giovedì 19 dicembre 2013
Buon anno a tutti.
da "Il grande Gasby".
«Il postino ha smesso di starmi simpatico», scrive Fitzgerald, «così come il droghiere, il direttore del giornale, il marito della cugina, che a sua volta ricambierà la mia antipatia, e la vita non sarà più piacevole come un tempo; l'avviso Cave canem resterà perennemente appeso sulla mia porta. In ogni caso, ce la metterò tutta per essere un animale educato, e se mi getterete un osso con abbastanza carne intorno, potrei perfino leccarvi la mano».
venerdì 13 dicembre 2013
FINALMENTE: DUE ANALISI DEGNE, DEI FORCONI
MARCO REVELLI. L'invisibile popolo dei nuovi poveri.
Torino è stata l’epicentro della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene, devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sembrata una massa di fascisti. E nemmeno di teppisti di qualche clan sportivo. E nemmeno di mafiosi o camorristi, o di evasori impuniti.
La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.
Le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa espansione… Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa dai propri problemi, a guardarli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me…». Loro alzavano il pollice – non l’indice, il pollice – come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?».Altra comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa era esilissimo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». Ecco, se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica.
Non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. E sarebbe un errore imperdonabile liquidare tutto questo come prodotto di una destra golpista o di un populismo radicale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squadre. E i cultori della violenza per vocazione, o per frustrazione personale o sociale. C’era di tutto, perché quando un contenitore sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio liquido infiammabile, gli incendiari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra che spiega il fenomeno. Non s’innesca così una mobilitazione tanto ampia, diversificata, multiforme come quella che si è vista Torino. La domanda vera è chiedersi perché proprio qui si è materializzato questo “popolo” fino a ieri invisibile. E una protesta altrove puntiforme e selettiva ha assunto carattere di massa…Perché Torino è stata la “capitale dei forconi”? Intanto perché qui già esisteva un nucleo coeso – gli ambulanti di Parta Palazzo, i cosiddetti “mercatali”, in agitazione da tempo – che ha funzionato come principio organizzativo e detonatore della protesta, in grado di ramificarla e promuoverla capillarmente. Ma soprattutto perché Torino è la città più impoverita del Nord. Quella in cui la discontinuità prodotta dalla crisi è stata più violenta. Parlano le cifre.Con i suoi quasi 4000 provvedimenti esecutivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno precedente, uno ogni 360 abitanti come certifica il Ministero), Torino è stata definita la “capitale degli sfratti”. Per la maggior parte dovuti a “morosità incolpevole”, il caso cioè che si verifica «quando, in seguito alla perdita del lavoro o alla chiusura di un’attività, l’inquilino non può più permettersi di pagare l’affitto». E altri 1000 si preannunciano, come ha denunciato il vescovo Nosiglia, per gli inquilini delle case popolari che hanno ricevuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro mensili imposti da una recente legge regionale anche a chi è classificato “incolpevole” e che non se lo possono permettere.
“Maglia nera” anche per le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno) in città, e 626 in provincia (di cui 344 tra bar e ristoranti). E’ l’ultima statistica disponibile, ma si può presupporre che nei mesi successivi il ritmo non sia rallentato. Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima. Mentre per le piccole imprese (la cui morìa ha marciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiusure al giorno in Italia) Torino si contende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “forconi”) la testa della classifica, con le sue 16.000 imprese scomparse nell’anno, cresciute ancora nel primo bimestre del 2013 del 6% rispetto al periodo equivalente dell’anno prima e del 38% rispetto al 2011 quando furono portate al prefetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese artigiane chiuse nella provincia.E’, letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi succedutisi nella transizione all’oltre-novecento, tutta intera la composizione sociale che la vecchia metropoli di produzione fordista aveva generato nel suo passaggio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fabbrica centralizzata e meccanizzata nel territorio, la disseminazione nelle filiere corte della subfornitura monoculturale, la moltiplicazione delle ditte individuali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo produttivo automobilistico, le consulenze esternalizzate, il piccolo commercio come surrogato del welfare, insieme ai prepensionamenti, ai co.co.pro, ai lavori a somministrazione e interinali di fascia bassa (non i “cognitari” della creative class, ma manovalanza a basso costo… Composizione fragile, che era sopravvissuta in sospensione dentro la “bolla” del credito facile, delle carte revolving, del fido bancario tollerante, del consumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo dei marginali, e poi sempre più forte, e sempre più in alto.
