giovedì 19 dicembre 2013

Buon anno a tutti.

da "Il grande Gasby".
«Il postino ha smesso di starmi simpatico», scrive Fitzgerald, «così come il droghiere, il direttore del giornale, il marito della cugina, che a sua volta ricambierà la mia antipatia, e la vita non sarà più piacevole come un tempo; l'avviso Cave canem resterà perennemente appeso sulla mia porta. In ogni caso, ce la metterò tutta per essere un animale educato, e se mi getterete un osso con abbastanza carne intorno, potrei perfino leccarvi la mano».

venerdì 13 dicembre 2013

FINALMENTE: DUE ANALISI DEGNE, DEI FORCONI

MARCO REVELLI. L'invisibile popolo dei nuovi poveri.
Torino è stata l’epicentro della cosid­detta “rivolta dei for­coni”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cer­carla, la rivolta, per­ché come diceva il pro­ta­go­ni­sta di un vec­chio film, degli anni ’70, ambien­tato al tempo della rivo­lu­zione fran­cese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene, devo dirlo sin­ce­ra­mente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sem­brata una massa di fasci­sti. E nem­meno di tep­pi­sti di qual­che clan spor­tivo. E nem­meno di mafiosi o camor­ri­sti, o di eva­sori impu­niti. La prima impres­sione, super­fi­ciale, epi­der­mica, fisio­gno­mica – il colore e la fog­gia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muo­versi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impo­ve­riti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprat­tutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impo­ve­rito: gli inde­bi­tati, gli eso­dati, i fal­liti o sull’orlo del fal­li­mento, pic­coli com­mer­cianti stran­go­lati dalle ingiun­zioni a rien­trare dallo sco­perto, o già costretti alla chiu­sura, arti­giani con le car­telle di equi­ta­lia e il fido tagliato, auto­tra­spor­ta­tori, “padron­cini”, con l’assicurazione in sca­denza e senza i soldi per pagarla, disoc­cu­pati di lungo o di breve corso, ex mura­tori, ex mano­vali, ex impie­gati, ex magaz­zi­nieri, ex tito­lari di par­tite iva dive­nute inso­ste­ni­bili, pre­cari non rin­no­vati per la riforma For­nero, lavo­ra­tori a ter­mine senza più ter­mini, espulsi dai can­tieri edili fermi, o dalle boîte chiuse. Le fasce mar­gi­nali di ogni cate­go­ria pro­dut­tiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sot­tili, oggi in rapida, forse ver­ti­gi­nosa espan­sione… Intorno, la piazza a cer­chio, con tutti i negozi chiusi, le ser­rande abbas­sate a fare un muro gri­gio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloc­cate da un fil­tro non asfis­siante ma suf­fi­ciente a gene­rare disa­gio, anch’essa presa dai pro­pri pro­blemi, a guar­darli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un fune­rale. E si pensa «potrebbe toc­care a me…». Loro alza­vano il pol­lice – non l’indice, il pol­lice – come a dire «ci siamo ancora», dalle mac­chine qual­cuno rispon­deva con lo stesso gesto, e un sor­riso mesto come a chie­dere «fino a quando?».Altra comu­ni­ca­zione non c’era: la “piat­ta­forma”, potremmo dire, il comun deno­mi­na­tore che li univa era esi­lis­simo, ridotto all’osso. L’unico volan­tino che mostra­vano diceva «Siamo ITALIANI», a carat­teri cubi­tali, «Fer­miamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripe­te­vano era: «Non ce la fac­ciamo più». Ecco, se un dato socio­lo­gico comu­ni­ca­vano era que­sto: erano quelli che non ce la fanno più. Ete­ro­ge­nei in tutto, folla soli­ta­ria per costi­tu­zione mate­riale, ma acco­mu­nati da quell’unico, ter­mi­nale stato di emer­genza. E da una visce­rale, pro­fonda, costi­tu­tiva, antro­po­lo­gica estraneità/ostilità alla poli­tica. Non erano una scheg­gia di mondo poli­tico viru­len­tiz­zata. Erano un pezzo di società disgre­gata. E sarebbe un errore imper­do­na­bile liqui­dare tutto que­sto come pro­dotto di una destra gol­pi­sta o di un popu­li­smo radi­cale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squa­dre. E i cul­tori della vio­lenza per voca­zione, o per fru­stra­zione per­so­nale o sociale. C’era di tutto, per­ché quando un con­te­ni­tore sociale si rompe e lascia fuo­riu­scire il pro­prio liquido infiam­ma­bile, gli incen­diari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra che spiega il feno­meno. Non s’innesca così una mobi­li­ta­zione tanto ampia, diver­si­fi­cata, mul­ti­forme come quella che si è vista Torino. La