venerdì 26 aprile 2013

NAPOLITANO DI SAVOIA?

Perché Giorgio Napolitano è il peggiore Presidente della storia della Repubblica dicembre 2012 di Giuseppe Angiuli Quello che ascolteremo nelle prossime ore sarà l’ultimo discorso di fine anno di Giorgio Napolitano pronunciato dalla scrivania di Presidente della Repubblica italiana. È mia ferma impressione che egli sia stato senz’ombra di dubbio – da Enrico De Nicola fino ad oggi - l’uomo peggiore tra tutti coloro i quali hanno ricoperto la carica di Capo dello Stato dal 1948 ad oggi. Provo a spiegarne il perché. Il settennato di “Re George” (2006-2013) verrà verosimilmente identificato con la fase storica in cui la cosiddetta Costituzione materiale del nostro Paese ha subito il suo più clamoroso stravolgimento e le più evidenti manomissioni, con conseguenze purtroppo destinate a lasciare un segno indelebile (oltreché nefasto) nella vita democratica dei cittadini italiani, per un periodo lungo di qui a venire. Intendo affermare che lo spirito con il quale il vecchio (post)comunista napoletano, da sempre sospettato di genealogia regale (1,) ha interpretato il ruolo di Capo dello Stato in questi sette anni, ha finito per imprimere una svolta in senso oligarchico all’assetto dei Poteri dello Stato al punto da porre Giorgio Napolitano aldilà e al di fuori di qualsiasi confronto con tutti coloro i quali lo avevano finora preceduto, facendoci rimpiangere finanche le figure presidenziali più “opache” tra quelle passate dal Quirinale in questi 60 anni, vale a dire Antonio Segni, Giovanni Leone e Francesco Cossiga. Per comprendere appieno la reale gravità delle responsabilità storiche che penderanno a lungo sul capo di Napolitano occorre soffermarsi attentamente sulla locuzione Costituzione materiale. La nozione di Costituzione materiale fu introdotta grazie all’elaborazione del giurista Costantino Mortati in contrapposizione a quella di Costituzione scritta o formale. Accanto alle regole scritte – intendeva spiegare il Mortati – esiste tutta una serie di prassi, atti e comportamenti adottati dagli organi costituzionali, che contribuiscono progressivamente ed inesorabilmente a trasformare di fatto l’assetto dei rapporti civili, sociali e politici tra i cittadini di uno Stato-nazione. In sostanza, oltre alle norme scritte, l’assetto dei poteri di uno Stato soggiace costantemente all’influenza data dai comportamenti concretamente posti in essere dai singoli detentori delle cariche che si avvicendano nella loro effettiva gestione. E dunque, nella storia istituzionale di un Paese, accanto alle norme codificate, si afferma col tempo un insieme di princìpi che, quantunque non presenti formalmente nel corpo della carta costituzionale, assurgono al rango di diritto vivente, assumendo un’importanza che spesso può anche travalicare lo stesso significato letterale delle norme scritte. Pertanto, per verificare quale sia il grado di effettiva democrazia all’interno di un Paese, non è soltanto alla carta costituzionale formale che tocca guardare bensì anche alla Costituzione materiale (2). Orbene, se si analizzano attentamente alcuni comportamenti messi in atto dall’attuale Presidente della Repubblica nel corso del settennato che sta per volgere al termine, non è difficile convincersi che costui abbia attuato dei clamorosi strappi con prassi istituzionali che solo fino a poco tempo fa erano unanimemente considerate intoccabili all’interno delle nostre istituzioni repubblicane. Non è mancato in questi anni chi ha accusato apertamente Napolitano di avere agito non soltanto in violazione delle prassi della nostra Costituzione materiale ma di avere di gran lunga travalicato i confini delle sue stesse funzioni e prerogative formali, così come codificate all’art. 87 della nostra Carta fondamentale (3): a tal proposito, merita di essere quanto meno menzionata la clamorosa azione di cui si è resa protagonista l’avvocatessa sarda Paola Musu, che il 2 aprile del 2012 ha denunciato penalmente Giorgio Napolitano per diversi reati, tra i quali spicca quello di attentato contro la sovranità, l’indipendenza e l’unità dello Stato Italiano, previsto dall’art. 241 del codice penale. La coraggiosa professionista cagliaritana, prendendo spunto dal controverso passaggio politico-istituzionale che nel novembre 2011 aveva visto il tecnocrate Mario Monti proiettato, nel giro di poche ore, dalla cattedra del tempio accademico del pensiero neo-liberista italico (la Bocconi) direttamente a Palazzo Chigi, ha addebitato a Giorgio Napolitano la responsabilità per avere promosso un percorso politico-istituzionale che ci starebbe conducendo da essere una Repubblica democratica, in cui la sovranità appartiene al popolo (come icasticamente recita l’art. 1 della Costituzione) ad una Repubblica aristocratica, cioè quella in cui “alcune famiglie vi godano la suprema potestà” (Montesquieu, “l’èsprit des lois”). Ma senza volere avventurarci nell’esaminare la fondatezza del rilievo penale adombrato dalla Musu nei comportamenti assunti dall’inquilino del Quirinale, è fuor di dubbio che questo settennato si sia caratterizzato per delle situazioni inedite che mai prima d’ora avevano contraddistinto l’operato di un Presidente della Repubblica. Nel nostro ordinamento, la figura del Capo dello Stato, pur rivestendo anch’essa una natura (ovviamente) “politica”, fu concepita dai padri costituenti come quella di un mero arbitro, di un soggetto primus inter pares estraneo alla competizione tra le forze politiche proprio in quanto supremo garante del funzionamento dei meccanismi della democrazia parlamentare. Nessuna norma scritta o prassi prevedono, ad esempio, che il Presidente della Repubblica possa intervenire nel dibattito tra le forze democratiche del Paese, prendendo posizione a favore o contro una particolare scelta politica; men che meno, nessuna norma o prassi prevedono che il Capo dello Stato possa interagire direttamente con gli altri organi costituzionali a carattere decisionale (il Parlamento e l’Esecutivo) al fine di orientarne le scelte fondamentali attorno alle quali si deve sviluppare la libera discussione da cui fare infine scaturire la decisione democratica (4). Giorgio Napolitano, purtroppo per noi, ha fatto entrambe le cose: non soltanto ha agito da vero e proprio attore politico, condizionando pesantemente il “libero agire” delle forze politiche in momenti delicatissimi della dialettica democratica (in cui egli avrebbe dovuto limitarsi ad essere un silenzioso osservatore) ma ha avuto perfino l’ardire di rivolgersi direttamente al Parlamento ed al Governo (creando un precedente gravissimo), intimando loro l’adozione di precise scelte politiche attorno a questioni fondamentali in materia macroeconomica! Due su tutti gli episodi che segnano una rottura con una lunga prassi a cui tutti i precedenti inquilini del Quirinale ci avevano abituati: la guerra di Libia (marzo 2011) e la formazione del Governo dei banchieri a guida Mario Monti (novembre 2011). Quanto alla prima vicenda, difficilmente potremo dimenticare l’immagine di un Presidente della Repubblica che, in occasione dei festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, nel retrobottega del Teatro dell’Opera a Roma, intima al riluttante Berlusconi di dare il suo pieno avallo ai bombardamenti NATO sulla Libia di Gheddafi. Lo so, era già avvenuto che l’Italia partecipasse all’assalto militare ad una nazione sovrana, spacciando ipocritamente tale crimine per una “missione di pace”. Ma mai era avvenuto che lo sfregio all’art. 11 della Costituzione fosse perorato, incoraggiato e vivamente caldeggiato in prima persona proprio da colui il quale dovrebbe ergersi a supremo garante della nostra grundnorm. È vero, già nel 1999 era accaduto che il primo governo guidato da un ex comunista (D’Alema) fornisse il proprio avallo all’assalto imperialista alla Jugoslavia di Milosevic ma in quel caso lo scaltro Ciampi si era limitato a chiudere tutti e due gli occhi, senza essere l’artefice diretto di una scellerata decisione politica già presa da D’Alema medesimo col pieno apporto di Francesco Cossiga (il quale nelle sue memorie parla apertamente di una scelta assunta nel corso di una “cena a tre” con l’ambasciatore U.S.A. a Roma). Ma anche la sfrontata risolutezza con la quale Napolitano si è rivolto al Governo-Berlusconi ed allo stesso Parlamento italiano per invitarli ad ossequiare il prima possibile i contenuti della lettera-diktat dell’agosto 2011 a firma Draghi-Trichet grida giustizia. Contrariamente a quanto viene fatto credere all’opinione pubblica, le scelte di cosiddetta austerity economica “suggeriteci” dalla Troika B.C.E.