sabato 29 settembre 2012

La crisi del manifesto.

Una analisi ampia della Rossanda,ma che ormai richiama categorie superate e sembra incapace di cogliere la sfida dei nuovi conflitti.
Da dove ripartire. di ROSSANA ROSSANDA, 21.09.2012.
La discussione sul manifesto è partita male. La prima domanda non è di «di chi è» ma «che cosa è» il manifesto. Anche per ragioni economiche. Un giornale è nel medesimo tempo una merce, se lettori non lo comprano fallisce. Occorre chiedersi perché da diversi anni abbiamo superato il limite delle perdite consentito ad una impresa editoriale, mentre i costi di produzione salivano. Direzione, Cda e redazione + tecnici hanno sottovalutato questo dato, pur reso regolarmente noto, illudendosi che avremmo recuperato lettori aumentando le pagine e i servizi con un restyling dopo l'altro. E' stato un errore imperdonabile. Se il giornale è di chi lo fa, il suo fallimento è di chi lo ha fatto. Cioè noi. Teniamolo presente. Altri giornali «politici» - cioè interessanti per un governo o una forza di opposizione o un gruppo sociale - hanno avuto problemi simili ai nostri: una tradizione da non perdere, una redazione rodata da decenni, vendite insufficienti e ricorso a finanziatori (nel nostro caso circoli o gruppi di lettori). Nessuno di questi tre attori è in grado di far uscire da solo un quotidiano. Perciò, per esempio in «Le Monde» la proprietà è ripartita un terzo i fondatori, un terzo la redazione e un terzo i finanziatori. Seil manifesto vivrà ancora, la sua proprietà potrebbe poggiare su un sistema analogo. Ma preliminare è che redazione, lettori e finanziatori siano d'accordo sul suo ruolo: «che cosa è», se ha un legame con la sua origine, se c'è un collettivo di lavoro che ci crede e un numero di lettori e sostenitori in grado di farlo uscire. Le ragioni per rispondere sì o no a queste tre domande possono essere molte, ma tutte politiche. Su di esse è manifestamente diviso il «collettivo», mentre del gruppo dei fondatori siamo rimasti soltanto Parlato, Castellina ed io, e non è chiaro che cosa auspicano lettori e circoli di sostegno. Il manifesto è nato nell'onda del '68 come quotidiano comunista libertario. I fondatori erano stati radiati dal Pci per questo e per la loro critica radicale all'Urss. Il riflusso del '68 assieme alla liquidazione da destra dei «socialismi reali» sono pesati sul collettivo non meno delle difficoltà materiali di tirare avanti. Il collettivo si è andato dividendo fra reducismi diversi, tentazioni di appoggio diretto o indiretto ai sostitutivi del partito comunista (Pds e seguenti o Rifondazione e seguenti), movimenti o «il movimento dei movimenti». Più di recente fra ecologia e teoria dei beni comuni. Si riflettono nel suo specchio le difficoltà di una «sinistra» sempre meno omogenea nell'interpretare contraddizioni e bisogni d'un assetto sociale investito dalla crisi del socialismo reale e dal mutare della scena internazionale rispetto a quella ereditata dalla seconda guerra mondiale. Delle due superpotenze durate dal 1945 agli anni '90 una è sparita, l'Urss, la seconda, gli Stati Uniti, resta la più armata del mondo ma non ha più il primato nel ritmo di sviluppo che è passato alla Cina (partito unico e socialismo «di mercato») per il suo alto tasso di crescita, e per il fatto di detenere gran parte del debito americano. Nuovi per importanza anche i paesi «emergenti», il Brasile in ascesa con un modello politico democratico e socialmente progressista, l'India democratica e capitalista, mentre l'America Latina, sfuggita al dominio statunitense, sviluppa diversi progressismi a scarsa democrazia formale. La caduta dei socialismi reali ha frantumato il modello duale fra un «capitalismo imperialista» e i «socialismi reali», i secondi sono scomparsi e il primo vacilla fra crisi economica, sopravvento della finanza sulla «economia reale», incertezze del modello sociale, crisi della democrazia rappresentativa. Se vi si aggiunge la riaffermazione delle religioni monoteiste in polemica con il pensiero politico moderno, è evidente che i parametri con i quali si dovrebbe analizzare il presente non sono gli stessi di trenta anni or sono. In Italia il suicidio del Partito comunista, non accompagnato da una analisi autocritica ma da elusivi cambi di nome e defezioni della sua base storica, e quello analogo della democrazia cristiana, ha portato a una crisi di identità della politica e dei partiti, che ha dato luogo alla consegna di tutto il parlamento alla priorità della «tecnica» rappresentata da Mario Monti. Ai margini si sviluppano dei movimenti o proteste qualunquiste al limite della legalità costituzionale. E' il solo paese che ha rinunciato a una fisionomia propria e articolata, seguendo i dettami liberisti della Unione Europea, fatti propri sfuggendo a ogni consultazione popolare. Che può essere il manifesto in questo quadro? Direzione e collettivo si sono sottratti a un'analisi, fino ad arrivare a una dichiarazione di fallimento, dando voce senza discuterla a questa o quella posizione delle deboli sinistre come se fosse la propria. In particolare ad appoggiare la rinuncia ai partiti come forme della politica per una rappresentazione diretta di opinioni e interessi che si configurerebbero attraverso liste civiche più o meno legate ai comuni. Tuttavia l'assenza di una discussione lascia aperte anche altre ipotesi, come lo strutturarsi di un partito del lavoro per ora non ulteriormente definito. Identità e finalità del manifesto non sono più quelle delle origini, ma il mutamento non è stato dichiarato. Così come sembra scomparsa, anche qui senza una argomentazione esplicita, la nostra ricerca di un marxismo critico. Le une e l'altra esigerebbero un lavoro analitico comune che non c'è stato, come se l'uscita quotidiana fosse incalzata e sommersa da eventi non previsti né dominati. Non a caso la sola priorità emersa dall'ex collettivo è stata la difesa del posto di lavoro. Tale andazzo non è accettabile e il progressivo diminuire dei lettori e dell'ascolto lo conferma. Ammesso che la testata possa riprendere su un base economica sana e finché direzione e collettivo non avranno votato la decisione di rompere con la sua origine, il manifesto ha l'obbligo politico e morale di definirsi rispetto alla sua intenzione fondativa. Nel 1969 dirsi comunisti non era puramente simbolico: le lotte degli anni sessanta, i movimenti studentesco e operaio del '68 e del '69, la vittoria del Vietnam che si annunciava, i problemi aperti dalla Cina sulla natura del socialismo reale, permettevano di puntare come a un obbiettivo realizzabile a un mutamento del rapporto di forze fra le classi, e all'interno delle medesime. Non solo fra di noi ma nel Psiup e in più d'uno dei gruppi che avrebbero tentato di dare vita alle forze extraparlamentari si era già riflettuto sui limiti di una rivoluzione dal vertice, soltanto politica, su quelli di una mera sostituzione del capitale pubblico al privato, e si erano fatti impetuosamente strada due temi di grande rilievo che erano assenti dall'agenda del socialismo, il femminismo e l' ecologia. Questo processo è volto a termine in meno di un decennio, lasciando in piedi soltanto la tematica del movimento operaia in quanto fatta propria da alcuni sindacati, il problema sollevato dal femminismo e dall'ecologia. Ma le sinistre storiche - non solo per non rompere il legame con l'Urss, della quale non vedevano il declino - non si sono aperte alla inattesa spinta diffusa che emergeva in quegli anni, non hanno alimentato né si sono alimentate di questo movimento ma piuttosto vi si sono opposte. Isolato, quando non combattuto, esso è stato lasciato a una generosa ma immatura elaborazione, favorendo alcune derive, e infine la sua stessa dissoluzione. Ne è venuto un vuoto politico irrimediabile, dal quale è scaturita, più che in altri paesi dove la sinistra era pesata di meno, un disorientamento e poi una svolta dell'opinione verso una destra che Berlusconi - meno di cinque anni dopo il crollo del Muro di Berlino -esprimeva nella sua forma più volgare, e da questa sarebbe andata al nascere di un populismo distruttivo. Non siamo stati capaci di occupare quel che poteva essere il nostro proprio terreno di lavoro, la crisi dei socialismi reali, che eravamo stati i soli ad annunciare, la ristrutturazione del capitalismo a livello mondiale, le diverse soggettività che ne sarebbero seguite. Il trionfo dell'avversario ci ha debilitato e demotivato: non solo i lettori sono diminuiti ma è calato il peso che il manifesto aveva avuto nell'opinione anche in momenti difficili, come il sequestro di Moro, l'emergenza, la messa sotto accusa del '68. Gli anni '80 ne sono stati la prova. La caduta dell'Est, che per noi doveva essere un'occasione, è stata la cartina di tornasole sulla quale si è scoperta la debolezza delle sinistre storiche ma anche la nostra, che non l'ha affrontata ed ha finito con il considerarla uno scoglio da evitare. Eppure un vecchio slogan aggiornato dalle nostre Tesi del 1970, «socialismo o barbarie» diventava la vera alternativa: come chiamare altrimenti la soppressione progressiva di ogni diritto sociale cui siamo avviati? Non tanto il «potere ai Soviet», del cui fallimento storico abbiamo lasciato parlare le destra, ma la priorità della salvaguardia del fattore umano, della sua crescita e dei suoi diritti è andata svanendo a favore d'un affidamento al libero mercato come unico regolatore sociale, facendoci arretrare agli anni venti e all'orlo delle pericolose involuzioni che ne sono seguite. Su una scelta liberista, e contrariamente alle speranze dei suo primi padri, s'è fatta l'Unione Europea, avvitandola saldamente con il trattato di Maastricht, ai pii desideri del trattato di Lisbona, alla impossibilita di sottoporsi a un giudizio dei popoli. Assai lontana da una omogeneizzazione politica, la Ue non è, in sostanza, che la sua moneta, l'euro, sottoposto ad acerbe oscillazioni per la discrasia dei regimi fiscali, l'ingigantirsi della finanza, la deindustrializzazione del continente, la conseguente debolezza dei codici del lavoro, la crisi esterne, prima di tutte quella dei subprimes nel 2008. L'esorbitante aumento della finanza rispetto alla cosiddetta economia reale e la interdizione agli stati di intervenire