domanda vera è chie­dersi per­ché pro­prio qui si è mate­ria­liz­zato que­sto “popolo” fino a ieri invi­si­bile. E una pro­te­sta altrove pun­ti­forme e selet­tiva ha assunto carat­tere di massa…Per­ché Torino è stata la “capi­tale dei for­coni”? Intanto per­ché qui già esi­steva un nucleo coeso – gli ambu­lanti di Parta Palazzo, i cosid­detti “mer­ca­tali”, in agi­ta­zione da tempo – che ha fun­zio­nato come prin­ci­pio orga­niz­za­tivo e deto­na­tore della pro­te­sta, in grado di rami­fi­carla e pro­muo­verla capil­lar­mente. Ma soprat­tutto per­ché Torino è la città più impo­ve­rita del Nord. Quella in cui la discon­ti­nuità pro­dotta dalla crisi è stata più vio­lenta. Par­lano le cifre.Con i suoi quasi 4000 prov­ve­di­menti ese­cu­tivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno pre­ce­dente, uno ogni 360 abi­tanti come cer­ti­fica il Mini­stero), Torino è stata defi­nita la “capi­tale degli sfratti”. Per la mag­gior parte dovuti a “moro­sità incol­pe­vole”, il caso cioè che si veri­fica «quando, in seguito alla per­dita del lavoro o alla chiu­sura di un’attività, l’inquilino non può più per­met­tersi di pagare l’affitto». E altri 1000 si pre­an­nun­ciano, come ha denun­ciato il vescovo Nosi­glia, per gli inqui­lini delle case popo­lari che hanno rice­vuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro men­sili impo­sti da una recente legge regio­nale anche a chi è clas­si­fi­cato “incol­pe­vole” e che non se lo pos­sono per­met­tere. “Maglia nera” anche per le atti­vità com­mer­ciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esi­stenti, 15 al giorno) in città, e 626 in pro­vin­cia (di cui 344 tra bar e risto­ranti). E’ l’ultima sta­ti­stica dispo­ni­bile, ma si può pre­sup­porre che nei mesi suc­ces­sivi il ritmo non sia ral­len­tato. Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima. Men­tre per le pic­cole imprese (la cui morìa ha mar­ciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiu­sure al giorno in Ita­lia) Torino si con­tende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “for­coni”) la testa della clas­si­fica, con le sue 16.000 imprese scom­parse nell’anno, cre­sciute ancora nel primo bime­stre del 2013 del 6% rispetto al periodo equi­va­lente dell’anno prima e del 38% rispetto al 2011 quando furono por­tate al pre­fetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese arti­giane chiuse nella provincia.E’, letta attra­verso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi suc­ce­du­tisi nella tran­si­zione all’oltre-novecento, tutta intera la com­po­si­zione sociale che la vec­chia metro­poli di pro­du­zione for­di­sta aveva gene­rato nel suo pas­sag­gio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fab­brica cen­tra­liz­zata e mec­ca­niz­zata nel ter­ri­to­rio, la dis­se­mi­na­zione nelle filiere corte della sub­for­ni­tura mono­cul­tu­rale, la mol­ti­pli­ca­zione delle ditte indi­vi­duali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo pro­dut­tivo auto­mo­bi­li­stico, le con­su­lenze ester­na­liz­zate, il pic­colo com­mer­cio come sur­ro­gato del wel­fare, insieme ai pre­pen­sio­na­menti, ai co​.co​.pro, ai lavori a som­mi­ni­stra­zione e inte­ri­nali di fascia bassa (non i “cogni­tari” della crea­tive class, ma mano­va­lanza a basso costo… Com­po­si­zione fra­gile, che era soprav­vis­suta in sospen­sione den­tro la “bolla” del cre­dito facile, delle carte revol­ving, del fido ban­ca­rio tol­le­rante, del con­sumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finan­zia­ria ha allun­gato le mani sul collo dei mar­gi­nali, e poi sem­pre più forte, e sem­pre più in alto. Non è bella a vedere, que­sta seconda società riaf­fio­rata alla super­fi­cie all’insegna di un sim­bolo tre­men­da­mente obso­leto, pre-moderno, da feu­da­lità rurale e da jacque­rie come il “for­cone”, e insieme por­ta­trice di una iper­mo­der­nità implosa. Di un ten­ta­tivo di una tran­si­zione fal­lita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui ripro­po­sti in alto, nei gazebo delle pri­ma­rie (che pure dice­vano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show tele­vi­sivi. E’ sporca, brutta e cat­tiva. Anzi, incat­ti­vita. Piena di ran­core, di rab­bia e per­sino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella sog­get­ti­vità”) del ciclo indu­striale, con il lin­guag­gio del con­flitto rude ma pulito. Qui