Non è bella a vedere, questa seconda società riaffiorata alla superficie all’insegna di un simbolo tremendamente obsoleto, pre-moderno, da feudalità rurale e da jacquerie come il “forcone”, e insieme portatrice di una ipermodernità implosa. Di un tentativo di una transizione fallita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie (che pure dicevano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show televisivi. E’ sporca, brutta e cattiva. Anzi, incattivita. Piena di rancore, di rabbia e persino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio del conflitto rude ma pulito. Qui la politica è bandita dall’ordine del discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni tra rappresentanti e rappresentati. Tra linguaggio che si parla in alto e il vernacolo con cui si comunica in basso. Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita. E forse, come nella Germania dei primi anni Trenta, saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare l’ascolto di questa nuova plebe. Ma sarebbe una sciagura – peggio, un delitto – regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione con questo mondo e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo errore. Forse l’ultimo.
FRANCO BIFO BERARDI – I forconi e la deflagrazione dell’Europa.
Ciò che sta accadendo in Italia va letto nel contesto della deflagrazione dell’Unione europea, provocata dall’aggressione finanzista guidata dalla Banca centrale europea e dal governo tedesco.
Da Maastricht in poi, il ceto finanzista globale ha deciso di cancellare in Europa le tracce della forza operaia del passato, la democrazia, la garanzia salariale, la spesa sociale. In nome del fanatismo liberista ha finito per sradicare le radici del consenso su sui si fondava l’Unione europea. L’effetto, però, non è solo il dimezzamento del monte salari dei lavoratori europei, la distruzione della scuola e della sanità pubblica, l’abolizione del limite dell’orario di lavoro, la precarizzazione generalizzata. E’ anche la guerra.
Era prevedibile, era previsto, ora comincia ad accadere.
La disgregazione finale dell’Unione europea possiamo leggerla sulla carta geografica.
Cominciamo da est. L’insurrezione ucraina è prova di come sia mutata la natura d’Europa. Nata come progetto di pace tra tedeschi e francesi, e quindi di pace in tutto il continente, l’Unione è oggi divenuta l’esatto contrario. Gli europeisti ucraini usano l’europeismo come arma puntata contro l’imperialismo russo, e risvegliano fantasmi del nazismo. L’ingresso in Europa è visto come una promessa di guerra, e la precipitazione del conflitto in Ucraina non potrà che avere conseguenze spaventose per l’Europa intera. Bruxelles reagirà aprendo un confronto con la Russia di Putin, oppure lascerà che la Russia di Putin soffochi una rivolta che è nata nel nome dell’Europa?
Spostiamoci a ovest. Il Parlamento catalano ha indetto il referendum indipendentista per l’autunno del 2014. I franchisti del governo madrileno hanno risposto che il referendum non si farà mai.
Nel frattempo, in Francia i sondaggi prevedono che il Front National diverrà partito di maggioranza alle prossime elezioni. A quel punto il patto franco-tedesco su cui si fonda l’Unione sarà cancellato nella coscienza della maggioranza dei francesi, e la balcanizzazione del continente precipiterà.
Questa dinamica mi pare il contesto in cui leggere le convulsioni agoniche della penisola italiana.
Il governo Letta Alfano Napolitano, filiale del partito distruttori d’Europa, è in camera di rianimazione. Può durare o crollare poco importa: non è in grado di mantenere nessuna promessa, neppure quelle fatte ai suoi padroni di Francoforte.
Il movimento dei forconi è tracimare del nervosismo sociale. Nel 2011 il movimento anticapitalista tentò di fermare l’aggressione finanzista, ma non ebbe la forza per mettere in moto una sollevazione solidale. La precarizzazione ha sgretolato la solidarietà tra lavoratori, e il movimento si risolse in una protesta che il ceto politico-finanziario, per criminale interesse e per imbecillità conformista, rifiutò perfino di ascoltare.
Ma la sollevazione non si ferma, perché ha i caratteri tellurici di una disgregazione della base stessa del consenso sociale. E’ una sollevazione priva di interna coerenza, priva di strategia progressiva. Ci sono dentro elementi di nazionalismo, di razzismo, di egoismo piccolo-proprietario, ma anche elementi di ribellione operaia, di democrazia diretta e rabbia libertaria. Non è importante la sua confusa coscienza, le contrastanti ideologie e i contrastanti interessi che la mobilitano. Conta il fatto che il suo collante obbiettivo è l’odio contro l’Europa. Questo odio non può che essere portatore di disgrazie.
