mercoledì 27 ottobre 2010

Anche se per Tremonti la cultura non si mangia...



"Giustizia, libertà, uguaglianza".

L'intervento di Amartya Sen ai "Dialoghi sull'uomo" di Pistoia, maggio 2010

di Emilio Carnevali, da Micromega online


“La filosofia può esercitarsi con esiti di straordinario interesse su una varietà di questioni che non hanno nulla a che fare con le miserie, le iniquità e la mancanza di libertà che affliggono la vita umana. È bene che sia così, e c’è senz’altro di che essere felici per l’espansione e il consolidamento del nostro orizzonte conoscitivo in ogni campo che sollecita la curiosità dell’uomo. La filosofia, però, può anche contribuire a dare maggiore rigore e rilevanza alle riflessioni sui valori e sulle priorità, nonché a quelle sulle privazioni, le angherie e le umiliazioni cui in tutto il mondo gli esseri umani sono soggetti”.
Amartya Sen


“Alla memoria di John Rawls”: in questa dedica che apre l’ultimo libro di Amartya Sen c’è molto più che l’omaggio formale ad uno dei maggiori filosofi politici del Novecento, autore fra le altre cose di Una teoria della giustizia, che nel 1971 rivoluzionò gli studi etico-politici contemporanei con la sua innovativa concezione della “giustizia come equità”. C’è il riconoscimento della grande eredità intellettuale lasciata da Rawls a chiunque oggi voglia cimentarsi con le teorie di giustizia, a partire da un’“antropologia” molto distante da certe varianti della “teoria della scelta razionale” molto in voga nella scienza economica contemporanea, secondo le quali gli esseri umani sarebbero in grado di prendere solo decisioni fondate sul proprio interesse individuale senza alcuna capacità di “simpatia” verso gli altri nell’assunzione di un punto di vista imparziale.

Ma c’è anche l’individuazione in Rawls di un nobilissimo e autorevole bersaglio polemico: da qui infatti – dal confronto dialettico e critico con la concezione rawlsiana della giustizia come equità - prende le mosse quell’originale e antisistematica teoria della giustizia che Sen (premio Nobel per l’economia nel 1998) affida al suo ultimo scritto: L’idea di giustizia, recentemente pubblicato in Italia da Mondadori (euro 22, pp. 451). Rawls è infatti identificato come l’ultimo grande esponente di quell’”istituzionalismo trascendentale” che nasce con i filosofi dell’illuminismo e che - dopo aver mutuato da Hobbes l’idea del “contratto sociale” - tenta di delineare le strutture della “società giusta”. Passando per le opere di John Locke, Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant, fino ad arrivare, appunto, al neocontrattualismo di Rawls e ai nostri contemporanei Ronald Dworkin, David Gauthier e Robert Nozick, questo approccio “punta a identificare la natura di ciò che è ‘giusto’, anziché a individuare qualche criterio per riconoscere un’alternativa come ‘meno ingiusta’ di un’altra”.

Sen colloca la propria indagine all’interno di un approccio alternativo, quello della “comparazione centrata sulle realizzazioni concrete”, fatto risalire ad un’altra tendenza interna all’illuminismo europeo comprendente le opere di Adam Smith, Condorcet, Jeremy Bentham, Mary Wollstonecraft fino ad arrivare a Karl Marx e John Stuart Mill. Tutti questi autori, al di là delle loro idee tutt’altro che univoche in materia di giustizia, condividono in buona sostanza un metodo comparativo connesso a concrete realizzazioni sociali frutto delle istituzioni reali, dei reali comportamenti – che nell’approccio dell’istituzionalismo invece tendono ad assecondare “naturalmente” le istituzioni giuste una volta che esse siano riconosciute come tali dai membri di una comunità – e da molteplici altri fattori.

Ma quali sono secondo l’economista indiano gli elementi di profonda debolezza dell’istituzionalismo? Essenzialmente ne possiamo ricordare tre:

1. L’impossibilità di trovare un consenso universale attorno ai principi di una società giusta che abbiano le “carte in regola” per proporsi come imparziali ed unici. In questo senso le conclusioni della “posizione originaria” immaginata da Rawls – dove tutti i membri della comunità sono coperti da un “velo di ignoranza” sulla loro futura collocazione sociale e dunque sono privi di interessi particolaristici da difendere in un confronto sviluppato attraverso argomentazioni razionali – sono giudicate da Sen troppo ottimistiche.