-F.M.I. e dalla “sergente di ferro” Angela Merkel, lungi dal costituire degli impegni cui l’Italia doveva necessariamente tenere fede in ossequio a non ben precisati princìpi superiori, costituivano delle decisioni di politica economica che, in una democrazia che è tale non solo sulla carta, non possono che costituire il frutto di una meditata e prolungata discussione tra le forze parlamentari, anziché il risultato di una mera imposizione autoritaria: è sotto gli occhi di tutti, dunque, che Giorgio Napolitano, in tale precisa occasione, ha agito apertamente - come mai prima d’ora era accaduto nella storia d’Italia – non già da supremo garante degli interessi del popolo italiano bensì da curatore degli interessi del capitalismo finanziario europeo e dei suoi organismi tecnocratici sovranazionali. La gravità senza precedenti dello strappo istituzionale di cui si è reso protagonista Napolitano sta tutta qui: se alcuni suoi predecessori avevano forse trescato nell’ombra per condizionare l’andamento della vita politica del Paese, egli ha agito sfrontatamente e spudoratamente, alla luce del sole. E così, mentre il vecchio Antonio Segni, nel 1963, aveva avuto il pudore istituzionale di “amoreggiare” dietro le quinte coi Carabinieri del Generale De Lorenzo al fine di scoraggiare con ogni mezzo l’insediamento del gabinetto di centro-sinistra a guida Moro-Nenni (pagandone poi le conseguenze con la sua improvvisa defenestrazione dal Quirinale), Lord George non ha avuto alcun timore di dettare al Parlamento, davanti alle telecamere, quale dovesse essere il Governo da insediare a Palazzo Chigi al posto di Berlusconi, da chi tale nuovo Esecutivo dovesse essere diretto e quale programma politico esso dovesse pedissequamente perseguire. Se il vecchio Leone, negli anni ’70 del secolo scorso, aveva dovuto reagire con pudico imbarazzo alle aggressioni della stampa dell’epoca che lo volevano protagonista di ogni sorta di scandalo, il nostro King George non ha avuto alcun pudore nell’intimare al C.S.M. l’inutilizzabilità di scottanti intercettazioni telefoniche che lo vedevano come (indiretto?) protagonista. Sì, lo so a cosa pensate. Anche Francesco Cossiga, il “gattosardo”, si era caratterizzato, specie nell’ultima parte del suo settennato, per l’utilizzo di un linguaggio poco consono a quello di un arbitro imparziale nella contesa politica. Ma, a ben rivedere i fatti dell’epoca del crepuscolo della Prima Repubblica (1991-92), si capisce che i latrati disordinati del Presidente dell’epoca costituivano un grido quasi irrazionale di un uomo ferito nell’orgoglio il quale, avendo bene compreso che qualcuno “molto in alto” stava azzerando tutti i protagonisti di primo piano della scena politica del tempo, cercava disperatamente di ritagliarsi almeno un posto al sole all’interno della nascente Seconda Repubblica, evitando di fare la fine riservata a Craxi e ad Andreotti. Questo era, a mio avviso, il reale intento delle sue “picconate”. Ma è difficile affermare che Cossiga, con le sue esternazioni spesso scriteriate (ed anche probabilmente favorite da una psiche caratteriale non proprio immune da squilibri), ebbe ad influenzare in modo decisivo gli eventi di quella fase della storia repubblicana: ben altre erano allora le forze in campo a dirigere le danze. Quel che colpisce dell’attivismo di Napolitano è che costui, a differenza di Cossiga, è sempre apparso lucidissimo nei suoi freddi intenti di mestatore del gioco politico. Soltanto i poco e male informati possono sorprendersi di un atteggiamento così servizievole e zelante verso i Poteri Forti come quello messo in atto da Re Giorgio nel corso del suo settennato. Non tutti sanno che a costui toccò il compito, nel 1978, di compiere il primo viaggio negli Stati Uniti di un uomo del Comitato Centrale del P.C.I., inaugurando una lunga stagione di fiancheggiamento che avrebbe portato il (fu) Partito della classe operaia italiana a diventare il supremo garante in Italia degli interessi del capitalismo finanziario trans-nazionale. Dopo avere trovato gli “agganci” giusti negli States, il Nostro fu battezzato da Henry Kissinger come “il mio comunista preferito” e compì un lungo lavoro di limatura dei rapporti che avrebbe portato i dirigenti dell’ex-PCI, tra il 1989 ed il 1992, a stipulare degli accordi strategici di lunga durata con i Poteri Forti (non solo americani) della politica e dell’economia: da una parte gli ex comunisti garantirono la loro inerzia silenziosa di fronte all’avvio del ciclo delle privatizzazioni, dall’altra parte ottennero in cambio quella legittimazione a partecipare al governo del Paese che fino ad allora non avevano potuto avere a causa del loro legame storico con l’Unione Sovietica. Dio solo sa quanti e quali sciagure sono derivate al nostro Paese da questo genere di “patti”. Dio solo sa quante altre ne deriveranno prima che la massa critica degli italiani possa iniziare davvero a capire tutto ciò. Voglio chiudere ricordando un’ultima perla lasciataci dal “comunista preferito da Kissinger” (ed anche dagli israeliani): in un incauto discorso pubblico pronunciato nel gennaio 2007, il Nostro ebbe a dichiarare il proprio sdegnato No all’antisemitismo, “anche quando esso si travesta da antisionismo”, contribuendo così ad alimentare una imperdonabile e dannosissima confusione semantica tra due concetti che è sempre bene tenere distinti, quelli di ebraismo e sionismo (5). Domenica 30 Dicembre 2012 Giuseppe Angiuli 1 E’ abbastanza noto il pettegolezzo che vorrebbe Giorgio Napolitano figlio di Re Umberto II di Savoia, il quale lo avrebbe generato nel corso di una relazione extraconiugale avuta con una delle dame di compagnia della regina Maria Josè. 2 Operando un parallelismo non del tutto fuori luogo, i sostenitori ideologici della recente destabilizzazione della Libia di Gheddafi ad opera della NATO facevano spesso riferimento ai poteri autocratici che il colonnello esercitava di fatto nel sistema politico della nazione africana (ossia nella Costituzione materiale di quel Paese), ancorchè egli non ricoprisse formalmente alcuna carica istituzionale se non quella simbolica di “leader della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista”. 3 Art. 87: “Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica”. 4 L’unico strumento che la Costituzione affida al Capo dello Stato per interloquire direttamente col Parlamento è costituito dal messaggio alle camere, al quale diversi Presidenti sono ricorsi in passato per raccomandare il rispetto di meri princìpi a carattere generale, come ad esempio fece Ciampi nel 2002 perorando il rispetto della democrazia nell’informazione. 5 Una memorabile risposta alle improvvide parole di Napolitano pervenne da Mauro Manno, compianto studioso napoletano del sionismo, cfr. G. Angiuli, La fondamentale differenza tra ebraismo e sionismo, pubblicata su questo stesso blog

