sabato 28 settembre 2013

Silvio stacca la spina al Lettuccio.

Pino Corrias per il "Fatto quotidiano". È Sansone che strilla e che distrugge il tempio. E insieme è la sua Dalila che lo compiange. È il Mackie Messer di Bertolt Brecht che condannato a morte pretende il miracolo della liberazione. È il Re nudo della fiaba di Andersen che dice di essere "dimagrito di 11 chili", e tutti i sudditi che lo vedono ingrassato fino a scoppiare fanno finta di credergli e lo applaudono. È il vecchio mercante di sete del Boccaccio che si paga ogni fornicazione per poi vantare la sua avvenenza con gli amici: "Mai pagato una donna in vita mia". E' il vecchio pazzo del Re Lear di Shakespeare che "si aggira farneticando a Dover" e che fa gareggiare le figlie mettendo in palio il regno. È una stupefacente antologia di scorie narrative, di personaggi immaginari - e perciò reali - l'ultimo miracolo di Silvio B. in questo suo finale di partita (Beckett) aperto a tutti i destini della commedia umana (Balzac). Da quello tragico del condannato al cappio che prima di morire maledice l'intera umanità (Jim Thompson). A quello in plastica rosa e panna e gelatina che guarnisce le nozze con la padroncina di Dudù in un esilio tropicale, governato dai fucili mitragliatori della Spectre (Jan Fleming e Valter Lavitola). La sua resa dei conti che sta mandando in malora il suo metabolismo e incidentalmente la nostra Repubblica , lampeggia come fanno tante sparatorie cinematografiche, quando l'eroe è circondato. Ma specialmente una, nella scena finale di Scarface (Brian De Palma) quando Tony Montana fa strage dei nemici che gli assaltano la villa. E mentre li uccide, sparando a raffica, li incita: "Venite avanti! Volete il gioco duro? Brutti finocchi bastardi! Io vi spedisco all'inferno! State facendo la guerra contro il numero uno. Fatevi sotto". Basta una virata dell'immaginazione o dell'archivio e senza neanche cambiargli la camicia bianca e l'orologio d'oro, il Tony Montana interpretato dal glorioso Al Pacino, ridiventa il nostro Silvio B. che sfida quelle canaglie "di magistrati rossi" che gli assediano la vita. Che apre il fuoco contro quei "giudici golpisti" che pretendono di privarlo della "sua libertà politica e addirittura personale". Che lo processano "senza averne diritto" e lo condannano "senza prove". Perché "io sono innocente!". E non crediate di averla vinta, fatevi sotto, "io non mollo! Io non mi arrendo!". Come uno di quei copriletto tessuti con tutti gli avanzi della lana, come una di quelle salme viventi tagliate e ricucite da liposuzioni in serie e altre atrocità chirurgiche, il nostro piccolo Diabolik sociale (sorelle Giussani) il nostro Frankenstein politico (Mary Shelley) è fatto di tutti gli avanzi di Prima e di Seconda Repubblica. Dalla primigenia mafiosità democristiana, all'ultimo gangsterismo socialista. Ma coniugando ogni scampolo di quelle antiche professionalità con l'efficienza del-l'affarismo immobiliare che pure ha imperversato nella nostra Penisola, masticando il paesaggio una variante alla volta, per trasformarlo in mutui casa o in velenose discariche, se il prezzo era migliore. E poi direttamente nei mattoni della nuova politica. Da quegli imprinting si è evoluto in grande. Lasciandosi alle spalle le corruzioni fangose di un Cesare Previti o del finto stalliere Vittorio Mangano, per approdare sulla scena del mondo. Qualche volta nei panni del Bertoldo (del seicentesco Giulio Cesare Croce) che fa le corna in pubblico. Qualche altra in quelle del vecchio lupo che si aggrega ai maschi alfa della Educazione siberiana - i Putin, i Lukashenko, i Nazarbaev -, satrapi d'alto lignaggio, trafficanti di gas e di petrolio, nei quali si specchia, chiamandoli amici. Come si meritava, una corte a sua immagine gli è cresciuta tra i piedi. Ognuno con una sua maschera, come nella commedia dell'arte, il Brunetta e la Pitonessa, il Verdini, la Badante e lo Schifani. "Difendiamo e difenderemo il nostro leader, la sua libertà, viva la libertà!". Chiamando, per la prima volta in una democrazia occidentale, agibilità politica l'impunità. Sono maschi adulti che gli devono tutto, la carriera, la borsa e la vita. E donne a volontà, per lo più a tassametro, anche se lui fa finta di averle conquistate con l'eloquio delle sue ville e l'eleganza delle sue barzellette, come ai bei tempi delle cene di Arcore quando si travestivano da suore o da Boccassini e lui per la contentezza si succhiava le guance e il Crodino. Consapevoli tutti di scomparire con lui, non hanno neanche bisogno di un comando per tenerlo in vita a denti stretti e a qualunque costo. Come l'altra sera, quando hanno accettato di sottoscrivere le loro dimissioni in bianco, mostrando l'identico fanatico entusiasmo degli schiavi di Spartacus (Howard Fast e poi Kubrick) pronti al sacrificio supremo, quello dello stipendio, per tenere alto l'ideale. E difendere non una libertà qualsiasi, la sua. Non un martirio qualsiasi, il suo: "È da 55 giorni che non dormo", si è compatito il loro leader che nella reminiscenza di quel numero evocava la serissima tragedia dell'Affaire Moro (Leonardo Sciascia). Dalla quale avrebbe fatto meglio a tenersi alla larga. Se non per rispetto, almeno per scaramanzia.

giovedì 19 settembre 2013

Lo spirito-puttana di Mr. B.

Sabina Guzzanti per il suo blog, www.sabinaguzzanti.it
Mai una gioia (cit. Arianna) Che dire del messaggio di Berlusconi di ieri che non abbiamo già detto mille volte in questi vent'anni? Dobbiamo annotare il fatto che è invecchiato male? Che sembra un'anima persa in una botte di grasso tanto mal distribuito da farlo sembrare più un oggetto che un essere umano? un portaombrelli. Che gli occhi tirati dai lifting sembrano impauriti? che i gesti prima così spontanei ora sono goffi? E' come se si fosse accorto che l'arroganza immensa che lo motivava e l'ignoranza che lo confortava non appartengno specificamente a lui. Non erano talenti donati da mammarosa, ma una specie di forza esterna, che ti possiede e poi ti abbandona per entrare in altri corpi più performanti. Si sente tradito, ma non dalle toghe o dai suoi tristissimi compagni di strada, ma da quello che credeva fosse una sua qualità innata e si è rivelata invece un'entità estranea e fredda tale e quale a una puttana. Ecco, è come se fosse stato posseduto da uno spirito-puttana che gli ha garantito il successo e questo spirito che è stato sempre il suo segreto più intimo, gelosamente custodito e venerato, questo spirito all'improvviso gli abbia chiesto il conto e lo abbia salutato, rivelando all'improvviso la sua vera natura. Senza quello spirito, ormai da tante lune, cerca a orecchio di imitare le frasi che funzionano oggi, aggiungendole al suo repertorio, ma le recita senza un filo di energia. Gli ancorman in tv, con l'istinto sempre più affinato, individuano le due staffe in cui tenere gli zoccoli (chi può provare che abbiano i piedi?). I più efficaci sono quelli di Sky che ne parlano come se fosse un papa e allo stesso tempo un morto. E queste due suggestioni papa/morto non hanno mai tradito in termini di ascolto, da qui quell'ottimismo sotterraneo che sprigionano, ma che non riesce a contagiarci. In questo clima da evento speciale di portata medio-grossa, ma a ben vedere più media che grossa, il sapore per me è stato simile a quello della conclusione di un evento sportivo di cui mi importa poco, come può essere per me la formula uno, per voi non so. ci rassicurano infine, da politologi, che il senso del video è che il governo non cadrà e che lui si è rassegnato ad aspettare in disparte la fine dei suoi giorni convinto dai soci e dai figli che poi sono la stessa cosa. Certo il contenuto di questo video non è un argomento centrale per la nostra vita né collettiva né individuale. E' un pochino più interessante delle fanfare sulla notizia dello spostamento della concordia, concordo. Quanto è difficile da digerire la propaganda entusiasta, la chiamata a ritrovare sentimenti patriottici per essere riusciti a fare una cosa su un miliardo. Dovremmo esaltarci per questo? Perché allora, se volevate entusiasmarci, non avete incaricato Gabrielli con lo stesso sistema di palloni e di corde, di portare via la carcassa di Berlusconi? Mai una gioia, mai una scintilla. Ma come la concordia, concorderete, è una di quelle notizie a cui ci obbligano a prestare attenzione, molta più di quella necessaria, di cui ci obbligano a discutere, per darci la sensazione che in questo sistema la nostra opinione conti qualcosa.

mercoledì 18 settembre 2013

PD, MENO ELLE.