Franco Bifo Berardi
(13 dicembre 2013)
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giovedì 12 dicembre 2013
Il partito unico dei liberisti.
La sinistra e il Pd renziano: liberi tutti.
Dunque, i dati prima di tutto. Un’affluenza altissima alle Primarie del Pd e un’affermazione mastodontica del nuovo segretario, Matteo Renzi. Due dati che non consentono scorciatoie né letture furbette: al netto delle piccole e grandi polemiche (il voto degli esterni, la grandinata di presenza televisive, la simpatia dei grandi media, anche non di sinistra), Matteo Renzi si prende il Pd con l’appoggio massiccio della base, con una procedura democratica e con pieno merito rispetto agli sfidanti. Gli elettori del Pd, in larga maggioranza gli danno fiducia e gli chiedono di guidare un partito che non ne azzecca una da anni, appesantito da un apparato vecchio e inefficiente (e non parlo solo dei soliti nome-parafulmine, i D’Alema, le Bindi, eccetera, ma del corpaccione del partito, specie nelle realtà locali) e indeciso a tutto. Dunque, ora non resta che vedere.
Non mancano molti elementi di “antipatia” (categoria non solo politica, a dire il vero), che non varrebbe nemmeno la pena di elencare. L’aplomb da “rampanti” di una parte della sua base militante, per dirne una. Le lodi al decisionismo che ricordano un po’ il craxismo dei primi tempi, la capacità mimetica di un leader che si è saputo vendere come nuovo e viene dritto dritto dallo stesso apparato che dice di voler abbattere. Eccetera. Aggiungo: un sapiente capitalizzare le energie delle generazioni de-ideologizzate, quelle cresciute nell’era del berlusconismo, quelle convinte che siano state le generazioni prima a rovinargli la vita e non invece la vittoria senza se e senza ma delle politiche liberiste. E’ questo – solo questo, ma non è poco – il “berlusconismo” renziano che a volte si evoca. Oltre, s’intende, ad intendere "nuovo" come sinonimo di "migliore", che non è vero quasi mai, specie se non è nemmeno tanto nuovo.
Insomma, un bel mix che andrà controllato passo passo.
Basti dire che c’è oggi tra chi esulta per Matteo Renzi, gente che sperò nella riforma Fornero (uh, vedrai… i precari… lasciamola lavorare…), che sorrise nei primi tempi di Monti, eccetera eccetera. Inesperienze da perdonare. Così come sono comprensibili, anche se non ammirevoli, certe esagerazioni nei toni: un’aspirante classe dirigente che sgomita e aspira ad occupare i posti evacuati dai “rottamati”, a piazzarsi, a far parte dell’onda perché in cima all’onda c’è odore di incarichi e di carriera.
Tutto normale, già visto in altre circostanze e in qualche modo comprensibile. Aggiungerei una componente che ha, nel successo di Renzi (il renzismo verrà), un peso notevole, ed è l’irresistibile fascino della vittoria. Dopo tante delusioni, e pareggi stiratissimi, e sconfitte a iosa, vincere non pare vero, tanto che il “vincere perché”, il “vincere per far cosa” sembra passare in secondo piano. Il leader del primo partito della sinistra italiana è costretto a urlare nel suo discorso di insediamento che “la sinistra non finisce”, come a convincere e a convincersi, bizzarra puntualizzazione, parole dal sen fuggite. E si capisce anche perché, visto che i discorsi sulla tattica impongono ora di verificare lo scontro tra un capo del governo (Letta, Pd, area cattolica, Margerita, Dc) e un capo del partito (Renzi, Pd, area cattolica, Margherita, Dc).
Ma la strategia è quello che più interessa.
