lunedì 6 agosto 2012

Eurocronistoria no-meanstream.

Le aporie del più Europa dal blog Goofynomics, del prof. Bagnai Posted: 05 Aug 2012.
La crisi. Che l’Eurozona (EZ) sia in una profonda crisi di sistema è ormai chiaro. Secondo le ultime previsioni del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dall’inizio del 2008 alla fine del 2012 l’Europa avrà perso l’1% del suo prodotto in termini reali, e l’Italia il 6,3%. Sempre secondo il Fmi, l’EZ, nel suo complesso, potrebbe tornare ai livelli di reddito pre-crisi nel 2016, mentre l’Italia non ci sarà ancora tornata nel 2017. Da qui al 2017 la Germania avanzerà di una posizione nella graduatoria mondiale del reddito pro-capite, ma l’Italia ne perderà quattro, ritrovandosi al 33° posto (quello occupato dalla Grecia nel 2000). Sintesi: con la crisi l’EZ ha perso otto anni, e il nostro paese verosimilmente più di una decina, arretrando relativamente ai suoi principali partner, sempre che le cose non cambino in meglio. Ma un cambiamento in peggio è purtroppo più probabile. La natura della crisi è descritta da Sergio Cesaratto in questo e-book: un film già visto, il cui titolo potrebbe essere tratto da un lavoro di Taylor (1998): “Liberalizzazione, rigidità del cambio, e destabilizzazione guidata dai mercati”. Due i protagonisti: un paese sviluppato (il “centro”), con una forte base finanziaria e industriale, e un paese, o un gruppo di paesi, relativamente arretrato (la “periferia”). Il centro “suggerisce” alla periferia la liberalizzazione dei movimenti di capitale e l’adozione di un tasso di cambio fisso. Ottiene così due vantaggi: intanto, visto che in periferia i tassi di interesse sono più alti, il centro può prestarle i propri capitali (i movimenti di capitali sono liberalizzati), lucrando la differenza senza patire rischio di cambio (il cambio è fisso). Per la periferia questa liquidità è relativamente a buon mercato, e qui subentra il secondo vantaggio: drogando coi propri capitali la crescita dei redditi della periferia, il centro si assicura un mercato di sbocco per i propri beni, che i cittadini della periferia possono ora acquistare grazie agli effetti diretti e indiretti di un più facile accesso al credito. La periferia si gonfia come una bolla, perché i mercati, allettati dalla sua crescita, convogliano verso di essa capitali in misura sempre maggiore, tanto più che la crescita drogata dal debito privato (i capitali esteri prestati a famiglie e imprese) causa un miglioramento delle finanze pubbliche: il rapporto debito pubblico/Pil si stabilizza o scende. I grulli (o i furbi?) per i quali “l’unico debito è quello pubblico” sono così rassicurati. Ma nell’economia drogata sale la febbre: l’accesso al credito facile fa salire l’inflazione, e se all’inizio ci si rivolgeva all’estero per comprare beni di lusso, col tempo i prodotti esteri diventano competitivi anche sulle fasce più basse, il deficit commerciale si approfondisce, e occorrono nuovi capitali esteri per finanziarlo. Trovare impieghi produttivi per masse enormi e crescenti di capitali non è facile, e gli afflussi di capitali, dei quali i nostri politici tanto lamentano la carenza in Italia, sono, per il paese che li riceve, debiti esteri, che occorrerà rimborsare. Chi presta questo lo sa. A un certo punto, per un motivo x (ad esempio lo scoppio di una recessione), il centro comincia a dubitare della capacità della periferia di rimborsarlo: esige il pagamento di interessi più alti a copertura del rischio, lo spread decolla, la periferia si avvita nella spirale del debito estero, e per sapere il seguito basta aprire un giornale. Non è un happy end. La destabilizzazione, Taylor docet, è guidata dai mercati, perché questi ci guadagnano: nel periodo delle vacche grasse incassano begli interessi, e se poi alla fine qualche banca rimane col cerino acceso in mano, a ripianarne i bilanci ci pensano i contribuenti, attraverso l’austerità loro imposta, e gli Stati, accollandosi il debito privato via salvataggi bancari. Nella favola dei media il cattivo è il bilancio pubblico. In realtà sono le