Massimo Gramellini per "La Stampa".
Il Bene Comune in Italia è un male, perché è gestito dai partiti. L'ultimo schizzo di questa triste realtà emerge dalle carte del processo a Maria Rita Lorenzetti, l'ex presidente dell'Umbria arrestata per una storiaccia di appalti che avrebbe ordito come presidente dell'Italferr. Ma vi sembra normale che al timone delle aziende pubbliche finiscano sempre persone «segnalate» dai partiti o dai sindacati? Questa Lorenzetti è una dalemiana di ferro e fa parte di un sistema chiuso di potere che in tanti decenni ha prodotto un reticolo di favori, scambi e ricatti, coinvolgendo parenti e compagni in un gigantesco conflitto di interessi. Quando esaurisce i mandati da governatrice regionale, il Pd la sistema in un ente pubblico, finanziato dalle tasse dei cittadini ma i cui vertici vengono decisi dalla politica. Senza alcuna competenza specifica, Lorenzetti si ritrova a capo di Italferr, una società di progettazione del gruppo Ferrovie dello Stato, e da lì continua a fare quello che ha sempre fatto: il funzionario di partito che risponde al partito e alla conventicola d'affari. Le intercettazioni telefoniche raccontano con precisione lancinante il sottobosco che soffoca la crescita e il futuro di questo Paese. C'è un geologo, Walter Bellomo, inserito in una commissione tecnica in quota Pd, perché anche nelle commissioni tecniche si entra «in quota» come alla Rai, dove una volta prendevano «un democristiano, un socialista, un comunista e uno bravo», finché per ridurre i costi limitarono le assunzioni ai primi tre. Questo geologo riesce a far passare la soluzione gradita alla presidente Lorenzetti, che subito si prodiga con Anna Finocchiaro per rimediargli un posto in lista alle elezioni. L'operazione non riesce perché evidentemente ci sono altri compagni ancora più zelanti da piazzare, e il geologo ci rimane male. Un altro funzionario, Fabio Zita, ha invece il torto di anteporre gli interessi dello Stato a quelli della Lorenzetti e ostacola l'appalto: viene riempito di insulti da un sodale della presidente e, quel che è peggio, rimosso dall'incarico per ordine del governatore della Toscana, Rossi, anche lui democratico di rito dalemian-bersaniano. Questa storia ci ricorda tre banalità abbastanza scomode. La prima: non è vero che la magistratura indaga sempre e soltanto Berlusconi. La seconda: se in questi vent'anni una parte consistente del centro-sinistra non ha davvero combattuto il capo del centrodestra più anomalo del mondo è perché anch'essa aveva l'armadio tintinnante di scheletri. Cane non morde cane, e ogni cuccia ha il suo Dudù. La terza, che poi sarebbe l'oggetto di questo articolo: la sinistra che ancora scalda i cuori stremati dei suoi elettori è quella che parla di Bene Comune e combatte le privatizzazioni feroci. Ma se vuole rendere credibile il proprio progetto, non può continuare a raccontarci la favola che per far funzionare le aziende pubbliche basta sostituire i dirigenti incapaci e corrotti con altri preparati e onesti. Dovrebbe avere il coraggio di andare alle origini della malattia, sottraendo ai partiti la scelta di quei dirigenti, affinché lo Stato smetta di essere una Cosa Loro mantenuta da noi.

martedì 17 settembre 2013

Re Giorgio e l'attacco finale alla Costituzione.

Barbara Spinelli: “Lo stravolgimento dell’art.138 è un colpo di mano”. Intervista a Barbara Spinelli di Silvia Truzzi, da il Fatto Quotidiano.
Tra urla, appelli e minacce che accompagnano in questi giorni il dibattito sulla decadenza del senatore Silvio Berlusconi, pare che nessuno si sia posto una semplice, ma capitale, domanda: quanto costerebbe al Paese sacrificare un principio fondamentale come l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge? Lo abbiamo chiesto a Barbara Spinelli, scrittrice ed editorialista di Repubblica. Perché sembra una bestemmia dire che una persona condannata definitivamente per frode fiscale – reato ai danni dello Stato – non può rappresentare i cittadini in Parlamento? Perché è difficile dire quel che pure è ovvio: questo nostro Stato si definisce a parole democratico, ma ha perduto la coscienza di essere una democrazia costituzionale, cioè dotata di una legge fondamentale che garantisce principi come la separazione dei poteri e, appunto, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Si procede con sospetta premura alla modifica dell’articolo cardine della Costituzione, il 138, che disciplina la revisione della Carta con procedure di garanzia. Tutto questo per volontà di un governo “contro natura”, nato da un’infedeltà elettorale, insieme a un Parlamento eletto con una legge fortemente sospetta di incostituzionalità. C’è più di qualcosa che non quadra. Cambiare la Costituzione con procedure accelerate che stravolgono l’articolo 138 – una valvola di sicurezza pensata dai Padri costituenti proprio per evitare manomissioni – è un colpo di mano. Si parla di deroga, ma la parola giusta è violazione della Costituzione: finché non è modificato, l’articolo 138 è legge da osservare. Tanto più è un colpo di mano se pensiamo alla presente congiuntura storica: un Parlamento di nominati, un governo di larghe intese che gli elettori non volevano e che distorce la democrazia. Infine il conflitto di interessi: immutato, esso resta il male volutamente non curato del sistema politico. Come rafforzare i poteri dell’esecutivo, quando chi più si batte per il rafforzamento è Berlusconi, condannato e interdetto dai pubblici uffici perché frodava lo Stato per i propri interessi di imprenditore mentre governava? Altra stortura, gravissima: la legge elettorale viene accorpata al riesame costituzionale, dunque chissà quando ne avremo una nuova. Come se il Porcellum fosse parte della Carta! Che impressione ha di questa lunga discussione nella Giunta per le elezioni del Senato: stanno prendendo/perdendo tempo? Certo: già questo è un successo per Berlusconi. È come nei processi: rinvii, cavilli, dilazioni fino ad arrivare alla prescrizione. Anche in politica il traguardo pare essere una sorta di prescrizione. A forza di allungare i tempi si giungerà a ottobre, quando Berlusconi deciderà sull'affidamento ai servizi sociali e quando la Corte d’appello ridefinirà l’interdizione dai pubblici uffici. Sarebbe una vittoria per lui: vorrebbe dire che il parlamento non è riuscito a farlo decadere e che lo faranno i giudici, contro cui potrà inveire in nome del popolo sovrano e del Parlamento. Il capo dello Stato martedì ha dichiarato: “Se non teniamo fermi e consolidiamo questi pilastri della nostra convivenza nazionale tutto è a rischio”. L’appello all’unità è stato messo in relazione con il braccio di ferro sulla decadenza di Berlusconi. Lei cosa pensa di questo intervento? Il Presidente è intervenuto due volte, in agosto e settembre, sulla decadenza. Un’interferenza abbastanza irrituale, che tradisce la sua gerarchia delle urgenze: la cosa che più conta è la sopravvivenza del governo delle grandi intese. In altre parole: dà a quest’ultimo il primato, e pesa sulla Giunta ricordandole che essenziale è non abbattere i “pilastri della convivenza nazionale” con una rottura tra Pd e Pdl. L’intervento è pericoloso, e anche singolare: se è vero che le sentenze vanno rispettate, e Napolitano lo ribadisce con forza, come evitare uno scontro fra Pd e Pdl? Nella sostanza, siamo a un bivio: se vuole ritrovare identità ed elettori, il Pd deve interrompere questa venerazione di Napolitano, che va ben al di là del rispetto istituzionale. È l’adesione a una visione emergenziale della democrazia italiana, fatta propria dal Quirinale: da anni siamo “sull'orlo del precipizio”, “a un passo dal baratro”, dunque in stato di eccezione. Nulla deve muoversi. La democrazia è sospesa. Io non ritengo affatto pericolosa la caduta di un governo. Ne abbiamo avute tante e l’economia ne ha risentito poco. Napolitano è stato rieletto, per la prima volta nella storia repubblicana, al sesto scrutinio. Ma ci sono stati presidenti eletti al 21esimo. E così ora una possibile caduta del governo cui seguissero nuove consultazioni ed eventualmente un nuovo esecutivo sembra un strappo. Che fine ha fatto la fisiologia istituzionale? L’ideologia emergenziale permette a oligarchie chiuse di governare aggirando il normale funzionamento delle istituzioni, e anche gli esiti elettorali. È un ricatto sotto il quale viviamo da tempo. Ci ha anestetizzati. Il terrore del tracollo si è insinuato nelle menti, tanto ossessivamente viene ripetuto. Ci sono poi parole assassine: “governo di scopo”, “governo di servizio” trasmettono un’unica immagine: qualunque altro governo nato da elezioni non sarà “di servizio”. Nella migliore delle ipotesi sarà “senza scopo”, nella peggiore sarà in mano a populisti e malfattori. Paolo Mieli ha detto: “Il ricatto di Berlusconi sulla caduta del governo è una pistola scarica”. Non è che tutto questo urlare alla catastrofe in caso di caduta del governo, carica quest’arma? Berlusconi si è sempre nutrito della retorica emergenziale. La sua idea del capo legibus solutus, non ostacolato da nessuno, è coerente all’idea, valida in tempi di guerra, dello stato di necessità. Perché si sono consegnati mani e piedi a un uomo che stava per essere condannato? Nel 2009, a proposito del lodo Alfano, Ghedini disse che il premier non è un primus inter pares, ma un primus super pares. Che la “legge è uguale per tutti, non la sua applicazione”. Sono controverità entrate negli usi e costumi della Repubblica. Nella dichiarazione del 13 agosto, Napolitano ha preso atto della condanna di Berlusconi, ma al tempo stesso ha considerato “legittimi” gli attacchi e le rimostranze del Pdl contro i magistrati e la sentenza. Contrapporre la legittimità alla legalità è materia incandescente. È uno iato di cui s'è nutrita la cultura antilegalitaria delle destre e sinistre estreme, nella storia d'Europa. Il capo dello Stato ha ricevuto il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, che secondo il Corriere della Sera, è salito al Colle in veste di ambasciatore di Berlusconi. Il fatto in sé non mi scompone. Ma era il caso di riceverlo proprio in questi giorni? È il momento prescelto che inquieta. Come le telefonate di Nicola Mancino. Telefonare con Mancino è del tutto normale, tranne nel momento in cui l’ex ministro è indagato sulla trattativa Stato-mafia.