la poli­tica è ban­dita dall’ordine del discorso. Troppo pro­fondo è stato l’abisso sca­vato in que­sti anni tra rap­pre­sen­tanti e rap­pre­sen­tati. Tra lin­guag­gio che si parla in alto e il ver­na­colo con cui si comu­nica in basso. Troppo vol­gare è stato l’esodo della sini­stra, di tutte le sini­stre, dai luo­ghi della vita. E forse, come nella Ger­ma­nia dei primi anni Trenta, saranno solo i lin­guaggi gut­tu­rali di nuovi bar­bari a incon­trare l’ascolto di que­sta nuova plebe. Ma sarebbe una scia­gura – peg­gio, un delitto – rega­lare ai cen­tu­rioni delle destre sociali il mono­po­lio della comu­ni­ca­zione con que­sto mondo e la pos­si­bi­lità di quo­tarne i (cat­tivi) sen­ti­menti alla pro­pria borsa. Un enne­simo errore. Forse l’ultimo.
FRANCO BIFO BERARDI – I forconi e la deflagrazione dell’Europa. Ciò che sta accadendo in Italia va letto nel contesto della deflagrazione dell’Unione europea, provocata dall’aggressione finanzista guidata dalla Banca centrale europea e dal governo tedesco. Da Maastricht in poi, il ceto finanzista globale ha deciso di cancellare in Europa le tracce della forza operaia del passato, la democrazia, la garanzia salariale, la spesa sociale. In nome del fanatismo liberista ha finito per sradicare le radici del consenso su sui si fondava l’Unione europea. L’effetto, però, non è solo il dimezzamento del monte salari dei lavoratori europei, la distruzione della scuola e della sanità pubblica, l’abolizione del limite dell’orario di lavoro, la precarizzazione generalizzata. E’ anche la guerra. Era prevedibile, era previsto, ora comincia ad accadere. La disgregazione finale dell’Unione europea possiamo leggerla sulla carta geografica. Cominciamo da est. L’insurrezione ucraina è prova di come sia mutata la natura d’Europa. Nata come progetto di pace tra tedeschi e francesi, e quindi di pace in tutto il continente, l’Unione è oggi divenuta l’esatto contrario. Gli europeisti ucraini usano l’europeismo come arma puntata contro l’imperialismo russo, e risvegliano fantasmi del nazismo. L’ingresso in Europa è visto come una promessa di guerra, e la precipitazione del conflitto in Ucraina non potrà che avere conseguenze spaventose per l’Europa intera. Bruxelles reagirà aprendo un confronto con la Russia di Putin, oppure lascerà che la Russia di Putin soffochi una rivolta che è nata nel nome dell’Europa? Spostiamoci a ovest. Il Parlamento catalano ha indetto il referendum indipendentista per l’autunno del 2014. I franchisti del governo madrileno hanno risposto che il referendum non si farà mai. Nel frattempo, in Francia i sondaggi prevedono che il Front National diverrà partito di maggioranza alle prossime elezioni. A quel punto il patto franco-tedesco su cui si fonda l’Unione sarà cancellato nella coscienza della maggioranza dei francesi, e la balcanizzazione del continente precipiterà. Questa dinamica mi pare il contesto in cui leggere le convulsioni agoniche della penisola italiana. Il governo Letta Alfano Napolitano, filiale del partito distruttori d’Europa, è in camera di rianimazione. Può durare o crollare poco importa: non è in grado di mantenere nessuna promessa, neppure quelle fatte ai suoi padroni di Francoforte. Il movimento dei forconi è tracimare del nervosismo sociale. Nel 2011 il movimento anticapitalista tentò di fermare l’aggressione finanzista, ma non ebbe la forza per mettere in moto una sollevazione solidale. La precarizzazione ha sgretolato la solidarietà tra lavoratori, e il movimento si risolse in una protesta che il ceto politico-finanziario, per criminale interesse e per imbecillità conformista, rifiutò perfino di ascoltare. Ma la sollevazione non si ferma, perché ha i caratteri tellurici di una disgregazione della base stessa del consenso sociale. E’ una sollevazione priva di interna coerenza, priva di strategia progressiva. Ci sono dentro elementi di nazionalismo, di razzismo, di egoismo piccolo-proprietario, ma anche elementi di ribellione operaia, di democrazia diretta e rabbia libertaria. Non è importante la sua confusa coscienza, le contrastanti ideologie e i contrastanti interessi che la mobilitano. Conta il fatto che il suo collante obbiettivo è l’odio contro l’Europa. Questo odio non può che essere portatore di disgrazie. Franco Bifo Berardi (13 dicembre 2013) Condividi:

giovedì 12 dicembre 2013

Il partito unico dei liberisti.