banche private che hanno prestato molto e male: ma la soluzione ideologica viene additata nella riduzione dell’“impronta dello Stato”, che deve fare un passo indietro, così che al prossimo giro le banche possano prestare troppo e peggio! Anche gli industriali del centro e della periferia hanno il loro tornaconto: quelli del centro lucrano profitti vendendo beni alla periferia, e quelli della periferia, ci ricorda Acocella (2005), ricorrono allo spauracchio del vincolo esterno per “disciplinare” i sindacati: compressione dei salari più aumento della produttività uguale aumento dei profitti. Quante volte, dal 1979, cioè da quando l’Italia ha iniziato il suo percorso in quella che Carlucci (2008)chiama l’area del marco allargata (prima come Sistema Monetario Europeo – SME – poi come EZ) ci siamo sentiti dire “l’Europa lo vuole”? Come resistere a questo richiamo patriottico? Le opportunità di profitto, a ben vedere, dipendono dalle diversità fra i protagonisti: diversi tassi di interesse e di inflazione, diversi livelli di reddito, ecc. La morale del film già visto quindi è molto semplice e ognuno la comprende: non è una buona idea aggiogare sotto una moneta comune paesi diversi. Più esattamente: non è una buona idea per i più deboli (anche se è un’ottima idea per alcune classi sociali di questi paesi, come di quelli più forti). Il paradosso della moneta unica Eppure in teoria la moneta unica un beneficio ce l’ha: la riduzione dei costi di transazione dati dall’incertezza del cambio. Un vantaggio che per l’elettore poco a suo agio con le tabelline è facile da percepire, ma il cui impatto macroeconomico è minimo, al punto da rendere contraddittoria l’idea stessa di unione monetaria[1]. Pensateci: se un gruppo di paesi avesse istituzioni, politiche, e fondamentali macroeconomici perfettamente allineati e stabili, sarebbero tali anche i rispettivi tassi di cambio, la cui incertezza diventerebbe trascurabile. Il vantaggio dell’unificazione monetaria emerge laddove i sistemi economici coinvolti non sono omogenei e non esistono forze che tendono a farli convergere, per cui i tassi di cambio sono relativamente incerti o divergenti. In altre parole, l’unificazione monetaria si rende necessaria solo laddove è dannosa, cioè solo laddove implica la rinuncia a un elemento di flessibilità (quella del cambio) utile per assorbire shock o compensare divergenze strutturali. Tanto è vero che la teoria delle aree valutarie ottimali (AVO) è tutta impostata in termini di riduzione del danno causato dalla rigidità del cambio, e da Mintz (1970) in poi gli economisti riconoscono che la scelta dell’unificazione monetaria risponde a logiche di tipo politico, le sole in grado di giustificarla, nonostante essa sia spesso presentata (slealmente) agli elettori come una scelta di carattere “tecnico”. La teoria delle AVO insegna che per evitare problemi l’abbandono della flessibilità del cambio deve essere compensato introducendo altre flessibilità: una maggiore mobilità dei fattori di produzione (come sa bene il Sud dell’Italia, dal quale tanti lavoratori son dovuti emigrare), una maggiore flessibilità dei salari (come sta imparando il Sud dell’Europa), una maggiore diversificazione produttiva (che aiuta a superare difficoltà specifiche in un determinato settore industriale – un criterio che, guarda caso, sfavorisce ancora una volta le piccole economie periferiche). Se questo manca, occorre almeno che i tassi di inflazione fra i paesi membri convergano, altrimenti il deteriorarsi della competitività nei paesi ad alta inflazione causerà deficit esteri, con le conseguenze viste sopra (afflusso di capitali ecc.). Infine, se manca anche questa convergenza, bisogna che le istituzioni siano progettate per ovviare “a valle” agli squilibri, sostanzialmente in due modi: (a) vuoi invitando chi ha accumulato risorse tramite i surplus esteri ad agire da “locomotiva”, tramite politiche espansive che sostengano l’unione nei momenti di crisi: si chiama coordinamento delle politiche fiscali; (b) vuoi prevedendo un sistema efficiente e politicamente