sabato 12 gennaio 2013

Ciao, Mariangela.

Renzo Arbore: CI INNAMORAMMO ASCOLTANDO LUCIO BATTISTI. di Silvia Fumarola, per La Repubblica.
Hanno smentito Sandor Marai che nel libro L´eredità di Eszter scrive: "Gli amori infelici non finiscono mai". Quello tra Mariangela Melato e Renzo Arbore è stato un amore felice, solido, speciale, allegro, che non è finito mai. Una complicità durata 42 anni. Insieme negli anni Settanta - fidanzati per nove anni - poi dall´81 liberi, altre vite, altre storie. Nel 2007 di nuovo insieme, gli amici scherzavano: «Renzo naturalmente viene con Mariangela». «È come se non ci fossimo mai lasciati» dice Arbore tra le lacrime «Siamo rimasti legati, era una presenza nella mia vita; io nella sua. Mariangela era una donna eccezionale, ironica, umana, intelligentissima. Grazie a lei sono diventato una persona migliore». Sabina, la sorella dello showman, aveva detto all´attrice: «Non vi perdonerò mai di esservi lasciati» e la Melato aveva sorriso: «Che cosa bella hai detto». Arbore, come vi siete conosciuti? «L´avevo vista a una premiazione al Sistina e l´ho invitata a una festa a casa mia. Ci siamo fidanzati quando Lucio Battisti ci ha fatto sentire in anteprima Io vorrei non vorrei ma se vuoi. Suonava la chitarra, non aveva ancora stampato il disco. Lì è nato tutto. Ci siamo guardati». Un amore durato nove anni. «Forse dieci. Era una donna intelligentissima, devo a lei se ho fatto scelte artistiche. Era più intelligente di me, approfondiva mentre io sono superficiale, sono stato suo allievo: mi ha insegnato a scegliere sempre l´arte». E la prendeva affettuosamente in giro. «Sì, su tutto: le cadute, l´America, le fissazioni, criticava le mie giacche. Anche due giorni fa aveva avuto da ridire: che ti sei messo? Ci siamo presi in giro tutta la vita, è una storia unica. Non abbiamo litigato neppure quando ci siamo lasciati. Siamo rimasti legati anche quando le nostre strade si sono divise». Come avete fatto? «Abbiamo condito col sorriso la vita, fino all´altro giorno. Pensi che abbiamo cantato insieme una canzone prima che peggiorasse... Mi giudicava per come mi vestivo e prima di darmi sue notizie, non ero stato bene, chiedeva: come stai? C´erano gli altri prima, una ragazza di una nobiltà d´animo unica». Era anche una donna ironica. «Sì, ma l´ironia si sposava con l´umanità, una dote rara. Si è fatta da sola, amava la cultura che ha conquistato faticosamente. Mi ha insegnato quello che aveva capito prima di me». Eravate diversissimi: lei uomo del Sud, un po´ viziato, lei una milanese che non si fermava mai. «Ci siamo profondamente amati, ho avuto la cittadinanza di Milano grazie a lei e lei con me ha conosciuto la Puglia. Abbiamo passato le estati a Capri, amava la bellezza, il teatro napoletano. Lo sa che Eduardo le aveva offerto più volte di fare Filumena Marturano? Non voleva, diceva di non essere in grado». Dopo tanti anni Massimo Ranieri l´ha convinta. «Mariangela aveva visto la possibilità di far conoscere questa grande storia attraverso un napoletano italianizzato. Ogni scelta era una missione, aveva rispetto per il pubblico. Mi diceva: recito Il dolore della Duras, perché è bello. Accettava progetti faticosi come Casa di bambola: era una lavoratrice instancabile». Era una combattente, il pubblico la amava anche per questo. «Sentiva il suo coraggio. Lo ha dimostrato anche nella malattia. Ha avuto il successo clamoroso coi film di Lina Wertmuller, ma ha fatto anche scelte difficili partendo dall´assunto che si deve dare al pubblico il meglio e non prendere. Era la donna più generosa che abbia mai conosciuto». Che rapporto aveva con il successo? «Nessuno. Non si era mai montata la testa, ha vissuto il periodo del trionfo internazionale, dopo Travolti da un insolito destino... - quando in America si spalancavano le porte dei teatri - nel modo più naturale. Neanche per un attimo ha perso la testa. La cosa più bella è che mi chiamano tutti, dall´ultimo elettricista al grande regista, per dirmi solo che donna unica fosse. Era benvoluta da tutti». Perché non vi siete mai sposati? «Ci siamo andati molto vicino, avevamo fatto anche i documenti. Poi lei è partita, ci siamo separati. Ma è come se lo fossimo, c´era grande sintonia tra noi. È la cosa più importante». ............................................................ .................................................................................LE CENERI - Dopo i funerali l'attrice sarà cremata e le sue ceneri saranno sparse nel giardino della casa romana della sorella Anna.