Le politiche di Renzi sono state largamente annunciate. A cominciare dall’ideologo finanziere Davide Serra, per proseguire con l’appoggio di vecchi apparati di lungo e lunghissimo corso, per continuare, come corollario, anche alcune gaffes o fughe in avanti (o indietro?) di certi suoi ultras (Blair, la Thatcher…). Insomma, il disegno non è ancora chiarissimo, ma si vede in filigrana la trama portante: un liberismo con la faccia più buona, la sostituzione di una lotta generazionale alla lotta di classe (ne ho scritto sul nuovo numero di MicroMega), l’assenza quasi totale di discorsi sulla redistribuzione del reddito e, invece, un ditino alzato verso quelle componenti della società (i pensionati, per dirne una) considerate una zavorra. La meritocrazia senza uguaglianza, cioè di fatto la promessa alle classi dirigenti attuali che a dirigere saranno ancora e sempre loro. Niente di nuovo, a parte i toni, i colori e il linguaggio (non nuovissimo nemmeno quello, peraltro, come dimostra l’ampio uso di stilemi pubblicitari e a volte addirittura veri e propri spot commerciali di grandi marche).
Dunque il paradosso è questo: mentre diventa diverso da sé (rinnovandosi), il Pd diventa sempre più uguale agli altri, al pensiero unico corrente, alle ricette note, ai discorsi già sentiti, ed alcuni, addirittura, sentiti in Europa venti e più anni orsono – e in larga parte falliti (penso alle ricette blairiane, per esempio).
Del discorso primo e sostanziale che un partito di sinistra dovrebbe fare (vorrei dire: sarà prima o poi costretto a fare) non c’è traccia. Non c’è traccia di un programma che punti a stringere un po’ quella forbice tra lavoro e rendita, tra produzione e finanza, tra poveri e ricchi, che in questi ultimi trent’anni si è invece costantemente allargata. Meno poveri e meno ricchi, più garanzie e meno privilegi. Di più per tanti e meno per pochi. Di questo non c’è traccia.
Nemmeno un minimo sindacale. La Cgil, per dire (che ha un milione di difetti, si sa, e si vedano gli ultimi discorsi autocritici di Landini sulla necessità di dare rappresentanza ai milioni di lavoratori precari che non ce l’hanno) è stata attaccata nella campagna di Renzi più della classe imprenditoriale e delle politiche che l’hanno favorita, più dei grossi finanzieri (che lo guardano con simpatia, tra l’altro); più dei poteri forti (che ne seguono attentamente le mosse, spesso applaudendo). Sul palco di Renzi abbiamo visto imprenditori (tanti), finanzieri, “affluenti” delle professioni, ma lavoratori zero.
I piccoli passi nel senso di una maggiore giustizia sociale sono vaghi (persino il finanziere Serra parla di aumentare le tasse sulle rendite finanziarie, ma non dice come, né di quanto, né quando, mentre sulle pensioni su fa assai preciso: da lì si aspetta di prendere 10, 15 miliardi, un’enormità, e non parla di pensioni d’oro).
Ora, dunque, buon lavoro.
E ora, che (cazzo) fare?
Per chi da una sinistra moderna spera altre cose è un momento al tempo stesso delicato ed entusiasmante. Delicato perché alternative in giro (sul mercato della politica, dicono quelli che hanno del mercato una venerazione) non se ne vedono. Sel non pare in grado, la paccottiglia nostalgica dà la nausea e le idee forti non si vedono. Entusiasmante, perché cade finalmente (era ora!) il grande equivoco: la sudditanza emotiva, affettiva, politica al Pd come naturale erede del vecchio (anche odioso, anche ingombrante, anche paternalista) Pci non ha più motivo di esistere. Non c’è più. Il Pd è oggi un partito del grande gioco, si misura con enormi differenze dal populismo furbetto e aggressivo di Grillo e dal partito personale e personalissimo di un Berlusconi agli ultimi atti della sua farsa. Ma il disegno grande, quello complessivo, quello che può cambiare la società italiana, non pare così diverso: mercato, mercato e mercato. Ci penserà lui, come ci ha pensato (e si è visto) negli ultimi decenni.
Dunque, liberi tutti.
E trovo ci sia in questo davvero un senso di liberazione, il sospiro di chi si libera di un fardello. Il poco e pochissimo collante ideologico che ancora legava certi “liberi di sinistra” al Pd non c’è più, nemmeno in lontananza.
Si dirà che non è bello essere senza rappresentanza politica, e c’è del vero. Ma tocca anche dire che quando mai c’è stata? Nel Pd dei D’Alema e dei Veltroni? Non direi. Dunque, cade soltanto un equivoco. Sarà bello vedere l’entusiasmo di oggi alla prova dei fatti, sarà istruttivo controllare tra uno, due, tre anni, se chi sta male oggi starà meglio nelle sue condizioni materiali e immateriali. Siccome non c’è una ricetta che prometta di arginare le forze liberiste del mercato (e anzi si promette loro un ritrovato efficientismo), la risposta c’è già.