a correggerlo, ha esposto l'euro a una oscillazione in tutti i paesi del sud, cui si impongono direttamente per via legislativa o indirettamente, tramite il gioco dei mercati enfatizzato dalle agenzie di rathing, crudeli cure di austerità, che li precipitano nella crescente disoccupazione e precarietà. In queste condizioni rinascono scetticismi antieuropei ridesta e di sinistra, e la legittimazione popolare sia d'una misura o di un governo è resa difficile. La politica lamenta che l'economia la ha sopraffatta, come se essa stessa - e si tratta di governi di socialisti, laburisti o di centrosinistra - non se ne fosse liberata, rinunciando alla possibilità di intervento pubblico («meno stato più mercato») e accettando la riduzione dell'economia a pura contabilità della spesa dello stato, aggravata dai six pack successivi. Privi di risorse, per la disoccupazione crescente e il rifiuto d'una tassazione dei redditi e in particolare della finanza, gli stati sono paralizzati e le classi subalterne pagano prezzi sempre maggiori. Basta scorrere i pochi articoli del «fiscal compact» votato dai governi europei il 28 giugno a Bruxelles per rendersi conto che si tratta di puro obbligo monetario, che avrebbe addirittura favorito la speculazione dei mercati sul debito degli stati se la Bce non fosse intervenuta con prestiti illimitati a breve termine, evitando uno strangolamento immediato ma esigendo dai paesi che li richiedano che si accetti uno stretto controllo della Bce, del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione. Il testo del fiscal compact appare difficile da sottoporre a un referendum, come chiedono alcune sinistre radicali, per il suo tecnicismo (tempi dei rimborsi e condizioni per i crediti) e il suo silenzio su tutte le richieste socialmente pressanti. Come osserva più d'uno dei commentatori politici (G. Rossi su «Il Sole 24 ore» o Adriano Prosperi su «Repubblica») il fattore umano è del tutto assente da questi accordi, che neppure notano l'aumento dei disoccupati (si calcolano 18 milioni in Europa), l'estendersi della deindustrializzazione crescente, la delocalizzazione verso paesi a costo del lavoro più basso che mediamente in Europa, la minaccia di evasione fiscale degli alti redditi in Francia. Tale scelta dei governi, che rappresenta il massimo consenso alla tesi di un von Hajek e il massimo della contraddizione all'orientamento delle costituzioni dopo la seconda guerra mondiale, toglie spazio all'uso di quelle possibilità di difesa delle classi subalterne che esse avevano conquistato nel lungo periodo del compromesso keynesiano, prodotto dallo scontro fra capitale e lavoro, delineato per primo da Roosevelt come via d'uscita dalla crisi del '29, sicuramente rafforzato dalla potenza dell'Urss e teorizzato dopo il 1938 soprattutto in Gran Bretagna. Il movimento del '68 ne ha messo in luce i limiti politici e strutturali, ma è d'obbligo riconoscere che lo ha destrutturato, evidenziandone appunto gli aspetti di compromesso sociale, piuttosto che spingerlo in avanti. Accelerata dopo il 1989, la Unione Europea è nata sconfessando il modello «keynesiano» (e la nuova sinistra ne aveva dato alcuni argomenti) e una bozza di trattato dopo l'altra, malgrado i wishful thinkhing di Lisbona, hanno vincolato gli stati a un rigore di bilancio basato sulla riduzione del costo del lavoro e su una sua organizzazione che le nuove tecnologie permettono di ridurre nelle quantità della manodopera invece che nella riduzione dei tempi e delle cadenze, mentre la liberazione del mercato da ogni vincolo permette di mettere in concorrenza i salariati europei con quelli di paesi ex colonizzati, assai minori. Le classi subalterne sono spinte, come in Grecia e in Spagna, a votare il proprio annichilimento sindacale e politico. Non sorprende che dilaghi l'euroscetticismo soprattutto nelle ex roccaforti operaie e che in esse abbiano ascolto le destre estreme. Quando l'ad della Fiat, Marchionne, parla di «un prima e un dopo Cristo» nelle relazioni sociali sottolinea una verità: le sinistre, non solo comuniste e socialiste ma socialdemocratiche, hanno lasciato nel disorientamento del 1989 la loro base e i loro principi, con ciò perdendo il loro potere contrattuale (salvo in alcuni paesi scandinavi) ed è quel che ne rimane oggi è il bersaglio della controparte. Non inganniamoci: non è il comunismo che oggi il padronato delle multinazionali ha deciso di distruggere, operazione che ha già compiuto da solo, ma quella legittimità degli opposti interessi sociali che i Trenta Gloriosi avevano dovuto riconoscere, che aveva permesso alle lotte operaie di esistere e di conquistare alcune condizioni che ancora oggi alcuni, anche fra noi, considerano diritti inalienabili. Non ci sono nei rapporti fra le classi diritti inalienabili. Essi vanno difesi metro per metro dalla possibilità di un arretramento, del quale nel recente passato lo strumento fondamentale è stata la utilizzazione esclusivamente padronale della tecnologia, e oggi la più volgare riduzione dell'economia a una contabilità dello stato, mutilata dalle entrate un tempo assicurate dalla più vasta platea occupazionale, e al suo regime comunitario. In questo senso la soggezione ai dettami liberisti, sulla quale è stata formata la Unione Europea, somiglia a un fatale combinato-disposto: è interdetto alla sfera politica di intervenire sul sistema economico, ed è permesso al sistema economico di intervenire nel continente, entrandovi e uscendone senza renderne conto agli stati, mentre le distruzioni, che queste razzie comportano sul tessuto sociale dei diversi paesi, costituiscono un aggravio finanziario per il relativo stato mentre ne minano le basi e il consenso. La ricostituzione d'un potere di contrattazione sostenuto dalla legge e di conseguenza d'un controllo politico, statale o comunitario, sui movimenti di capitale, unitamente alla tassazione delle transazioni fiscali, è una misura che si va rivelando sempre più urgente. Ed è sostenuta non solo dalla manodopera industriale, che chiede di ricostituire le sue basi produttive, adeguandole nel contempo alle compatibilità ecologiche e ambientali, e quindi una politica economica esplicita e discussa in comune, ma anche dalle classi medie, il cui potere d'acquisto è in calo. L'allargarsi del ventaglio delle disuguaglianze sociali, come non mai nel secondo dopoguerra, ha portato a un affluire della ricchezza su un decimo della popolazione, e della grande ricchezza su un decimo di questo decimo (Gallino, Pianta). E' una tendenza non sostenibile, e impone una inversione di rotta. Anche perché allo sbiadire dei rapporti di forza contrattuali si aggiunge l'affievolirsi del più generale sistema democratico, che si sconnette e contraddice, da una parte, sotto l'urto del mercato selvaggio e, dall'altra, di una antipolitica diffuso. La lezione di Federico Caffè è stata distrutta negli anni '70 e '80. Essa è una condizione perché l'orizzonte di una trasformazione che investa alle radici la proprietà resti aperto, salvaguardandone anzitutto i soggetti. I tentativi di assegnare ad altri gruppi sociali il ruolo che era stato posto nella classe operaia non ha avuto esito. Esso non è durevolmente passato alla gioventù acculturata e/o marginale, come pensava Herbert Marcuse, malgrado i processi di proletarizzazione cui è sottoposta, né nelle popolazioni dei paesi terzi, come si è creduto nel primo postcolonialismo, né nella reattività delle moltitudini, difesa da Negri e Hardt. In Italia, l'azzeramento di fatto del parlamento nella unanimità senza condizioni richiesta da Mario Monti per accettare l'incarico ha ottemperato di fatto alle condizioni poste dalla Bce, dal Fmi e dalla commissione europea. Quale partito o coalizione si presenta oggi esplicitamente contro Monti, garante di questa Europa? E di Monti, e ciò che rappresenta, è garante il presidente della Repubblica. Che questa soluzione sia stata promossa da un ex dirigente del Pci diventato Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è il segno più eloquente di ciò che è avvenuto nelle sinistre nel 1989. E anche dei limiti assai stretti nei quali potrà muoversi, se ci sarà, di una alternativa a questo governo. Ma occorre tenere presente questi vincoli, dunque spostare l'orizzonte in Europa, se si vuol evitare che il primo passo già compiuto nella recessione diventi un cadere catastrofico in essa. E' la situazione di tutti i paesi europei del sud, dalla Grecia all'Italia alla Spagna, al Portogallo, e l'indice attorno allo zero crescita previsto in Francia sta mettendo anche Parigi su questa soglia. Negli Stati Uniti, l'esito della crisi del 2008 è violentemente impugnato dalle destre per corrodere i flebili risultati della presidenza Obama - dipinti come addirittura «comunisti»- in Francia per bloccare in partenza le modeste riforme di Hollande, dovunque per non disturbare il capitale finanziario, e per esso, soprattutto da noi, le banche tedesche. L'aggressione è totale. Ma hanno ragione Stiglitz e Krugman a scrivere che questa strada è senza uscita, i livelli di disoccupazione e di «crescita negativa» non sono sostenibili da nessun paese, senza conseguenze politiche nefaste, ripetendo uno scenario da Anni Venti. I paesi del sud non vedono uscita dal tunnel, ma comincia a patirne anche la Germania che vendeva la maggior parte dei suoi prodotti sul mercato europeo, e lo vede restringersi. Una svolta appare a molti necessaria. Bisogna dimostrare che è ragionevole e possibile. Mi pare indubbio che il manifesto, qualora resti in vita, debba lavorare sulla base di questa analisi e insistere sul riportare il fattore umano - occupazione e servizi sociali, redistribuzione delle imposte sui ceti più favoriti e sulla finanza - al centro di qualsiasi programma politico che si dica di sinistra. Argomentando modi e tappe e battendosi per spostare i vincoli europei che vi si oppongono. L'inquietudine è grande in vari paesi del continente, e il nostro giornale potrebbe darle argomenti e voce. Si tratta di un lavoro politico e culturale di lunga lena, rivolto senza equivoci a quella parte del paese che non intriga ma pensa e si interroga, smettendo di galleggiare su obbiettivi generici e a breve, nessuno dei quali è riuscito a realizzarsi ad oggi.