martedì 23 aprile 2013

Barbara Spinelli seppellisce il PD.

Barbara Spinelli, per cinquanta giorni il Pd ha detto di non voler fare un accordo con Berlusconi. Poi ha cercato l'intesa con il Pdl per il Colle e ora parteciperà a un governo "di larghe intese". A quale Pd dobbiamo credere? Quando ci sono simili contraddizioni conta il risultato. La scelta di Marini, chiara apertura all'intesa con Berlusconi, ha rivelato che c'era del marcio nelle precedenti proposte a Grillo. Io ero a favore d'un accordo Pd-M5s, ma quel che è successo significa che in parte mi illudevo sulle reali intenzioni del Pd. Bene ha fatto Grillo, forse, a essere diffidente. Civati ha detto: "I traditori diventeranno ministri". Condivido il laconico giudizio, come molti suoi giudizi. I traditori, anche se hanno democraticamente votato, faranno il governo. La base del Pd si è fatta sentire. Alcuni commentatori hanno criticato l'idea che la politica si faccia "con i social network": tra questo e il non ascoltare i propri elettori e dirigenti - sono state occupate sedi del Pd in mezza Italia - c'è una bella differenza. Sono anni che il Pd non ascolta i cittadini, il popolo tout court. Vorrei ricordare due atti simbolici. Il primo fu di Napolitano: "Non sento alcun boom di Grillo", e invece il boom c'era, eccome. Il secondo è della senatrice Finocchiaro. Dopo il voto a Marini, davanti alla base in rivolta, ecco l'incredibile frase: "Ma che vogliono? Io non vedo la base!". Il Pd non vede il Paese. Perché questa criminalizzazione poi, della rete? Dire che è tutta colpa dei social network, dire che i nuovi parlamentari sono "inadeguati" (parola di Bindi): qui è l'irresponsabilità denunciata ieri da Napolitano. Inadeguati a che? A che magnifica e progressiva condotta del Pd? Che fine faranno le promesse sull'ineleggibilità di Berlusconi? Non bisogna mai fasciarsi la testa prima di rompersela. Se si vuol mettere in risalto il tradimento Pd, bisogna far finta che abbiamo preso sul serio le dichiarazioni di tanti di loro, in favore della ineleggibilità. Si rimangeranno anche questa promessa? Continueranno a screditarsi, grottescamente. Oltre a non ascoltare la base, il Pd non ha dato retta anche a molti dei propri parlamentari. Non ha ascoltato Sel, con cui era alleato. Ma neanche i due padri fondatori della sinistra del dopo Muro di Berlino: Stefano Rodotà e Romano Prodi. Il parricidio in politica può esser positivo, ma bisogna che i figli costruiscano il nuovo. In questo caso hanno ucciso i padri per mettere il regno nelle mani di Berlusconi. L'età non basta. Questa storia finisce con la polverizzazione del Pd. Peggio: con la plausibile vittoria Pdl alle prossime elezioni, e Berlusconi capo dello Stato dopo Napolitano. Il professor Rodotà ha scritto su Repubblica che bisognerebbe interrogarsi sui motivi per cui personalità della sinistra siano state snobbate pubblicamente dagli attuali rappresentanti della sinistra. Questa è la domanda. Siamo immersi nel romanzo di Saramago, La cecità: il Pd non vedendo il Paese non ha visto nemmeno le persone del proprio campo che negli anni hanno stabilito un contatto con le Azioni Popolari dei cittadini. Quando le Quirinarie le hanno scelte come propri simboli, il Pd ha detto: sono persone di Grillo, non ci umilieremo assoggettandoci . Follia. Tra l'altro: perché non li hanno fatti sin da principio loro, quei nomi? Nella scelta fra trattare con Grillo per Rodotà - un uomo sulla cui fedeltà alle istituzioni e alla Carta non c'è alcun dubbio - e trattare con Berlusconi , si è optato per la seconda strada. Inspiegabile. Una parte del Pd è forse ricattabile, a cominciare dalla vicenda Monte dei Paschi di Siena. Non è meno forte quella che chiamerei "schiavitù volontaria". C'è stata una pressione forte anche dagli attuali vertici d'Europa: la vittoria del M5s ha creato solidarietà attorno al vecchio establishment contro il cosiddetto populismo di Grillo: ne ha profittato il vero populista , Berlusconi. Ma lui è già metabolizzato. Rodotà non sarebbe stato solo uno dei migliori garanti delle istituzioni, ma - come Prodi - uno dei più autorevoli garanti dell'europeismo. Non dimentichiamo che è l'estensore della Carta europea dei diritti: vincolante per tutti i Paesi membri. Non esiste solo il plebiscito dei mercati. C'è anche un'Europa più democratica verso cui tanti vogliono andare. Il professor Rodotà ha anche detto, rispondendo a Eugenio Scalfari, che se vogliamo fare esami di costituzionalità dobbiamo passare al vaglio tutti i partiti, non solo il M5s. Bisogna guardare alla Lega secessionista, al Pdl delle leggi ad personam. D'accordo? Sì. Se si parla di incostituzionalità di Grillo e poi si avalla l'accordo con Berlusconi, vuol dire che la costituzionalità è vana esigenza. D'altronde vorrei sapere cosa precisamente sia incostituzionale nel M5s. Perché se Berlusconi parla di golpe, come ha fatto due giorni prima delle votazioni per il Colle, nessuno dice nulla e se lo fa Grillo si grida all'eversione? Quante volte abbiamo sentito questa parola detta da Berlusconi! Se lo fa lui è normale amministrazione, se lo fa Grillo è eversivo. Scalfari ha scritto che non gli è proprio venuto in mente il nome di Rodotà per il Quirinale. Non so Scalfari. Mi interessano i politici. Se aspiri all'inciucio, il nome di Rodotà certo non ti viene in mente. Sul sito del Corriere della Sera il più votato come premier ideale è Rodotà. Sul sito della Stampa - dove tra tanti, il nome del professore non c'è - il più votato è "nessuno di questi". Come lo interpretiamo? Come prova che la maggioranza delle persone non vuole l'accordo con B. Napolitano aveva più volte detto di escludere la propria ricandidatura. Mi scandalizza meno questo del fatto che il Capo dello Stato sostenga da tempo, con tenacia, le larghe intese.

lunedì 22 aprile 2013

Travaglio fa il funerale al Napolitano-bis.