lunedì 16 settembre 2013

Putin vs Obama.

Il nuovo ordine mondiale … che non ti aspetti di Enrico Verga | 16 settembre 2013.
Il 14 settembre 2013 probabilmente verrà ricordato, dagli storici, come l’inizio di un nuovo equilibrio. Nessuno ha sganciato una bomba atomica, nessun nuovo presidente è stato eletto, ma il mondo è cambiato. L’accordo sulle armi chimiche raggiunto dal ministro degli esteri Sergei Lavrov e il segretario di stato Kerry a Ginevra non sancisce solo l’auspicabile “raffreddamento” del conflitto siriano ma apre una nuova pagina della storia mondiale. Facciamo prima di tutto un breve riassunto. L’accordo rende tristi (e perdenti) Turchia, Qatar e Arabia Saudita in Medio Oriente. In Europa la Francia era pronta a schierarsi. L’accordo rende molto felici (perché vincenti) le nazioni appartenenti alla Shangai Cooperation Organization (Russia, Kazakstan, Armenia etc..e tra gli stati osservatori non dimentichiamo l’Iran) e gli stati dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa). Vale la pena riportare le parole di Lavrov alla Rossiya 24 TV: “Oggi vorrei ringraziare le nazioni dei BRICS e le nazioni del Shangai Cooperation Organization, e molte altre nazioni per il loro supporto nel definire il problema delle armi chimiche in Siria con un approccio pacifico. Spero che la nostra riunione di oggi ci permetterà di lavorare su questo tema senza sprecare le aspettative riposte da tutti. In conclusione ritengo che la risoluzione del problema delle armi chimiche in Siria sia un grande passo per creare un’area libera dalle armi di distruzione di massa in Medio oriente.” Gli Americani escono da questo confronto dialettico con un sospiro di sollievo: dando per possibile che le armi chimiche non siano state usate dal governo di Assad ma da gruppi di ribelli non identificati (cosa ribadita anche da Putin nella sua famosa lettera dell’11 settembre al New York Times), il presidente Obama esce vincente dal dialogo potendo mostrare ai suoi cittadini (che non erano particolarmente entusiasti di una partecipazione militare Usa in Siria) di aver sistemato la cosa senza sparare un colpo. Ora cosa succederà? Be’ alcuni elementi del Risiko medio orientale hanno assunto un ruolo definito sulla mappa. La Russia ha sostanzialmente vinto in Medio Oriente, affermando il suo ruolo di grande pacificatore. La nuova giunta militare in Egitto (pro Russia) ha vinto, l’Iran ha vinto avendo supportato il governo di Assad e cominciando ad affermarsi come potenza regionale (sotto gli auspici della Russia, dello SCO e dei BRICS), l’India e la Cina han ottenuto eguali risultati nel loro supporto. In Turchia il partito di Giustizia e Sviluppo è dispiaciuto per l’esito in Siria ma una buona parte della popolazione turca sembra non essere supportiva di un intervento militare. E’ vitale ricordare inoltre che la Siria ha permesso di rendere visibile il cauto e attento sviluppo strategico Russo in Medio Oriente che, a mio avviso, ha come fulcro di rotazione la Persia. La repubblica Iraniana ha un brillante ministro del petrolio che vuole rilanciare gli investimenti nella nazione da parte di aziende straniere (di certo non occidentali a causa delle sanzioni comminate da Usa e Europa). Tra i progetti rilevanti Iran Russia ricordiamo una pipeline di Gas che, partendo dal giacimento South Pars in Iran attraverserà l’Iraq, la Siria giungendo in Libano. Il progetto dovrebbe essere ultimato nel 2016 e di fatto potrebbe minare seriamente le ambizioni del Qatar. Il piccolo emirato, estremamente attivo nel settore del gas, della finanza e delle televisioni (Al Jazeera) aveva proposto nel 2009 al presidente Siriano Assad una pipeline che avrebbe portato il gas Qatariota fin in Turchia. Il progetto venne rifiutato e Assad decise di firmare con Russia e Iran. Il progetto della pipeline iraniana sarà la più grande del medio oriente: 3480 miglia, una volta attiva potrebbe colpire gli interessi di Turchia, povera di gas, e Qatar, ricco di gas. A questo scenario energetico già delicato si aggiunge anche la questione nucleare. La Russia ha interesse a creare un secondo reattore a Busher, il più rilevante sito nucleare per uso civile della Persia. Il sito, voluto fortemente dai precedenti governi persiani per diversificare la produzione energetica, ha una posizione strategica, in prossimità del porto di Kharg, il maggiore hub per l’esportazione marittima (verso prima di tutto Cina e India) del greggio in uscita dalla Persia. La stabilizzazione della centrale e la creazione di un secondo reattore potrebbe confermare la presenza russa nello scenario persiano. Scorrendo verso il basso questo blog troverete una mappa semplificata che rende l’idea del nuovo scacchiere medio orientale. Ora che la Russia ha riaffermato il suo ruolo, sia come singola nazione, sia come parte di 2 gruppi di rilievo (lo SCO e i BRICS) l’intero scenario mondiale muta completamente. Un giorno gli storici guarderanno a questi giorni al pari di come si guardò la crisi di Cuba che permise agli Americani di affermare la loro superiorità diplomatica sull’Unione sovietica. Non si tratta di tornare ad una nuova guerra fredda ma in questi giorni è nato un nuovo ordine mondiale, forse non quello che molti di voi si aspettavano. Twitter: @EnricoVerga

domenica 8 settembre 2013

Le spoglie della scuola.