Dopo le cariche di Madrid.

Un Paese sull'orlo di una crisi di nervi. dal blog di Beppe Grillo.
Negli scontri di Madrid tra i manifestanti e la Polizia davanti al Parlamento c'era qualcosa di nuovo. Le immagini non trasmettevano solo le cariche, le manganellate, i corpi di persone incoscienti trascinate di peso a cui ormai siamo abituati, ma un clima da guerra civile. I manifestanti avanzavano indifferenti ai colpi, non si curavano delle conseguenze, delle denunce e della galera. Non erano black block, ma gente normale con la faccia rassicurante del vicino di casa senza più niente da perdere. Avevano la stessa faccia dell'operaio dell'ALCOA che a Roma si diceva disposto a morire piuttosto che rinunciare al posto di lavoro che gli consente di mantenere la famiglia o la disperazione dei lavoratori dell'ILVA che sanno di barattare un misero stipendio con la salute e con la morte dei loro stessi figli. Non sono solo le aziende italiane a chiudere o a fuggire in Europa per sopravvivere, anche le multinazionali se ne vanno o tagliano il personale come la Fnac e la McDonald. Licenziano centinaia di persone, un numero che ormai non viene nemmeno preso in considerazione dai media, non fa più notizia. La rabbia spagnola è contro le misure del governo, contro una povertà che si credeva superata per sempre, contro la politica della BCE, non è rivolta contro le ruberie dei politici, contro uno Stato predone e arrogante, contro leggi disegnate su misura dai parlamentari per rubare nella legalità. Zapatero non è accusato di truffa, malversazioni, corruzione, appropriazione indebita. Eppure, negli occhi degli spagnoli alla Puerta del Sol che gridavano "No nos rapresentan!" o "La voce del popolo non è fuorilegge", c'era una rabbia che mi ha ricordato la folla fuori dal palazzo di Ceaucescu prima che fuggisse in elicottero diretto verso la sua fine. In Italia i politici hanno persino lo stomaco, dopo decenni di silenzio, al presagire dei forconi alle porte, di dichiarare di voler urgentemente una legge anti corruzione, di cambiare la legge elettorale, di ridurre gli stipendi dei politici, di abolire i vitalizi parlamentari. Meretrici pitturate che si fingono vergini per proporre un nuovo matrimonio ai cittadini. Nessuno ammette le proprie colpe, nessuno lascia la poltrona spontaneamente senza l'intervento della magistratura, nessuno denuncia il collega corrotto, nessuno rinuncia all'ultimo euro rubato "a norma di legge" alla collettività. Intanto il corpaccione dell'Italia si muove sempre più lentamente, ondeggia, barcolla. Si tiene ancora in piedi, ma senza ragione apparente, come un vecchio ubriaco prima di collassare, all'improvviso. Rigor Montis è tornato dagli Stati Uniti con in tasca il reincarico, mentre coloro che hanno affossato, l'Italia negli ultimi decenni si propongono senza pudore come salvatori sugli schermi televisivi intervistati dai loro servi. La rabbia italiana potrebbe fare impallidire quella spagnola. Dio fa impazzire coloro che vuole perdere. Postato il 29 Settembre 2012

venerdì 28 settembre 2012

The time we are living.

Hot, Flat, and Crowded, Friedman asserts that the most important geopolitical trend to emerge from the “onset of the Energy-Climate Era”—defined as the historical epoch that is being “giv[en] birth to” by the “convergence of global warming, global flattening, and global crowding”. definizione di Friedman, importante columnist del NYT.

L'assalto della finanza visto dagli USA.