Napolitano bis, Funeral Party. di Marco Travaglio | 22 aprile 2013. La scena supera la più allucinata fantasia dei maestri dell’horror, roba da far impallidire Stephen King e Dario Argento. Il cadavere putrefatto e maleodorante di un sistema marcio e schiacciato dal peso di cricche e mafie, tangenti e ricatti, si barrica nel sarcofago inchiodando il coperchio dall’interno per non far uscire la puzza e i vermi. Tenta la mission impossible di ricomporre la decomposizione. E sceglie un becchino a sua immagine e somiglianza: un presidente coetaneo di Mugabe, voltagabbana (fino all’altroieri giurava che mai si sarebbe ricandidato) e potenzialmente ricattabile (le telefonate con Mancino, anche quando verranno distrutte, saranno comunque note a poliziotti, magistrati, tecnici e soprattutto a Mancino), che da sempre lavora per l’inciucio (prima con Craxi, poi con B.) e finalmente l’ha ottenuto. E con una votazione dal sapore vagamente mafioso (ogni scheda rigorosamente segnata e firmata, nella miglior tradizione corleonese). Pur di non mandare al Quirinale un uomo onesto, progressista, libero, non ricattabile e non controllabile, il Pd che giurava agli elettori “mai al governo con B.” va al governo con B., ufficializzando l’inciucio che dura sottobanco da vent’anni. Per non darla vinta ai 5Stelle, s’infila nelle fauci del Caimano e si condanna all’estinzione, regalando proprio a Grillo l’esclusiva del cambiamento e la bandiera di quel che resta della sinistra (con tanti saluti ai “rottamatori” più decrepiti di chi volevano rottamare). La cosa potrebbe non essere un dramma, se non fosse che trasforma la Repubblica italiana in una monarchia assoluta e la consegna a un governo di mummie, con i dieci saggi promossi ministri e il loro programma Ancien Régime a completare la Restaurazione. Viene in mente il ritorno dei codini nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, con la differenza che qui non c’è stata rivoluzione né s’è visto un Napoleone. Ma il richiamo storico più appropriato è Weimar, con i vecchi partiti di centrosinistra che nel 1932 riconfermano il vecchio e rincoglionito generale von Hindenburg, 85 anni, spianando la strada a Hitler. Qui per fortuna non c’è alcun Hitler all’orizzonte. Però c’è B., che fino all’altroieri tremava dinanzi al Parlamento più antiberlusconiano del ventennio e ora si prepara a stravincere le prossime elezioni e salire al Colle appena Re Giorgio abdicherà. A meno che non resti abbarbicato al trono fino a 95 anni, imbalsamato e impagliato come certi autocrati, dagli iberici Salazar e Franco ai sovietici Andropov e Cernenko, tenuti in vita artificialmente con raffinate tecniche di ibernazione e ostesi in pubblico con marchingegni alle braccia per simulare un qualche stato motorio. Ieri, dall’unione dei necrofili di sinistra e del pedofilo di destra, è nato un regime ancor più plumbeo di quello berlusconiano e più blindato di quello montiano, perché è l’ultima trincea della banda larga che comanda e saccheggia l’Italia da decenni, prima della Caporetto finale. Prepariamoci al pensiero unico di stampa e tv, alla canzone mononota a reti ed edicole unificate. Ne abbiamo avuto i primi assaggi nelle dirette tv, con la staffetta dei signorini grandi firme che magnificavano l’estremo sacrificio dell’Uomo della Provvidenza e del Salvatore della Patria, con lavoretti di bocca e di lingua sulle prostate inerti e gli scroti inanimati delle solite cariatidi. Le famose pompe funebri. Ps. Da oggi Grillo ha una responsabilità infinitamente superiore a quella di ieri. Non è più solo il leader del suo movimento, ma il punto di riferimento di quei milioni di cittadini (di centrosinistra, ma non solo) che non si rassegnano al ritorno dei morti morenti e rappresentano un quarto del Parlamento. A costo di far violenza a se stesso, dovrà parlare a tutti con un linguaggio nuovo. Senza rinunciare a chiamare le cose col loro nome. Ma senza prestare il fianco alle provocazioni di un regime fondato sulla disperazione, quindi capace di tutto. Il Fatto Quotidiano, 21 Aprile 2013

domenica 21 aprile 2013

Era già tutto previsto.

