domenica 8 settembre 2013
Virno ed un "manifesto" del 2004.
La festa del General Intellect (2004).
di Paolo Virno (da Moltitudes).
Negli anni Settanta, il primo maggio fu una ricorrenza stantia e anche un
po’ gaglioffa. Stantia, perché le lotte operaie - e la politica, e la vita
in genere - se ne tenevano scrupolosamente alla larga. In quelle adunate
prive di ogni allegria, c’era soltanto il sindacato in quanto istituzione
nevralgica dello Stato keynesiano. Le confederazioni rivendicavano a gran
voce, talvolta con la stizza di chi parla da solo, il loro ruolo di
rappresentanti legali della merce forza-lavoro, l’unica davvero strategica
nelle moderne società industriali. Gli operai in lotta, che proprio quella
merce volevano risolutamente abrogare (anzitutto inflazionandone il prezzo,
fino a renderla antieconomica), se ne fottevano delle sfilate in nome del
"nuovo modello di sviluppo". Come un adulto appena ragionevole non perde
tempo dietro ai re Magi. Con i modelli vecchi e nuovi dello sviluppo
capitalistico, i conti si regolavano in officina : sciopero a scacchiera,
salto della scocca, corteo interno alla palazzina della direzione, salario
come variabile indipendente. Anche un po’ gaglioffa, quella ricorrenza :
infatti, era denominata senza alcun pudore "festa del lavoro". Come se il
lavoro salariato non fosse una disgrazia, come se qualcuno potesse essere
orgoglioso (di "orgoglio" cianciava il sindacato, appunto) di produrre
plusvalore sulla linea di montaggio. L’odio e il disprezzo per il regime di
fabbrica evocavano semmai la necessità di una festa contro il lavoro. Dopo
Seattle e dopo Genova, il primo maggio torna a essere, con un vertiginoso
balzo all’indietro, ciò che fu a fine Ottocento : il momento privilegiato
in cui emerge una "nuova specie" sociale e produttiva. L’antico
appuntamento è reinventato, oggi, dalla intellettualità di massa, ossia da
quella moltitudine di uomini e donne che, usando il pensiero e il
linguaggio come utensile e materia prima, costituiscono l’autentico
pilastro della ricchezza delle nazioni. Migranti, precari di ogni risma,
frontalieri tra lavoro e non-lavoro, stagionali dei McDonald e conversatori
a cottimo delle chat-lines, ricercatori e informatici : tutti costoro sono,
a pieno titolo, l’"intelletto generale", il general intellect di cui
parlava Marx. Quel general intellect (sapere, intraprendenza soggettiva,
forza-invenzione) che è, insieme, la principale forza produttiva del
capitalismo postfordista e la base materiale per farla finita con la
società della merce e con lo Stato in quanto sinistro "monopolio della
decisione politica". A fine Ottocento, i tipografi, i conciatori, i tessili
ecc. - insomma i membri delle innumerevoli associazioni di mestiere -
scoprirono ciò che li univa : essere, tutti, astratto dispendio di energia
psicofisica, lavoro in generale. Il primo maggio sancì questa scoperta e,
per più di una generazione, fece tutt’uno con la richiesta delle otto ore
(meno lavoro, ecco il fulcro dell’etica moderna). Oggi, una moltitudine di
"individui sociali" - tanto più fieri della propria singolarità
irripetibile, quanto più correlati tra loro in una fitta trama di
interazione cooperativa - si riconoscono come intelletto generale della
società. Il primo maggio contemporaneo, in quanto festa grande del general
intellect (pensiero che desidera e desiderio che pensa), ha il suo perno
nella ragionevole pretesa di un "reddito di cittadinanza" e nel rifiuto di
qualsivoglia copyright sui prodotti di quella risorsa comune che è la mente
umana. Ma c’è dell’altro. Il primo maggio globalizzato e postfordista
richiama il primo maggio ottocentesco anche per un motivo più spinoso : in
entrambi i casi, la domanda cruciale suona così : come organizzare una
pluralità (di mestieri allora, di "individui sociali" oggi) che, al
momento, pare frammentata, costitutivamente esposta al ricatto, insomma
inorganizzabile ? E’ innegabile, infatti, che l’intellettualità di massa
stenta a rovesciare la propria potenza produttiva in potenza politica. Non
arriva ancora a incidere sul tasso del profitto, ancora non le riesce di
gettare nel panico le direzioni aziendali. Per questo ha bisogno di
convocare i propri "stati generali", di coordinarsi, di deliberare. La
prima questione all’ordine del giorno, sotto il sole primaverile del 2004,
è quella delle forme di lotta. E’ stolto chi crede che individuare le
modalità del conflitto (quale sciopero, quale sabotaggio ecc.) sia un
problema tecnico, semplice corollario del programma politico. Tutt’al
contrario : la discussione sulle forme di lotta è la più intricata, vero
banco di prova di ogni teoria politica di qualche respiro (che non si
riduca, cioè, a una cospirazione illuminista di giuristi democratici).
Intraprendenza, conoscenze condivise, capacità di correlarsi e interagire :
queste "doti professionali" della moltitudine postfordista devono diventare
temibili strumenti di pressione. Le piattaforme rivendicative, in breve il
"che cosa vogliamo", dipendono per intero dal "come possiamo agire" per
modificare i rapporti di forza all’interno di questa organizzazione sociale
del tempo e dello spazio. Tutto dipende, cioè, dall’invenzione
spregiudicata di nuovi "picchetti" e nuovi "cortei interni", che siano
all’altezza dell’imperante flessibilità e del modello di accumulazione
basato sul general intellect. Di più : l’uscita dai modelli organizzativi
del Novecento, malamente predicata da quanti hanno di recente elevato la
non-violenza a feticcio, trova qui, nella questione delle forme di lotta,
il suo effettivo momento della verità. Per intendersi : il superamento
della forma-partito fa tutt’uno con la scoperta, da parte dei migranti, dei
precari Tim, dei collaboratori a tempo determinato, del modo più incivo per
ricattare i propri abituali ricattatori. La grande difficoltà a scovare
forme di lotta adeguate è anche una grande occasione. Tanto la difficoltà
che l’occasione derivano da quante e quali cose sono incluse, oggi, nel
processo produttivo. Si dice : il capitalismo postfordista mobilita, e
mette a profitto, le facoltà basilari della nostra specie : pensiero,
linguaggio, memoria, affetti, gusti estetici ecc. Ora, se questo è vero, il
conflitto sul posto di lavoro non può che riguardare una intera forma di
vita. Per vincere una vertenza rivendicativa, bisogna ricorrere a quella
rete metropolitana di relazioni che fa di ciascuno di noi un individuo
sociale, uno dei "molti" di cui è composta la moltitudine. E’ lì che si
addensa una forza cooperativa autonoma : è lì che si scambiano
informazioni, si attingono conoscenze, si stringono amicizie. Soltanto
questa rete, che per comodità chiamo il "bacino dell’intellettualità di
massa", può sorreggere i conflitti nel singolo comparto produttivo. Ma dar
voce al bacino dell’intellettualità di massa significa creare nuovi
organismi democratici. Ecco la grande difficoltà che, però, è anche grande
occasione. La richiesta di più soldi implica, qui e ora, l’abbozzo di
inedite forme di autogoverno, la costruzione sperimentale delle istituzioni
politiche della moltitudine, l’esordio in grande stile di una sfera
pubblica che metta finalmente da parte miti e riti della sovranità statale.
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