condiviso che in caso di crisi trasferisca risorse dalle zone in espansione a quelle in recessione: si chiama integrazione fiscale, ed è quanto ha contribuito a tenere in piedi per 150 anni un’altra unione non particolarmente felice dal punto di vista economico, quella italiana. Al prezzo, si badi, di ovvie tensioni politiche: in economia l’altruismo non è obbligatorio. Dalla teoria alla pratica. Che in Europa non vi fosse nulla di tutto questo è evidente. Ne consegue che l’adozione della moneta unica è stato uno schiaffo dato dal potere politico alla dottrina economica. Gli economisti hanno reagito secondo le loro personali inclinazioni: c’è chi si è seduto lungo la riva del fiume ad aspettare il cadavere dell’euro, e c’è chi, in un generoso tentativo di salvare l’onore della professione, ha argomentato che però i politici, facendo la cosa sbagliata, avevano fatto la cosa giusta, perché la moneta unica avrebbe creato da sé le condizioni per la propria sostenibilità. Si chiama teoria delle AVO “endogene”, e si basa su due argomenti che vale la pena di ricordare. Il più antico risale a Giavazzi e Pagano (1986), e afferma che fissando il cambio della periferia a quello di un centro a bassa inflazione, i politici della periferia acquisiscono quella credibilità che consente loro di effettuare con successo politiche deflazionistiche. Quale impegno più credibile dell’irrevocabile unione monetaria? E quindi, unendo le monete, i tassi di inflazione si sarebbero facilmente allineati a quelli del paese più virtuoso. Il più recente afferma che l’unione monetaria provocherebbe un aumento notevole del commercio fra i paesi aderenti, che addirittura triplicherebbe (Rose, 2000). L’accresciuto interscambio sarebbe benefico, perché realizzerebbe un “coordinamento” di fatto fra paesi membri. Il paese in espansione, acquistando più merci dai partner (grazie alla moneta unica), agirebbe da locomotiva, tirando fuori “chi è rimasto indietro” dalle secche della recessione. Quello che è successo in pratica lo sappiamo: per i motivi su esposti (sale la febbre nell’economia drogata...), l’unione monetaria ha favorito una divergenza, anziché una convergenza, dell’inflazione (dato tranquillamente ammesso dalla Bce); d’altra parte, l’aumento dell’interscambio commerciale è stato ridotto (attorno al 9%; Baldwin, 2006) e totalmente squilibrato a favore della Germania, che invece di essere la locomotiva dell’Eurozona, è andata a rimorchio, come spiegato da Cesaratto e da De Nardis su lavoce.info. In altre parole: l’illusione che la strada sbagliata portasse nel posto giusto si è infranta per l’ennesima volta contro la realtà dei fatti. E non è una novità. Più Europa: il prequel In questi giorni i media ci propongono con grande enfasi il trailer di un altro film dal titolo molto incisivo: “Più Europa!”. Si tratta, anche in questo caso, di un film già visto, ed è importante ricordarne al lettore la trama, che poi si basa sullo stesso meccanismo retorico che abbiamo appena evidenziato, quello del paradosso: “la strada sbagliata ci porterà al posto giusto”! Siamo a metà degli anni ’90. L’esperienza di rigidità del cambio avviata con lo Sme si era rivelata catastrofica. Intanto, essa aveva condotto alla crisi del 1992, risolta lasciando fluttuare il cambio, senza che ciò avesse alcun impatto sull’inflazione, come lo stesso prof. Monti all’epoca ammetteva. Inoltre, il meccanismo dello Sme aveva costretto la periferia a seguire la politica monetaria della Bundesbank, poiché qualora in periferia i tassi fossero scesi rispetto a quelli tedeschi, ci sarebbero state fughe di capitali verso la Germania. Ma i tassi tedeschi si erano progressivamente innalzati, fra l’altro anche allo scopo di attirare dall’estero capitali per finanziare la ristrutturazione della Germania Est, e così la periferia era stata costretta ad adottare a sua volta tassi di interesse troppo alti per le proprie esigenze, con conseguenze negative su crescita e occupazione, come notavano già dal 1993 i soliti premi Nobel (Blanchard et al., 1993), e anche sulla sostenibilità del