La sinistra e il Pd renziano: liberi tutti.
Dunque, i dati prima di tutto. Un’affluenza altissima alle Primarie del Pd e un’affermazione mastodontica del nuovo segretario, Matteo Renzi. Due dati che non consentono scorciatoie né letture furbette: al netto delle piccole e grandi polemiche (il voto degli esterni, la grandinata di presenza televisive, la simpatia dei grandi media, anche non di sinistra), Matteo Renzi si prende il Pd con l’appoggio massiccio della base, con una procedura democratica e con pieno merito rispetto agli sfidanti. Gli elettori del Pd, in larga maggioranza gli danno fiducia e gli chiedono di guidare un partito che non ne azzecca una da anni, appesantito da un apparato vecchio e inefficiente (e non parlo solo dei soliti nome-parafulmine, i D’Alema, le Bindi, eccetera, ma del corpaccione del partito, specie nelle realtà locali) e indeciso a tutto. Dunque, ora non resta che vedere. Non mancano molti elementi di “antipatia” (categoria non solo politica, a dire il vero), che non varrebbe nemmeno la pena di elencare. L’aplomb da “rampanti” di una parte della sua base militante, per dirne una. Le lodi al decisionismo che ricordano un po’ il craxismo dei primi tempi, la capacità mimetica di un leader che si è saputo vendere come nuovo e viene dritto dritto dallo stesso apparato che dice di voler abbattere. Eccetera. Aggiungo: un sapiente capitalizzare le energie delle generazioni de-ideologizzate, quelle cresciute nell’era del berlusconismo, quelle convinte che siano state le generazioni prima a rovinargli la vita e non invece la vittoria senza se e senza ma delle politiche liberiste. E’ questo – solo questo, ma non è poco – il “berlusconismo” renziano che a volte si evoca. Oltre, s’intende, ad intendere "nuovo" come sinonimo di "migliore", che non è vero quasi mai, specie se non è nemmeno tanto nuovo. Insomma, un bel mix che andrà controllato passo passo. Basti dire che c’è oggi tra chi esulta per Matteo Renzi, gente che sperò nella riforma Fornero (uh, vedrai… i precari… lasciamola lavorare…), che sorrise nei primi tempi di Monti, eccetera eccetera. Inesperienze da perdonare. Così come sono comprensibili, anche se non ammirevoli, certe esagerazioni nei toni: un’aspirante classe dirigente che sgomita e aspira ad occupare i posti evacuati dai “rottamati”, a piazzarsi, a far parte dell’onda perché in cima all’onda c’è odore di incarichi e di carriera. Tutto normale, già visto in altre circostanze e in qualche modo comprensibile. Aggiungerei una componente che ha, nel successo di Renzi (il renzismo verrà), un peso notevole, ed è l’irresistibile fascino della vittoria. Dopo tante delusioni, e pareggi stiratissimi, e sconfitte a iosa, vincere non pare vero, tanto che il “vincere perché”, il “vincere per far cosa” sembra passare in secondo piano. Il leader del primo partito della sinistra italiana è costretto a urlare nel suo discorso di insediamento che “la sinistra non finisce”, come a convincere e a convincersi, bizzarra puntualizzazione, parole dal sen fuggite. E si capisce anche perché, visto che i discorsi sulla tattica impongono ora di verificare lo scontro tra un capo del governo (Letta, Pd, area cattolica, Margerita, Dc) e un capo del partito (Renzi, Pd, area cattolica, Margherita, Dc). Ma la strategia è quello che più interessa. Le politiche di Renzi sono state largamente annunciate. A cominciare dall’ideologo finanziere Davide Serra, per proseguire con l’appoggio di vecchi apparati di lungo e lunghissimo corso, per continuare, come corollario, anche alcune gaffes o fughe in avanti (o indietro?) di certi suoi ultras (Blair, la Thatcher…). Insomma, il disegno non è ancora chiarissimo, ma si vede in filigrana la trama portante: un liberismo con la faccia più buona, la sostituzione di una lotta generazionale alla lotta di classe (ne ho scritto sul nuovo numero di MicroMega), l’assenza quasi totale di discorsi sulla redistribuzione del reddito e, invece, un ditino alzato verso quelle componenti della società (i pensionati, per dirne una) considerate una zavorra. La meritocrazia senza uguaglianza, cioè di fatto la promessa alle classi dirigenti attuali che a dirigere saranno ancora e sempre loro. Niente di nuovo, a parte i toni, i colori e il linguaggio (non nuovissimo nemmeno quello, peraltro, come dimostra