamente quanto qualitativamente.

Allo stesso modo la riforma che si profila del patto di stabilità europeo è foriera di nuovi disastri perché anziché agire su una crescita di nuova qualità, tale da favorire la ricchezza culturale e materiale del continente e dei singoli paesi, quindi la buona occupazione e i soddisfacenti tenori di vita, produce una nuova stretta rigorista che premia solo quei paesi, Germania in testa, che hanno già un forte apparato produttivo capace di competere nelle esportazioni su scala mondiale.

E’ una prospettiva miope anche per la Germania. Nella competizione fra Cina e Usa, di cui la pericolosa guerra delle monete che si è aperta è solo uno degli aspetti, anche il grande paese manifatturiero tedesco è destinato a soccombere. Se si vuole garantire la pace e costruire un’uscita dalla crisi che non allarghi a dismisura le diseguaglianze e gli squilibri mondiali, ci vuole un’Europa capace di una vera e profonda riforma dei suoi trattati ispirata alla convergenza fra i paesi membri, alla piena e buona occupazione, alla difesa dei beni comuni e del ruolo dello stato sociale. Un’utopia? Per di più nel mezzo di una grande e sconvolgente crisi, con una sinistra che gode di cattiva salute? Sì certo, ma quella di Altero Spinelli, di Eugenio Colorni, di Ernesto Rossi che stilarono il manifesto di Ventotene quando ancora il nazismo infuriava in Europa, lo era molto di più. Eppure di strada ne ha fatta.

Alfonso Gianni

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