Stage e università: tutti in Carrozza, destinazione Medioevo. di Alessandro Ferretti | 8 settembre 2013.
Quando Carrozza si insediò al Miur ci fu chi sperò in una svolta positiva. D’altra parte la natura umana spinge incessantemente verso la sopravvivenza; immaginare che la nuova ministra sarebbe stata peggiore dei precedenti Gelmini e Profumo sarebbe stato un pensiero troppo triste da sopportare. Ma la ministra, con schietta onestà, non ha voluto approfittare dell’equivoco: dopo uno stillicidio di interventi a livello cantina ha pensato bene di chiarire definitivamente la questione, facendo una summa del Carrozza-pensiero al forum di Cernobbio. Apre subito sganciando la bomba da 10 megatoni: “Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita“. E dato che, come tutti sanno, trovare un lavoro normale (di quelli che poi dopo ti pagano, per intendersi) è piuttosto difficile, ecco la trovata: reintroduciamo le corvée feudali, sotto forma di stage gratuiti inseriti obbligatoriamente nel percorso scolastico, università compresa. Ti vuoi diplomare o laureare? Prima lavora gratis per qualcuno e poi se ne parla. Certo, è facile prevedere che nel mondo reale, con l’ulteriore concorrenza degli stagisti, trovare qualcuno che ti paghi per lavorare sarà sempre più impossibile.. ma chissenefrega? Come dice la lanciatissima ministra: “bisogna investire nelle classi dirigenti”, non su quei puzzoni di dipendenti che vogliono uno stipendio alla fine del lavoro. D’altra parte la platea di Cernobbio è composta al 99% dagli squali della crisi, quelli che con queste trovate ci fanno i milioni e che infatti si spellano le pinne a forza di applausi. Non paga, prosegue con un’altra bomba: “La scuola e l’università devono meritarsi l’investimento”. Come dire che il diritto ad un’istruzione decente non è un diritto vero e proprio, perché se il ministro pensa che ci siano insegnanti poco meritevoli allora niente soldi. Per capirci, è come togliere le medicine agli ammalati perché i medici non sono al top. Una logica di ferro, destinata a diventare l’asse portante del sistema educativo di un paese di 60 milioni di abitanti; e chissenefrega se a subirne le conseguenze saranno gli studenti, prima ammassati in classi-pollaio nella scuola e poi tagliati fuori dall’università da numeri chiusi ormai dilaganti? Ma non è finita qui. Per essere davvero certa che il messaggio sia chiaro aggiunge un lamento in stile “l’immaginazione al potere”: noi “non abbiamo la capacità di vedere il sacrificio attuale come una crescita futura”. Innanzitutto: noi chi? Perché se c’è una cosa chiara come il sole, nella crisi che ci stanno imponendo, è che chi fa i sacrifici e chi ne beneficia (adesso e in futuro) non sono affatto le stesse persone. O forse il messaggio è un altro: se vi abituate a non mangiare, vedrete che quando (forse) qualcuno vi getterà un tozzo di pane ammuffito sarete contenti come delle pasque. Il compito di persone come Carrozza (che ovviamente fa parte dei beneficiari) è convincerci che accettare supinamente questo filosofia sia l’unica via praticabile per l’umanità, e quindi si appresta ad introdurla nelle scuole a colpi di lavori forzati e tagli. E se ancora vi lamentate è perché non avete capito come gira il mondo: siete dei pessimisti comunisti ingrati e privi di fantasia, di certo poco meritevoli e probabilmente anche un po’ terroristi.

Venti di guerra.