Napolitano, era tutto studiato. di Antonio Padellaro | 21 aprile 2013. C’è un filo rosso che porta allo sconcertante bis di Giorgio Napolitano, parte da lontano e si chiama governo delle larghe intese con Berlusconi. È una lampante verità che sul Colle delle bugie e dei nastri cancellati nessuno può negare, scolpita sui moniti che d’ora in poi saranno legge. Quel filo del Quirinale, nel dicembre 2011 dopo la disastrosa caduta del governo B., impedisce le elezioni anticipate. Come mai? Forse era chiaro che, con il crollo annunciato della destra, il Pd vincitore avrebbe potuto imporre senza problemi il proprio capo dello Stato? E perché quando, nel dicembre scorso, Monti si dimette, non viene rispedito alle Camere per verificare la fiducia? Forse perché il timing, perfetto, consentiva alla presidenza di gestire non solo le elezioni,ma anche il dopo? Il pareggio auspicato e raggiunto, il mezzo incarico a Bersani, lo stop a M5S che chiede un premier fuori dai partiti, la melina dei “saggi”. Tutto per arrivare paralizzati all’elezione del Presidente e quindi all’inevitabile rielezione? Forse il piano non era così diabolico, forse l’encefalogramma piatto dei partiti ha permesso a Napolitano di orchestrare la crisi come meglio voleva. Ma è difficile credere che, dopo aver respinto fino alla noia ogni offerta per restare, il navigato politico abbia ceduto in un paio d’ore alle suppliche di alcuni presunti leader alla canna del gas. Si è fatto rieleggere,vogliamo credere, non per sete di potere (a 88 anni!), ma per governare l’inciucio che nella sua testa è l’unico strumento per controllare un Paese allo sfascio. E per tenere lontano quell’eversore di Grillo che crede addirittura nella democrazia dei cittadini. Non s’illuda, però: davanti ai problemi giganteschi degli italiani (e alle piazze in fermento), questa monarchia decrepita e grottesca è solo uno scudo di paglia. D’ora in poi questi politici inetti e disperati il conto lo faranno pagare a lui. Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2013 I poteri forti che hanno fermato Rodotà. di Mauro Barberis,da Il Secolo XIX. In momenti come questi, il più grande servizio che un intellettuale e un giurista possono rendere al loro Paese è spiegare cosa sta succedendo. L’altra sera ero a cena con Stefano Rodotà, il candidato e l’uomo limpido che mi onora della sua amicizia. Eravamo entrambi relatori al Festival della laicità di Reggio Emilia, con la differenza che lui, ovviamente, teneva la relazione di apertura, e neppure in questa occasione ha voluto venir meno ai suoi impegni. Tutto quello che dirò lo penso io, non lui; questo non è uno scoop giornalistico: con tutto il rispetto che lui e io portiamo per il giornalismo, noi facciamo un altro mestiere. A un certo punto della serata, quando erano ormai arrivate le notizie della sconfitta di Prodi, impallinato dai franchi tiratori del Pd, e circolavano le voci delle dimissioni di Bersani e della Bindi, nel silenzio generale gli ho chiesto, alla presenza di molti amici, quanto segue. «Stefano, a questo punto la situazione è chiara, il Pd è imploso e non è più in grado di esprimere alcuna candidatura, può soltanto scegliere fra candidature altrui. O vota il candidato di Berlusconi, o vota il candidato di Grillo, cioè te: altrimenti di qui non si esce. Ora, la domanda è: perché non scelgono te, come farei ovviamente io? Perché sceglieranno chiunque altro, ma non te? Perché non ti hanno scelto sin dall’inizio, nonostante tutti gli amici che hai nel Pd?». Qui, ripeto, non riporterò quello che lui mi ha risposto. La mia opinione, però, ricavata da quello che lui mi ha detto, è che contro la candidatura Rodotà, che rischiava di essere condivisa anche da molti democratici, siano scesi in campo poteri forti, anzi fortissimi. Anche questa è una formula mia, naturalmente: Stefano si esprimerebbe in modo molto meno rozzo. Ma la sostanza è questa. Contro di lui, relatore al Festival della laicità ma soprattutto inflessibile difensore dei diritti delle minoranze, non ha pesato tanto l’ostilità del primo potere forte, la Chiesa: oltretevere gli equilibri sono molto cambiati, dopo l’elezione di papa Francesco, d’ora in poi la Chiesa guarderà meno all’Italia e più al mondo, e poi se si fosse trattato solo di questo sarebbe stato eletto il cattolico adulto Prodi, a favore del quale Rodotà era dispostissimo a rinunciare alla propria candidatura. Un secondo potere forte che è stato decisivo contro Rodotà è stato il potere economico e finanziario, che ha bisogno non di riforme ma di stabilità, dei vecchi equilibri di potere per continuare a fare i propri affari, e che non sarebbe stato garantito da un giurista di sinistra, difensore dei diritti dei consumatori, ostile alle privatizzazioni e teorico dei beni pubblici, ma soprattutto indisponibile a prestarsi ai vecchi giochetti. Queste sono ancora parole mie, ma non credo che l’amico Stefano possa mai smentirmi su questo, neppure diplomaticamente. Infine, c’è un terzo potere forte, che ipotizzo io sulla base di tutto quello che so, prendendomene tutte le responsabilità. Non ho mai creduto ai complotti, eppure l’impazzimento del nostro sistema politico registratosi in questi giorni, la decisione di Napolitano di candidarsi dopo aver sempre detto che non lo avrebbe mai fatto, la stessa ipotesi Amato per palazzo Chigi hanno una spiegazione ulteriore e molto semplice, abbastanza nota agli addetti ai lavori. Il terzo potere forte ostile a Rodotà è la massoneria: non quella deviata, le varie P2 e P3, ma quella “buona”, cui aderiscono molti insospettabili di tutti i partiti, anche di sinistra o pretesa tale. Aggiungo un’ultima cosa per chiarire la mia posizione. Rosy Bindi aveva detto che se Marini era il Presidente del governissimo con Berlusconi, non era il suo Presidente. Lo ripeto anch’io per il Presidente Napolitano, che sino a oggi avevo sempre difeso. Se è il Presidente dei poteri forti, allora non è il mio Presidente.

giovedì 11 aprile 2013

Emma Bonino, berlusconiana recidiva.