debito (Acocella, 2005). Tuttavia pochi anni dopo, nel 1997, Franco Modigliani tornava alla carica, sostenendo che la strada (sbagliata) della rigidità del cambio andava percorsa fino in fondo, cioè fino alla completa unione monetaria. Questo paradosso veniva giustificato affermando che con l’euro la Bundesbank, così come tutte le banche centrali nazionali, avrebbe fatto un passo indietro per lasciare la conduzione della politica monetaria alla Banca Centrale Europea (Bce), un organo collegiale nella quale la Germania avrebbe espresso un parere importante, ma non determinante. Insomma: “più Europa” (monetaria) avrebbe salvato la situazione, portando a una politica monetaria più attenta agli interessi della periferia (Modigliani e Baldassarri, 1997). Qualcuno tentava di far notare che verosimilmente nel Governing council della Bce i paesi dell’area del marco (Austria, Belgio, Finlandia, Germania, Lussemburgo, Olanda) avrebbero fatalmente avuto il sopravvento: più Europa avrebbe quindi significato ancora più Germania. I fatti hanno (purtroppo) confermato questa ipotesi: è ancora Cesaratto a far vedere come la politica monetaria della Bce, sia stata giusta o sbagliata, ha tenuto principale se non esclusivo conto dell’andamento di inflazione e crescita nei paesi del nucleo. In particolare, i tassi sono stati tenuti troppo bassi proprio quando in periferia la febbre stava salendo e una politica restrittiva avrebbe giovato. Il ritorno del “più Europa” Si arriva così al tormentone di questi travagliati giorni, il ritorno del “più Europa” nella duplice veste di una Bce “prestatore di ultima istanza” accoppiata ad una unione fiscale/politica. Una richiesta prospettata come unica soluzione possibile e quindi doppiamente fuori discussione perché ovvia (?) e perché inevitabile (?). Eppure, reduci da un cambiamento istituzionale (l’adozione dell’euro) che sta facendo i suoi morti, credo sarebbe bene, prima non dico di adottarne, ma anche semplicemente di chiederne un altro, riflettere con serietà. Se “più Europa” (monetaria) ha fallito, perché “più Europa” (fiscale) dovrebbe avere successo? Qualcuno dirà: ma proprio perché le due unioni non sono andate di pari passo! Sarà, ma c’è sempre qualcosa che non torna: se la soluzione era così ovvia, perché nessuno ci ha pensato prima? Bisognava arrivare al quarto anno di una crisi devastante? Il fatto è che la teoria delle AVO di unione fiscale non parla (come del resto non pone particolari requisiti sulla struttura della banca centrale): come abbiamo visto, la teoria delle AVO parla di coordinamento fiscale e di integrazione fiscale, visti come strumenti potenzialmente utili per compensare le rigidità imposte dall’unione monetaria, ma non di unione fiscale. Quindi la colpa è, come al solito, degli economisti che non hanno capito, non hanno previsto, ecc.? O forse è il dibattito che sta cedendo a un’ondata di apparente irrazionalità e di reale demagogia, sull’impulso di parole d’ordine tanto eloquenti quanto vuote? Come abbiamo visto, non sarebbe la prima volta. Un’analisi più cauta porta in effetti a concludere che nel panorama attuale le proposte di “più Europa” possono essere classificate in tre categorie: quelle inefficaci, quelle assurde, e quelle irrealizzabili. Sono chiaramente inefficaci nel lungo periodo, quale che possa essere il loro effetto di breve (ancora tutto da sperimentare), certe proposte di un cambiamento di statuto della Bce, che dovrebbe diventare “più simile” alla Fed americana, intervenendo come lender of last resort nei riguardi degli Stati in difficoltà. Comenotavo a gennaio, ci sarebbe intanto da capire perché l’opera di prestatore di ultima istanza debba svolgersi a beneficio degli Stati sovrani, dopo che questi si sono indebitati per salvare le banche private, anziché rivolgersi direttamente a queste ultime. L’ultimo summit europeo riconosce questo circolo vizioso, ma non sembra ne tragga le corrette conseguenze. Tralasciando questo aspetto congiunturale, rimane il fatto strutturale: se il ciclo perverso, come abbiamo mostrato sopra, è innescato