Giulietto Chiesa: la guerra dei bugiardi al cubo Il 2013 finirà in guerra. Il colpo contro Damasco viene presentato come "limitato", "breve", come un "avvertimento". È un trucco per una guerra lunga.
di Giulietto Chiesa. da La Voce delle Voci di settembre 2013. Con tutta probabilità il 2013 finirà in guerra. Il colpo contro Damasco viene presentato come "limitato", "breve", come un "avvertimento". In realtà è solo un trucco (questa è una storia di trucchi) per cominciare una guerra lunga. Quanto lunga? Infinita. Cioè fino alla fine. La nostra fine, quella di coloro che leggono queste righe. In realtà è la prosecuzione di una guerra che cominciò l'11 settembre 2001, ma furono in pochi ad accorgersene. E non se ne accorsero perché non avevano capito che l'Impero era entrato in una crisi ormai irreversibile, e che stava cercando di predisporre gli strumenti politici, militari, psicologici per cambiare il corso della storia, e prolungare a tutti i costi (nostri) il suo potere. Siamo dunque in guerra da dodici anni, ma facciamo fatica a capire come mai le cose vanno sempre peggio e come mai gli eventi accelerano la loro caduta verso il basso. È perché, di nuovo, non abbiamo capito bene quello che sta succedendo. Kosovo, Afghanistan, Iraq, "primavere arabe", Libia, colpo di stato in Egitto, erano e sono mosse della stessa partita. Quella siriana è l'ultima in ordine di tempo, ma non è l'ultima affatto. Come sa ogni discreto giocatore di scacchi, non si può vincere nessuna partita se non si sa prevedere le mosse successive. Quella dopo sarà l'Iran. E ogni passo in avanti delle pedine sarà più grave del precedente, poiché l'Impero ha perso il controllo e la sua "cura" della crisi è peggio della malattia. Non funziona. E sapete perché? Perché Impero vuole dire crescita infinita. E la crescita infinita è invece "finita". È finita "l'era dell'abbondanza" ed è cominciata "l'era dell' insufficienza". E, se si poteva convincere, costringere a comprare tutto il comprabile, con il fascino della bellezza e, appunto, dell'abbondanza, è molto difficile convincere la gente a tirare la cinghia. Ci vuole la violenza per ottenere questo risultato. Diciamo dunque che ci stanno facendo entrare nella fase pedagogica in cui dobbiamo imparare a subire la violenza. Ma c'è grande confusione sotto il cielo. Questo nuovo avvitamento ha un che di stralunato. Anche i Padroni Universali pare siano sotto l'urgenza del tempo. Dunque pasticciano. Le guerre precedenti erano state preparate decisamente meglio. Questa sembra avviarsi nel mezzo di convulsioni gravi. Il Parlamento britannico si ribella e mette alle corde Cameron. Obama è costretto a fare marcia indietro e a chiedere il parere del Congresso. Lo avrà, io penso, ma sarà utile ricordare che Obama prende una tale decisione contro la volontà di tutto lo staff del proprio Consiglio di Sicurezza. E sapete con quale argomento? Questo, in sintesi: potremmo attaccare senza l'avallo del Congresso, ma dobbiamo sapere che, dopo (la "mossa successiva" di cui ho parlato prima, ndr) quando dovremo andare contro l'Iran, cioè quando dovremo lanciare una nuova guerra di grandi proporzioni non limitata nel tempo e negli obiettivi, allora avremo bisogno di un'autorizzazione formale. Dunque è meglio chiederla anche ora. L'ha riferito il New York Times e io ho una grande fiducia nel New York Times quando annuncia la guerra. Questa è stata la ragione del rinvio dell'attacco. Che sarà solo di qualche giorno. Le lobbies filoisraeliana e filosaudita che manovrano a Washington avranno facilmente ragione di ogni titubanza. L'America, quando sono in gioco le sorti dell'Impero, non si divide. Per ora. E i sondaggi dicono tutti che il 60% degli americani è pronto a sostenere un attacco contro l'Iran. Dunque si proceda. Singolare, e curioso (ma poiché siamo in pieno delirio possiamo anche ridere un po'), gl'ispiratori principali di questa guerra, e della prossima, sono i fondamentalisti religiosi: i capi sionisti di Israele e i capi wahhabiti dell'Arabia Saudita. Entrambi decisi a stroncare la serpe sciita di Teheran. Dunque la guerra imperiale è ora sotto l'egida di una specie di, congiunta, guerra di religione. Suggerisco di non sottovalutarne il significato, specie agli ottimisti (che abbondano sempre): quando Dio entra in questa sindrome, la legge di Murphy ("se le cose possono andare peggio, vuol dire che finiranno peggio") diventa inesorabile. Il fatto è che gli Stati Uniti non hanno più una linea che sia la loro. Dell'Impero rappresentavano il braccio statuale armato. Ma come stato dovrebbero anche sottostare a certe regole. Almeno ad alcune. E qui viene il problema perché anche in Occidente cominciano a manifestarsi incrinature, che prima non c'erano. I Masters of The Universe vogliono andare allo scontro con il resto del mondo, perché sono consapevoli che ogni alternativa di pace e di cooperazione dev'essere esclusa, in quanto sancisce la fine dell'Impero. Ma il resto del mondo non è virtuale: c'è la Cina, e anche la Russia. Ci sono sei miliardi d'individui che vogliono vivere e non solo sopravvivere. E' qui che frana l'America, che non è più in grado di gestire le convulsioni. Diciamo che stiamo osservando una crisi di egemonia. C'è una gran confusione. Ci sono diversi attori, ormai potenti, che parlano. Perfino la Bonino, ministro degli esteri di un paese inesistente, osa fare dei distinguo. Non s'era mai vista una cosa del genere. Il Papa di Roma (lunga vita a Papa Luciani!) sembra un pezzo anomalo di una macchina che cammina a stento. Vede la terza guerra mondiale e, per giunta, lo dice senza neanche chiedere l'autorizzazione di Washington. A differenza del Beato Giovanni Paolo II, non ha da rendere conto del miliarduccio di dollari che ricevette per versarlo a Solidarność. E dunque parla. E digiuna: che disastro d'immagine per Obama. Che andrà in guerra, ma con l'Occidente spaccato, con al seguito solo il burattino Hollande, che è stato eletto con i voti di sinistra. Si procederà a vista, o la va o la spacca. Poi ci si affaccerà sui confini dell'Iran. Ma bisogna guardarsi dai sempliciotti che sognano una reazione militare immediata di Mosca, tanto meno di Pechino. Non ci sarà nessuna reazione militare. Mosca e Pechino rispondono e risponderanno asimmetricamente. Non sono sciocchi e vogliono aspettare seduti sulla riva del fiume . Lo scontro vero - che nessuno oggi può sapere quali dimensioni e forme assumerà, anche perché nessuno sa con precisione quali armi saranno messe in funzione - è ancora in preparazione e richiederà un certo periodo di tempo, molte verifiche sul campo, molto studio di mosse e contromosse reciproche. Ma l'accelerazione si vede e si sente. Avete presente come si muove una valanga? Avete presente che tra il 1929 e il 1939 (inizio della seconda guerra mondiale) ci furono dieci anni? Avete presente che l'esplosione della finanza mondiale cominciò nel 2008? Aggiungete dieci anni e farà 2018. Lo so che la storia non si ripete mai. Ma la stupidità umana (specie quella delle élites dirigenti) è una costante universale. E, se osserviamo l'impazzimento generale che contraddistingue perfino i mentitori, i gatekeepers, dovremmo essere molto preoccupati. Perché si può mentire in modo credibile, raccattando argomenti dai rigattieri del buon senso. Ma qui siamo di fronte a portavoce che non solo si contraddicono, ma mentono senza argomenti. Bugiardi senza idee, che ripetono a pappagallo ciò che viene detto loro di comunicare. Tutto il mainstream, dai Ferrara, ai Cazzullo, agli Zucconi, ai De Bortoli, ai Lerner, alle Botteri , danno per acquisito (cioè che Assad ha usato armi chimiche) senza nemmeno soffermarsi un istante sulle prove: che mancano inesorabilmente. E mancheranno anche dopo, sicché la menzogna è già lì, tutta nuda. Eppure non la vedono e la ripetono con sguardi ebeti, incuranti di ogni vergogna, forti dell'impunità che viene loro garantita, insieme agli stipendi che prendono a fine mese. Preoccupante perché già ci annuncia come strilleranno al primo bombardamento sull'Iran. Titolano già ora affibbiando a Bashar frasi che non ha detto, minacce che non ha proferito. Figuriamoci cosa diranno contro gli ayatollah! Siamo in un acquitrino miasmatico pieno di flatulenze insopportabili che dimostrano lesioni cerebrali e intestinali ormai irrimediabili. Attenzione che questi ci stanno preparando la guerra in casa. E lo faranno fino a che non andremo a stanarli nei loro studi elettronici e non li costringeremo - com'è nostro diritto - a dirci perché hanno mentito sapendo di mentire. E poi li licenzieremo, perché fanno il mestiere senza autorizzazione deontologica. Infatti abbiamo le prove - noi le abbiamo, le prove - che mentono. Perché basterebbe che andassero a leggere le notizie che pullulano nel web, verificabili, provate, certe, per scoprire che la guerra si fa per cause completamente diverse da quelle, presuntamente umanitarie, che loro invocano. Ci sono, tra loro, quelli - come Giuliano Ferrara, ex agente informatore della CIA - che, con simpatica e totale improntitudine, ci comunicano perfino che le ragioni umanitarie sono un inutile orpello per indorare la brutalità degl'interessi dell'Impero. Meglio lui, nella sua tracotanza, che i giornalisti e direttori televisivi vigliacchi che, con le loro unte parole, svitano le spolette che uccideranno i civili siriani. Dunque non ci resta che prepararci. Questo significa dire, chiaro e tondo, che la pace è l'unico modo per sopravvivere. Il che significa che dobbiamo costruire di nuovo un immenso movimento pacifista, italiano, europeo, mondiale. Dobbiamo preparare ogni forma di resistenza alla guerra . Questa è una parola d'ordine che raccoglie il consenso della stragrande maggioranza. Lo sappiamo. Qui si va con la corrente, non contro la corrente. Solo che bisogna remare in tanti. E ancora una piccola notazione. L'avvitamento della crisi ha messo in ombra l'Europa e anche tante chiacchiere sull'euro e sulla sovranità monetaria. Si vede che l'accento è altrove. L'Europa, questa penosa Europa, non è il centro della crisi. La crisi - vista nella sua accezione immediata, quella che si sta bruciando nel panico di questi mesi - è finanziaria e mondiale, ma è anche energetica e mondiale, ma anche climatica e mondiale. È questo il contesto dentro cui, volenti o nolenti, saremo chiamati a batterci. È evidente che crisi finanziaria e militare non si elideranno vicendevolmente, ma si sommeranno in modo devastante, straripando in crisi politiche, in governi che cadranno, in fantocci che risorgeranno come zombie. Le Costituzioni saranno stracciate. Tutto ciò nell'arco di una manciata di mesi. È questione di attualità. Lo richiamo perché, ancora una volta, dobbiamo ricordare, anche a noi stessi, che avevamo ragione noi, che venivamo definiti catastrofisti. Ancora oggi mi sento ripetere, talvolta, che il nostro compito è "dare speranze". Certo la speranza è bella, ma penso sempre di più che, se lo facessimo, faremmo un errore grave. È più che mai il momento della verità, visto che siamo nell'era della menzogna. CLICCA PER ACCEDERE AL SITO DE LA VOCE DELLE VOCI: www.lavocedellevoci.it

Virno ed un "manifesto" del 2004.

