mercoledì 7 dicembre 2011

Ma i poveri diventano più poveri. I ricchi più ricchi. E i Paesi meno democratici.



I Monti di pietà

di Anna Lombroso


Mi secca,mi urta, mi irrita. Ma soffro la stessa malattia del capitalismo, siamo demoralizzati.
Per quanto mi riguarda, demoralizzazione, come sul vocabolario, vuol dire perdita di fiducia in se stessi e negli altri, abbattimento, frustrazione. Per il capitalismo come da tradizione potente e prepotente, arrogante e autoreferenziale, vuol dire perdita della morale, dismissione di ogni regola di condotta, anche di quelle funzionali all’economia.
E sono preoccupata, perché se per quanto mi riguarda può significare, disillusione, diffidenza, paura e disincanto, per quanto riguarda il capitalismo significa rinuncia a ogni standard di onestà, di autocontrollo, di rispetto dei limiti, a costo di un vortice sempre più profondo e buio di rapacità e iniquità.

C’è poco da stare allegri, anche per via di un infecondo quanto giocondo abbandonarsi al cinismo come moderna declinazione del realismo, se l’illuminato Scalfari scrive che l’equità sarà il “lubrificante” del rigore e del contenimento della spesa, se il presidente del consiglio si prodiga in nome dei giovani condannandoli alla Gelmini, se come dice il Simplicissimus si vuol curare l’Europa malata di liberismo con la malattia. Perché non si è certo disfattisti se si osserva che le ricette del liberismo e della turbo finanza non devono essere così efficaci per i popoli, se a fronte dei un debito pubblico formidabile l’Italia è il Paese occidentale che registra più disuguaglianze e uno stato sociale sempre più impoverito e inadeguato.

E succede paradossalmente che nazioni demoralizzate scelgano i governi che corrispondono meglio all’illusione di allearsi con il capitalismo senza morale e senza scrupoli, sperando di salvare il poco che hanno. Istanza illusoria appunto perché se all’enorme volume di attività finanziarie non corrispondono attività reali, si producono un circolo vizioso inflazionistico e inevitabili effetti recessivi, con una ridistribuzione perversa delle risorse.
E con un messaggio simbolico di tremenda iniquità: i giocatori d’azzardo non devono i loro guadagni al lavoro ma alla fortuna di pescare il jolly, all’astuta gestione delle carte, a un sistema truccato con l’aiuto di politiche monetarie che escludono dalle loro contabilità l’inflazione finanziaria, insomma a un meccanismo con pochi rischi, che non crea ricchezza reale e favorisce immaterialità e instabilità.

Si sono demoralizzata, perché non c’è niente di dietrologico o complottista nell’aver paura del peso bancario nei governi, se in barba ai conflitti di interessi si attribuisce ad esso una potenza salvifica. Grazie all’abnorme espansione finanziaria sono le banche a aver riacquistato egemonia a danno degli Stati nella creazione di “moneta”. E la moneta non è la terra, non è il grano, è una tremenda aleatoria convenzione e quando il gioco di prestigio di estrarre sangue da una rapa, o reddito da un capitale virtuale, si fa rischioso, allora il valore scende e, per dirla con Galbraith, gli stolti sono separati dal loro denaro.
Il capitalismo diventa più ebbro di accumulazione e profitto, quindi più cieco e forse più autodistruttivo. Ma i poveri diventano più poveri. I ricchi più ricchi. E i Paesi meno democratici.

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Il populismo dei sobri


Anna Lombroso per il Simplicissimus

E così abbiamo imparato che anche lo spettacolo può essere sobrio, austero e composto tanto che possiede l’effetto demiurgico di trasformare Vespa in Iader Iacobelli.
C’è chi si accontenta che, invariati certi contenuti, la forma si redima dismettendo silicone, parrucchini, paillettes, tacchi e tacchetti. E c’è invece chi avrebbe voluto che un presidente del consiglio che ha ricevuto l’investitura dalla più alta carica, preferisse la reputazione alla visibilità, le sedi istituzionali al talkshow, la scrivania con dietro la bandiera e lo scaffale con le rilegature di pelle al salotto dei plastici. E anche le Camere alla conferenza stampa e il messaggio a reti unificate alla comparsata, sia pur severa e sussiegosa. E qualche atto deciso e dirompente contro la deriva affaristica della politica al lancio di una consultazione anticasta con i giornalisti magari quelli più contigui al potere e ai suoi retroscena, che così sono più competenti.