di Marco Travaglio, da il Fatto quotidiano, 10 aprile 2013. (immagini da dagospia). Quando ho scritto “Si fa presto a dire Bonino”, la sapevo apprezzata da molti italiani per le caratteristiche che illustravo nelle prime righe: donna, competente, onesta, impegnata per i diritti civili, umani e politici in tutto il mondo. Non la sospettavo, però, circondata di persone adoranti che la guardano con gli occhi che dovevano avere i pastorelli di Fatima davanti alla Madonna. A questi innamorati che non sentono ragioni, anzi preferiscono non conoscere o non ricordare le zone d'ombra (solo politiche, lo ripeto) della sua lunghissima carriera politica, non so che dire: al cuore non si comanda. Rispondo invece alle cortesi obiezioni del segretario radicale Mario Staderini, il quale – diversamente da me – la ritiene il presidente della Repubblica ideale. E, per nobilitarla e dipingerla come antropologicamente estranea al berlusconismo, cita alcuni suoi imbarazzanti avversari (Ferrara, Gasparri, Libero). Potrei rispondere che invece Mara Carfagna la vuole al Quirinale, ma preferisco concentrarmi sulla biografia della Bonino. Chi auspica un Presidente estraneo alla casta, tipo Zagrebelsky, Settis, Gabanelli, Caselli, Guariniello, Strada e altri, non può certo sostenere la Bonino, 8 volte parlamentare italiana e 3 volte europea. I suoi amici la raffigurano come un'outsider estranea all'establishment. Che però non è d'accordo: altrimenti la Bonino non sarebbe stata invitata a una riunione del gruppo Bilderberg, o almeno non ci sarebbe andata. Sulla sua vicinanza, “fra alti e bassi”, al Polo berlusconiano dal 1994 (quando fu eletta con Forza Italia fino al '96, senza dire una parola contro le prime violenze alla Giustizia e alla Costituzione) al 2006, ci sono tonnellate di articoli di giornale, lanci di agenzia, esternazioni, vertici, incontri, tavoli, inseguimenti, corteggiamenti, ammuine. Il tutto mentre il Caimano ne combinava di tutti i colori, nel silenzio-assenso della Bonino (che ancora nel 2004 veniva proposta da Pannella per un posto di ministro; e nel 2005 dichiarava: “Con Berlusconi abbiamo iniziato un lavoro molto serio... apprezziamo ciò che sta facendo come premier, ma la posizione degli alleati è nota”: insomma cercava disperatamente l'alleanza con lui, che alla fine la scaricò per non inimicarsi “gli alleati” e il Vaticano). Poi la Emma passò armi e bagagli col centrosinistra e cambiò musica. Un po' tardi, a mio modesto avviso. Ma neppure in seguito, sulle questioni cruciali del berlusconismo (leggi vergogna, rapporti con la mafia, corruzioni, attacchi ai magistrati e alla Costituzione, conflitti d'interessi, editti bulgari e postbulgari), risulta un solo monosillabo della Bonino. Forse perché, pur con motivi molto diversi, sulla giustizia B&B hanno sempre convenuto: separazione delle carriere, abolizione dell'azione penale obbligatoria (altro che difesa della “Costituzione più bella del mondo”, caro Staderini), per non parlare dell'idea intimidatoria e pericolosa della responsabilità civile dei magistrati che non esiste in nessun'altra democrazia. La corrispondenza di amorosi sensi con B. si estende al No radicale all'arresto di Cosentino perchè “siamo contro l'immunità parlamentare, però esiste”. Al fastidio per i sindacati, definiti in blocco “barbari, oscurantisti e retrogradi” (Ansa, 22-1-2000). E alla lettura dell'inchiesta Mani Pulite come operazione politica filocomunista: per la Bonino le tangenti di Craxi furono solo “errori” e occorre “una rivisitazione seria di cosa è successo dal '90 in poi: la mia analisi è che indubbiamente, soprattutto nel '92, si è cercato di risolvere alcuni problemi politici per vie giudiziarie, un po' orientate perchè poi se n'è salvato uno solo di partito” (Ansa, 19.11.99). Per non parlare dello scandalo delle frequenze negate per dieci anni a Europa7 per non disturbare Rete4 che le occupava abusivamente. Il 1° aprile 2007, ministro delle Politiche europee del governo Prodi-2, la Bonino porta in Consiglio dei ministri tutte le sentenze della Corte di giustizia europea per darne finalmente attuazione. Tutte, tranne una: quella che dà ragione a Europa7 e torto al gruppo B. Una cronista le chiede il perchè, e lei risponde che non c'è alcuna urgenza (in effetti Europa7 attende le frequenze negate solo dal 1999, quando vinse la concessione e Rete4 la perse). C'è poi il bilancio di Commissario europeo dal 1994 al '99 su nomina di B., quando, insieme a battaglie sacrosante, la Bonino sponsorizza i cibi Ogm senza etichettatura.E soprattutto sostiene l'insensata sospensione degli aiuti all'Afghanistan, dopo una sfortunata missione a Kabul in cui è stata fermata dalla polizia religiosa perchè i suoi collaboratori fotografano e filmano il volto delle donne, in barba alla legge islamica. Durante la guerra in Afghanistan - da lei appoggiata come quelle nell'ex Jugoslavia e in Iraq (“Io credo che non ci fosse alternativa per sconvolgere la rete terroristica: se mandiamo il messaggio che dopo le torri di New York possono bombardare, senza colpo ferire, anche il Colosseo e la Torre Eiffel, non ci dà sicurezza”) - la Bonino si oppone alla sospensione dei bombardamenti proposta dall'Ulivo per aprire un corridoio umanitario agli aiuti ai profughi (“servirebbe solo ai talebani per riorganizzarsi”, Ansa 2-11-2001). NEL 2007, poi, durante il sequestro Mastrogiacomo, non trova di meglio che prendersela con Gino Strada, accusandolo di trescare con i talebani col suo “atteggiamento ambiguo, tra l'umanitario e il politico, che si può prestare a qualunque illazione”, perchè “scientemente o incoscientemente - che sarebbe ancora peggio - finisce per giocare un ruolo che è sempre un ruolo ambiguo, tra torturati e torturatori. Quando uno si mette a praticare una linea così ambigua, così poco limpida, si presta a qualunque gioco altrui. Nell'illusione di tirare lui le fila, finisce che il burattinaio non è lui” (Ansa, 9.4.2007). A proposito di ambiguità fra torturati e torturatori, ho cercato disperatamente nell'archivio Ansa una parola della Bonino su Abu Ghraib e su Guantanamo. Risultato: non pervenuta. (10 aprile 2013)