Ma vederla sarà diverso che intuirlo.
Dunque, auguri a chi ci crede e ci ha creduto, sarà piacevole riparlarne quando le parole lasceranno il posto ai fatti, quando saranno finiti gli spot e comincerà il programma. Quando la nuova classe dirigente che ora grida alla vecchia “tutti a casa” (con toni assai grillini, in qualche caso) avrà preso il comando.
Mi siedo qui, guardo lo spettacolo, aspetto, osservo il filmino della vittoria odierna, che somiglia al seme di una vecchia, e ben nota, sconfitta.
(9 dicembre 2013)
sabato 7 dicembre 2013
FO E VAURO SU GRILLO A GENOVA.
1 - CARO VAURO, PERCHÉ ERO SU QUEL PALCO
Lettera di Dario Fo al "Fatto quotidiano"
Caro Vauro. Poche ore prima di ricevere la tua lettera con la quale mi chiedevi di "scendere da quel palco" montato a Genova per il V-Day, ricevevo una telefonata da Bari da parte di un responsabile del sindacato della Cgil della Puglia, che annullava la richiesta fattami alcuni giorni prima con la quale mi si invitava a intervenire a una loro manifestazione dedicata all'importanza della cultura e con riferimento alle lotte degli operai dell'Ilva. Con molto impaccio l'incaricato mi dichiarava che, per ragioni tecniche, non sarei potuto salire sul palco per parlare ai lavoratori e agli studenti.
Capii subito che la ragione di quel cambio di programma era senz'altro il discorso che avevo tenuto a Genova il giorno precedente, soprattutto in conseguenza della posizione che avevo preso prima e dopo la sentenza e durante il processo a proposito dell'intossicazione di massa causata dalle esalazioni provenienti dagli altiforni che avevano inquinato l'intera città.
Ma cosa mi ero permesso di dire precisamente a Genova davanti a qualche migliaio di intervenuti e, oltretutto, ripreso da tre emittenti televisive nazionali, per non parlare di quelle straniere? Mi ero solo lasciato andare a una breve analisi dei fatti inerenti l'acciaieria di Taranto e gli scarichi tossici, ricordando da quanti anni fosse esploso l'allarme di quella strage annunciata. Per inciso Franca, già nel 2006, aveva denunciato al Senato il protrarsi di quella mattanza che coinvolgeva anche mogli e bambini degli operai.
Come si è potuto da parte del governo e dei partiti, compresi quelli di sinistra per non parlare dei sindacati, tardare in modo così colpevole a prendere posizione e convincere quei lavoratori ad andare a morire pur di mantenere il proprio posto? Ricordavo anche che, proprio nel momento più duro dello scontro il Pd, nella persona del segretario del partito, Bersani, incassò sottobanco un milione di euro per indurre il partito stesso a dimostrarsi più accomodante verso i proprietari, tutti sotto processo e quindi condannati a una media di quattro anni di carcere ciascuno.
Nel mio intervento accennavo anche al vergognoso ricatto imposto da Marchionne al sindacato: "O accettate il mio programma e le mie proposte sul salario o tiro su baracca e burattini e trasloco tutta la Fiat in Romania!". Per finire ricordavo di sfuggita la lotta tuttora in corso in Val di Susa a proposito del Tav.
Concludevo con la strage dei barconi di Lampedusa e l'inchiesta in corso sulle gravi responsabilità della Guardia costiera che, pur essendo in grado di intervenire in tempo, ha evitato di soccorrere quei 200 migranti, comprese donne e bambini, finiti in fondo al mare.
Sbaglio, Vauro, o le proteste su questi fatti ti hanno sempre trovato in prima linea e insieme abbiamo combattuto per anni queste prevaricazioni?
Ti dà fastidio forse che oggi anche il Movimento 5 Stelle si ritrovi con noi con le stesse idee e lo stesso programma? Il discorso di certo cambia con i sindacati. Evidentemente i dirigenti della Cgil non gradivano che io ripetessi più o meno lo stesso discorso a Bari, in quell'incontro dal titolo Cultura è lavoro. Perciò mi avevano ordinato, seppur con garbo, di scendere dal palco.