La festa del General Intellect (2004). di Paolo Virno (da Moltitudes).
Negli anni Settanta, il primo maggio fu una ricorrenza stantia e anche un po’ gaglioffa. Stantia, perché le lotte operaie - e la politica, e la vita in genere - se ne tenevano scrupolosamente alla larga. In quelle adunate prive di ogni allegria, c’era soltanto il sindacato in quanto istituzione nevralgica dello Stato keynesiano. Le confederazioni rivendicavano a gran voce, talvolta con la stizza di chi parla da solo, il loro ruolo di rappresentanti legali della merce forza-lavoro, l’unica davvero strategica nelle moderne società industriali. Gli operai in lotta, che proprio quella merce volevano risolutamente abrogare (anzitutto inflazionandone il prezzo, fino a renderla antieconomica), se ne fottevano delle sfilate in nome del "nuovo modello di sviluppo". Come un adulto appena ragionevole non perde tempo dietro ai re Magi. Con i modelli vecchi e nuovi dello sviluppo capitalistico, i conti si regolavano in officina : sciopero a scacchiera, salto della scocca, corteo interno alla palazzina della direzione, salario come variabile indipendente. Anche un po’ gaglioffa, quella ricorrenza : infatti, era denominata senza alcun pudore "festa del lavoro". Come se il lavoro salariato non fosse una disgrazia, come se qualcuno potesse essere orgoglioso (di "orgoglio" cianciava il sindacato, appunto) di produrre plusvalore sulla linea di montaggio. L’odio e il disprezzo per il regime di fabbrica evocavano semmai la necessità di una festa contro il lavoro. Dopo Seattle e dopo Genova, il primo maggio torna a essere, con un vertiginoso balzo all’indietro, ciò che fu a fine Ottocento : il momento privilegiato in cui emerge una "nuova specie" sociale e produttiva. L’antico appuntamento è reinventato, oggi, dalla intellettualità di massa, ossia da quella moltitudine di uomini e donne che, usando il pensiero e il linguaggio come utensile e materia prima, costituiscono l’autentico pilastro della ricchezza delle nazioni. Migranti, precari di ogni risma, frontalieri tra lavoro e non-lavoro, stagionali dei McDonald e conversatori a cottimo delle chat-lines, ricercatori e informatici : tutti costoro sono, a pieno titolo, l’"intelletto generale", il general intellect di cui parlava Marx. Quel general intellect (sapere, intraprendenza soggettiva, forza-invenzione) che è, insieme, la principale forza produttiva del capitalismo postfordista e la base materiale per farla finita con la società della merce e con lo Stato in quanto sinistro "monopolio della decisione politica". A fine Ottocento, i tipografi, i conciatori, i tessili ecc. - insomma i membri delle innumerevoli associazioni di mestiere - scoprirono ciò che li univa : essere, tutti, astratto dispendio di energia psicofisica, lavoro in generale. Il primo maggio sancì questa scoperta e, per più di una generazione, fece tutt’uno con la richiesta delle otto ore (meno lavoro, ecco il fulcro dell’etica moderna). Oggi, una moltitudine di "individui sociali" - tanto più fieri della propria singolarità irripetibile, quanto più correlati tra loro in una fitta trama di interazione cooperativa - si riconoscono come intelletto generale della società. Il primo maggio contemporaneo, in quanto festa grande del general intellect (pensiero che desidera e desiderio che pensa), ha il suo perno nella ragionevole pretesa di un "reddito di cittadinanza" e nel rifiuto di qualsivoglia copyright sui prodotti di quella risorsa comune che è la mente umana. Ma c’è dell’altro. Il primo maggio globalizzato e postfordista richiama il primo maggio ottocentesco anche per un motivo più spinoso : in entrambi i casi, la domanda cruciale suona così : come organizzare una pluralità (di mestieri allora, di "individui sociali" oggi) che, al momento, pare frammentata, costitutivamente esposta al ricatto, insomma inorganizzabile ? E’ innegabile, infatti, che l’intellettualità di massa stenta a rovesciare la propria potenza produttiva in potenza politica. Non arriva ancora a incidere sul tasso del profitto, ancora non le riesce di gettare nel panico le direzioni aziendali. Per questo ha bisogno di convocare i propri "stati generali", di coordinarsi, di deliberare. La prima questione all’ordine del giorno, sotto il sole primaverile del 2004, è quella delle forme di lotta. E’ stolto chi crede che individuare le modalità del conflitto (quale sciopero, quale sabotaggio ecc.) sia un problema tecnico, semplice corollario del programma politico. Tutt’al contrario : la discussione sulle forme di lotta è la più intricata, vero banco di prova di ogni teoria politica di qualche respiro (che non si riduca, cioè, a una cospirazione illuminista di giuristi democratici). Intraprendenza, conoscenze condivise, capacità di correlarsi e interagire : queste "doti professionali" della moltitudine postfordista devono diventare temibili strumenti di pressione. Le piattaforme rivendicative, in breve il "che cosa vogliamo", dipendono per intero dal "come possiamo agire" per modificare i rapporti di forza all’interno di questa organizzazione sociale del tempo e dello spazio. Tutto dipende, cioè, dall’invenzione spregiudicata di nuovi "picchetti" e nuovi "cortei interni", che siano all’altezza dell’imperante flessibilità e del modello di accumulazione basato sul general intellect. Di più : l’uscita dai modelli organizzativi del Novecento, malamente predicata da quanti hanno di recente elevato la non-violenza a feticcio, trova qui, nella questione delle forme di lotta, il suo effettivo momento della verità. Per intendersi : il superamento della forma-partito fa tutt’uno con la scoperta, da parte dei migranti, dei precari Tim, dei collaboratori a tempo determinato, del modo più incivo per ricattare i propri abituali ricattatori. La grande difficoltà a scovare forme di lotta adeguate è anche una grande occasione. Tanto la difficoltà che l’occasione derivano da quante e quali cose sono incluse, oggi, nel processo produttivo. Si dice : il capitalismo postfordista mobilita, e mette a profitto, le facoltà basilari della nostra specie : pensiero, linguaggio, memoria, affetti, gusti estetici ecc. Ora, se questo è vero, il conflitto sul posto di lavoro non può che riguardare una intera forma di vita. Per vincere una vertenza rivendicativa, bisogna ricorrere a quella rete metropolitana di relazioni che fa di ciascuno di noi un individuo sociale, uno dei "molti" di cui è composta la moltitudine. E’ lì che si addensa una forza cooperativa autonoma : è lì che si scambiano informazioni, si attingono conoscenze, si stringono amicizie. Soltanto questa rete, che per comodità chiamo il "bacino dell’intellettualità di massa", può sorreggere i conflitti nel singolo comparto produttivo. Ma dar voce al bacino dell’intellettualità di massa significa creare nuovi organismi democratici. Ecco la grande difficoltà che, però, è anche grande occasione. La richiesta di più soldi implica, qui e ora, l’abbozzo di inedite forme di autogoverno, la costruzione sperimentale delle istituzioni politiche della moltitudine, l’esordio in grande stile di una sfera pubblica che metta finalmente da parte miti e riti della sovranità statale. __________________________________

sabato 7 settembre 2013

Quirimediaset.