mercoledì 10 aprile 2013

REALPOLITIK.

QUANDO L'AMERICA VOTA PER IL QUIRINALE. Concita De Gregorio, per "la Repubblica". L'ombra dell'America è verde come il colore dei dollari. Tuona come le armi che varcano l'oceano in perpetuo e spesso illecito commercio. Parla la lingua dei banchieri, la sola lingua degli affari. Si affaccia sull'Italia dalla postazione mediterranea di Israele, si ammanta del velluto della diplomazia quando riunisce a convegno i potenti del mondo, a centinaia e a porte chiuse, in esclusive dimore in cui confortati da coppe d'argento colme di praline si discute di come "favorire le relazioni economiche fra blocchi". DI SOLDI, in pratica. Di soldi e di chi li gestisce. C'è un momento esatto della storia in cui tutto questo, di solito materia per complottisti appassionati della letteratura di genere, diventa chiaro e inconfutabile. È un discorso pubblico. Quello che il senatore Frank Church fa al Senato degli Stati Uniti mentre esibisce le prove - trascrive il New York Magazine, siamo nel 1976 - che «la Lockheed corporation ha pagato tangenti in almeno 15 paesi e in almeno sei ha provocato crisi di governo». Uno di quei Paesi è l'Italia. Il presidente in carica è Giovanni Leone. La Lockheed, colosso dell'industria aeronautica usa, paga uomini di stato e di governo per piazzare i suoi aerei. Il loro delegato in Italia si chiama Antonio Lefebvre. Compare tra le carte uno scambio di assegni per 140 milioni fra Lefebvre e la signora Leone. Il nome in codice del destinatario di quel denaro è - si dice a voce alta nelle aule del Senato Usa - Antelope Cobbler. Ma forse c'è un errore di trascrizione, è gobbler non cobbler. In questo caso sarebbe: chi mangia l'antilope. Una disdetta chiamarsi proprio in quel momento Leone. I giornali deducono, è un massacro. Più o meno negli stessi anni, a partire da un decennio prima, i soldi della Lockheed avevano cominciato ad arrivare copiosissimi al principe consorte dei Paesi Bassi, Bernardo, in cambio dell'acquisto di forniture di Starflighter e altre cortesie. Il Principe Bernardo è stato - per coincidenza - il primo presidente della Bilderberg, associazione di finanzieri, banchieri, politici e uomini di Stato fondata nel '54 allo scopo di "favorire la cooperazione economica fra Stati Uniti ed Europa". I membri del gruppo, circa 130, si riuniscono ogni anno in un conclave a porte chiuse. Sempre in un paese diverso, ogni 5 anni in America, sempre in primavera inoltrata. La prossima riunione sarà forse vicino a Londra, forse la prima settimana di giugno. E' un segreto. Pochissimi gli italiani ammessi. Tra gli ultimi John Elkann, Gianni Letta, Franco Bernabè. Negli anni e nei decenni precedenti Tremonti, Monti, Draghi, Padoa Schioppa, Siniscalco, Prodi, finchè erano in vita naturalmente gli Agnelli, l'ex ministro Ruggiero, prima ancora Giorgio La Malfa Claudio Martelli Virginio Rognoni. Ogni tanto qualche giornalista, una volta Veltroni, una Emma Bonino. Ai grandi gruppi economico-politici internazionali, alla finanza e dunque alla politica nordamericana interessa molto e moltissimo chi governa, chi comanda, chi ha influenza in Europa, e in subordine in Italia. Gli ambasciatori sono per loro missione di questo curiosi, prediligono le anticipazioni. Ricevono politici in ascesa, annusano l'aria che tira. L'attuale ambasciatore Thorne ha per esempio grandissimo interesse per Beppe Grillo e per il suo movimento, interesse decuplicato dalla prospettiva eventuale di un referendum anti-euro che, come si capisce, non arrecherebbe alcun danno alla supremazia del dollaro come moneta di riserva. Reginald Bartholomev, ambasciatore dal ‘93 al ‘97, gli anni di Scalfaro, ha raccontato poco prima di morire a Maurizio Molinari, era l'agosto del 2012, delle relazioni del consolato di Milano con il pool di Mani pulite e delle sue con i leader politici: «Venne una delegazione dc, erano tristissimi, sembrava un funerale». Prodi voleva essere ricevuto subito da Clinton, ma non si poteva. Con Massimo D'Alema si sviluppò «un rapporto che sarebbe durato nel tempo». Gli ambasciatori sondano, fanno ricevimenti, conoscono i nuovi, coltivano l'interesse del loro Paese. Sono in stretta relazione coi gruppi di affari e di discussione politica dove nascono intese. Uno è il gruppo Bilderberg, un altro è l'entourage della banca d'affari Goldman Sachs che si è avvalsa nel tempo dei consigli di Prodi, Draghi, Monti, Gianni Letta. Uno è l'Aspen, che in Italia conta su Amato Prodi e D'Alema, un altro ancora è la Trilaterale fondata da Rockefeller nel giugno del ‘73 con lo scopo di "favorire le relazioni fra Europa, Usa e Giappone". Monti l'ha presieduta fino al 2011. La frequentano la consulente per la politica estera di D'Alema Marta Dassù, il giovane Elkann, Enrico Letta, Carlo Pesenti, Guarguaglini, Sella di banca Sella, Sala di Intesa San Paolo, vari esponenti di Confindustria. Molti anni fa Kissinger e Agnelli, oggi i loro eredi. «Giulio Andreotti era amico personale di Rockefeller, il fondatore della Trilaterale. Moltissime volte il banchiere lo ha pregato di fargli l'onore di partecipare ai loro incontri, posso testimoniarlo - racconta Paolo Cirino Pomicino, vecchio dc - Andreotti non ha mai accettato perché, diceva, la politica e i banchieri fanno mestieri diversi, è bene che non si mescolino». Non è vero, non è questa la ragione. Questo era quel che Andreotti diceva, certo, ma ciò che gli ebrei d'America non gli perdonavano era in realtà la sua attenzione alla causa palestinese - tra le altre il suo essere filoarabo in nome di una ricerca del dialogo fra i popoli che nella tradizione dc ha avuto un campione in La Pira. Il suo sguardo a un'altra parte di mondo, ad altri interessi e, in Europa, ad altro tipo di famiglie che in quanto a potere e liquidità potevano competere con i banchieri americani. Altre banche, in un certo senso, che gli consentivano di dire agli Usa: no, grazie. Non è del resto un caso che Andreotti non sia mai stato eletto al Quirinale. Dice ancora Pomicino, in procinto di presiedere al Parco dei Principi di Roma, il 12, un convegno su "politica ed economia nel nuovo quadro politico": «Senza le credenziali degli americani e in specie delle grandi banche d'affari oggi nessuno può pensare di aspirare seriamente al Quirinale. Del resto nessuno dei presidenti italiani è stato mai davvero sgradito all'America. Anzi. Tutt'al più, quando era irrilevante, è stato ignorato». Nessuno può farcela senza le credenziali giuste. E' sempre stato così. Il primo pensiero di Einaudi, appena insediato nel maggio ‘48, fu di mandare un telegramma amichevolissimo a Truman. Quello di Gronchi di farsi perdonare dell'essere stato eletto coi voti del Pci, e pazienza se la visita ad Eisenhower fu funestata da un'improvvida intervista preventiva in cui Gronchi diceva che sarebbe stato utile riconoscere la Cina popolare e ammetterla all'Onu. Henry Luce, proprietario del Time, ne riferì sul suo giornale. Sua moglie Claire Booth, ambasciatrice in Italia, se ne lagnò con parole vivaci. Fu il Washington Post a liquidare la questione: il presidente italiano non conta nulla, è solo decorativo. Con Segni comincia la stagione del golpismo, sul fondo sempre sfuggente e viva l'ombra della rete atlantica. Prima il tintinnar di sciabole del "Piano Solo", ordito per la "tutela dell'ordine pubblico" allo scopo di incarcerare "esponenti politici pericolosi". Poi Saragat, tanto amato dal presidente Johnson, compagno di battute di caccia di Licio Gelli e capo dello Stato al tempo del tentato golpe del principe nero Junio Valerio Borghese. E' nel settennato di Leone, s'è visto, che le reti di intelligence iniziano a lasciare spazio alla più moderna legge degli affari. Giovanni LeoneGiovanni Leone Scoppia lo scandalo Lockheed, armi e tangenti. Le Br in Italia rapiscono Moro, Cossiga è ministro dell'Interno. Quando sarà eletto presidente, dopo il settennato di Pertini, si ricomincerà a parlare di reti misteriose e di oscuri finanziatori: il piano Stay Behind, conosciuto come Gladio, doveva armare una rete di incursori pronti a respingere un eventuale tentativo di invasione sovietica. Siamo alla fine degli anni Ottanta. claudio siniscalcoclaudio siniscalco Alla fine di quel decennio arrivano Gorbaciov e la sua Perestroijka, la Russia non è più quella di prima, nessuno sbarco in armi sembra più possibile. C'è Scalfaro, ora, al Quirinale. C'è il ciclone di Mani Pulite che spazza via una stagione di politica corrotta per lasciare spazio ad una generazione nuova. Più avvezza all'uso di mondo, alle relazioni internazionali, alla lingua degli uomini d'affari. E' dal denaro adesso, dalla finanza che passano gli interessi politici. Cresce l'influenza delle agenzie di brain storming, i conclave a porte chiuse, avanzano i tecnocrati. E' ai banchieri che si ricorre quando la politica tace o sobbolle di sue interne diatribe. Ciampi, una traiettoria politicamente specchiatissima culminata in Bankitalia, è eletto all'unanimità e al primo scrutinio, salutato nel '99 come salvatore della patria. Napolitano è a Monti che pensa quando deve tenere ferma la rotta del Paese in un momento di crisi economica gravissima. Per la successione più d'uno dice Draghi. Ma poi anche i banchieri finiscono, o hanno altro di più importante da fare. Ed è sempre alla politica, alla fine, che bisogna tornare.

Good news.

venerdì 5 aprile 2013

Il bivio del M5S.