Mi spiace Vauro, ma sei stato anticipato. A ogni modo, mi ha creato un certo disagio notare che in quella tua breve lettera tu non faccia alcun accenno al mio intervento di circa mezz'ora che ho tenuto davanti a quella straordinaria assemblea composta da giovani e anziani, disoccupati e privi di prospettive, spesso disperati, che mi hanno ascoltato applaudendo e, in alcuni momenti, anche commossi e indignati al tempo.
Perché hai taciuto? Non hai fatto cenno nemmeno a uno dei numerosi temi, spesso drammatici, che andavo elencando. Eppure quante volte, nello stesso tempo, abbiamo condiviso, in anni e anni di lotte, quelle stesse istanze? Problemi che, guarda caso, erano pienamente condivisi anche da quelle migliaia di intervenuti in Piazza della Vittoria. Anche qui, come da parte dei sindacalisti di Bari, mi si era chiesto di parlare della cultura, legata al lavoro.
Era la prima volta da molti anni in qua, credo, che in Italia capitava di poter ascoltare qualcuno trattare, durante un intervento politico, di un fenomeno straordinario, cioè della nascita e dello sviluppo di una cultura unica al mondo nei secoli. Il tutto sottolineando il rispetto e l'alta considerazione in cui eravamo tenuti dai paesi dell'intera Europa. E, concludendo, chiedevo al pubblico: "Che cosa è successo? Perché siamo crollati a livelli da débâcle totale?".
Dico la verità, caro Vauro, mi sarebbe piaciuto che nella tua lettera tu avessi fatto cenno a queste mie disperate parole, invece di indugiare su alcune feroci battute pronunciate da Grillo durante i suoi interventi. Una in particolare ti aveva offeso , quella in cui Beppe, rivolto ai dirigenti politici che compongono oggi il governo delle larghe intese, gridava: "Siete tutti morti, cadaveri!".
Ecco, mi fa specie che questa negatività di linguaggio venga recepita da un satirico spietato e intransigente quale tu sei. Ti dirò che io stesso ho usato più di una volta forme paradossali e irritanti di quel genere. Ho messo in scena e recitato in tutta l'Italia per anni, fra gli altri, lavori con ballate dal sarcasmo macabro tratte dalla Commedia dell'arte, quali il dialogo fra Arlecchino e Razzullo, nelle vesti di becchini.
Questi due zanni, anticipando di un secolo e più Shakespeare negli stessi anni in cui Shakespeare scriveva l'Amleto, estraggono dalla tomba in cui verrà sepolta la bella vedova ossa di scheletri in quantità e subito riconoscono il personaggio del tempo in cui viveva. Sbeffeggiano la salma, ne ripetono battute e atteggiamenti.
Noi, nella ricostruzione, si riesumavano personaggi non di fantasia ma che ricordavano autorità decedute di recente dai trascorsi spesso infami, ma non ricordo che qualcuno si fosse indignato. Almeno, sto parlando degli spettatori, i critici in gran numero, invece, si sono detti orripilati da tanto cattivo gusto. È accaduto lo stesso "crac" psichico anche a te, Vauro? È indegno scherzare con i morti?
E allora cosa dire di Luciano di Samosata, che scendendo in visita nel-l'ade qualche secolo prima del nostro Dante, incontra laggiù addirittura lo scheletro semovente di Achille e, riconosciutolo, gli afferra con le due mani il cranio e gli sputa dentro le orbite vuote urlando: "Tiè! Tiè malnato!"? Di poi se ne va, ma ci ripensa, torna indietro, riafferra il teschio di Achille con le mani e gli risputa nelle orbite vuote.
Tu sei uomo di cultura fine e profonda, Vauro, quindi non puoi esserti dimenticato del finale dell'Amletodi Shakespeare dove, uno dietro l'altro, tutti i protagonisti dell'opera si eliminano a vicenda. La madre del principe di Danimarca trangugia una pozione di veleno e schiatta, l'amante divenuto suo marito (che ha eliminato il proprio fratello pur di farsi re) viene infilzato da parecchi colpi di spada, Laerte, il fratello di Ofelia appena sepolta, viene accoppato in duello da Amleto, il quale a sua volta viene trafitto e sta agonizzando, ma prima di schiattare riesce a dare sentenze veramente straordinarie. Insomma alla fine, sul palcoscenico, vediamo, uno appresso all'altro, una sfilata di cadaveri.