Enrica Brocardo per "Vanity Fair". Parla per un'ora al telefono, da casa. Ogni tanto s'interrompe. Renzo Arbore riempie i vuoti di silenzio, e di lacrime. Una domanda suonerebbe come un insulto. Così passano i secondi, nell'assenza di parole, poi lui riprende. «Mariangela sul comodino, insieme ai libri, aveva anche Vanity Fair. Glielo dico perché sappia che questa è l'intervista più difficile di tutta la mia vita. Lo faccio solo per lei, per Mariangela. Vorrei che fosse ricordata per tutta la sua carriera, non solo come la sorridente ragazza di Travolti. Giancarlo Giannini ha detto che è stata la più grande attrice italiana di tutti i tempi: non si riferiva solo al cinema, anche se di film "seri", importanti ne ha fatti tanti, un elenco impressionante anche per me. In più, c'è l'infinita serie di opere teatrali, dalle tragedie greche a Ronconi. «In scena è stata una donna di centocinquant'anni e una bambina di nove. Far conoscere al pubblico le grandi donne era la sua missione. Per le colleghe non provava invidie. Mi parlava di Sophia Loren che le aveva dato consigli tanti anni fa. Lo diceva con orgoglio, come fosse una medaglia da appuntarsi sul petto. "Quella Picassa", la chiamava Sophia. Perché, come Picasso, Mariangela era una rivoluzionaria. «Sembrava che tutto le riuscisse facile. "Si può fare", diceva sempre, anche se si trattava di diventare un animale preistorico. In realtà, tutto le costava enormi sacrifici, sangue, dolore e lacrime. Lo sapevamo noi che le eravamo vicini, ma lei non lo diceva mai a nessuno: era l'immagine della giocondità. In Nora alla prova, doveva interpretare diversi tipi di uccelli. Si mise a studiarne il canto. Un giorno mi chiamò, era preoccupata: "Non riesco a trovarli in Internet". Non si è mai comportata da diva. Ai ristoranti di lusso preferiva il cestino degli elettricisti. «La nostra è stata una storia sentimentale unica: ci svegliavamo col sorriso e ci addormentavamo col sorriso. Abbiamo continuato ad amarci anche dopo esserci lasciati. Per quarantadue anni, anche quando ognuno di noi stava vivendo un altro amore. Lei mi raccontava delle sue relazioni, e io delle mie. Se c'era una discussione, una divergenza, la lasciavo parlare. Sapevo che aveva ragione, anche se non glielo dicevo. Non abbiamo litigato neppure quando ci siamo lasciati. Ci siamo guardati negli occhi, "Vabbè, per adesso è finita così". «Lei era più intelligente, più acuta, più colta di me. Era diventato una sorta di gioco: io facevo l'ignorante, quello che sintetizzava tragedie complicatissime in tre battute. In Medea, Mariangela fissava, occhi spalancati, un punto fisso per quaranta minuti. Lo spettacolo durava cinque ore. A un certo punto mi sono alzato per sgranchirmi le gambe. "Ti ho visto", mi disse lei alla fine. "Come hai fatto? Avevi lo sguardo da un'altra parte". "Non lo so, ma ti ho visto". «Perse la sua chance americana, perché fece due film non riusciti. Ma proprio quei due anni che passò in America hanno cancellato la nostra storia. Ai tempi non era facile come adesso, persino parlarsi al telefono era più complicato. Andai a trovarla qualche volta. La riconoscevano tutti. Una sera andammo a un concerto di Sting, eravamo in fila per i biglietti. La riconobbero, ci fecero entrare: "La Melato non può pagare", dissero, "è un onore averla qui". «Questa mattina mi sono svegliato, dovevo capire qual era il segreto che emanava, e che mi aveva fatto innamorare di lei. La sua principale caratteristica era la grazia. La grazia della poesia, della musica. Amava tutti i generi, da Leonard Cohen a Mario Merola, a Roberto Murolo. Abbiamo trascorso notti a piangere e ridere con le sue canzoni. Sapeva individuare in ognuno i bagliori dell'arte e della verità. Aveva la grazia del corpo, il ritmo nell'incedere. Appena sentiva una musica che le piaceva, si metteva a ballare. Per me. Aveva la grazia della generosità, dell'entusiasmo, del suo amore per l'Italia, e della nobiltà, un'aristocratica nel senso greco del termine. Un'infinita grazia che metteva nel salutarmi, stringermi la mano e baciarmi. Fino all'ultimo. «Abbiamo condiviso tre anni e mezzo di dolore. La malattia era un chiodo nel cuore, ma non ha mai smesso di essere una guerriera. Mentre io ero quello che la ingannava. Sapeva benissimo che le mie risate, i miei tentativi di distrarla erano tutte menzogne. Ma li accettava come un dono. A Natale, le regalai un cappottino di Lisa Corti, sperando che potesse indossarlo per tornare a casa. Rosso scuro, il suo colore preferito. Quando lo vide, si illuminò: per un attimo credette anche lei di poter lasciare l'ospedale. È con quel cappottino che se n'è andata».

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