Wall Street's War Against Your City. (Una analisi introvabile sui media italiani, drogati dal governo "tecnico".) Across America, schools, roads, and water systems are for sale to the highest Wall Street bidder. fonte: Alternet,Michael Hudson's blog / By Michael Hudson.September 27, 2012.
The pace of Wall Street’s war against the 99% is quickening in preparation for the kill. Having demonized public employees for being scheduled to receive pensions on their lifetime employment service, bondholders are insisting on getting the money instead. It is the same austerity philosophy that has been forced on Greece and Spain – and the same that is prompting President Obama and Mitt Romney to urge scaling back Social Security and Medicare. Unlike the U.S. federal government, most states and cities have constitutions that prevent them from running budget deficits. This means that when they cut property taxes, they either must borrow from the wealthy, or cut back employment and public services. For many years they borrowed, paying tax-exempt interest to wealthy bondholders. But carrying charges on these have mounted to a point where they now look risky as the economy sinks into debt deflation. Cities are defaulting from California to Alabama. They cannot reverse course and restore taxes on property owners without causing more mortgage defaults and abandonments. Something has to give – so cities are scaling back public spending, downsizing their school systems and police forces, and selling off their assets to pay bondholders. This has become the main cause of America’s rising unemployment, helping drive down consumer demand in a Keynesian nightmare. Less obvious are the devastating cuts occurring in health care, job training and other services, while tuition rates for public colleges and “participation fees” at high schools are soaring. School systems are crumbling like our roads as teachers are jettisoned on a scale not seen since the Great Depression. Yet Wall Street strategists view this state and local budget squeeze as a godsend. As Rahm Emanuel has put matters, a crisis is too good an opportunity to waste – and the fiscal crisis gives creditors financial leverage to push through anti-labor policies and privatization grabs. The ground is being prepared for a neoliberal “cure”: cutting back pensions and health care, defaulting on pension promises to labor, and selling off the public sector, letting the new proprietors to put up tollbooths on everything from roads to schools. The new term of the moment is “rent extraction.” So having caused the fiscal crisis, the legacy of decades of property tax cuts financed by going deeper into debt are now to be paid for by leasing or selling off public assets. Chicago has leased its Skyway for 99 years to toll-collectors, and its parking meters for 75 years. Mayor Emanuel has hired J.P.Morgan Asset Management to give “advice” on how to sell privatizers the right to charge user fees for previously free or subsidized public services. It is the modern American equivalent of England’s Enclosure Movements of the 16th to 18th century. By depicting local employees as public enemy #1, the urban crisis is helping put the class war back in business. The financial sector argues that paying pensions (or even a living wage) absorbs tax revenue that otherwise can be used to pay bondholders. Scranton, Pennsylvania has reduced public-sector wages to the legal minimum “temporarily,” while other cities are seeking to break pension plans and deferred-wage contracts – and going to the Wall Street casino and play losing games in a desperate attempt to cover their unfunded pension liabilities. These recently were estimated to total $3 trillion, plus another $1 trillion in unfunded health care benefits. Although it is Wall Street that engineered the bubble economy whose bursting has triggered the urban fiscal crisis, its lobbyists and their Junk Economic theories are not being held accountable. Rather than blaming the tax cutters who gave bankers and real estate moguls a windfall, it is teachers and other public employees who are being told to give back their deferred wages, which is what pensions are. No such clawbacks are in store for financial predators. Instead, foreclosure time has arrived to provide a new grab bag as cities are forced to do what New York City did to avert bankruptcy in 1974: turn over management to Wall Street nominees. As in Greece and Italy, elected politicians are to be replaced by “technocrats” appointed to do what Margaret Thatcher and Tony Blair did to England: sell off what remains of the public sector and turn every social program into a profit center. The plan is to achieve three main goals. First, give privatizers the right to turn public infrastructure into tollbooth opportunities. The idea is to force cities to balance budgets by leasing or selling off their roads and bus systems, schools and prisons, real estate and other natural monopolies. In the process, this promises to create a new market for banks: lending to vulture investors to buy rights to install tollbooths on the economy’s basic infrastructure. Elected public officials could not engage in such predatory and anti-labor policies. Only the “magic of the marketplace” can break public labor unions, downsize public services and put tollbooths on the roads, water and sewer systems while cutting back bus lines and raising fares. To achieve this financial plan, it is necessary to frame the problem in a way that rules out less anti-social alternatives. As Margaret Thatcher put matters, TINA: There Is No Alternative to selling off public transportation, real estate, and even school systems and jails. Dismantling public education and police departments to pay bondholders Local tax policy used to be about education. The United States was divided into fiscal grids to finance school districts, along with roads and bus lines, water and sewer systems. Municipalities with better schools taxed their property more, but this made it more desirable to live in such districts, and thus raised rather than lowered real estate prices. This made urban improvement self-feeding. Lower-taxed districts were left behind. This no longer is the American way. Education in particular has been demonized. California’s formerly great school system is the most visible casualty of the state’s Proposition 13, the property tax freeze enacted in 1978. The Los Angeles Apartment Owners Association employed its political front man, Howard Jarvis, as a lobbyist to promise voters that little would change by cutting back education and libraries. He claimed that “63 percent of the graduates are illiterate, anyway,” so who needed books. Education and other parts of public spending was frozen as property taxes were slashed by 57% – from 2.5 or 3% down to just 1% of assessed valuation, and were frozen at 1978 price levels for owners who have kept their property. The result is that California’s school system has plunged to 47th rank in the nation. For neoliberals, the silver lining is that downgrading education makes citizens more susceptible to the Tea Party’s false consciousness when it comes to how to vote in their economic interest. Back when Prop. 13 was passed, for instance, commercial investors promised homeowners that across-the-board tax cuts would make housing more affordable and that rents would fall. But they rose, along with real estate prices. This is the Big Lie of neoliberal tax cutters: the promise that cutting property tax will lower costs rather than provide a windfall for property owners – and also for banks as rising rental values are “free” to be capitalized into larger mortgage loans. New buyers need to pay more, raising the cost of living and doing business. Back in 1978 on the eve of Proposition 13, commercial owners paid half the real estate taxes and homeowners the other half. But now the homeowners’ share has risen to two-thirds, while commercial taxes have fallen to one-third. Bank loan officers have capitalized the tax cuts into larger mortgages, so housing prices have risen, not fallen. Los Angeles Mayor Antonio Villaraigosa exclaimed ruefully last year that “the time is now to address the inequity of Prop 13 that allows large corporate interests to get a windfall meant for homeowners. We are not funding government. We are just decimating government and the services it provides.”[1] He proposed a two-tier property tax, restoring higher rates for commercial and absentee investors. School teaching is an exhausting occupation. That is one reason why teachers are one of America’s strongest labor unions. Their wages have not risen as fast as their expenses, because they have agreed to take less income in the short run in order to get pensions after their working days end. These contracts are now under attack – to pay bondholders. States and cities are now insisting that bondholders cannot be paid without stiffing their labor force. So we are now seeing the folly of untaxing property and replacing tax revenues with borrowing – paying tax-exempt interest to the nation’s wealthiest bondholders. Cutting the property tax base thus finds its twin casualty in the wave of defaults on pension promises. Real estate taxes have plunged from two-thirds of urban revenues in the 1920s to just one-sixth today for the United States as a whole. Federal grants-in-aid also are being cut back, and state aid to the cities is following suit. But instead of making housing more affordable, these tax cuts have “freed” rental value from the tax collector only to end up being paid to the banks. Here too, California has led the way. In 1996 its voters approved Prop. 218, requiring any new tax, fee or property assessment to be approved by two-thirds of voters. (A few exemptions were made to keep local sewer and water systems viable.) This stratagem “starves the beast,” with the “beast” being public infrastructure and social services. Police forces are being downsized and social programs are cut back. And as urban poverty increases, crime rates are rising, imposing an “invisible” cost of living. The most important economic fact to recognize is thus that whatever the tax collector relinquishes tends to be capitalized into mortgage loans. And by leaving more rent available to be paid as interest, cutting property taxes obliges homebuyers to go deeper into debt. Lower property taxes thus mean higher housing prices – on credit, because a home or other real estate is worth whatever a bank will lend to new buyers. So by capitalizing the after-tax rental value into a flow of interest, bankers end up with the rent – and hence, with the property tax cuts. That is what a free market means today – income created by public-sector investment, “freed” to be paid to banks as interest rather than to be recaptured by government. Most urban revenue is a free lunch created by taxpayer-financed roads, schools, sewers and water systems. But neither real estate speculators nor their bankers believe that this investment by taxpayers should be recovered by taxing the increased site values created by providing these public services. Instead of making the public sector self-financing as it expands public services to create wealth, private owners are to get the benefit – while banks capitalize the gains into larger mortgage loans, which now account for 80% of bank credit. The core of the bankers’ “false consciousness” – the cover story with which Tea Party lobbyists are seeking to indoctrinate U.S. voters – is that taxes on land and financial assets punish the “job creators.” Going on the offence, the beneficiaries of this public spending claim that they need to be pampered with tax preferences to invest and employ labor, while the 99% need to be kicked and prodded to work harder by being paid low wages. This false narrative ignores the fact our greatest growth periods are those in which U.S. individual and corporate tax rates have been highest. The same is true in most countries. What is stifling economic growth is the debt overhead – owed to the 1% – and tax cuts on free lunch wealth. The public pension squeeze is part of the overall debt crisis Republican Vice Presidential nominee Paul Ryan and Texas Governor Rick Perry have characterized Social Security as a Ponzi scheme. This is true in the obvious sense that retirees are supposed to be paid out of contributions to new entrants. That is how any pay-as-you-go system is supposed to work. The problem is not that the system needed to be pre-funded to provide the government with revenue to cut taxes on the 1%. The problem is that new contributions are drying up as the economy buckles under its expanding debt overhead. Social Security can easily be paid. After the 2007 crash the Fed printed $13 trillion on its computers to give to bankers. It can do the same for Social Security – and for federal grants-in-aid to America’s states and cities. It can pay state and local pension obligations in the same way it has paid Wall Street’s 1%. The problem is that the Fed is only willing do what central banks were founded to do – finance government deficits – to give to the banks. The aim is to save bondholders and the banks’ high-flying counterparties, not the 99%. The problem is that the financial system itself is rotten. This has turned today’s class war into a financial war, with the major tactic being to shape how voters perceive the problem. The trick is to make them think that cutting taxes will lower their living costs and make housing cheaper, rather than enabling banks to take what the tax collector used to take. That is the key perception that needs to be spread: cutting taxes leaves more “free lunch” income available for banks to lend against, loading the economy deeper into debt. Here’s why the present track can’t possibly work. State and local pension funds are $3 trillion behind because they are only making 1% returns these days (the only safe return), not the 8+% that they were told to make in order to pay pensions by “capital” gains (that is, the bank-financed free lunch). The Fed is keeping interest rates low in an attempt to re-inflate real estate and other asset prices back to the happy decade of Bubblemeister Greenspan. If interest rates rise – by enough to enable California, Chicago and other localities to obtain enough interest to pay retirees what they promised – then banks will see the collateral for their mortgage loans fall. So the Fed has locked the economy into low returns. Neither Democratic nor Republican politicians are willing to raise taxes on the finance, insurance and real estate (FIRE) sector. They vote in line with what their campaign contributors are paying for – to make Wall Street rich. At issue is the old Who/Whom choice. Given the mathematical fact that debts that can’t be paid, won’t be, the question is who should get priority: the 1% or the 99%? Debt-ridden austerity and downsizing government is being urged as if it is inevitable, not a policy choice to put bondholders and the 1% over the 99% – a reward for the lobbying money it has spent on buying politicians and misleading voters to believe that cutting property taxes and cutting taxes on the rich will help the economy. But if America still lets the 1% write the laws – or what turns out to be the same thing these days, to contribute to the political campaigns of lawmakers – then the economy will get much poorer, quickly. The era of America growth will be over. Something has to give: If bondholders won’t be paid, states cannot pay labor’s deferred wages in the form of pensions, and will have to cut back public services. So it’s time to default. Otherwise, Wall Street will turn us into Greece. That is the financial plan, to be sure. It is the strategy for today’s financial war against society at large. In Latvia, I spoke to the lead central banker, who explained that wages in the public sector had fallen by 30 percent, helping push down private-sector wages nearly as far. Neoliberals call this “internal devaluation,” and promise that it will make economies more competitive. The reality is that it will up the internal market and drive labor to leave. Footnotes [1] Adam Nagourney, “Tax Cuts From ’70s Confront Brown Again in California,” The New York Times, January 9, 2011. Michael Hudson is President of The Institute for the Study of Long-Term Economic Trends (ISLET), a Wall Street Financial Analyst, Distinguished Research Professor of Economics at the University of Missouri, Kansas City and author of Super-Imperialism: The Economic Strategy of American Empire (1968 & 2003), Trade, Development and Foreign Debt (1992 & 2009) and of The Myth of Aid (1971).

Cronache dal Medioevo perenne italico.

Due donne conviventi con quattro figli, poi una muore in un incidente. E l’altra non ha nulla per restare a viverci. 28/09/2012.
Fonte: Il Tirreno del 27 settembre 2012. GROSSETO. Due donne che convivono felicemente, che crescono insieme quattro bambini frutto delle precedenti unioni. Poi un giorno - due mesi fa - di colpo, tutto finisce. Un terribile incidente che vede entrambe coinvolte e la morte che le separa. Ora l’assegnataria dell’appartamento, una casa popolare, non c’è più. Le due figlie tornano al padre e la convivente superstite (anch’essa con due figli piccoli) scopre di dover lasciare l’alloggio, di non avere titolo per continuare ad occupare quegli spazi dove le bambine sono cresciute, dove ogni cosa, ogni piccolo dettaglio, ha un significato. Dove ci sono i ricordi di anni di vita. È la legge che rema contro una poesia. La beffa che cala sopra un dramma. E’ una storia che suscita stati d’animo diversi quella che vede protagoniste Maria e Laura (i nomi sono inventati), una storia campione di una società che cambia, una disgrazia enorme che va a complicare dinamiche familiari complesse e innesca regole ingiuste. Da qualche giorno su Facebook questa vicenda è di pubblico dominio. Il Tirreno ha deciso di raccontarla in punta di penna, omettendo i nomi delle donne e il luogo dove è ambientata, cercando volutamente di non dettagliare. Ieri, attraverso le parole di legali, amici e amministratori, abbiamo acceso i riflettori sul disagio di Laura. «E’ una donna che sta soffrendo per la perdita della compagna. Da qualche giorno ha scoperto di dover tenere duro anche su un altro fronte. C’è la possibilità, infatti, che debba lasciare la casa dove vive. Come potete immaginare la questione è complicata. Stiamo parlando di quella che a tutti gli effetti era una famiglia di fatto, praticamente senza diritti. Tra le due donne non c’era vincolo formale, ma un rapporto fondato su qualcosa di molto più forte: sentimenti di affetto e di amore». Adesso Epg, il nuovo nome del vecchio istituto delle case popolari, e il Comune si trovano a gestire una partita delicata, tanto più che sulla casa avrebbe dovuto essere esercitato un diritto di riscatto da parte di Maria, la defunta assegnataria... Dal Comune, però, arrivano rassicurazioni. Oggi si incontreranno sindaco e direttore dell’Epg. L’obiettivo è trovare una soluzione. «In questo caso ci sono molti risvolti, alcuni anche privati, di cui tener conto. Non è un percorso lineare quello che permetterà eventualmente alla donna e ai due figli di restare nella casa dove abitano adesso. C’è da capire, in questa fase, chi può esercitare i diritti che aveva la ragazza scomparsa. Le sue figlie? La compagna? Nessuno? Teoricamente la dimora andrebbe lasciata libera al più presto, ma noi per primi ci auguriamo che non accada. Nel frattempo si stanno vagliando anche altre opportunità». Ieri intanto anche i carabinieri hanno fatto visita a Laura chiedendole quali sono le sue intenzioni. La conclusione della storia è lontana. Non è escluso, infatti, che alla fine si vada per tribunali. Insomma ne risentiremo parlare. Oggi solo raccontare o leggere certi “passaggi” produce amarezza e un sentimento di vicinanza nei confronti di Laura, ancora in mezzo al lutto, ancora provata nel fisico e nel morale da quanto accaduto; eppure costretta a difendere il tetto che ha sulla testa contro un nemico che non si vede, non si manifesta. Una storia d’amore piombata, di colpo, nel medioevo dei diritti. Perché si parla di tanto di società civile. E poi i diritti non sono gli stessi per tutti. Gabriele Baldanzi

giovedì 27 settembre 2012

INCUBO NUOVO MANDATO.