di Marco Travaglio | 7 settembre 2013.
La domanda è molto semplice e, nonostante la comicità della situazione generale, molto seria. Se è vera la notizia – pubblicata da alcuni quotidiani e non smentita per tutta la giornata di ieri – del “colloquio riservato” di Fedele Confalonieri con Giorgio Napolitano per impetrare la grazia o altri salvacondotti sfusi per l’amico Silvio, a che titolo il presidente della Repubblica ha ricevuto il presidente di Mediaset? Il 2 luglio scorso, quando Beppe Grillo, leader del M5S che aveva appena raccolto il 25 % alle elezioni, chiese sul suo blog di incontrare il capo dello Stato, questi rispose piccato di non aver “ricevuto alcuna richiesta di incontro nei modi necessari per poterla prendere in considerazione”. Resta ora da capire se, quando e come il signor Confalonieri, privato cittadino sprovvisto di qualsivoglia carica o politica – anzi da vent’anni dichiarato dal Parlamento ineleggibile ai sensi della legge 361/1954 per assicurare l’eleggibilità abusiva a B. – abbia formulato una richiesta di incontro col Presidente, e nei modi necessari per essere presa in considerazione dal destinatario. Ma purtroppo non se ne sa nulla, come non è dato sapere a che titolo Gianni Letta, altro privato cittadino sprovvisto di qualunque carica elettiva o politica a parte la parentela diretta con il Premier Nipote, entri ed esca dal Quirinale, come riferiscono i giornali vicini a B. e N., anch’essi mai smentiti. In qualunque democrazia, anche la più scalcinata, quando un’alta carica dello Stato riceve Tizio o Caio, lo comunica ufficialmente ai cittadini, spiegandone il perché. In Italia invece la clandestinità del potere è diventata normale anche sul Colle più alto, come insegnano le trame per assecondare le pretese del signor Mancino, indagato per falsa testimonianza sulla trattativa Stato-mafia. E come dimostra l’incredibile nota diffusa l’altroieri, poco dopo l’incontro aumma aumma Napolitano-Confalonieri, non direttamente dal capo dello Stato, ma da non meglio precisati “ambienti del Quirinale” che nessuno ha mai capito in che cosa consistano, a chi rispondano, che valore abbiano, perché parlino. Un modo come un altro per dire e non dire, lanciare il sasso e ritrarre la mano, una via di mezzo fra ufficialità e ufficiosità (l’ufficialosità) per poi, a seconda delle convenienze, poter dire “io l’avevo detto” o “io non l’avevo detto”. Nella nota ufficialosa, si comunicava che il Presidente “non sta studiando o meditando il da farsi in casi di crisi” perché “conserva fiducia nelle ripetute dichiarazioni dell’on. Berlusconi sul sostegno al governo”. A parte l’involontaria assonanza con il “nutro fiducia” di Luigi Facta, ultimo premier democratico d’Italia prima del fascismo, nei giorni della marcia su Roma, quelle parole sanno di presa in giro degli italiani, visto che la visita di Confalonieri le smentisce platealmente: il Presidente sta studiando e meditando eccome, infatti prosegue la trattativa (ancora!) con gli emissari privati del noto ricattatore pregiudicato perché tenga in piedi il governo Letta. É la trattativa Stato-Mediaset. Non è la prima volta che Confalonieri scende a Roma e consulta politici di destra, centro e sinistra: lo fa ogni qualvolta l’amico Silvio, e dunque la ditta, è in difficoltà. Lo fece nel 2006 quando tentò di mandare l’amico D’Alema al Quirinale. Lo rifece nel novembre 2011 quando le azioni Mediaset precipitavano nel gorgo della tempesta finanziaria e si trattava di pilotare la ritirata di B. in cambio del suo salvataggio politico e aziendale col governo Monti e le mancate elezioni anticipate. E ora rieccolo – scrive il Corriere – “parlare di politica con i politici” in un “giro romano delle sette chiese” e “consultare amici e avversari, prima e dopo la sua salita al Colle”, convinto che “è necessario muoversi senza fare casino”. Per parlare di cosa? Dei nuovi palinsesti di Canale 5? Delle azioni Mediaset? Delle polizze Mediolanum? Della campagna acquisti del Milan? No, secondo il Corriere ha parlato di “garantire l’agibilità personale per Berlusconi con un gesto di clemenza”. Sarà un caso, ma appena il presidente di Mediaset è sceso dal Colle, i proclami guerreschi del Pdl si sono interrotti. È l’apoteosi del conflitto d’interessi che, dopo avere privatizzato governi, parlamenti, codici, leggi e Costituzione, s’impossessa dell’ultimo arbitro, cancellandone definitivamente la terzietà e l’imparzialità. Dopo Confalonieri e Letta, si attende con ansia il pellegrinaggio al Colle di Doris, Galliani, Marina e Pier Silvio, Allegri, Balotelli, Kaká e Gabibbo (ma perché non Dell’Utri?). Poi sul campanile del Quirinale, al posto del Tricolore, garrirà giuliva la bandiera del Biscione. il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2013

mercoledì 4 settembre 2013

Spinelli psicanalizza la Germania prima delle elezioni.