2. Anche ipotizzando la “perseguibilità” di una teoria trascendentale – anche ipotizzando cioè che si possa arrivare a quell’accordo al quale abbiamo accennato nel punto 1 - Sen ne afferma la “superfluità”: “l’identificazione di assetti sociali completamente giusti non è né necessaria né sufficiente”, nel senso che non è necessaria per decidere in “quale direzione” deve andare il processo di cambiamento fra uno stadio “più ingiusto” di una società e uno “meno ingiusto” (come non è necessario decidere che la Gioconda è il dipinto ideale per scegliere fa un Picasso e un Dalì), e non è nemmeno sufficiente per fondare le ipotesi riformiste sul grado di prossimità all’ideale che gli assetti proposti possono raggiungere: la vicinanza nella proposizione non si traduce infatti in una vicinanza nella valutazione (un amante del vino rosso può preferire un buon bicchiere di bianco ad un bicchiere che mette insieme bianco e rosso al fine di avvicinarsi al suo bicchiere di rosso ideale).

3. Infine Sen rivendica l’importanza “delle diverse vite, esperienze e realizzazioni umane” che non si lasciano “surrogare da qualche informazione sulle istituzioni e le regole in vigore. Istituzioni e regole”, scrive Sen, “hanno senza dubbio un’influenza molto significativa su quanto accade e certamente sono parte integrante del mondo reale. Ma le realizzazioni concrete vanno ben al di là del quadro organizzativo e investono la vita che le persone riescono – o non riescono – a vivere”.
Questa centralità della vita concreta degli individui è del resto il cuore teorico del suo “approccio delle capacità”, intese come le “opportunità effettive” di realizzare “quelle cose a cui, per un motivo o per l’altro, [una persona] assegna un valore”.

Queste debbono essere secondo l’economista indiano le variabili sulle quali puntare la propria attenzione nel giudicare il vantaggio o lo svantaggio di un certo individuo (o di una certa società) rispetto ad una diversa dotazione di “capacità”.

Tale impostazione viene contrapposta non solo a quella fondata sulla centralità del reddito (o dei “beni primari” secondo l’accezione usata da Rawls) ma anche a quella imperniata sulla felicità/utilità che contraddistingue la moderna economia del benessere, nonostante lo stesso Sen riconosca l’importanza che l’approccio utilitarista ha avuto nel mettere in discussione il “tacito presupposto dei paladini della crescita come panacea di tutti i problemi economici, comprese la povertà e l’infelicità” (piccola nota a margine: non ci sentiamo di condividere il giudizio di Sen secondo cui gli utilitaristi “tendevano a ignorare il problema dell’ineguale distribuzione di benessere e utilità tra gli individui” perché con Mill, Edgeworth e Pigou il principio distributivo “neutrale” viene meno grazie al concetto di utilità marginale decrescente e ciò apre la strada a politiche egualitarie e redistributive).

L’indagine di Sen, che in quest’opera presenta una maggiore densità filosofica rispetto ai tanti lavori che l’hanno preceduta, contiene senza dubbio elementi di grande interesse. Il dialogo a distanza con Rawls offre spunti molto preziosi di riflessione attorno all’impianto generale di ogni teoria della giustizia e le critiche che vengono mosse all’istituzionalismo trascendentale e alle elaborazioni di matrice contrattualista e neocontrattualista colgono nel segno.

L’elemento di maggiore debolezza, almeno a parere di chi scrive, è invece riscontrabile in una certa sottovalutazione della dimensione del “conflitto” all’interno di una concezione della democrazia come “governo per mezzo del dibattito” la quale rischia di far rientrare dalla finestra quell’utopismo che - tramite la critica dell’istituzionalismo trascendentale - era stato fatto uscire dalla porta. In un mondo in cui la colonizzazione del “mondo della vita” da parte delle soverchianti forze del mondo dell’economia e della finanza mette in discussione la stessa possibilità di un dibattito pubblico costruito sulla regolare competizione di argomentazioni razionali, una maggiore attenzione agli aspetti del dibattito pubblico reale potrebbe essere funzionale a quell’ancoraggio alle “concrete condizioni di vita dell’individuo” cui Sen dimostra di tenere più che a qualsiasi altra cosa.

La grande importanza dell’opera di Sen, come del resto di quelle di Rawls e degli altri teorici della giustizia, va tuttavia ben oltre le singole lacune o i singoli punti di disaccordo che si possono riscontrare in essa. Questi incessanti tentativi, che in ultima analisi risalgono alla nascita stessa del pensiero razionale e del suo primo interrogarsi sul mondo, ci ricordano – è lo stesso Sen a sottolinearlo in conclusione del libro - che “nella società umana la generale aspirazione alla giustizia assai difficilmente potrà essere cancellata, anche se diversi possono essere i modi per realizzarla”. E questo contribuisce a tener viva la speranza anche quando la storia sembra imboccare un tornante nel quale di speranza se ne intravede ben poca. Potremmo quasi dire che l’ottimismo della ragione resiste nonostante il pessimismo della realtà!

(22 ottobre 2010)

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