Si sa, c’è gente che non è mai contenta. E mi si dirà, ma come rimpiangi il pagliaccio? La continuità su certi percorsi ci risparmia da nostalgia o rimpianto, se gli orfani di Berlusconi, ben oltre ai suoi famigli, sono quelli che hanno campato sui suoi belletti, il suo bunga bunga, le sue barzellette, tralasciando le meno pittoresche e spettacolari incursioni nell’illegalità, nell’iniquità sociale e nell’affronto alla Costituzione. Ieri sera – siamo pragmatici perbacco – ci è stato confermato appunto che sono elementi rinviabili o trascurabili se la priorità è solo fare cassa. Così si stabilisce una misura aggiuntiva ridicola sugli scudati, legittimandone l’esistenza e l’azione, si persegue quanto già cominciato nello smantellamento dello stato sociale e ( oggi Licia Satirico qui ne esplora la pieghe) dell’istruzione pubblica. E si accelera il processo di “riforma” – eufemisticamente la chiamano così – costituzionale, facendo intendere che – ma non l’avevamo già sentito? – i veri ostacoli alla crescita e i lacci alla competitività risiedano nei diritti, cui si deve rinunciare in nome della necessità. Il resto si rinvia a dopo, come fosse un optional per tempi migliori.

Bobbio diceva che la politica dovrebbe servire a sciogliere i nodi della contemporaneità. Non a tagliarli con la spada.
Ma sappiamo che alla mamma di Monti non piaceva la politica, stanne lontano, gli diceva. E anche la moglie ne diffida tanto da averlo in passato sollecitato a ripararsi nei più sicuri lidi comunitari. E pare che anche l’italiano medio la preferirebbe invisibile, intenta a amministrare e sbrigare faccende pubbliche mentre lui si dedica ai suoi affari, ai suoi sentimenti, al suo pacifico e domestico privato.

E al presidente del consiglio della politica sembra piacere solo l’antipolitica, quella più di facciata che di sostanza, quella che per punire il sistema dei partiti si apparta, si dimette, partecipa solo mediante la licenza di mugugno, rende lecita la disaffezione e l’irresponsabilità e si affida, si consegna, delega.
I costi della politica, ha detto, sono quelli legati alle esigenze elettorali, al primato del voto. E esalta come misura di risanamento del bilancio della politica l’avvio del taglio delle province. Come se – al di là delle questioni più marginali benché fortemente simboliche degli interventi sui vitalizi, mezzo miliardo comunque, mica bruscolini – o del rimborso elettorale, la vera questione morale e finanziaria non consistesse invece sulla pressione formidabile della corruzione, sull’incidenza dell’incompetenza, sull’iniquità endemica, tollerata e contagiosa, del clientelismo, sulla prevalenza consentita, ancorché conflittuale, dell’interesse personale. Componenti che costituiscono la vera essenza dell’illegalità ormai universalmente tollerata e praticata su scala ridotta ma generalizzata. E come se non risiedesse in questo quella crisi della rappresentanza che rende anche difficile far digerire quei sacrifici accettabili solo con la didattica del buon esempio ben oltre la rinuncia a uno degli emolumenti principeschi.

Se si è rotto quel patto che aveva dato ossigeno alla democrazia, che traduceva, sia pur stentatamente, nell’arena istituzionale umori, interessi, pensieri e passioni non si deve solo ai costumi sbracati e alla sfrontatezza dei cialtroni prestati a una cosa pubblica sempre più privata.
È che sempre più ai rapporti verticali tra rappresentanti e rappresentati, tra governanti e governati, orientati in passato a una sia pur labile logica di mandato, si sono sostituiti i legami orizzontali dei governanti tra loro, nell’ambito delle coalizioni di governo, degli eletti con omologhi potentati, orientati gli uni a solidarietà di ruolo, i secondi all’arricchimento.

Ma il nuovo governo per far passare una manovra feroce e impopolare, in mancanza del consenso del popolo ha bisogno del populismo, quello che proprio quei rappresentanti alimentano con sfacciataggine complice perché sfiora solo marginalmente i gangli della collusione e del malaffare. E allora è meglio fare Stella e Rizzo “santi subito” dell’anticasta, è preferibile gettare qualche bocconcino buono a placare un po’ di qualunquismo. Dai castigamatti dei conti pubblici e dai profeti della trasparenza ci si sarebbe aspettato qualche intervento contro l’opacità e la pretestuosa macchinosità strumentale degli appalti, non potendo ragionevolmente sperare in misure davvero strutturali contro certi governatorati finanziari e il gioco delle parti di infiltrazioni e infiltrati.
Le azioni moralizzatrici sono obbligatorie per un governo che vuole risanare i conti pubblici, quando l’illegalità rappresenta la più pesante voce di spesa nel funzionamento di una macchina che ci somministra una sanità malata, ci concede un’istruzione ignorata e impoverita, sostiene un’informazione morbosa, abbandona un ambiente manomesso e ferito.
Per guarire la nazione corrotta e infetta non basta un governo di salute pubblica, occorre la politica sana.

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