l’ampio uso di stilemi pubblicitari e a volte addirittura veri e propri spot commerciali di grandi marche). Dunque il paradosso è questo: mentre diventa diverso da sé (rinnovandosi), il Pd diventa sempre più uguale agli altri, al pensiero unico corrente, alle ricette note, ai discorsi già sentiti, ed alcuni, addirittura, sentiti in Europa venti e più anni orsono – e in larga parte falliti (penso alle ricette blairiane, per esempio). Del discorso primo e sostanziale che un partito di sinistra dovrebbe fare (vorrei dire: sarà prima o poi costretto a fare) non c’è traccia. Non c’è traccia di un programma che punti a stringere un po’ quella forbice tra lavoro e rendita, tra produzione e finanza, tra poveri e ricchi, che in questi ultimi trent’anni si è invece costantemente allargata. Meno poveri e meno ricchi, più garanzie e meno privilegi. Di più per tanti e meno per pochi. Di questo non c’è traccia. Nemmeno un minimo sindacale. La Cgil, per dire (che ha un milione di difetti, si sa, e si vedano gli ultimi discorsi autocritici di Landini sulla necessità di dare rappresentanza ai milioni di lavoratori precari che non ce l’hanno) è stata attaccata nella campagna di Renzi più della classe imprenditoriale e delle politiche che l’hanno favorita, più dei grossi finanzieri (che lo guardano con simpatia, tra l’altro); più dei poteri forti (che ne seguono attentamente le mosse, spesso applaudendo). Sul palco di Renzi abbiamo visto imprenditori (tanti), finanzieri, “affluenti” delle professioni, ma lavoratori zero. I piccoli passi nel senso di una maggiore giustizia sociale sono vaghi (persino il finanziere Serra parla di aumentare le tasse sulle rendite finanziarie, ma non dice come, né di quanto, né quando, mentre sulle pensioni su fa assai preciso: da lì si aspetta di prendere 10, 15 miliardi, un’enormità, e non parla di pensioni d’oro). Ora, dunque, buon lavoro. E ora, che (cazzo) fare? Per chi da una sinistra moderna spera altre cose è un momento al tempo stesso delicato ed entusiasmante. Delicato perché alternative in giro (sul mercato della politica, dicono quelli che hanno del mercato una venerazione) non se ne vedono. Sel non pare in grado, la paccottiglia nostalgica dà la nausea e le idee forti non si vedono. Entusiasmante, perché cade finalmente (era ora!) il grande equivoco: la sudditanza emotiva, affettiva, politica al Pd come naturale erede del vecchio (anche odioso, anche ingombrante, anche paternalista) Pci non ha più motivo di esistere. Non c’è più. Il Pd è oggi un partito del grande gioco, si misura con enormi differenze dal populismo furbetto e aggressivo di Grillo e dal partito personale e personalissimo di un Berlusconi agli ultimi atti della sua farsa. Ma il disegno grande, quello complessivo, quello che può cambiare la società italiana, non pare così diverso: mercato, mercato e mercato. Ci penserà lui, come ci ha pensato (e si è visto) negli ultimi decenni. Dunque, liberi tutti. E trovo ci sia in questo davvero un senso di liberazione, il sospiro di chi si libera di un fardello. Il poco e pochissimo collante ideologico che ancora legava certi “liberi di sinistra” al Pd non c’è più, nemmeno in lontananza. Si dirà che non è bello essere senza rappresentanza politica, e c’è del vero. Ma tocca anche dire che quando mai c’è stata? Nel Pd dei D’Alema e dei Veltroni? Non direi. Dunque, cade soltanto un equivoco. Sarà bello vedere l’entusiasmo di oggi alla prova dei fatti, sarà istruttivo controllare tra uno, due, tre anni, se chi sta male oggi starà meglio nelle sue condizioni materiali e immateriali. Siccome non c’è una ricetta che prometta di arginare le forze liberiste del mercato (e anzi si promette loro un ritrovato efficientismo), la risposta c’è già. Ma vederla sarà diverso che intuirlo. Dunque, auguri a chi ci crede e ci ha creduto, sarà piacevole riparlarne quando le parole lasceranno il posto ai fatti, quando saranno finiti gli spot e comincerà il programma. Quando la nuova classe dirigente che ora grida alla vecchia “tutti a casa” (con toni assai grillini, in qualche caso) avrà preso il comando. Mi siedo qui, guardo lo spettacolo, aspetto, osservo il filmino della vittoria odierna, che somiglia al seme di una vecchia, e ben nota, sconfitta. (9 dicembre 2013)

sabato 7 dicembre 2013

FO E VAURO SU GRILLO A GENOVA.