Il liquidatore fallimentare vuole portare a termine la sua mission.
Come previsto. di Antonio Padellaro. Tra le qualità di Monti non c’è l’imprevedibilità. L’avevano capito pure i sassi che l’uomo non avrebbe mollato Palazzo Chigi e si sarebbe ricandidato per un altro giro di valzer, magari fino al 2018. Solo che per distinguersi dalla politica tradizionale, sempre così volgare nelle sue pretese, il professore l’ha tecnicamente tirata per lunghe. Prima assicurando i colleghi della Bocconi che lì sarebbe ritornato presto come un Cincinnato all’amato podere. Poi è cominciato il lungo tira e molla dei resto o non resto culminato nel pudico annuncio di ieri: “Se serve, torno”. Monti ci fa sapere che come senatore a vita non ha bisogno di candidarsi alle elezioni e che per l’emergenza finanziaria ci sarà ancora molto bisogno della sua credibilità presso l’Europa. Del resto, il programma del prossimo governo esiste già ed è l’Agenda Monti che i partiti, volenti o nolenti, dovranno digerire con lacrime e sangue incorporate. A fare buona guardia ci penserà il presidente Napolitano che ha già fissato un altro punto programmatico per il nuovo Parlamento: l’amnistia e l’indulto. Non risolverà la barbarie delle carceri sovraffollate come invece la depenalizzazione dei reati minori potrebbe fare. E c’è il rischio che i tanti corrotti e corruttori che spolpano il Paese lo prendano come un segnale d’impunità. Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2012

Il paradiso pluralista si sta estinguendo.

Robert Putnam: “l’errore del paradiso pluralista è che il coro celestiale canta con un forte accento altoborghese”.

LA STRONZA NON SI E' ANCORA DIMESSA.

(illustrazione da Pubblico)

mercoledì 26 settembre 2012

Tutti collusi nel sistema- Lazio.

da Grazia Longo, per La Stampa. La distribuzione dei fondi elettorali alla Regione Lazio? Non solo una scelta condivisa «tra i cinque partiti che componevano l'Ufficio di presidenza del consiglio regionale». Ma anche il frutto di «una strategia studiata a tavolino a e concordata a voce affinché non risultasse niente di scritto nel bilancio: si attingeva dalle voci manutenzione, telefonia e comunicazione». La fotografia di come venivano suddivisi i soldi dei contribuenti per foraggiare le «spese elettorali» emerge dall'interrogatorio di Franco Fiorito, la settimana scorsa di fronte al procuratore aggiunto Alberto Caperna, il pm Alberto Pioletti e la guardia di finanza. «Nel 2011 vennero stanziati 17 milioni e mezzo di euro, di cui 14 destinati a tutti partiti e 3 milioni e mezzo alla presidenza del consiglio regionale» spiega l'ex capogruppo e tesoriere del Pdl regionale indagato per peculato, che poi aggiunge tutti i dettagli di com'è avvenuta «la spartizione». Si è trattato di «un'intesa a parole, fuori sacco, come eravamo soliti definirla, tra Partito delle libertà, Partito democratico, Unione di centro, Italia dei valori e Lista Polverini». Anche la governatrice neo dimissionaria, Renata Polverini, quindi «non poteva non sapere di come veniva suddiviso il denaro. Non solo perché era lei stessa una consigliera regionale, ma perché uno della sua squadra, Gianfranco Gatti, sedeva nell'ufficio di presidenza del consiglio regionale». Gatti ricopriva l'incarico di «consigliere segretario» insieme a Isabella Rauti (Pdl, moglie del sindaco di Roma Gianni Alemanno) e Claudio Bucci (Idv). Oltre al presidente del consiglio regionale Mario Abbruzzese sedevano i due vice presidenti Raffaele D'Ambrosio (Udc) e Bruno Astorre (Pd). «Sono stati loro - prosegue l'indagato - , con l'avvallo tecnico del segretario dell'ufficio di presidenza Nazzareno Cecinelli, a stabilire la quota del denaro che doveva servire a finanziare i partiti. Ci furono alcune integrazioni in corso d'opera, e quelle risultano nelle apposite delibere, ma in generale i soldi venivano presi da altre voci, da altre capitoli di spesa». Quali? Fiorito, assistito dall'avvocato Carlo Taormina, dichiara a verbale: «Il denaro veniva prelevato dalle voci di manutenzione, telefonia e comunicazione del bilancio». Quando viene chiesto all'ex capogruppo se quei milioni di euro venissero sottratti da capitoli di spesa come la scuola o la sanità, lui risponde di «no, solo da quelle voci che riguardano l'attività generale del consiglio». Ogni gruppo regionale riceveva poi una quantità di soldi in base al numero dei consiglieri eletti. A quel punto «la gestione dei fondi era stabilita all'interno dei singoli gruppi consigliari. Io ad esempio davo ad ognuno dei 16 miei compagni 100 mila euro all'anno». L'ex sindaco di Anagni precisa inoltre che la spartizione delle sovvenzioni per le spese elettorali avveniva «a cadenza trimestrale, sempre con lo stesso espediente contabile. E comunque era una prassi a norma di legge, come stabilito dalla legge regionale 6 del 1973». Al di là delle valutazioni su sovvenzioni pubbliche più o meno esagerate e spese inopportune (dalle ostriche e champagne alle interviste a pagamento) l'inchiesta della procura di Roma resta concentrata, per ora, su Fiorito e i 7 milioni di euro transitati sui conti del gruppo Pdl dal 2010 al luglio del 2012. A proposito delle spese del gruppo regionale Pdl, nel 2011 sono stato assunti molti nuovi collaboratori, in aggiunta ai consulenti, con un esborso economico di oltre 665 mila euro. «E' stato necessario aumentare notevolmente il numero del personale a disposizione del gruppo stesso», scriveva nel febbraio scorso Fiorito in una relazione al comitato regionale di Controllo contabile del Consiglio. Oltre alle assunzioni di nuovo personale, «è stato inoltre necessario - osservava Fiorito - per svolgere le varie attività acquistare attrezzature tecniche, e coprire varie spese di informazione». E nonostante gli emolumenti per il gruppo fossero consistenti, le uscite superano le entrate: nel «Rendiconto finale» le entrate 2011 ammontano a 2.735.502,15 euro (Contributi regionali), le uscite a 3.110.326,15 euro: in virtù dell'avanzo dell'anno 2010 di 888.211,26 euro, l'attivo del gruppo Pdl nel 2011 era di 513.387,26 euro.

Nessuno in Grecia morirà per l'Euro.

