sabato 28 settembre 2013

Silvio stacca la spina al Lettuccio.

Pino Corrias per il "Fatto quotidiano". È Sansone che strilla e che distrugge il tempio. E insieme è la sua Dalila che lo compiange. È il Mackie Messer di Bertolt Brecht che condannato a morte pretende il miracolo della liberazione. È il Re nudo della fiaba di Andersen che dice di essere "dimagrito di 11 chili", e tutti i sudditi che lo vedono ingrassato fino a scoppiare fanno finta di credergli e lo applaudono. È il vecchio mercante di sete del Boccaccio che si paga ogni fornicazione per poi vantare la sua avvenenza con gli amici: "Mai pagato una donna in vita mia". E' il vecchio pazzo del Re Lear di Shakespeare che "si aggira farneticando a Dover" e che fa gareggiare le figlie mettendo in palio il regno. È una stupefacente antologia di scorie narrative, di personaggi immaginari - e perciò reali - l'ultimo miracolo di Silvio B. in questo suo finale di partita (Beckett) aperto a tutti i destini della commedia umana (Balzac). Da quello tragico del condannato al cappio che prima di morire maledice l'intera umanità (Jim Thompson). A quello in plastica rosa e panna e gelatina che guarnisce le nozze con la padroncina di Dudù in un esilio tropicale, governato dai fucili mitragliatori della Spectre (Jan Fleming e Valter Lavitola). La sua resa dei conti che sta mandando in malora il suo metabolismo e incidentalmente la nostra Repubblica , lampeggia come fanno tante sparatorie cinematografiche, quando l'eroe è circondato. Ma specialmente una, nella scena finale di Scarface (Brian De Palma) quando Tony Montana fa strage dei nemici che gli assaltano la villa. E mentre li uccide, sparando a raffica, li incita: "Venite avanti! Volete il gioco duro? Brutti finocchi bastardi! Io vi spedisco all'inferno! State facendo la guerra contro il numero uno. Fatevi sotto". Basta una virata dell'immaginazione o dell'archivio e senza neanche cambiargli la camicia bianca e l'orologio d'oro, il Tony Montana interpretato dal glorioso Al Pacino, ridiventa il nostro Silvio B. che sfida quelle canaglie "di magistrati rossi" che gli assediano la vita. Che apre il fuoco contro quei "giudici golpisti" che pretendono di privarlo della "sua libertà politica e addirittura personale". Che lo processano "senza averne diritto" e lo condannano "senza prove". Perché "io sono innocente!". E non crediate di averla vinta, fatevi sotto, "io non mollo! Io non mi arrendo!". Come uno di quei copriletto tessuti con tutti gli avanzi della lana, come una di quelle salme viventi tagliate e ricucite da liposuzioni in serie e altre atrocità chirurgiche, il nostro piccolo Diabolik sociale (sorelle Giussani) il nostro Frankenstein politico (Mary Shelley) è fatto di tutti gli avanzi di Prima e di Seconda Repubblica. Dalla primigenia mafiosità democristiana, all'ultimo gangsterismo socialista. Ma coniugando ogni scampolo di quelle antiche professionalità con l'efficienza del-l'affarismo immobiliare che pure ha imperversato nella nostra Penisola, masticando il paesaggio una variante alla volta, per trasformarlo in mutui casa o in velenose discariche, se il prezzo era migliore. E poi direttamente nei mattoni della nuova politica. Da quegli imprinting si è evoluto in grande. Lasciandosi alle spalle le corruzioni fangose di un Cesare Previti o del finto stalliere Vittorio Mangano, per approdare sulla scena del mondo. Qualche volta nei panni del Bertoldo (del seicentesco Giulio Cesare Croce) che fa le corna in pubblico. Qualche altra in quelle del vecchio lupo che si aggrega ai maschi alfa della Educazione siberiana - i Putin, i Lukashenko, i Nazarbaev -, satrapi d'alto lignaggio, trafficanti di gas e di petrolio, nei quali si specchia, chiamandoli amici. Come si meritava, una corte a sua immagine gli è cresciuta tra i piedi. Ognuno con una sua maschera, come nella commedia dell'arte, il Brunetta e la Pitonessa, il Verdini, la Badante e lo Schifani. "Difendiamo e difenderemo il nostro leader, la sua libertà, viva la libertà!". Chiamando, per la prima volta in una democrazia occidentale, agibilità politica l'impunità. Sono maschi adulti che gli devono tutto, la carriera, la borsa e la vita. E donne a volontà, per lo più a tassametro, anche se lui fa finta di averle conquistate con l'eloquio delle sue ville e l'eleganza delle sue barzellette, come ai bei tempi delle cene di Arcore quando si travestivano da suore o da Boccassini e lui per la contentezza si succhiava le guance e il Crodino. Consapevoli tutti di scomparire con lui, non hanno neanche bisogno di un comando per tenerlo in vita a denti stretti e a qualunque costo. Come l'altra sera, quando hanno accettato di sottoscrivere le loro dimissioni in bianco, mostrando l'identico fanatico entusiasmo degli schiavi di Spartacus (Howard Fast e poi Kubrick) pronti al sacrificio supremo, quello dello stipendio, per tenere alto l'ideale. E difendere non una libertà qualsiasi, la sua. Non un martirio qualsiasi, il suo: "È da 55 giorni che non dormo", si è compatito il loro leader che nella reminiscenza di quel numero evocava la serissima tragedia dell'Affaire Moro (Leonardo Sciascia). Dalla quale avrebbe fatto meglio a tenersi alla larga. Se non per rispetto, almeno per scaramanzia.

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