1 - CARO VAURO, PERCHÉ ERO SU QUEL PALCO Lettera di Dario Fo al "Fatto quotidiano"
Caro Vauro. Poche ore prima di ricevere la tua lettera con la quale mi chiedevi di "scendere da quel palco" montato a Genova per il V-Day, ricevevo una telefonata da Bari da parte di un responsabile del sindacato della Cgil della Puglia, che annullava la richiesta fattami alcuni giorni prima con la quale mi si invitava a intervenire a una loro manifestazione dedicata all'importanza della cultura e con riferimento alle lotte degli operai dell'Ilva. Con molto impaccio l'incaricato mi dichiarava che, per ragioni tecniche, non sarei potuto salire sul palco per parlare ai lavoratori e agli studenti. Capii subito che la ragione di quel cambio di programma era senz'altro il discorso che avevo tenuto a Genova il giorno precedente, soprattutto in conseguenza della posizione che avevo preso prima e dopo la sentenza e durante il processo a proposito dell'intossicazione di massa causata dalle esalazioni provenienti dagli altiforni che avevano inquinato l'intera città. Ma cosa mi ero permesso di dire precisamente a Genova davanti a qualche migliaio di intervenuti e, oltretutto, ripreso da tre emittenti televisive nazionali, per non parlare di quelle straniere? Mi ero solo lasciato andare a una breve analisi dei fatti inerenti l'acciaieria di Taranto e gli scarichi tossici, ricordando da quanti anni fosse esploso l'allarme di quella strage annunciata. Per inciso Franca, già nel 2006, aveva denunciato al Senato il protrarsi di quella mattanza che coinvolgeva anche mogli e bambini degli operai. Come si è potuto da parte del governo e dei partiti, compresi quelli di sinistra per non parlare dei sindacati, tardare in modo così colpevole a prendere posizione e convincere quei lavoratori ad andare a morire pur di mantenere il proprio posto? Ricordavo anche che, proprio nel momento più duro dello scontro il Pd, nella persona del segretario del partito, Bersani, incassò sottobanco un milione di euro per indurre il partito stesso a dimostrarsi più accomodante verso i proprietari, tutti sotto processo e quindi condannati a una media di quattro anni di carcere ciascuno. Nel mio intervento accennavo anche al vergognoso ricatto imposto da Marchionne al sindacato: "O accettate il mio programma e le mie proposte sul salario o tiro su baracca e burattini e trasloco tutta la Fiat in Romania!". Per finire ricordavo di sfuggita la lotta tuttora in corso in Val di Susa a proposito del Tav. Concludevo con la strage dei barconi di Lampedusa e l'inchiesta in corso sulle gravi responsabilità della Guardia costiera che, pur essendo in grado di intervenire in tempo, ha evitato di soccorrere quei 200 migranti, comprese donne e bambini, finiti in fondo al mare. Sbaglio, Vauro, o le proteste su questi fatti ti hanno sempre trovato in prima linea e insieme abbiamo combattuto per anni queste prevaricazioni? Ti dà fastidio forse che oggi anche il Movimento 5 Stelle si ritrovi con noi con le stesse idee e lo stesso programma? Il discorso di certo cambia con i sindacati. Evidentemente i dirigenti della Cgil non gradivano che io ripetessi più o meno lo stesso discorso a Bari, in quell'incontro dal titolo Cultura è lavoro. Perciò mi avevano ordinato, seppur con garbo, di scendere dal palco. Mi spiace Vauro, ma sei stato anticipato. A ogni modo, mi ha creato un certo disagio notare che in quella tua breve lettera tu non faccia alcun accenno al mio intervento di circa mezz'ora che ho tenuto davanti a quella straordinaria assemblea composta da giovani e anziani, disoccupati e privi di prospettive, spesso disperati, che mi hanno ascoltato applaudendo e, in alcuni momenti, anche commossi e indignati al tempo. Perché hai taciuto? Non hai fatto cenno nemmeno a uno dei