La Germania pallida madre di BARBARA SPINELLI, da Repubblica
Una potenza egemone, ma timorosa di dominare perché memore della propria storia. Volitiva, ma temporeggiatrice fino all'abulia. Difficile afferrare la Germania, alla vigilia delle elezioni, e per questo abbondano i luoghi comuni, le definizioni elusive. Sono i tentativi di psicologizzare un potere evidente, invadente, che Berlino dissimula con cura e che nelle capitali dell'Unione non si sa come contrastare. L'Europa intera si nutre di questi stereotipi, da quando la crisi l'ha assalita, e aspetta ammaliata, inerte, l'esito del voto. Spera che tutto cambierà dopo il 22 settembre, ma il tutto che promette lo affida a Berlino. Il rinnovo del Parlamento tedesco precede di pochi mesi le elezioni europee. Nell'Unione è vissuto come il primo atto di un dramma che concerne il continente, e che ha per protagonista la malata democrazia d'Europa. Grazie ai luoghi comuni il dramma si tramuta in fiaba, che i tedeschi stessi coltivano in parte per capire dove vanno, in parte per giustificarsi. La fiaba narra una Germania - pallida madre ancora e sempre, come nella poesia di Brecht - ansiosa di non esser più, "in mezzo ai popoli, derisione o spavento". Devota all'Europa con lucido raziocinio, ma ostacolata dal nazionalismo dei paesi vicini, Francia in testa. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble fa parte della generazione europeista del dopoguerra, e in un lungo articolo del 19 luglio sul Guardian ha avvalorato l'immaginario racconto: "L'idea che i tedeschi ambiscano a un ruolo speciale in Europa è un malinteso. Noi non vogliamo un'Europa tedesca. Noi non chiediamo agli altri di essere come noi". Invece i tedeschi hanno volontà forti, molto più di quanto dicano. E chiedono, con l'impeto di chi difende non solo dottrine economiche, ma solenni visioni morali (il debito come colpa). Schäuble invita i partner a non usare stereotipi nazionali, ma anche il suo ragionare, minimizzare, sta divenendo uno stereotipo, un sintagma cristallizzato che la realtà smentisce ogni giorno. L'attesa inerte del voto tedesco - attesa addirittura miracolista in Italia - suggella un potere egemonico dato per immutabile, senza alternative: come immutabili, indiscutibili, sono le politiche di austerità che Berlino impone parlando, da sola, in nome di tutti i popoli dell'Unione. I più lucidi sono gli intellettuali di lingua tedesca - i filosofi Jürgen Habermas e Ulrich Beck, lo scrittore Robert Menasse, l'ex ministro degli Esteri Joschka Fischer. Dagli esordi della crisi, denunciano con severa insofferenza l'involuzione nazionalista del proprio paese. Fra i partiti, solo i Verdi fanno proprie le loro diagnosi. Fischer, che è un loro dirigente, accusa il governo di aver riacceso dopo più di sessant'anni l'antico assillo della questione tedesca. Stessi toni in Jürgen Trittin, ex ministro dell'ecologia: "C'è una divisione netta fra quel che i Verdi vogliono e quel che Berlino sta facendo. Il Cancelliere ha sempre desiderato un'Europa intergovernativa, mentre noi vogliamo rafforzare le istituzioni europee, dunque i poteri della Commissione e del Parlamento europeo". La Merkel è sospettata di voler tornare a un'Europa degli Stati sovrani: quella stessa Europa fondata sull'equilibrio-competizione fra potenze (la balance of power), che si squassò nelle guerre dei secoli scorsi e contro cui fu alzato, negli anni '50, il baluardo della Comunità europea. Non sono sospetti infondati. Piano piano, il capo del governo ha abbandonato l'europeismo che aveva professato nel febbraio 2012, e le porte che aveva socchiuso le ha per ora chiuse. Ha sentito crescere attorno a sé i neo-nazionalisti (l'appena nato partito Alternativa per la Germania recluta a destra e sinistra) e rapida s'è adeguata. Nei suoi discorsi come nei suoi atti "manca qualsiasi nocciolo normativo", dice Habermas. Per questo s'è alleata all'Inghilterra, quando Cameron ha messo un veto a qualsiasi aumento del bilancio comunitario: assieme, hanno detto no a politiche europee che controbilancino le austerità nazionali. E ha benignamente taciuto, quando il Premier olandese Mark Rutte ha decretato, lo scorso febbraio: "L'era dell'Unione sempre più stretta è finita". Il 13 agosto, alla Tv tedesca, s'è come liberata d'un fardello: "L'Europa deve coordinarsi meglio, ma credo che non tutto debba esser fatto a Bruxelles. Va considerata l'ipotesi di restituire qualcosa agli Stati. Dopo il voto ne discuteremo". Secondo lo scrittore austriaco Menasse, la malattia dell'euro ha proprio qui le sue radici, politiche e democratiche assai più che economiche: nel potere che gli Stati vanno riprendendosi, non da oggi ma da quando nacque, al posto di una Costituzione federale, il Trattato di Lisbona del 2007 (Der europäische Landbote-Il messaggero europeo, Zsolnay 2012). È da allora che gli Stati - Consigli dei ministri, vertici dei leader nazionali - hanno ricominciato a prevalere, accampando sovranità illusorie ma non meno tronfie, erodendo sempre più le istituzioni sovranazionali. I difetti di costruzione dell'euro sono noti: mancanza di unione politica e economica. Ai difetti si sta rispondendo dilatandoli anziché riducendoli. In un'Europa dove regnano di nuovo gli Stati - è fiaba anche questa, ma ci son fiabe più reali del reale - è ineluttabile che comandi il più potente economicamente. E comanda non senza astuzie, al punto che Beck parla di modello Merchiavelli, quando descrive l'impero accidentale messo su da Berlino: "Proprio come Machiavelli, Angela Merkel ha sfruttato l'occasione che le si è presentata (la crisi) e ha trasformato i rapporti di potere in Europa". Lo avrà fatto controvoglia ma lo ha pur sempre fatto, e con effetti visibili: l'Unione non è più comunità, quando i paesi debitori-peccatori vengono umiliati col soprannome di Periferia-Sud. Non si spiegano altrimenti l'evaporare d'ogni "nocciolo normativo", la volatilità delle posizioni tedesche: sui poteri da rimpatriare nelle capitali, sull'Europa-federazione, o sull'unione bancaria prima voluta, poi respinta per meglio tutelare gli interessi delle banche tedesche. Ascoltiamo ancora Beck: "Il principe, dice Machiavelli, deve attenersi alla parola politica data ieri solo se oggi gli porta vantaggio" (Europa tedesca, Laterza 2012). Fischer sostiene che per la terza volta, la Germania rischia di distruggere l'Europa. Il pericolo è reale, ma stavolta è nel perfezionismo della sua democrazia che perversamente s'annida la minaccia. È nelle sue istituzioni indipendenti: Corte costituzionale, Parlamento nazionale, Banca centrale. Il nuovo nazionalismo in Europa è iperdemocratico. O meglio: siamo alle prese con prassi istituzionali che Menasse giudica antiquate perché "non ancora sorrette da una democrazia postnazionale". La voglia isolazionista di Alternativa per la Germania accelera la regressione. Se Alternativa entra in Parlamento il paese muterà volto, ma non mettendosi ai margini come l'Inghilterra: la sua Costituzione le prescrive l'Europa (art. 23, riscritto nel '92), ma l'Europa voluta non è federale. L'ultimo luogo comune riguarda la memoria. L'Italia ha poco da criticare, essendo abituata all'oblio di sé. Ma la politica della memoria ha in Germania singolari lacune. Si ricorda l'inflazione di Weimar, ma non la deflazione e l'austerità adottata nel '30-32 dal Cancelliere Brüning, che assicurò trionfi elettorali a Hitler. Si ricorda il nazionalsocialismo, ma non quel che accadde dopo: il taglio del debito tedesco generosamente accordato nel '53 da 65 Stati (tra cui la Grecia). Anche il mito della Germania che impara dalla storia va in parte sfatato, se non si vuol dividere l'Europa tra centro e favelas: tra santi e peccatori che al massimo "si coordinano", dimenticando strada facendo il nome solidale - Comunità - che un tempo si erano dati e che troppo spensieratamente hanno abbandonato.

domenica 1 settembre 2013

Un grande Erri No TAV.

Tav. Erri De Luca: va sabotata, è l'unico modo che c'è per fermarla. Il procuratore Caselli esagera (FOTO VIDEO Laura Eduati, L'Huffington Post | Pubblicato: 01/09/2013. “La Tav va sabotata."
Lo scrittore Erri De Luca, raggiunto al telefono dall'HuffPost, commenta con scarne parole l'accusa che il procuratore Giancarlo Caselli lancia nei confronti degli intellettuali che a sinistra “sottovalutano pericolosamente l'allarme terrorismo” in Val di Susa. Caselli non fa i nomi dei “conniventi” ma nell' elenco, è chiaro, figurano il filosofo Gianni Vattimo e De Luca, che hanno manifestato pubblicamente il supporto agli attivisti No Tav finiti in carcere per sabotaggio. Pochi giorni or sono Vattimo è finito nelle attenzioni della Procura torinese per i suoi stretti legami con le frange più dure del movimento, mentre lo scittore ha firmato un intervento durissimo nel volume appena uscito “Nemico pubblico. Oltre il tunnel dei media: una storia NoTav”, ebook dedicato alla lotta valligiana scritto con la giornalista Chiara Sasso, WuMing1 e Ascanio Celestini. Ieri altri due ragazzi appartenenti ai No Tav sono stati arrestati mentre trasportavano in macchina molotov, maschere antigas, fionde, cesoie, chiodi a quattro punte e altro materiale destinato, secondo gli investigatori, a danneggiare i cantieri dell'Alta Velocità. È proprio questo ultimo episodio a spingere Caselli contro i cosiddetti cattivi maestri. De Luca ha letto le dichiarazioni del magistrato ma non si scompone. Non è un uomo loquace, risponde con fermezza e senza appello. Erri De Luca, ha ragione il procuratore capo di Torino quando paventa il terrorismo No Tav? Caselli esagera. Forse esagera, ma in macchina i due ragazzi arrestati avevano caricato molotov... (sorride ironicamente) ...Sì, pericoloso materiale da ferramenta. Proprio quello che normalmente viene dato in dotazione ai terroristi. Mi spiego meglio: la Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. Nessun terrorismo. Dunque sabotaggi e vandalismi sono leciti? Sono necessari per far comprendere che la Tav è un'opera nociva e inutile. Sono leciti anche quando colpiscono aziende che lavorano per l'Alta Velocità come quella di Bussoleno, chiusa per i continui danneggiamenti? Non si rischia un conflitto tra lavoratori e valligiani? La Tav non si farà. È molto semplice. La posizione è chiara. Ma è antitetica a quella presa dal governo. Non è una decisione politica, bensì una decisione presa dalle banche e da coloro che devono lucrare a danno della vita e della salute di una intera valle. La politica ha semplicemente e servilmente dato il via libera. Di questo passo, afferma Caselli, arriveremo al terrorismo. Lei invece quale soluzione propone? Non so cosa potrà succedere. Mi arrogo però una profezia: la Tav non verrà mai costruita. Ora l'intera valle è militarizzata, l'esercito presidia i cantieri mentre i residenti devono esibire i documenti se vogliono andare a lavorare la vigna. Hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l'unica alternativa. Politicamente come si risolve? Arriverà un governo che prenderà atto dell'evidenza: la valle non vuole i cantieri. E finalmente darà l'ordine alle truppe di tornare a casa.