mercoledì 1 agosto 2012

In ricordo di Gore Vidal.

Quirino Conti, per Dagospia.
Con i suoi nefasti effetti, la neve di quest'inverno continua a sgretolare Roma. Sulla facciata della Galleria Borghese, forse il più sofisticato museo al mondo, un brano dello stemma dei principi ha ceduto. E mentre pietosamente si tenta di raccoglierne qualche scheggia - così come da un'infinità di altri monumenti -, quasi anch'egli una parte essenziale della città, anche Gore Vidal si è arreso, ha ceduto. Impastato per sostanza - e connaturale - alla gloria di Roma come pochi altri stranieri nella sua storia recente. Tenace e rassicurante esemplare di un certo genere di intelligenza cangiante che il Tempo sembra avere smarrito. Quando Roma era tutto: persino un'inventata e totalmente letteraria "dolce vita". Un americano aristocratico che senza alcun imbarazzo continuò a non parlare la nostra lingua anche avendo qui vissuto, lavorato e amato nella sua stagione migliore. E, come un prezioso reperto di quel tempo, anche a Ravello, incastonato e felice prigioniero di quella rupe magnifica che almeno non vedrà deturpata per l'eternità. Sempre sorprendente nel denunciare il peggio tanto del suo quanto del nostro paese: come da noi non facevano che i "comunisti", o chi era sospettato di esserlo; abituandoci così a tenere gli occhi aperti e a non temere la verità. Abbacinati da una biografia colma invece di privilegi, neppure scansati: ma per pura onestà e qualità intellettuale. E di amori, che a quel tempo da noi avrebbero ispirato resoconti sprezzanti e colmi di moralismo; quando non sarebbero stati addirittura causa di emarginazione e vergogna. E che invece in lui, con leggerezza, s'intrecciavano alla miglior tradizione di quel paese, il suo, tanto lontano allora da essere mitico. Mentre attraverso i suoi occhi tutto sembrava più facile, più naturale: essere colto, intelligente, sofisticato, bello e persino "contro"; oltre che, appunto, limpidamente omosessuale. E con amori forti, persino eroici. Se n'è andato, dunque, il sapiente conoscitore di Roma antica, l'esperto cultore della nostra storia, l'autore di cinema e il grande letterato, il polemista, il combattivo, tenace Gore Vidal. Al quale fu concessa persino la diversità di un nome insolito e avvincente. E che sapeva rendere densa e scintillante qualunque cosa toccasse. Mentre a Roma, pare, si inizia a raccogliere le briciole. Quirino Conti.
Gore Vidal, il ritorno. Intervista di LEONETTA BENTIVOGLIO, da Repubblica.
Torna Gore Vidal. Non con uno dei suoi rabbiosi pamphlet anti-Bush, tipici della produzione più recente, ma con un romanzo vasto e catturante, Il giudizio di Paride, del 1953, eppure inedito in Italia. Modellata sullo schema di un mito greco, quello che affida a Paride la scelta fra tre dee, Era, che promette potere, Atena, portatrice di saggezza, e Afrodite, che donerà all'eroe l'amore della donna più bella, la trama segue le peripezie di Philip, giovane americano in viaggio "iniziatico" nell'Europa del secondo dopoguerra, dove resta impigliato nella rete magica di tre donne. Regina è ansiosa di introdurlo ai piaceri narcisistici della politica, l'erudita Sophia, archeologa conosciuta in Egitto, rappresenta il sapere spirituale, mentre Anna, di bellezza stupefacente, lo seduce a Parigi. Tra scene erotiche e dialoghi su storia e politica - America ed Europa, linguaggi intellettuali ed emotivi a confronto, persino l'onda musulmana che avanza, già ostile agli americani - emerge la fisionomia del protagonista, raffinato e anti-romantico, curioso di misteri e perversioni, innamorato della cultura classica e avido di esperienze. Somiglia al giovane Vidal, spregiudicato esploratore dell'Europa anni Cinquanta e specialmente attratto dall'Italia, dove ha vissuto a lungo, prima a Roma e poi a Ravello, nella Rondinaia, la villa che comprò nel 1972, e che ha voluto abbandonare dopo la morte del suo compagno, Howard Austen, nel 2003. Fazioso e tagliente, visionario nell'uso della parola narrativa, Vidal è uno dei massimi mitografi del Nuovo Mondo, un po' come Dos Passos e Don DeLillo, ma con spiccata vocazione "all'incontrario", da guastatore