dalla divergenza fra i tassi di interesse e di inflazione dei singoli paesi, nessuna politica monetaria centralizzata potrà porvi rimedio. L’idea che moneta unica significhi inflazione unica è figlia di una concezione datata dell’inflazione, quella secondo la quale è la moneta a “causare” il livello dei prezzi. Le analisi teoriche ed empiriche a partire dal secondo dopoguerra hanno confermato il ruolo cruciale del mercato del lavoro nel determinare la dinamica dei prezzi. E con un mercato europeo del lavoro segmentato per motivi culturali e istituzionali la Bce, da Francoforte, può fare molto poco per comporre i differenziali di competitività che hanno messo in ginocchio la periferia. Ma al di là di questo dato oggettivo, che dovrebbe essere facilmente comprensibile agli abitanti di un paese come l’Italia, lacerato da un dualismo territoriale che 150 anni di politica monetaria comune non hanno potuto, in tutta evidenza, comporre, rimane il dato politico: anche se nelle circostanze attuali il rischio di inflazione è remoto, in termini generali i creditori del centro non intendono accettare qualcosa che somigli a una “socializzazione” delle perdite, realizzata tramite un meccanismo che consenta di fatto ai debitori della periferia di restituire somme decurtate dagli effetti dell’inflazione. Questo spiega perché gli interventi della Bce sono finora stati “irrazionalmente” tardivi. Sono chiaramente assurde le proposte di “rafforzamento” del “Patto di stabilità” implementate nel cosiddetto Fiscal compact. Il rafforzamento di una regola già discreditata, disapplicata fin dal 2002 da chi oggi fa la voce grossa, serve solo a renderla ancora meno credibile e fondata nella razionalità economica. Questa vorrebbe che il bilancio pubblico possa muoversi in senso anticiclico, andando in deficit nei momenti di recessione (quando gli introiti fiscali calano e lo Stato interviene a sostegno dei redditi) e consolidandosi in quelli di espansione. Questa flessibilità, evidentemente, è tanto più necessaria quando il sistema è reso rigido dall’imposizione di una moneta unica. Oggi, invece, nei momenti di recessione gli Stati sono costretti a imporre nuove tasse o a tagliare spese, sottraendo ulteriore domanda al sistema, in un avvitamento perverso il cui unico risultato (voluto o meno) è stato finora quello di indebolire e rendere più aggredibili le economie periferiche (le cui migliori aziende infatti stanno cadendo una dopo l’altra in mano estera). Ma questa palese deroga alla razionalità economica, con le connesse cessioni di sovranità, viene presentata come il necessario (?) sacrificio da compiere per rassicurare (?) la Germania e farle accettare l’unione fiscale, che non le sarebbe gradita qualora prima la periferia non facesse i compiti a casa. Il fatto è che queste proposte di “più Europa”, quelle che passano attraverso l’idea di una maggiore “unione” fiscale, in particolare nel senso sopra specificato di “integrazione fiscale”, sono palesemente irrealizzabili, pur non essendo insensate teoricamente. Certo, lo sappiamo, e lo sapevamo anche prima: l’integrazione fiscale è uno dei motivi di tenuta dell’unione monetaria statunitense. Ce lo avevano detto fin dal 1991 Sala-i-Martin e Sachs, dai cui studi risulta che negli Usa il bilancio federale compensa in media per più di un terzo, mediante riduzioni di imposte o aumenti di trasferimenti, gli shock avversi ai redditi individuali, contribuendo così a bilanciare gli squilibri fra gli Stati dell’Unione. Ma meccanismi di questo tipo, che intervengano “a valle” degli squilibri, mancavano e mancano in Europa per un semplice motivo: anche essi sono politicamente improponibili, in un contesto condizionato dall’atteggiamento falsamente moralistico dei paesi del centro. Per la classe politica di questi paesi è ormai impossibile richiedere all’elettorato atteggiamenti cooperativi con chi finora è stato additato, per motivi di bottega politica interna, come responsabile della crisi: i fannulloni del Sud. Del resto, pensateci: se ci fosse una volontà politica di cooperare, questa