Qual è l'allegoria di quella strage? Ma è chiaro, tutti i regnanti della Danimarca (ma in verità qui si allude al regno d'Inghilterra) son solo degni di essere ammazzati, cancellati dalla Storia. A ‘sto punto come la mettiamo, Vauro? Ti prego, pronuncia qualche commento disgustato anche verso Shakespeare, noto autore di "brutte parole" truculenti. Oltretutto era autore di "verità assolute" e, facendo il verso ai grandi massacratori del suo regno, ripeteva sghignazzando i loro motti come "la vittoria è nelle nostre mani, non la getteremo ai porci!".
Caro Vauro, io, ti giuro, non ho nessun risentimento nei tuoi riguardi e quando ti vedrò per esempio, sul palco di Servizio Pubblico, contornato da personaggi da contrappunto orrendo, mi guarderò bene dal gridarti: "Che ci fai lassù? Scendi, ti prego, compagno!". Ma al contrario ti dirò: "Usa bene le tue battute, raccontaci storie divertenti e piene di ironia", ché questo è il nostro mestiere di pagliacci.
2 - RISPOSTA DI VAURO
Caro Dario,
Per prima cosa ti ringrazio per la tua bella lettera. Per seconda, sento il bisogno sincero di scusarmi con te. È vero, nella mia missiva non ho fatto cenno alle tue parole dal palco e avrei dovuto farlo. Tanto più ché le ho ascoltate e condivise, credo, con la stessa passione con la quale le hai pronunciate. Ho sbagliato e quando si sbaglia ci si chiede il perché. Ecco il mio perché: nelle mie orecchie le tue parole si erano perse, coperte dagli strilli di un pagliaccio.
Dovrei dire di un ex pagliaccio. Perché, a differenza di te e di me che pagliacci siamo e siamo rimasti, quel pagliaccio si è fatto capo. Il giullare che si fa re. Quando il giullare si fa re la magia della satira svanisce. Le stesse parole che dalla bocca del giullare hanno il suono triste e allegro dello sberleffo e del pernacchio, nella bocca del re assumono quello perentorio e arrogante dell'autorità.
Arlecchino danza con la morte,certo,e nella sua danza c'è tutta l'ostinata e gioiosa irriverenza verso ogni forma di potere. Se invece di Arlecchino è il re che balla con la morte non c'è più l'irriverenza ed è solo una danza macabra. Non mi sono mai piaciuti i capipopolo, quelli che parlano "alla pancia della gente".
Mi piacciono ancora meno quando hanno dismesso il costume colorato di Arlecchino per indossare l'armatura cupa del condottiero infallibile. Non ti preoccupare Dario,non mi sono iscritto alla Cgil della Puglia. Il mio mestiere è ancora quello di pagliaccio. Noi due siamo pagliacci e tali vogliamo restare. Per questo sono certo che saremo sempre uniti dalla medesima disperazione e dalla medesima allegria.
Ti voglio bene.
Vauro
venerdì 6 dicembre 2013
Ciao Madiba.
Purtroppo la vita non è quella cosa lì che speravamo.
Tahar Lamri
Perché vedete, l'Africa oggi non piange Rolihlahla, è il suo nome, Mandela. Nell'Africa animista - un Xhosa non può essere che animista - quando muore un vecchio si fa la festa. L'Africa piange perché non ha altri Lumumba, altri Fanon, altri Kenyatta, altri Cabral, altri Nkrumah, altri Sankara. Altri Mandela ci sono ancora, c'è Marwan Barghouti nelle prigioni israeliane, c'è il popolo di Gaza in prigione che sta affogando nelle acque reflue. Gli eredi di Mandela sono in America Latina e riempiono il mondo di speranza: Evo Morales che è stato quasi ucciso quest'estate dall'Italia, dalla Francia e dal Portogallo, negando al suo aereo il transito nei loro cieli. Pepe Mujica che vive come dovrebbe vivere un cittadino-presidente. In Italia, c'è Don Ciotti, c'è Alex Zanotelli, ci sono migliaia di giovani che non accettano i soprusi qui o altrove. Ma l'apartheid resiste ancora: c'è certamente in Israele. E' nei CIE della Fortezza Europa. E' sotto casa negli occhi dei rifugiati abbandonati nelle piazze, nelle stazioni e nei giardini. E' sulla pelle di ogni senza tetto che non vogliamo incrociare che non vogliamo vedere. Rolihlahla significa "tagliare un ramo", cioè "fare casini". Lui continuerà a fare casini lassù..
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