martedì 18 settembre 2012

Se la sinistra non esiste.

Da Fassino a Bertinotti .I folgorati da Marchionne. Tommaso Labate per pubblicogiornale.it
A essere rude, è rude. E lo è sempre stato. «Ma la durezza di Sergio Marchionne», giurò Piero Fassino nell'agosto del 2010, «nasce da un disagio. Quello di non vedere riconosciuti i suoi sforzi per dare un futuro solido al gruppo». Per il sindaco di Torino, insomma, l'amministratore delegato della Fiat andava capito. Compreso. Aiutato. «Perché, vedrete», giurò Piero in un'intervista rilasciata a Panorama nell'afosa estate di due anni fa, «non lascerà l'Italia». E dire che la malefica serpe del dubbio, il dubbio che quello di Fabbrica Italia fosse tutto un bluff, era venuto anche al giornalista che lo intervistava. «Dica la verità: non teme che Fabbrica Italia, cioè il progetto lanciato ad aprile, sia ormai finito in un cassetto?». Ma l'ex segretario niente. Certezze granitiche, solide, impossibili da scalfire. «No, francamente non lo credo e non me lo auguro. Credo al contrario - aggiunse Fassino - che ci sia un margine per negoziare con il sindacato e con il governo soluzioni coerenti con lo spirito del progetto di Fabbrica Italia». Lo stesso che, l'altro giorno, il rude Marchionne ha accantonato con un comunicato.
Ma non c'è solo Fassino tra quelli che, un tempo, si sarebbero definiti «compagni che sbagliano». Il primo uomo in rosso a finire impigliato nei tre (o sono quattro?) fili di cachemire dell'amministratore delegato della Fiat fu Fausto Bertinotti. All'allora presidente della Camera, correva l'anno 2006, bastò una mezza reprimenda che Marchionne aveva rivolto alla borghesia. Quindi, come un giocatore di poker alle prime armi, andò a vedere il punto. «Dobbiamo puntare sui borghesi buoni. Marchionne parla della risposta ai problemi dell'impresa. E non scaricando sui lavoratori e sul sindacato. Ma assumendola su di sé». E visto che un il dieci-cento-mille Marchionne declinato sull'industria non bastava, ecco che Bertinotti decise di completare la sua folgorazione sulla via del Lingotto con un auspicio. Affidato, tra l'altro, a un'intervista alla Stampa. «In politica», disse l'allora terza carica dello Stato il 29 luglio 2007, «ci vorrebbe un Marchionne». E, come a rimarcare il concetto con la penna rossa, «se dice "abbiamo sbagliato" un grande imprenditore come Marchionne (...) lo stesso dovrebbe poter avvenire sul terreno politico». Certo, concluse il subcomandante Fausto, «ci vorrebbe che qui spuntasse qualche Marchionne...». Dove «qui», ovviamente, stava per la politica. Come direbbe Giuliano Ferrara, lo sport del cretino è quello di inchiodare gli altri alle loro vecchie idee. Come a dire che sono i cretini non cambiano idea. Vero. Bertinotti, che cretino non lo è mai stato, ci mise qualche anno a battere ritirata espellendo il golfino marchionniano dall'arcipelago della socialdemocrazia. «Berlusconi è al crepuscolo. Ma poi c'è il marchionnismo», avvertì alla fine dell'estate del 2010. E poi, come a volerlo cospargere fino in fondo, il suo capo, di cenere: «Romiti gli operai vorrebbe dividerli. Marchionne vorrebbe eliminarli». Parole che tornano d'attualità oggi che il vecchio «Cesare» attacca frontalmente il nuovo «Sergio», animando quel derby interno al capitalismo italiano a cui s'è iscritto - dalla parte di Romiti e contro quella di Marchionne - anche Diego Della Valle. Eppure c'è chi arrivato fino in fondo. C'è chi l'ha percorsa quasi tutta, la strada di considerare l'amministratore delegato della Fiat una «costola della sinistra». Nel gennaio del 2011, Walter Veltroni torna a lasciarsi andare a quel pragmatismo che sperimentato sperimentato nel 2007, quando proprio al Lingotto s'era presentato alla segreteria del Pd. «Marchionne ha posto con chiarezza, durezza e per tempo il problema. Ci vuole un contratto di lavoro costruito a ridosso dell'organizzazione aziendale».
Perché è vero, aggiunse il leader della Cisl Raffaele Bonanni, «sarà brusco, sarà crudo, ma Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della Fiat». E «grazie a Dio che c'è un abruzzese come Marchionne». Un dono divino che anche Massimo D'Alema aveva avuto modo di apprezzare ex tunc, nel 2009. «Ho sempre pensato», parola di lìder maximo, «che il destino della Fiat era quello di una forte internazionalizzazione in una fase caratterizzata dalla concentrazione della produzione di automobili». Quasi tutto in rima baciata. Tranne il finale dell'analisi dalemiana. Questo: «Marchionne lo sta facendo nel modo migliore».
In fondo, forse è tutta colpa dello strano sillogismo a cui un pezzo di sinistra ha creduto dopo aver visto Barack Obama posare in foto con Marchionne dopo avergli consegnato le chiavi più importanti della città di Detroit. «Sergio? È un liberal-radicale e io lo stimo», disse una volta uno dei suoi più accaniti sostenitori, Sergio Chiamparino. D'altronde, fu la domanda retorica dell'ex sindaco di Torino, «se la Fiat non fosse brava non avrebbe la Chrysler, no?».
Un errore in cui cadde anche Matteo Renzi, lesto nell'intestarsi a modo suo una difesa di Marchionne «senza se e senza ma». Perché, fu la premessa con cui il sindaco di Firenze aprì una sua intervista all'Unità, «sono un po' tranchant, il politichese non lo mastico». Ergo, al netto del politichese, «io sto con Marchionne» (punto uno), «su lui ha investito Barack Obama» (punto due), «il primo diritto è lavorare» (punto tre). Peccato che i punti due e tre non fossero conciliabili con la prima. Come Marchionne ha dimostrato pochi giorni fa. Con la rudezza che anche gli amici gli hanno sempre attribuito.

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