numerosi temi, spesso drammatici, che andavo elencando. Eppure quante volte, nello stesso tempo, abbiamo condiviso, in anni e anni di lotte, quelle stesse istanze? Problemi che, guarda caso, erano pienamente condivisi anche da quelle migliaia di intervenuti in Piazza della Vittoria. Anche qui, come da parte dei sindacalisti di Bari, mi si era chiesto di parlare della cultura, legata al lavoro. Era la prima volta da molti anni in qua, credo, che in Italia capitava di poter ascoltare qualcuno trattare, durante un intervento politico, di un fenomeno straordinario, cioè della nascita e dello sviluppo di una cultura unica al mondo nei secoli. Il tutto sottolineando il rispetto e l'alta considerazione in cui eravamo tenuti dai paesi dell'intera Europa. E, concludendo, chiedevo al pubblico: "Che cosa è successo? Perché siamo crollati a livelli da débâcle totale?". Dico la verità, caro Vauro, mi sarebbe piaciuto che nella tua lettera tu avessi fatto cenno a queste mie disperate parole, invece di indugiare su alcune feroci battute pronunciate da Grillo durante i suoi interventi. Una in particolare ti aveva offeso , quella in cui Beppe, rivolto ai dirigenti politici che compongono oggi il governo delle larghe intese, gridava: "Siete tutti morti, cadaveri!". Ecco, mi fa specie che questa negatività di linguaggio venga recepita da un satirico spietato e intransigente quale tu sei. Ti dirò che io stesso ho usato più di una volta forme paradossali e irritanti di quel genere. Ho messo in scena e recitato in tutta l'Italia per anni, fra gli altri, lavori con ballate dal sarcasmo macabro tratte dalla Commedia dell'arte, quali il dialogo fra Arlecchino e Razzullo, nelle vesti di becchini. Questi due zanni, anticipando di un secolo e più Shakespeare negli stessi anni in cui Shakespeare scriveva l'Amleto, estraggono dalla tomba in cui verrà sepolta la bella vedova ossa di scheletri in quantità e subito riconoscono il personaggio del tempo in cui viveva. Sbeffeggiano la salma, ne ripetono battute e atteggiamenti. Noi, nella ricostruzione, si riesumavano personaggi non di fantasia ma che ricordavano autorità decedute di recente dai trascorsi spesso infami, ma non ricordo che qualcuno si fosse indignato. Almeno, sto parlando degli spettatori, i critici in gran numero, invece, si sono detti orripilati da tanto cattivo gusto. È accaduto lo stesso "crac" psichico anche a te, Vauro? È indegno scherzare con i morti? E allora cosa dire di Luciano di Samosata, che scendendo in visita nel-l'ade qualche secolo prima del nostro Dante, incontra laggiù addirittura lo scheletro semovente di Achille e, riconosciutolo, gli afferra con le due mani il cranio e gli sputa dentro le orbite vuote urlando: "Tiè! Tiè malnato!"? Di poi se ne va, ma ci ripensa, torna indietro, riafferra il teschio di Achille con le mani e gli risputa nelle orbite vuote. Tu sei uomo di cultura fine e profonda, Vauro, quindi non puoi esserti dimenticato del finale dell'Amletodi Shakespeare dove, uno dietro l'altro, tutti i protagonisti dell'opera si eliminano a vicenda. La madre del principe di Danimarca trangugia una pozione di veleno e schiatta, l'amante divenuto suo marito (che ha eliminato il proprio fratello pur di farsi re) viene infilzato da parecchi colpi di spada, Laerte, il fratello di Ofelia appena sepolta, viene accoppato in duello da Amleto, il quale a sua volta viene trafitto e sta agonizzando, ma prima di schiattare riesce a dare sentenze veramente straordinarie. Insomma alla fine, sul palcoscenico, vediamo, uno appresso all'altro, una sfilata di cadaveri. Qual è l'allegoria di quella strage? Ma è chiaro, tutti i regnanti della Danimarca (ma in verità qui si allude al regno d'Inghilterra) son solo degni di essere ammazzati, cancellati dalla Storia. A ‘sto punto come la mettiamo, Vauro? Ti prego, pronuncia qualche commento disgustato anche verso Shakespeare, noto autore di "brutte parole" truculenti. Oltretutto era autore di "verità assolute" e, facendo il verso ai grandi massacratori del suo regno, ripeteva sghignazzando i loro motti come "la vittoria è nelle nostre mani, non la getteremo ai porci!". Caro Vauro, io, ti giuro, non ho nessun risentimento nei tuoi riguardi e quando ti vedrò per esempio, sul palco di Servizio Pubblico, contornato da personaggi da contrappunto orrendo, mi guarderò bene dal gridarti: "Che ci fai lassù? Scendi, ti prego, compagno!". Ma al contrario ti dirò: "Usa bene le tue battute, raccontaci storie divertenti e piene di ironia", ché questo è il nostro mestiere di pagliacci. 2 - RISPOSTA DI VAURO
Caro Dario, Per prima cosa ti ringrazio per la tua bella lettera. Per seconda, sento il bisogno sincero di scusarmi con te. È vero, nella mia missiva non ho fatto cenno alle tue parole dal palco e avrei dovuto farlo. Tanto più ché le ho ascoltate e condivise, credo, con la stessa passione con la quale le hai pronunciate. Ho sbagliato e quando si sbaglia ci si chiede il perché. Ecco il mio perché: nelle mie orecchie le tue parole si erano perse, coperte dagli strilli di un pagliaccio. Dovrei dire di un ex pagliaccio. Perché, a differenza di te e di me che pagliacci siamo e siamo rimasti, quel pagliaccio si è fatto capo. Il giullare che si fa re. Quando il giullare si fa re la magia della satira svanisce. Le stesse parole che dalla bocca del giullare hanno il suono triste e allegro dello sberleffo e del pernacchio, nella bocca del re assumono quello perentorio e arrogante dell'autorità. Arlecchino danza con la morte,certo,e nella sua danza c'è tutta l'ostinata e gioiosa irriverenza verso ogni forma di potere. Se invece di Arlecchino è il re che balla con la morte non c'è più l'irriverenza ed è solo una danza macabra. Non mi sono mai piaciuti i capipopolo, quelli che parlano "alla pancia della gente". Mi piacciono ancora meno quando hanno dismesso il costume colorato di Arlecchino per indossare l'armatura cupa del condottiero infallibile. Non ti preoccupare Dario,non mi sono iscritto alla Cgil della Puglia. Il mio mestiere è ancora quello di pagliaccio. Noi due siamo pagliacci e tali vogliamo restare. Per questo sono certo che saremo sempre uniti dalla medesima disperazione e dalla medesima allegria. Ti voglio bene. Vauro

venerdì 6 dicembre 2013

Ciao Madiba.

Purtroppo la vita non è quella cosa lì che speravamo.
Tahar Lamri Perché vedete, l'Africa oggi non piange Rolihlahla, è il suo nome, Mandela. Nell'Africa animista - un Xhosa non può essere che animista - quando muore un vecchio si fa la festa. L'Africa piange perché non ha altri Lumumba, altri Fanon, altri Kenyatta, altri Cabral, altri Nkrumah, altri Sankara. Altri Mandela ci sono ancora, c'è Marwan Barghouti nelle prigioni israeliane, c'è il popolo di Gaza in prigione che sta affogando nelle acque reflue. Gli eredi di Mandela sono in America Latina e riempiono il mondo di speranza: Evo Morales che è stato quasi ucciso quest'estate dall'Italia, dalla Francia e dal Portogallo, negando al suo aereo il transito nei loro cieli. Pepe Mujica che vive come dovrebbe vivere un cittadino-presidente. In Italia, c'è Don Ciotti, c'è Alex Zanotelli, ci sono migliaia di giovani che non accettano i soprusi qui o altrove. Ma l'apartheid resiste ancora: c'è certamente in Israele. E' nei CIE della Fortezza Europa. E' sotto casa negli occhi dei rifugiati abbandonati nelle piazze, nelle stazioni e nei giardini. E' sulla pelle di ogni senza tetto che non vogliamo incrociare che non vogliamo vedere. Rolihlahla significa "tagliare un ramo", cioè "fare casini". Lui continuerà a fare casini lassù..