di Giuseppe Ciulla, dal blog di Beppe Grillo. "Quando la mia generazione, quella dei quarantenni viveva con il sogno, con il mito dell’ingresso in Unione Europea, si immaginava un’Europa che fosse inclusiva, che fosse un abbraccio per tutti i popoli europei, che desse opportunità di lavoro, di movimento, oggi siamo spaventati, oggi ci detestiamo. Oggi c’è una spaccatura tra il nord e il sud Europa, dove il nord impone le riforme perché dà i soldi ai paesi che sono in difficoltà e il sud Europa che invece subisce queste riforme e chiaramente considera male chi in qualche modo impone la propria volontà, i propri modelli al proprio paese." Giuseppe Ciulla Il Passaparola di Giuseppe Ciulla, giornalista "Un saluto agli amici del blog di Beppe Grillo, mi chiamo Giuseppe Ciulla, sono un giornalista, sono un autore televisivo e scrivo dei libri, lo faccio facendo dei viaggi, viaggi lungo i confini d’Europa, l’ho fatto in passato, l’ho fatto anche recentemente con un viaggio in Grecia. Questo viaggio in Grecia finirà in un libro che uscirà nei prossimi mesi con Chiarelettere. Perché la Grecia? Perché la Grecia è in questo momento il confine più disastrato, più malconcio e nello stesso tempo più affascinante, è più bello che ci sia da raccontare, è attraverso il racconto dei confini che si capisce cos’è l’Europa in questo momento, l’avevo scoperto un po’ di anni fa quando avevo fatto un viaggio lungo i paesi dell’est europeo che erano entrati nell’Unione Europea e abbiamo avuto conferma quest’anno con il viaggio in Grecia. Ho cercato di fare un viaggio che sfuggisse un po’ a quelli che sono i cliché della crisi, che raccontasse ciò che giornali non raccontano. E’ tutto vero ciò che si dice intorno alla Grecia, è vero che la Grecia ha truccato i conti, è vero che ha migliaia di dipendenti comunali pubblici assunti con logiche clientelari, la Grecia ne ha fatte di ogni, su questo non c’è dubbio. Dopo di che c’è un tessuto sociale, ci sono mondi che nessuno racconta, che i giornali non raccontano e che sono totalmente sconosciuti soprattutto nei palazzi di vetro, nei palazzi che contano, ai tecnocrati europei, a Bruxelles, a Strasburgo, a Francoforte, allora questo viaggio. Durante questo viaggio, ho capito come la Grecia in realtà non è un paese occidentale come lo intendiamo, ma la Grecia è un popolo, più che una nazione, è un popolo che vive costantemente con lo sguardo rivolto a est, per questo probabilmente non è da considerarsi occidente così come noi lo intendiamo. Lo sguardo rivolto a est vuol dire rivolto a una capitale perduta, a Bisanzio, a Costantinopoli, la Grecia è la Grecia degli scambi di popolazione. Metà della popolazione che vive in Grecia è arrivata nel 1923 con gli scambi di popolazione arrivati dall’Asia minore, con la Turchia, dal Ponto, dal Mar Nero, dal Caucaso persino dopo i conflitti in Caucaso e sentire questi racconti è straordinario, sentire come la seconda generazione, i figli di quelle persone che hanno vissuto questi viaggi vivono ancora con lo struggimento per la capitale perduta, per Bisanzio è meraviglioso. Trai mondi sconosciuti che ho visto, che ho potuto toccare con mano in questo viaggio, c’è quello che riguarda un piccolo paesino nella Tracia, quindi al confine tra la Grecia e la Turchia, che poi è il confine tra l’Unione Europea e ciò che non è Unione Europea. Questo paesino è abitato dai Pomacchi. I Pomacchi sono bulgari di fede islamica. In questo paesino c’è Mufti, un religioso islamico che tutte le volte che ha notizia che uno straniero che arriva dal Medio Oriente o dall’Afghanistan che cerca di passare il fiume Ebros che divide Turchia e Grecia e tutte le volte che uno di questi stranieri muore nel fiume e purtroppo capita spesso, lui si fa 100 chilometri con il suo camioncino, va a recuperare il corpo, la salma di questo straniero che chiaramente non è reclamata da nessuno e lo seppellisce nel suo paesino, ha creato un cimitero di circa 400 tombe. Nessuno sa la storia di questo uomo, eppure credo che l’Europa dovrebbe conoscere meglio la vera pelle della frontiera che è fatta del coraggio di uomini come questo Mufti o del fatalismo anche che molti greci hanno nell’affrontare la crisi e nell’affrontare questo momento. Ho visto la depressione che c’è a Atene da cui ho cercato di sfuggire tutte le volte che potevo e il disincanto che si incontra invece in altri luoghi della Grecia, in montagna, del Lidia, nella regione forse più povera della Grecia, nell’Arcadia, nel Peloponneso, sono tutti luoghi dove è vero, la crisi c’è, nessuno può negare che ci sia, ma viene affrontata con una leggerezza, con un disincanto, che ti fa dire che nessuno morirà per l’Euro, poi capisci che la questione è esattamente questo, che l’Europa è diventata solo l’Euro. Non è l’Europa che avevamo immaginato. Quando la mia generazione, quella dei quarantenni viveva con il sogno, con il mito dell’ingresso in Unione Europea, si immaginava un’Europa che fosse inclusiva, che fosse un abbraccio per tutti i popoli europei, che desse opportunità di lavoro, di movimento, oggi siamo spaventati, oggi ci detestiamo. Oggi c’è una spaccatura tra il nord e il sud Europa, dove il nord impone le riforme perché dà i soldi ai paesi che sono in difficoltà e il sud Europa che invece subisce queste riforme e chiaramente vede male, considera male chi in qualche modo impone la propria volontà, i propri modelli al proprio paese. Questa non è l’Europa che avevamo in mente, ne siamo talmente spaventati di questa Europa che ragiona solo intorno all’Euro e non attorno alle identità, ai popoli che la compongono che infatti i paesi dell’area balcanica, i paesi dell’est europeo che sono entrati nell’Unione Europea non lo vogliono neanche l’Euro, con il cavolo che accetteranno questa moneta perché significa sacrifici! Ho seguito anche per esempio l’ultima tornata elettorale, la cosa interessante era che era bastato semplicemente il sospetto che Syriza, la principale forza di sinistra, il principale raggruppamento dei partiti di sinistra che è passato dal 4 al 27% in pochi mesi, il sospetto che questa forza politica potesse chiedere l’uscita dalla Grecia dall’Unione Europea per far balzare questa forza politica dal 4 al 27%. In realtà Syrizza non l’aveva mai detto, ma l’aveva lasciato intendere in qualche modo, certamente l’Euro è visto come una gabbia ormai, non soltanto dalla Grecia ma anche da altri paesi europei, in fondo anche in Spagna, in Italia, anche in molti paesi in difficoltà ci si domanda: ma che ci siamo entrati a fare se questa è l’Europa, che ci siamo entrati a fare se questa roba vuole dire così tanti sacrifici. Non so se la Grecia uscirà dall’Eurozona, non so se fallirà, quello che so è che se dovesse fallire il popolo greco, affronterebbe questo passaggio da una parte chiaramente con i drammi che ne verrebbero fuori, ma anche con una leggerezza che agli altri popoli europei è sconosciuta. I greci sono abituati a vivere in spazi amplissimi, sono stati dentro la dominazione bizantina, poi sono stati dentro l’impero Ottomano, il concetto di Stato così come gli è stato imposto è “un po’ stretto” al cittadino greco, se anche dovessero uscire dalla zona Euro, mi ha detto per esempio un monaco che ho incontrato sul cammino per il Monte Athos: “Viviamo con mille Euro, vivremo con 500 Euro”. Io credo che nessuno in Grecia morirà per l’Euro. Se le cose che mi ho detto vi hanno interessato, passate parola!"

martedì 25 settembre 2012

Mughini fustiga Minetti.

Giampiero Mughini per "Libero".
Arridatece Cicciolina, lei sì una figura femminile minore della scena politica italiana di questi ultimi anni, eppure una ragazza a suo modo illibata. Una che il porno lo faceva davvero perché doveva pur campare da ragazzina ungherese immigrata in Italia senza arte né parte, una che entrò in Parlamento non perché Marco Pannella l'avesse indicata e scelta (a Marco interessava solo lo spariglio delle carte, di Cicciolina se ne infischiava) ma perché lei e il suo mentore Riccardo Schicchi andarono in giro ad inventarsi esche cui abboccasse il popolo dell'«antipolitica». Un popolo, sia detto tra parentesi, che quantitativamente era allora un decimo di quello odierno. E comunque, al confronto di quello che succede oggi nei luoghi della politica e nei massmedia italiani, Cicciolina era un gigante. Faceva quel che poteva, non si prendeva gioco di noi. Vendeva quello che aveva, non millantava credito. Lo vendette anche a un grande artista americano, Jeff Koons, di cui è stata la sposa per un tempo. Che per lei la politica fosse un pretesto per restare sulla cresta dell'onda e fare impennare i suoi cachet professionali, tutto questo era fuori di dubbio. E invece oggi primeggia sui massmedia italiani una ragazza bella e appariscente che si fa forte del riuscitissimo connubio tra quel che le hanno dato madre natura e un esperto chirurgo plastico. Una che fa marameo a noi tutti. Il suo nome è Nicole Minetti, vive a Milano. Domenica scorsa, nella città che passa come la capitale della moda italiana, ha fatto da modella a una azienda che produce biancheria intima, una sfilata in cui il suo corpo funzionava alla maniera di un'arma da guerra. E fin qui benissimo per lei e per l'azienda che l'ha pagata immagino molto profumatamente. Quando sulla passerella arriva una gran bella ragazza, noi ringraziamo Iddio che quella ragazza l'ha creata. Solo che non finisce qui, anzi comincia qui. C'è che l'impudente ragazza ha imparato a non negarsi nulla, ed eccola rispondere ai giornalisti intontiti dalle sue beltà che quelle sue ancheggianti camminate sono per lei un hobby, una sorta di secondo lavoro. Che la sua passione primaria resta «la politica», e che lei in fondo ha ancheggiato da donna politica che vuole dare una mano alla moda. Queste inumane fesserie le dice strasicura di sé, irridenti lei e il suo silicone, quel volto assassino di una che con quelle cosce lì può dire e fare tutto quello che vuole perché mai e poi mai si troverà di fronte un giornalista che faccia sua la lezione di Totò e la butti giù a pernacchie. Perché le pernacchie talvolta ci vogliono. Ci vogliono come il pane, a ristabilire la verità delle cose. Ossia che la prosperosa ragazza in questione non ha con la politica la benché minima connessione, se non il fatto indecente che noi contribuenti le paghiamo a ogni fine mese un cospicuo stipendio da consigliere regionale della Lombardia, uno stipendio che un professore universitario o un primario ospedaliero nemmeno si sognano. Nel consiglio regionale della Lombardia la Minetti c'è entrata perché inserita di prepotenza nella lista bloccata di Roberto Formigoni; non un solo elettore lombardo ha votato per lei, una che la politica non l'aveva mai vista né da vicino né da lontano, una il cui principale lavoro al Pirellone consiste nel mettersi in tiro quando compaiono i fotografi, un lavoro che lei interrompe spesso con delle fulgide camminate per la città di Milano e dopo aver indossato degli shorts minimali e espulso il reggiseno. Dio e il chirurgo plastico l'hanno creata, benissimo così, ma che c'entra la politica e quello stipendio faraonico se commisurato a tutte le cose che la Minetti non sa fare? Le sue ancheggiate in passerella, benissimo. Le foto di lei più nuda che vestita per le strade di Milano, benissimo. Le foto di lei su un qualche bagnasciuga mentre tutto del suo corpo esplode da quanto è strizzato nel bikini, benissimo. Lei fotografata mentre sta leggendo quella gran porcata di romanzo americano per i pornobabbei e che poi nella foto successiva si abbatte sfranta dallo sforzo, benissimo. Ma porcaccio di un giuda, che c'entra con tutto questo lo stipendio al Pirellone? Dov'è entrata perché lei era il personaggio fidatissimo nell'organizzare il via vai di sciacquette femminili nelle case private del gran capo di Arcore, di quel Silvio Berlusconi affamatissimo di beltà spigliate e discinte. Che in quel via vai ci fossero reati penali, tipo quello di indurre alla prostituzione fanciulle che se fosse stato per loro non avrebbero mai smesso di leggere Proust e Musil, io un po'ne dubito. Che ci fossero reati di sbraco grandi così, quello è sotto gli occhi di tutti. Ecco, la Minetti è la principessa dello sbraco. Il professore Luigi Zingales,un economista nato in Italia ma che ha fatto la sua carriera a Chicago (è uno dei «consigliori» di Matteo Renzi), ha raccontato in un suo libro che nel 2011 lui e un suo collega avevano commissionato un'indagine per valutare gli effetti della «stravagante» vita privata di Berlusconi sulla fiducia che gli americani avevano nei confronti degli italiani e sulla loro propensione a comprare i nostri prodotti. Conclusa l'indagine, e dopo che i professori avevano raccontato le prodezze della Minetti e delle sue compagne, ne veniva fuori che una buona parte degli americani interrogati se scegliere un'automobile tedesca o una italiana, preferivano quella tedesca e anche se costava 1000 dollari di più.