potrebbe tradursi in pratica immediatamente, senza alcuna modifica istituzionale. Basterebbe che la Germania coordinasse le proprie politiche economiche con quelle degli altri paesi membri: un coordinamento che, del resto, è esplicitamente richiesto dal Trattato di Maastricht (art. 3 e 103), ma che è stato regolarmente disatteso. Lo prova il fatto che dal 1999 al 2007 la Germania è stato il secondo paese a crescita più lenta dell’Eurozona dopo l’Italia (la crescita reale è stata dell’1.7% in Germania e dell’1.5% in Italia, contro una media del 2.7% nell’EZ): questo perché, nonostante le esportazioni crescessero, la domanda interna per consumi e investimenti veniva sistematicamente repressa per evitare di far crescere le importazioni. Ma per cooperare con il resto dell’Europa la Germania dovrebbe comportarsi in modo esattamente opposto: orientare il proprio modello di crescita sullo sviluppo della domanda interna (per consumi e investimenti), dando così ossigeno, via importazioni, alle economie dei suoi partner. E potrebbe farlo da subito, conservando la propria sovranità di bilancio, senza alcuna modifica istituzionale, e nel pieno rispetto dei trattati europei (che ha anzi compromesso violando il Patto di stabilità e adottando una politica beggar-thy-neighbour). Ma evidentemente un certo capitalismo tedesco rimane affezionato a un modello di crescita che, contando sulla domanda estera e sulla moderazione salariale, gli consente di lucrare profitti cospicui. Bisognerà pure arrendersi all’evidenza. Dopo aver privatizzato questi profitti, che il vantaggio accordatole dall’euro le ha consentito di realizzare (come ammesso pacificamente dal Fmi, dalla Confindustria tedesca, e perfino dallo stesso on. Prodi), la Germania è giustamente (dal suo punto di vista) restia a socializzare le perdite, accollandosi una parte dello sforzo necessario. E le dinamiche leghiste del gioco politico tedesco fanno disperare, come nota Cesaratto, che un rinnovamento della classe politica tedesca alteri la situazione. Queste dinamiche condizionano anche il dibattito degli altri paesi, nei quali si è ormai completamente perso il senso del termine “unione”. tutto il dibattito verte ormai su come recuperare competitività nei riguardi della Germania, senza che nessuno sembri cogliere l’assurdità di questo obiettivo: tutti sembrano dare per scontato che lo scopo dell’EZ sia quello di favorire una competizione fratricida, anziché il coordinamento e la cooperazione per il conseguimento di obiettivi comuni. In questo contesto è difficile sfuggire al dubbio che chi dice “unione” abbia in realtà in mente “annessione”. Conclusioni. Capisco che questa disamina sia deludente, ma temo non ci si possa sottrarre al fatto che si è voluto usare la moneta (o meglio, il feticcio della rigidità del cambio) come strumento di dominio e sopraffazione, anziché di cooperazione e integrazione. E in mancanza di volontà politica, la tecnica ha il fiato corto. Forse l’unico accorgimento che potrebbe contribuire a tenere insieme i cocci è quello proposto da Farholz e Wojcich (2011): dotare l’Unione di regole di uscita. Ma siamo sicuri che tenere insieme i cocci sia un obiettivo degno di essere perseguito? Non vorrei, nel trarre le conclusioni, essere offuscato dall’atteggiamento mentalmente ristretto del “tecnico” che vede offesi dai “politici” i principi della propria disciplina. Il rischio di soggiacere a questa mancanza di visione, certo, esiste. Ma, ripeto, dove ci ha portato il magnanimo disprezzo di una certa classe politica verso gli umili suggerimenti della tecnica economica? Col senno di poi, non sarebbe stato meglio avviare la costruzione europea su basi diverse, quelle suggerite dalla “tecnica”, e quindi procedere dalla (vera) integrazione dei sistemi educativi, dei mercati del lavoro, dei sistemi previdenziali, passare quindi a un bilancio federale che gestisse politiche infrastrutturali, di ricerca e redistributive comuni, progressivamente più ambiziose, e, poi, dopo, eventualmente, passare alla moneta unica (che avrebbe nel frattempo palesato la