M5S: chi ha ragione tra gli ortodossi e i dissidenti? di Andrea Scanzi, da Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2013. Più informazioni su: Beppe Grillo, Dissidenti, Elezione Presidente della Repubblica, Movimento 5 Stelle, Nuovo Governo, PD, Roberta Lombardi, Vito Crimi. Share on oknotizie Share on print Share on email More Sharing Services 391 Se tutti avessero l’autostima di Beppe Grillo, non esisterebbero i suicidi. Quando lo criticano, lui non risponde quasi mai nel merito. Dà dello “sfigato” al giornalista, parla di congiure o sostiene che “chi lo ha votato non ha capito perché lo ha fatto”. Meraviglioso: non è mica lui che (forse) dà adito a critiche. No: è il dissidente che è tonto. Immagino che, quando gli dicono che ha un raffreddore, Grillo si incavoli col medico. O addirittura col naso (“Non è muco, è nettare degli dèi!”). Nel Movimento 5 Stelle, forza oltremodo eterogenea, è in atto un naturale (e in sé positivo) dibattito tra massimalisti e concilianti. Oggi Grillo incontrerà i parlamentari. Paradossalmente il M5S è un movimento post-ideologico che rischia di divenire un qualsiasi partito di sinistra: da una parte gli ortodossi, dall’altro i riformisti. Chissà che, come tra Sel, Rifondazione Comunista e Pdci, un giorno prossimo non esistano i M5S e parallelamente i Gb (Grillini Buoni) e il Mcs (Movimento Crimi Smentito: quest’ultimo vedrebbe tra gli iscritti Crimi e se stesso, figure costantemente agli antipodi ed eternamente litigiose). Chi ha ragione tra integralisti e dialoganti? Vediamolo nel dettaglio. Gli ortodossi hanno “ragione” perché: - Stanno rispettando il programma, e questa è la freccia migliore (non definitiva, ma quasi) nel loro arco. - Hanno dalla loro Grillo e Casaleggio, non per imposizione ma perché Non-Statuto e Tsunami Tour erano (sono) chiari. - Sono la maggioranza di parlamentari ed elettori (più o meno un 70%) - Tra gli elettori del M5S ci sono anche delusi da Lega e centrodestra, che mai accetterebbero un appoggio al centrosinistra - Dire sempre no, o comunque non sporcarsi, è sempre stata una scorciatoia adolescenziale (e non solo adolescenziale) per sentirsi fighi. Più radical-shock che radical chic. -Se il M5S dice sì a un governo condiviso con altre forze, rischia di normalizzarsi. E dunque depotenziarsi. - Il Pd e derivati hanno sbagliato tutto, o quasi, per vent’anni. Credergli adesso è dura. - Ogni volta che viene voglia di credere a Bersani, senti parlare Letta o Boccia. E la voglia ti passa. - Dicono: “I dissidenti hanno ragione sul breve, ma non a medio e lungo termine”. - Il M5S è un movimento nuovo, del tutto inedito, dichiaratamente utopico e sostanzialmente rivoluzionario. Intende cambiare tutto, “mandando tutti a casa” (fase uno) e “sostituendo ai politici i cittadini” (fase due). Se questa è l’impronta (e questa è l’impronta), non c’è margine di dialogo. - Stare alla finestra è cinicamente redditizio da un punto di vista elettorale (ma solo se gli altri fanno l’inciucio: se non lo fanno, il M5S passa per sfascista e scende sotto il 20). - Il centrosinistra è smaliziato e i 5 Stelle no. Imbarcarsi in una fiducia, o comunque in un appoggio esterno, potrebbe rivelarsi un’imboscata (e a quel punto, se il governo cadesse o non facesse neanche la legge elettorale, le colpe ricadrebbero di nuovo sul M5S). I dissidenti hanno “ragione” perché: - Per quanto coerente, il comportamento del M5S sta provocando erosione di consensi e critiche trasversali di lassismo, alimentando l’idea di un movimento che sa solo dire no. - Grillo è furbo nello scrivere “se volevate l’appoggio al Pd non dovevate votarci”, ma sa bene di semplificare la situazione. Non si tratta di appoggiare il Pd, ma di contribuire concretamente a un governo a tema (e tempo). Magari proponendo un nome e cercando di essere propositivi. (La scusa di Crimi secondo cui “nessuno ci ha chiesto di fare nomi” è commovente. Davvero non c’erano capigruppo più gradevoli di Simpatia Lombardi e Ora-Mi-Smentisco Crimi? E via ragazzi, su). - Pensano: “Forse avremo torto sul lungo termine, ma se continueremo a dire ‘no’ non esisterà alcun lungo termine per il Movimento 5 Stelle”. - La coerenza è del tutto improduttiva (anzi dannosa) se non tiene conto di due aspetti fondamentali: realtà storica e congiuntura politica. Tradotto: crisi economica e Senato privo di maggioranza. Senza un minimo di pragmatica, la politica è manicheismo. Masturbazione duropurista. Onanismo 2.0, nello specifico. - I concilianti, o dissidenti, hanno pensato che prima si dovesse assistere al fallimento di Bersani (fase uno) per poi sfoderare lo Zagrebelsky di turno (fase due). Si sono fermati a metà, e ora – giustamente – sono nervosi. - Grillo ha ragione quando dice che “il programma è questo”. Ma il programma, per esempio, è anche il conflitto di interessi. Sappiamo tutti che buona parte del Pd non l’ha mai voluto (vedi Violante, “saggio” solo nel mondo parallelo di Napolitano). Ma – lo chiedo direttamente a Grillo, nella speranza che prima o poi parli anche con qualche giornalista italiano oltre che con il proprio ego a forma di monitor – è più importante fare il conflitto di interessi da soli o farlo e basta? Se quel governo “dei sogni” avesse risolto il conflitto di interessi, e magari cambiato pure legge elettorale, a Grillo e Casaleggio avrebbe fatto piacere o gli sarebbe spiaciuto dover dividere i meriti? - Il “modello Sicilia” sta funzionando bene, ma il Parlamento italiano è appena diverso e senza fiducia (o appoggio esterno) non ci sono modelli né governi. Che leggi vuoi approvare se nessuno la propone? E se le leggi le proporrà un Governo-Inciucio, cosa ci sarà mai da condividere per il M5S? - A giorni si eleggerà il Presidente della Repubblica. Mettiamo che, dalla quarta votazione, ci siano in ballo Rodotà e Marini (“D’Alema” non ce la faccio a scriverlo: ah ecco, l’ho scritto. E già non mi sento bene). Mettiamo anche che, dalle consultazioni online, il nome scelto dal M5S sia diverso (per dire: Imposimato). Grillo vorrebbe –un po’ autisticamente – che anche dalla quarta votazione il M5S appoggiasse Imposimato, pur se senza chance, rischiando di far vincere Marini e non Rodotà. Di nuovo: questa è coerenza o grullaggine? Formalmente la prima, contenutisticamente la seconda. Non vorrei sorbirmi per 7 anni un Marini (o peggio un D’Alema) per colpa del purismo di Grillo. Lo aspetterei sotto casa a Marina di Bibbona. E senza passamontagna. - I dissidenti non sognano di unirsi vita natural durante al Pd, che resta il Pd (ovvero una semi-sciagura travestita da ultima spiaggia). Sanno semplicemente che questo treno non ripasserà più. Che le mani, ora, bisogna sporcarsele. Che la “tattica Belgio” non è applicabile, non adesso, non in Italia. E che, denotando senso dello Stato e concretezza, tra sei mesi – o quando sarà – affrontare le elezioni sarebbe per il M5S più facile. - Grillo grida: “Io queste cose le dicevo anche prima”. Certo. E ti hanno votato anche per quello. Ma nessuno poteva prevedere lo stallo attuale. E si gioca con le carte che si hanno in mano, non con quelle sognate. E’ meglio desiderare un 10 o avere un 6.5? E’ più bello salire sul ring e dare qualche cazzotto, o prenderne a quintali sorridendo alla telecamera, magari mentre si sussurra “Non credete alle apparenze, il più forte sono io”? - Grillo urla: “Non vogliamo più il meno peggio”. Ovvio. E’ una delle forze del M5S. Basta coi politburi piddini. Ma far fuori politicamente Berlusconi, e ridimensionare Renzi (che alle prossime elezioni, così continuando, farà un mazzo così al M5S)) non è “meno peggio”. E’ un capolavoro o quasi. E Grillo, che non è per nulla scemo (ma testardo sì), lo sa bene. L’alternativa concreta è riconsegnare il paese a Berlusconi, o Renzi: cioè l’alternativa coincide. Il M5S è a un bivio: rimanere ostinatamente fedeli alle proprie utopie o scendere a patti col più prosaico dei presenti? Auguri.