IN MANO AI LESTOFANTI.

Regioni, per il Partito dei Ladri arriva la piena di Peter Gomez | 25 settembre 2012.
Non è che l’inizio. Le dimissioni di Renata Polverini segnano solo un primo giro di boa nello scandalo dei fondi milionari incassati, spesi senza controllo, e spesso rapinati dal Pdl e da altri movimenti politici. Non servono particolari capacità divinatorie per capire che il sistema Lazio, ben incarnato dalla pantagruelica figura Franco Fiorito, è patrimonio comune di molti consigli regionali. Ovunque l’opacità regna sovrana. Ovunque, appena si tenta di fare qualche domanda, si scopre l’imbarazzo. In Lombardia Pd, Pdl e Lega, non vogliono mostrare ai giornalisti gli scontrini. “Sono cose nostre, c’è la privacy”, dicono all’unisono, sorvolando sul fatto che pranzi e riunioni saranno pure loro, ma i soldi, almeno quelli, sono dei contribuenti. In Emilia Romagna, quando è stata avviata un’indagine interna, è saltato fuori che quattro partiti non avevano depositato le fatture. I documenti sono comparsi dopo un mese e, da un primo esame, la Guardia di Finanza si è resa conto che un ex consigliere dell’Idv (subito cacciato) risultava aver cenato in quattro diversi ristoranti la stessa sera. Un record. In Campania si trattiene il fiato per un blitz delle Fiamme Gialle: in ballo ci sono un paio di milioni di euro di uscite sospette. In Veneto, i 60 consiglieri percepiscono ogni trenta giorni 2100 euro in nero a titolo di rimborso, senza presentare alcun giustificativo. Insomma, i mattoni della politica italiana cadono uno dopo l’altro. E tra le macerie non finiscono sepolti solo questi partiti (cosa che non è un gran guaio). Ad andarci di mezzo sono le istituzioni – o quello che ne resta – e i cittadini. Servono atti immediati. Almeno tre. Il primo: Polverini e gli altri consiglieri devono rendere tutto quello che, a vario titolo, hanno incassato. Non perché sia più tempo di gesti simbolici, ma perché con quei soldi si potrà molto più concretamente restituire ai disabili i servizi sociali tagliati dalle Asl del Lazio ed evitare di far pagare loro il ticket. Il secondo: a Roma, nelle segreterie dei partiti, è saggio che quei politici capaci di conservare ancora la testa sulle sulle spalle comincino finalmente a fare dei calcoli. Attendere che il disastro arrivi dalla periferia al centro – ancora oggi i gruppi del Senato non vogliono controlli su 22 milioni di euro – non conviene. Più furbo e utile, anche per loro, è anticipare la piena. Senza parole, leggi o riforme, a cui a questo punto non crede più nessuno. Ma solo con i comportamenti. Con cose semplici del tipo: rendere pubblica in Rete tutta la contabilità, vietare ai propri eletti di accedere ai rimborsi regionali e magari obbligarli a dirottare parte dei loro super stipendi ai disoccupati. Il terzo: ci vuole un intervento del governo. Sappiamo infatti bene che, tra i nostri sedicenti rappresentanti, saranno in pochi quelli disposti, solo su base volontaria, ad autoridursi le prebende o a scegliere la via dell’assoluta trasparenza. Tutti, o quasi, diranno: “Queste proposte non sono politica, ma populismo”. E allora bisogna intervenire per decreto. C’è la necessità e ce n’è l’urgenza. La riforma del titolo quinto della costituzione, quello sull’autonomia delle Regioni, lo impedisce solo in parte. Come ha spiegato su questo giornale web il presidente emerito della Consulta, Valerio Onida, l’esecutivo può fissare “un tetto di spesa per i consiglieri regionali”. Monti, se non vuole passare alla storia come il liquidatore fallimentare della Repubblica Italiana (cosa che cominciamo sempre più a sospettare) il decreto lo faccia adesso. E che il limite stabilito sia bassissimo. Altrimenti, domani, nella disgregazione dello Stato, non lo potrà fare più nessuno. Condividi questo articolo

UN LUCIDO TRAVAGLIO SULLE PRIMARIE DEL PD.

Le primarie, tutt’altro che secondarie. di Marco Travaglio | 25 settembre, da Il Fatto Quotidiano.
Le primarie del centrosinistra riguardano tutti. Anche quelli che non votano centrosinistra. Personalmente, non ho ancora capito bene che cosa vince chi le vince, perchè non è proprio chiarissimo se servano a decidere chi sarà il premier in caso di vittoria del centrosinistra o chi sarà il leader del centrosinistra che poi sceglierà un altro premier o chi sarà il segretario del Pd. Nel primo caso, non capisco perchè sia invitato Vendola, ma non Casini, visto che D’Alema e Letta han già detto che sarà alleato del centrosinistra nel futuro governo. Nel secondo, non capisco perchè non sia invitato anche Di Pietro, visto che se vincesse potrebbe decidere lui con chi allearsi e con chi no (e lui ha già detto che Casini non lo vuole, così come, a giorni alterni, dice anche Vendola). Nel terzo, non capisco che cosa c’entri Vendola che non fa parte del Pd (a meno che non abbia in mente di confluirvi). Speriamo che ce lo facciano sapere, possibilmente prima delle primarie. Quello che è chiaro è che l’esito delle primarie potrebbe cambiare la faccia alla politica. Non so se in meglio o in peggio, ma la cambieranno: per questo riguardano tutti. A me piacerebbe tanto che le vincesse Laura Puppato: l’ho conosciuta quand’era sindaco di Montebelluna, unico sindaco di centrosinistra in una provincia tutta leghista, quella della Treviso di Gentili, il leghista che ne è stato prima il sindaco e poi il prosindaco, detto anche il Prosecco per il suo eccellente tasso alcolico. Laura mi invitava ogni anno a un incontro sulla legalità, anche quando il suo partito mi aveva radiato dalle feste dell’Unità (su cui scrivevo) perchè osavo criticarlo sull’Unità. E, parlando con la gente, sapevo che era stimata da tutti perchè governava bene, con onestà e competenza: così anche quelli che, alle provinciali, alle regionali e alle politiche, votavano Lega, alle comunali di Montebelluna votavano Puppato. Un partito serio l’avrebbe presa e portata subito a Roma non appena uscita dal Comune, al posto di una delle tante muffe imbullonate alle poltrone del Politburo “de sinistra”. Invece l’hanno dimenticata in consiglio regionale del Veneto. Ora si candida e le auguro di vincere, anche se mi rendo conto che il mio è soltanto un sogno: è quasi impossibile contrastare lo spiegamento di forze, di truppe cammellate, di media e di soldi dei due principali contendenti: Bersani e Renzi. Se vince Bersani, nulla cambia. Riavremo il Parlamento e, in caso di successo alle elezioni politiche, al governo gli stessi di sempre: si sono già spartiti le poltrone onde evitare che i vari D’Alema, Veltroni, Finocchiaro, Franceschini e Fioroni restino col sederino scoperto. Ma se vincesse Renzi? Nella linea politica del Pd cambierebbe poco o nulla: Renzi vuole rottamare lo stato maggiore del Pd per fare le stesse cose al posto loro. Adora Marchionne, se ne infischia dell’articolo 18, la Provincia di Firenze sotto la sua presidenza ha sperperato un bel po’ di soldi pubblici, non pronuncia mai parole-tabù come mafia-politica, anticorruzione, diritti dei lavoratori, conflitto d’interessi, antitrust (e per forza: il suo principale consigliere è Giorgio Gori, ex direttore di Canale5, Italia1 e Rete4). Ma, con l’eventuale vittoria di Renzi, arriverebbe un quarantenne, con la sua squadra di coetanei o giù di lì, in un partito che è un museo delle cere. E, per forza di cose, andrebbero a casa un bel po’ di fossili e dinosauri: difficile che, con quello che dicono (e soprattutto pensano) di lui, i Bersani, Veltroni, D’Alema, Franceschini, Fioroni, Finocchiaro restino al loro posto. Per quanto disinvolto e spregiudicato sia, Renzi non potrebbe che aprire le finestre del Pd, far circolare un po’ di aria nuova (attenzione: dico nuova, non necessariamente migliore) e cambiare il mobilio. In un panorama politico immutabile, sempre uguale a se stesso da venti o trent’anni, sarebbe un mezzo terremoto. Non politico: generazionale. E inevitabilmente costringerebbe anche il centro (dove Casini si trascina dietro vecchie mummie, compresa la sua) e soprattutto la destra (dove ancora comanda Berlusconi) a porsi il problema di rispondere, in qualche modo, al trema generazionale. Insomma, per usare un’espressione usurata e un po’ enfatica, nulla sarebbe più come prima. Per questo penso che le primarie del centrosinistra riguardano tutti, anche chi vota Di Pietro, Casini, Pdl, Cinque Stelle. E anche chi non vota. Vale la pena ai seguirle con attenzione e anche con un po’ di apprensione. Tutti. Chi vota centrosinistra, per andare a votare. Gli altri, per vedere di nascosto l’effetto che fa.

lunedì 24 settembre 2012

DIMESSA CAMERATA.