dei miti americani. Oggi, a quasi 81 anni, vive solo, sulle colline di Los Angeles, rileggendo Milton e Montaigne e scrivendo la sua autobiografia, di cui è uscito il primo tomo, Palinsesto, dedicato ai primi quarant' anni. "E a novembre", racconta, "uscirà Point to Point Navigation, sull'ultimo quarantennio". Da qui è tratto il testo che leggerà a Roma il 21 giugno, a Massenzio per il Festival delle Letterature. La stessa sera Massimo Popolizio leggerà un brano de Il giudizio di Paride, in uscita per Fazi, che pubblica in Italia tutta la sua opera. Gore Vidal, come nacque Il giudizio di Paride? E perché da noi arriva solo adesso? "Lo scrissi all'inizio della mia attività di romanziere, cominciata nel 1947 con Williwaw. Seguì The City and the Pillar (proposto da Fazi come La statua di sale, ndr), una storia d' amore omosessuale che provocò una sorta di scomunica nei miei confronti da parte dell'establishment letterario. Presi a scrivere per Broadway e il cinema, e quando tornai al romanzo, con Giuliano, ben accolto in Europa, tutti erano interessati solo ai nuovi libri. Poi una giovane italiana, Caterina Cartolano, si è presa la briga di tradurre Il giudizio di Paride per farne la sua tesi di laurea, e ha mandato il testo a Fazi. Il suo mi sembra un ottimo lavoro". Si riconosce ancora nel romanzo? "Certo! Fu grazie a quel libro che conquistai la mia voce di scrittore. Molto più di quanto sia accaduto con The City and the Pillar, piuttosto ordinario. In quegli anni tentai anche, malamente, la strada della poesia. Trovai il mio stile e il mio ritmo col Giudizio di Paride, non a caso molto ammirato da Tennessee Williams". Il viaggio in Italia, il culto della storia e della politica, la costiera amalfitana... Philip ha numerosi aspetti e interessi in comune con lei. "In lui c' è un bel po' di me. Scrissi il romanzo nel periodo in cui dovevo scegliere tra fare il romanziere o dedicarmi alla politica". Si può dire che il cuore ideale del libro siano le differenze tra America ed Europa? "Certo. Ogni frase segnala la diversità tra due modi di pensare e sentire. è clamorosa la distanza nella concezione del passato: tutti i vostri dei sono ancora vivi". Nel Giudizio di Paride il sesso è motore della vicenda di Philip, che lo pone al centro della propria vita. "Cos' altro dovrebbe fare? è un uomo di vent' anni!" Lei ha detto che è il sesso fa naufragare relazioni più di qualunque altra cosa. "Mi riferisco alla monogamia sessuale, principio delirante e innaturale. Quanto a Philip, viaggia in Italia sentendosi una creatura del mondo classico. Gli dei pagani vivono in lui, sensualità compresa. Quando scrivevo Il giudizio di Paride ero molto influenzato da Petronio e Apuleio e da opere come Satyricon e L'Asino d' Oro". Satyricon fa ripensare a Fellini, che lei ha conosciuto bene. "Lo chiamavo Fred, lui mi chiamava Gorino. L'ho aiutato spesso. Per Casanova i produttori, della Paramount, vollero prima vedere la sceneggiatura in inglese, per girare il film in presa diretta, e fui io a riscriverla. Fred ottenne molti milioni di dollari, poi girò senza sonoro, dunque senza il mio testo. Lo accusai di essere un regista di film muti. E lo rimproveravo di fare film come pinacoteche. Il cinema è movimento, non gallerie di quadri! Questo però accadeva solo nell'ultimo periodo. Fino ad Amarcord fece film bellissimi". Invece lei non amò Visconti. "Le sue sceneggiature erano caotiche. Chi mi piaceva di più era Antonioni: Zabriskie Point è il migliore studio sul crollo di nervi americano mai realizzato. Quanto agli scrittori italiani è grandissimo Calvino. Fui io a farlo conoscere negli Stati Uniti, scrivendo per la New York Review of Books un lungo testo sui suoi romanzi, dopo il quale vennero tutti tradotti". Ora che è tornato a vivere in America le manca l'Italia? "Non può mancarti ciò che hai avuto pienamente. Ho goduto dell'Italia al meglio, tra gli anni Quaranta e i Sessanta. Non scorderò mai le prime, esaltanti esperienze. Quando giunsi con l'esercito a Napoli, venni subito portato in un meraviglioso bordello vicino al porto. La gente era povera, non c' erano automobili, ma il clima era gioioso e