propria inutilità)? È questo forse “difetto di visione”? Ma ora ci viene detto dagli stessi autori del progetto europeo (une per tutti: Jacques Attali) che questo percorso, quello suggerito dalla teoria economica, è stato accantonato di proposito, scegliendo la strada sbagliata sulla base della convinzione che solo spinti dall’urgenza dell’inevitabile crisi gli elettori europei si sarebbero risolti a fare la cosa giusta, il fatidico “più Europa”. Sta ora a questi elettori decidere se accettare o meno un simile ricatto, se avallare un metodo politico paternalistico che li costringe ad affrontare riforme politiche di ampia portata e di lungo periodo sotto la mannaia dello spread e nell’urgenza di una crisi economica globale. Sarebbe follia, se non vi fosse in essa il metodo che i suoi autori confessano. E allora, forse, la conclusione è che la cosa più onesta e meno distruttiva da fare è riconoscere l’errore, pagare per esso, sopportando i costi dell’uscita dall’euro, per poi eventualmente riprendere su basi più corrette il percorso verso di esso. Posto che se ne abbia nostalgia. Postfazione A proposito: l’infatuazione di Franco Modigliani per la moneta unica non durò a lungo. Bastarono tre anni, al nostro Nobel, per capire che la strada sbagliata (“più Europa!”) conduceva nel posto sbagliato. Intervenendo il 10 aprile del 2000 alla presentazione del libro “L’Europa legata: i rischi dell’euro” di Giorgio La Malfa, Modigliani affermava che “la Bce è un obbrobrio, perché crea erroneamente un alto tasso di disoccupazione… è un mostro che ha solo una funzione: la stabilità dei prezzi, e messa in mano ai tedeschi della Bundesbank”. Quanti anni occorreranno a chi ora chiede “più Europa fiscale” per capire che ciò significa mettere nelle mani dei paesi del “core” (di fatto, sempre i “tedeschi della Bundesbank”) le nostre politiche di riequilibrio regionale e di rilancio degli investimenti? Significa, insomma, affidare somme di denaro sempre più ingenti ad organismi politici ancora più remoti da qualsiasi possibilità di effettivo controllo democratico? Ecco: impostiamo bene il calcolo: i costi economici dell’uscita dall’euro, spesso gonfiati ad arte dai media, vanno confrontati coi costi economici e politici (in termini di perdita di democrazia), della permanenza nell’euro. Per vedere questo film già visto, noi e i nostri figli rischiamo di pagare un biglietto troppo salato. Per approfondire Acocella, N. (2005) La politica economica nell’era della globalizzazione, Roma: Carocci. Baldwin, R. (2006) In or out: does it matter? An evidence-based analysis of the euro’s trade effect, London: Centre for Economic Policy Research. Blanchard, O., Dornbusch, R., Fischer, S., Modigliani, F., Samuelson, P., Solow, R. (1993) “Why the EMS deserves an early burial”, Financial Times, 29 luglio. Carlucci, F. (2008) L’Italia in ristagno, Milano: Franco Angeli. Eichengreen, B. (1993) “European monetary unification”, Journal of Economic Literature, 31, 1321-1357. Giavazzi. F., Pagano, M. (1986) “The advantages of tying one’s hands: EMS discipline and central bank credibility”, CEPR Discussion Papers, N. 135 (October). Mintz, N.N. (1970), “Monetary Union and Economic Integration”, The Bulletin, New York University Graduate School of Business Administration, Institute of Finance, No.64, April 1970. Modigliani, F., Baldassarri, M. (1997) “A Euro minus the D-Mark”, Financial Times, 14 marzo 1997. Taylor, L. (1998) “Capital market crises: liberalisation, fixed exchange rates and market-driven destabilization”, Cambridge Journal of Economics, 22, 663-676. [1] Eichengreen (1993) ricordava che secondo la Commissione Europea il risparmio di costi di transazione sarebbe ammontato ad appena lo 0.4% del Pil europeo, una cifra “inadeguata per un progetto così incerto e rischioso” Concludendo: già lo vedo nel 2020 Solone, arricchito da ricche prebende (lui e tutti i suoi), recriminare che però in Italia ormai comanda la Germania, perché tutti i nostri asset strategici son finiti in mano loro...

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