(foto da dagospia).
IL LAZIO SDERENATO.

Eurobluff.Il difetto alla nascita dell’area euro.

Bce, per l’Eurozona è l’ultima spiaggia. di Lavoce.info | 24 settembre 2012.
La Commissione europea ha presentato la proposta per la creazione di una supervisione bancaria unica nei paesi dell’area euro. È un buon inizio, ma è necessario un passo ulteriore. È arrivato il momento di affermare esplicitamente che l’Eurozona ha bisogno di un prestatore di ultima istanza e che l’unica istituzione che può assumere quel ruolo è la Bce. Serve anche un accordo fra gli Stati membri sulla ripartizione dei costi dei salvataggi delle banche, oltre a un sistema di regole che li riduca al minimo. di Charles Wyplosz** (lavoce.info), da Il Fatto Quotidiano. La Commissione europea ha recentemente presentato un’interessante proposta sulla supervisione bancaria all’interno dell’area euro. (1) Nonostante i molti difetti, è un buon inizio. Tuttavia, i ministri delle Finanze dei vari Stati membri hanno già incominciato a smontarla, in parte perché sono vergognosamente “catturati” dalle lobby delle banche nazionali, ma non solo per questo. La proposta ha in effetti alcune caratteristiche decisamente bizzarre, ma invece di cercare di indebolirla, andrebbe rafforzata. Perché ciò avvenga, la Bce, che è l’ispiratrice del progetto, dovrebbe dire la verità sul perché sia necessaria una supervisione unica: la zona euro ha bisogno di un prestatore di ultima istanza. Perché è davvero necessario un prestatore di ultima istanza. La proposta della Commissione ha un grande merito. Chiede – in modo inequivocabile – l’istituzione di un’unica autorità di supervisione bancaria della zona euro e individua nella Bce l’unica istituzione capace di svolgere questo compito. La sopravvivenza delle autorità nazionali di vigilanza, infatti, è da sempre uno dei principali difetti del Trattato di Maastricht. (2) Contrariamente a quanto si dice, l’assoluta necessità di un unico istituto di vigilanza non è collegata a possibili interventi da parte del Meccanismo europeo di stabilità (Esm), è dovuta a una ragione molto più semplice e molto più convincente, anche se quasi mai menzionata. La ragione è che i sistemi bancari hanno sempre bisogno di un prestatore di ultima istanza per i rari, ma decisivi, casi in cui una o più banche falliscano. Nulla di nuovo: le parole definitive sulla questione sono state dette da Walter Bagehot nel 1873. (3) Da allora, innumerevoli politici, commissioni e studiosi hanno chiarito che quel ruolo può essere assolto solo da una banca centrale. Il motivo è semplice: la quantità di denaro che deve essere mobilitata in poche ore non è reperibile altrove. Infatti, anche se le risorse dell’Esm dovessero arrivare a 500 miliardi di euro, sarebbero comunque insufficienti per affrontare un’eventuale crisi delle principali banche europee. Deutsche Bank, per esempio, ha un patrimonio di oltre 2mila miliardi, circa l’80 per cento del Pil della Germania.(4) A peggiorare la situazione, c’è poi il fatto che le banche moderne sono profondamente interconnesse cosicché aumentano le probabilità che siano in diverse a sprofondare nello stesso momento. Le discussioni sul ruolo dell’Esm sono dunque una foglia di fico per nascondere l’inevitabile: sarà la Bce a doversene occupare. D’altra parte, l’esperienza dell’Irlanda mostra che cosa accade in un sistema che non ha un prestatore di ultima istanza. Con la Bce rimasta ai margini della vicenda, il salvataggio delle banche irlandesi mandò in bancarotta lo Stato nel 2010. E c’è da aspettarsi che l’imminente salvataggio delle banche spagnole faccia altrettanto con lo Stato spagnolo. Ecco perché il tema dell’unione bancaria è venuto alla ribalta proprio adesso. L’ambiguità costruttiva. Generalmente, le banche centrali tendono a mantenere una ambiguità costruttiva sul loro ruolo di prestatori di ultima istanza, per evitare di assumersi impegni che possano incoraggiare le banche a scommettere sul salvataggio. Non è mai stato un argomento molto convincente e non è neanche un trucco intelligente per ridurre l’azzardo morale. I massicci salvataggi a cui abbiamo assistito dal 2008 a oggi negli Stati Uniti, nel Regno Unito, nell’area euro e in Svizzera hanno tolto anche quella foglia di fico. Le banche centrali sono prestatori di ultima istanza, che lo vogliano o meno. Sarà necessario un accordo con gli Stati coinvolti, in modo da rendere certo che alla fine i costi siano sopportati da quello Stato e non dalla banca centrale, ma le banche centrali non possono rifiutarsi di agire quando si presenta un’emergenza. Per farlo in modo corretto (quanto denaro serve e a quali condizioni), devono avere in ogni momento una profonda conoscenza dell’esatta situazione di ogni singola banca nella loro area. Ecco perché è sensato affidare i compiti di vigilanza alle banche centrali, come fanno molti paesi. Il difetto alla nascita dell’area euro. Nella fase di preparazione della moneta unica questa logica è stata del tutto ignorata. Una “distrazione” deliberata, che era il risultato della pressione congiunta delle banche e delle autorità di supervisione nazionale, tutte con le proprie meschine ragioni: le autorià di supervisione nazionali si consideravano le protettrici delle banche del loro paese e gli istituti bancari apprezzavano molto questo stato di cose. Così i governi nazionali “catturati” si accordarono, con l’intenzione di proteggere i propri “campioni nazionali”. Ovviamente, lo fanno ancora: usano il pretesto che l’Esm è forse troppo esiguo per il compito affidatogli – ed è vero – per argomentare che serve molto più tempo per studiare il problema. Quando i politici chiedono più tempo, significa che vogliono uccidere un progetto, ma il pretesto va disinnescato. La Bce, che deve essere lodata per aver considerato la questione prioritaria, deve ora ridimensionare il pretesto Esm. Deve accettare di dire chiaramente che è il prestatore di ultima istanza del sistema bancario della zona euro e spiegare che può agire solo se è l’unica autorità di vigilanza dell’area. La Bce deve fare di più. La Bce deve risolvere altre due falle della proposta della Commissione. In primo luogo, deve raggiungere un accordo con gli Stati membri su chi pagherà i costi. Probabilmente, si renderà necessario istituire un’agenzia unica di assicurazione sui depositi, finanziata dagli Stati membri, e stabilire regole per la suddivisione dei costi. In secondo luogo, i costi garantiti devono essere bassi, possibilmente anche negativi (molti Stati guadagnano dal salvataggio delle banche perché comprano a prezzi bassi e rivendono a prezzi alti). Quando si immette denaro in una banca per il suo salvataggio, bisogna costringere la stessa banca a sopportare la parte maggiore dei costi. La Svezia, nel 1992, ha effettuato un salvataggio bancario praticamente a costo zero, dunque sappiamo quali strumenti utilizzare. La Svizzera ha seguito la stessa logica per il salvataggio di Ubs nel 2008 e pare che ora i contribuenti svizzeri possano ricavare un profitto da quell’operazione. Per mantenere bassi i costi del salvataggio della banca, l’autorità dovrà evitare di essere catturata da quegli interessi particolari che cercheranno di socializzare le perdite e privatizzare i guadagni. Considerate le enormi somme coinvolte, la cattura è certa. E il fatto che la Commissione non abbia osato inoltrarsi in questo territorio è una prova evidente che i governi nazionali sono già catturati. I contribuenti della zona euro possono contare solo sulla Bce per sostenere con forza che è necessario avere un’unica autorità con poteri di gestione delle crisi bancarie, che dia la garanzia che non si verificherà un enorme trasferimento di risorse dai contribuenti alle banche fallite. Soluzione europea per un problema dell’Eurozona?. I paesi dell’Unione che non appartengono all’area euro sono sul piede di guerra perché si ritrovano coinvolti nella questione. Hanno ragione: hanno già le loro banche centrali che possono agire come prestatori di ultima istanza e non hanno perciò alcun bisogno dell’intervento della Bce. La Commissione commette un grave errore quando propone una soluzione europea per un problema dell’area euro. Anche se ci sono alcune difficoltà tecniche, dovrebbe essere un problema facile da risolvere perché gli interessi privati coinvolti sono minimi. (1) European Commission (2012). “Vice-President Rehn’s remarks at the Eurogroup Press Conference”, September. (2) Begg, David, Paul de Grauwe, Francesco Giavazzi, Harald Uhlig and Charles Wyplosz (1998) “The ECB: Safe at Any Speed?, Monitoring the European Central Bank 1″, CEPR. (3) Bagehot, Walter (1873), Lombard Street, Henry S King and Co. (4) Deutsche Bank (2011). Financial data supplement, October. * Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox. ** Charles Wyplosz, PhD ottenuto alla Harvard University, è professore di Economia Internazionale all’Istituto di Studi Internazionali di Ginevra dal 1995. E’ direttore dell’International Centre for Monetary and Banking Studies di Ginevra ed è stato consulente di Banca Mondale, FMI e dell’Harvard Institute for International Development.