sensuale, come narra Il giudizio di Paride". E' sempre ferocemente critico del suo paese? "In America la situazione è spaventosa. Questo governo imperialista adotta strategie folli e autodistruttive. Siamo prossimi alla bancarotta, eppure Bush insiste nel fare guerre. Non di conquista né per il petrolio, ma per vanità". Tutta la sua storia parla di un oppositore "costituzionale". "Macché, sono una persona positiva. Solo se si ha un atteggiamento propositivo si può lanciare Calvino in America come ho fatto io. Cerco il talento, la qualità. E coltivo opposizioni motivate". Il suo rapporto con la memoria? "Non è come riavvolgere la pellicola di un film. Se mi sono rotto una gamba a dieci anni non rammento quell'episodio com' è stato: il mio ricordo si riferisce piuttosto all'ultima volta che ho pensato a quella frattura. Se negli anni vi ho ripensato spesso, avrò materiale sufficiente per scriverne. E' quanto sto facendo con la mia autobiografia". (01 agosto 2012) © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Gore Vidal, il più americano degli americani di Giulietto Chiesa, 2 agosto 2012, da Il Fatto Quotidiano.
Non mi piacciono i necrologi. In genere costringono chi li scrive a parlare bene del morto, cioè non sono sinceri, quali che fossero le sue qualità. Meno che mai mi piace scriverne quando chi se n’è andato era un mio amico, e caro. Ne parlo, in morte, per ricordare le cose più importanti che ha scritto. Per me Gore Vidal è stato l’equivalente, nel secolo XX, di quello che fu Alexis de Tocqueville nel XIX. Se quest’ultimo descrisse la nascente democrazia americana, Gore Vidal è stato il più lucido, acuto, implacabile analista della sua fine. Per meglio dire, della sua trasformazione in “impero”. Alcuni libri suggerisco, a chi voglia misurare la sua grandezza come scrittore: “Impero”, per l’appunto, e “Giuliano”, e “L’età dell’oro”. I suoi saggi sulle trasformazioni che la televisione, e il sistema dei media, hanno prodotto sulla democrazia, frantumandola e trasformandola in cerimoniale al servizio delle élites dominanti, sono quanto di più brillante e corrosivo si possa immaginare. Per quanto mi riguarda è stato un grande maestro, alla cui lezione ho attinto e continuo ad attingere. Penso che quanti più giovani lo leggeranno, tanto più grande sarà il drappello di menti critiche capaci di difendersi dall’aggressione che il mainstream scatena nei nostri confronti. Non solo quello americano, anche il nostro, ma quello americano è il padre del nostro. “I mass media – scrisse – disprezzano a tal punto la gente da ritenerla più stupida di quanto siano i mass media”. Quando, come spesso mi accade, mi sento apostrofare come anti-americano, io penso sempre che Gore Vidal era il più americano degli americani che ho conosciuto. Amava il suo paese, la grandezza dei suoi padri. Lui stesso era uno dei rami dell’unica élite che ha dominato l’America, da Abramo Lincoln in poi. Ramo senza discendenza, senza foglie, ma ramo dritto, che non si è piegato all’alterigia della casta di cui faceva parte. Voglio ricordare che fu uno dei pochissimi grandi intellettuali americani che considerò una menzogna la versione ufficiale della tragedia dell’11 Settembre 2001. E lo disse pubblicamente. Non lo ringrazierò mai abbastanza per avere accettato di essere uno dei testimoni del film “Zero”, al quale ho dedicato tanto lavoro in questi anni. In America lo ha sempre letto quel milione circa di americani intelligenti che voleva sapere qualche cosa. Il sistema non poteva omologarlo e lo confinò nel limbo più piccolo che potè. Ma quando una personalità è grande non la si può ridurre, comunque, in un angolo. L’America non ama da tempo di sentirsi dire la verità. E colui che, tra i primi, ne scrisse l’epitaffio, non poteva essere profeta in patria. E’ con questo epitaffio che saluto il mio amico Gore Vidal: “… quella audace e vanagloriosa invenzione dell’Illuminismo che erano gli Stati Uniti, una regione selvatica destinata a sognare per sempre di essere un’Atene risorta, quando invece si tratta di una Roma ricreata con ostinazione e grossolanità”

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